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Pareggiare i conti
«Alcuni studiosi hanno ipotizzato che sarebbe stato utile al paese raggiungere un compromesso simile a quello trovato nell’epoca d’oro della socialdemocrazia europea, nella seconda metà del Novecento, tra i politici di professione, in buona parte d’estrazione intellettuale, e la massa operaia di cui avevano assunto la rappresentanza nei sindacati, nel partito, e al governo quando si vincevano le elezioni. Nel caso sovietico però i rapporti si erano deteriorati inesorabilmente negli anni Venti e Trenta, quando i persecutori materiali dei quadri dirigenti del partito, del sindacato e del mondo della cultura avevano le facce del popolo che sembrava si stesse vendicando di secoli di dominio da parte degli uomini con gli occhiali e le mani lisce. Nicolaj Yezov, il terribile capo della polizia segreta della prima campagna decisa da Stalin contro gli intellettuali borghesi e bolscevichi, era l’operaio che aveva diretto la storica lotta delle Officine Putilov, all’alba della rivoluzione. Operai erano i giudici dei “tribunali dei compagni” che amministravano la giustizia all’epoca della “rivoluzione culturale”, 1928-31; operai erano i membri della nuova polizia e delle istituzioni di difesa del fragile potere sovietico. A sua difesa vi erano anche gli ebrei. Genriich Yagoda, l’altrettanto terribile capo della polizia segreta, era ebreo. Erano ebrei 32 su 45 ministri dei primi governi comunisti, erano ebrei 12 dei 13 direttori dei primi campi di lavoro. Per gli utopisti massimalisti all’acme della loro influenza, l’operaio e l’ebreo compivano una missione contro il passato in nome del futuro, e potevano farlo solo loro che nel passato erano stati sempre al fondo della scala sociale. In tal senso Stalin, dando loro quella possibilità, si rendeva interprete del desiderio diffuso di pareggiare i conti, di vendicarsi di secoli di servaggio e di pogrom».
Rita Di Leo, L’esperimento profano.
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Non siamo Sardine
Di Paul Nizan si ricorda sempre il potentissimo incipit di Aden Arabia (1931):
«Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita».
Pochi ricordano l’explicit.
«Non esistono che due specie umane e hanno per unico legame l’odio. Quella che schiaccia e quella che non si adatta a essere schiacciata. Non c’è mai stato trattato di pace fra loro, non c’è che guerra. Ogni minuto che passa deve ospitare un pensiero contro i nostri nemici: i vecchi nel 1913 pensavano alla Germania con questa assiduità.
Vivrò tra i nemici; con costanza, vale a dire non passivamente, ma senza lasciare che il tempo mi addormenti col mormorio pigro e piacevole del suo corso, con pazienza, attenzione, ira. Mi occorre quella virtù che ci mancò nel modo più totale: la costanza. Ma è più facile essere costanti con la guerra che con la poesia o con una donna: poesia e donne passano, la rivoluzione non è mai passata.
Voi siete soli: quando pranzate, quando siete a teatro, al cinema, quando camminate sul marciapiede, quando siete a letto con una donna, attenzione alle trappole! Gli scenari che attraversate sono proprietà del nemico, innalzati contro di voi; dovete distruggerli. Dal risveglio al sonno, anche sprofondati in un letto protettore come un ventre, voi vivete in mezzo a loro: fate quel che fanno le spie rinfocolando l’ira, non concedendovi respiro! Senza odio non potrete mai penetrare nei loro segreti.
Questa guerra è interamente priva di nobiltà; in essa gli avversari non sono pari: è una lotta questa in cui voi disprezzate i vostri nemici, voi, che volete essere gli uomini. Resterete sempre fedeli al catechismo? Bisogna rifiutare un bicchiere d’acqua ai loro moribondi […]. Non sia immune dall’ira alcuna delle nostre azioni. Il tempo per tirare il fiato e le vacanze della notte sono ore perdute, un ritardo al combattimento. Solo l’amore è pur esso un atto di rivolta e per questo schiacciano l’amore. Ma se troverete che i vostri genitori e le vostre mogli sono del partito nemico, abbandonateli.
Non bisogna temere di odiare. Non bisogna vergognarsi di essere dei fanatici. Io devo loro del male; poco è mancato che mi perdessero».
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«Né monaco né don Giovanni e nemmeno, come mezzo termine, un filisteo tedesco»
Conversazione tra Clara Zetkin e Lenin, dalle memorie della Zetkin, 1925
«Lenin si alzò bruscamente, batté la mano sul tavolo e fece qualche passo nella camera.
“La rivoluzione esige concentrazione, incremento delle forze. Dalle masse e dagli individui. Essa non può tollerare stati orgiastici, com’è normale per le eroine e per gli eroi decadenti di D'Annunzio. La dissolutezza nella vita sessuale è borghese, è un fenomeno di decadenza. Il proletariato è una classe in ascesa. Non ha bisogno di intossicarsi di narcotici o stimolanti. Intossicarsi anche solo di eccessi sessuali come con l’alcool. Non deve dimenticare e non dimenticherà la vergogna, il sudiciume e le barbarie del capitalismo. Riceve le sue maggiori spinte alla lotta da una situazione di classe, dall'ideale comunista. Ha bisogno di chiarezza, chiarezza e ancora di chiarezza. Così, lo ripeto, niente debolezza, niente spreco, niente distruzione di forze. Autocontrollo e autodisciplina non sono schiavitù, neanche in amore. Ma scusatemi, Clara, mi sono molto allontanato dal punto di partenza della nostra conversazione. Perché non mi avete richiamato all'ordine? Mi sono lasciato trasportare dalla foga. L'avvenire della nostra gioventù mi preoccupa molto. La gioventù è una parte della rivoluzione. Ora, se le influenze nocive della società borghese cominciano a raggiungere anche il mondo della rivoluzione, come le radici largamente ramificate di certe erbacce, è meglio reagire in tempo”».
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Ernst Niekisch, La tragedia della gioventù tedesca (1932)
Da Ernst Niekisch, Una fatalità tedesca [1932], ed. Nova Europa 2018, pp. 34-41.
A conquistare la fiducia della gioventù che aveva fatto la Guerra fu il fatto che finalmente il movimento nazionalsocialista riconosceva la sua specifica forza e il suo promettente peso politico. In questa gioventù vivono forze ribelli che mettono in questione tutte le basi dell’esistenza dell’ordine costituito. Senza capire il contesto, non si può avere accesso allo spirito della giovane generazione del dopoguerra. Il 1918 rappresentò una rottura […]. Quello che venne dopo ebbe poche relazioni con ciò che vi era prima.
La generazione prima della Guerra fu formata in un’epoca dove la Germania ebbe grandezza e considerevole peso politico sullo scenario internazionale. […] La loro memoria è ancora abituata alla gloria passata che una volta diede senso alle loro vite. L’umiliante presente è apparso loro come un sogno confuso, come un soffio di un destino terribile ma passeggero. La vecchia Germania rimase per loro la vera Germania […].
Le condizioni di vita della generazione del dopoguerra sono completamente differenti. Hanno fondamentalmente vissuto in questa Germania nella sua impotenza […]. Per questo l’amarezza politica, la miseria sociale e la rovina economica sono elementi naturali per loro, sempre presenti nella vita d’ogni giorno. […]
In realtà, il lavoro e l’eredità della vecchia generazione è solo un campo di macerie. La sua conseguenza, un caos senza confini. Per questa ragione, essa non può imporre né rispetto né autorità sulla generazione del dopoguerra. Se ci si accorge che la somma della sua esistenza è stata un collasso, essa non può pretendere alcuna stima. La mancanza di considerazione che la giovane generazione ha nei confronti degli anziani è il riflesso della loro bancarotta.
La gioventù del dopoguerra si è trascinata dietro le pesanti conseguenze di questa bancarotta. I giovani di tutte le classi sociali, giuristi, insegnanti, impiegati e lavoratori si trovano davanti unicamente porte chiuse. L’orribile certezza di un’esistenza allo sbando li depriva di un fiero coraggio, estingue quella fiamma della giovanile necessità dell’azione. Le loro ali sono state spezzate prima che essi abbiano potuto imparare come volare. […] Essi non vedono alcuna direzione aperta, il futuro gli sembra negato. […] Non sperano più che il “loro” tempo possa arrivare. Non c’è più alcun tempo che li chiama. In realtà, essi hanno l’impressione che sono stati gettati via prima di aver dimostrato quanto valgono. C’è un grande odio accumulato contro i propri padri. Il figlio vede se stesso come derubato dal padre: derubato dalla speranza di guadagnarsi il pane, dalla possibilità di fondare una famiglia, della libertà di movimento per un lavoro creativo, in generale dello spazio vitale e, soprattutto, della fede in una missione.
Tutto ciò apre un invalicabile abisso tra la generazione dei padri e quella del dopoguerra. La gioventù era diffidente delle tradizioni sacre per gli anziani. Una tradizione trasmessa da tali padri che valore avrebbe potuto avere? Per questa gioventù il conservatorismo era un vaniloquio. Nella loro eredità paterna non c’era più nulla che valesse la pena di conservare. […] Essi annusano il fetido odore delle idee borghesi, degli ideali dei proprietari, che non gli corrispondono. Non v’è più nulla che a loro interessi lì. Che importo loro delle ansiose preoccupazione dei proprietari? Questi proprietari sono i residui di un mondo che non è più quello di questa gioventù. […]
Essa ostenta una posizione priva di basi e legami, che terrorizza la precedente generazione. La sua scala di valori è in definitiva differente. Segretamente, essi già disprezzano i benefici della civilizzazione , del progresso e dell’umanesimo. Essi dubitano dell’affidabilità della ragione e non indietreggiano di fronte alla possibilità di una vita barbarica. Il loro “radicalismo” attacca realmente le radici. Per loro, l’opposizione non è più un gioco frivolo, come una volta era una distrazione dall’impegnarsi in una carriera già pianificata. Essi vogliono la sovversione. Le loro tendenze e intenzioni sono violentemente ostili all’ordine costituito. Entrano in partiti estremisti non per la loro immaturità, ma per fare in modo che avvenga l’azione. Quando essi dicono “socialismo” non parlano della fede nella dottrina marxista. No, piuttosto in questo modo esprimono la loro determinazione a ribellarsi contro il mondo borghese. Poiché l’economia non offre più loro aperture, essi non la considerano più il loro destino. […] Guardando più attentamente, vediamo che questa gioventù è nel mezzo della trasformazione della propria miseria in un tipo di virtù prussiana: è idoneo al combattente essere spogliato di ogni proprietà.
Questa gioventù si è intimamente adattata al suolo vacillante sul quale è collocata, a quelle relazioni insicure nelle quali si trova a esistere. Vive di espedienti. Il modo di vita dell’epoca borghese, quando si era contenti di se stessi, quando si calcolava e si pianificava, è completamente estraneo a questi giovani. La traiettoria delle loro vite tocca costantemente il fondo. Psicologicamente, essi vivono pericolosamente ma senza pathos. Assomigliano a un materiale umano grezzo che è capace di qualsiasi cosa, nel bene o nel male.
Nel movimento nazionalsocialista, questa gioventù cerca la propria realizzazione. È lì che essi pensano di ricevere l’addestramento alla lotta contro il vecchio mondo. […] era il meglio della gioventù e , in definitiva, il meglio de tedeschi che lì si radunava. Data la qualità della sostanza umana, le SA e le SS davano loro un’occupazione, indipendentemente dal loro orientamento e dalla funzione politica, all’interno di un rango specifico, che esisteva unicamente per se stesso. È stata proprio questa gioventù a dare tanto fuoco e splendore al Movimento. […] Quello che fu attribuito al Movimento fu in realtà il merito della gioventù che vi aderiva in massa […], avevano tradotto il sentimento del mondo, la visione della vita e la tensione volontarista dei giovani nel linguaggio commerciale della politica, in tal modo che la loro efficacia pratica corrispose alla posizione essenziale di questa gioventù.
Questa gioventù era in rivolta contro il vecchio mondo. Per loro, il Terzo Reich fu l’incarnazione di un mondo nuovo. […] Il Terzo Reich è il mascheramento che il vecchio mondo usò per simulare l’attrazione verso un mondo nuovo. […] Si è abusato della loro fede in modo da metterli al servizio delle forze che avevano giurato di distruggere. […] Esso difende un passato marcio con il linguaggio del futuro. Le sue promesse sono pacificazione.
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Buon impiego del crimine
«La Rivoluzione non va giudicata in base alle stesse regole delle situazioni ordinarie dell’umanità. Considerata al di fuori del suo carattere grandioso e fatale, la Rivoluzione non è che odiosa e orribile. Alla superficie, è un’orgia senza nome. Gli uomini, in quella strana battaglia, valgono in proporzione della loro bruttura. Tutto serve allo scopo, eccetto il buon senso e la moderazione. Ne sono attratti i pazzoidi, gli incapaci, i criminali, perché sentono istintivamente che è venuto per loro il momento di renersi utili. Il successo delle giornate della Rivoluzione sembra il risultato della collaborazione di tutti i crimini, di tutte le insanità. Il miserabile capace soltanto di uccidere, ha i suoi giorni migliori. La donna di strada, la pazza della Salpêtrière vi trovano un’occupazione. Il tempo aveva bisogno di dementi, di criminali: fu servito alla perfezione. Fu come spalancarsi del pozzo dell’abisso, il cielo oscurato da tutti i vapori infernali di un secolo di corruzione. Il fermo pensiero di alcuni posseduti: “Bisogna, ad ogni costo, che la Rivoluzione riesca”, diventò un’ossessione, una voce dal di fuori che s’impose, una suggestione tirannica. A partire da quell’istante, la Rivoluzione ebbe un genio, che ne presiedette ogni giorno gli atti e che, di mira il successo, non si sbagliò mai. Un patto di terrore unì migliaia di uomini, li mise in quello stato di delirio personale in cui si è travolti, si sta per la vita e per la morte su una nave lanciata all’attacco che non si governa più».
Ernest Renan, Feuilles détachées, 1892
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Elisa ti prego parliamone fammi entrare altrimenti chiamo la digos
Spero che il fondale scenico della foto di Salvini, per intenderci quella con il cartello GRAZIE che sembra scritto con Paint (costruita per essere un meme), che lo vorrebbe rappresentare come ritratto, casualmente, in un ambiente spontaneo e casalingo, informale e domestico, tipicamente lower middle class, un po' sciatto come sono tutte le nostre stanze di servizio, quasi da "la stanza dove vado a stirare da quando Karen mi ha lasciato" o "la libreria dello studio dove ci appoggio la merda che non so dove mettere" se non proprio rimembranze adolescenziali tipo "la mia vecchia cameretta dove mi facevo le seghe", sia stato costruito scientificamente dallo staff della Bestia di Herr Doktor Luca Morisi non solo per rafforzare l'identificazione e la cristallizzazione delle diverse bolle sociali che compongono la base liquida di massa dell'elettorato leghista ("La Gente", strappata a quei babi dei cinquestelle) nel loro Capitano "che è uno di noi", ma anche per lanciare, nel sottotesto, specifici e circostanziati messaggi occulti ai nuclei lobbistici organizzati interni che sostengono l'ascesa salviniana (neofascisti, forze dell'ordine, integralisti religiosi, certe frange del tifo) e agli “alleati” geopolitici esterni che si stanno contendendo l’influenza, a suon di finanziamenti coperti e investimenti politici più o meno espliciti, l’egemonia sul campo sovranista europeo di cui il ministro dell’Interno si candida a essere l’uomo di punta.
Altrimenti il santino di Putin e il quadro di Gesù Cristo, il berretto dei Carabinieri e La leggenda Milan, i souvenir alpini e il cappellino di Trump, il Tapiro d’oro e il libro sulle spedizioni esoteriche naziste suggerirebbero che la linea schmittiana dell’inimicizia è stata tracciata di fronte a quello che vuole essere un mediocre stereotipo personificato della fascia di popolazione maggioritaria, quella schiacciata tra i boomers e la generazione X; il Male Assoluto dipinto dalla Sinistra (quale?) incarnato nel luogo comune vivente di quello che viene rappresentato come un certo uomo medio italiano. Il nominato Hitler postmoderno un banale quarantacinquenne su facebook.
Al netto di tutte ste cazzate, fa pensare e mette quasi tristezza. Siamo nati combattendo contro il Kaiser e lo Zar.
[EDIT: forza Silvio sempre]
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Irriducibile parzialità contro la democrazia
«Se qualcuno ci accusò di essere unilaterali, da parte nostra non accampammo pretese di imparzialità. Non intendevamo fornire un duplicato del sistema giudiziario borghese, che cerca di nascondere i suoi pregiudizi di classe e di razza dietro procedure insensate e luoghi comuni sulla democrazia. Volevamo giustizia, e ovviamente la chiedevamo con rabbia e passione. Dopo che da centinaia di anni subivamo la brutalità e la violenza più continua e unilaterale, come pretendere da noi un atteggiamento imparziale?»
- Angela Davis, Autobiografia di una rivoluzionaria.
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Nanni Balestrini, Editoria e movimento (Gli autonomi vol. 3, DeriveApprodi Editore)
«[...] Contemporaneamente alla chiusura di "Quindici" nasce "Potere operaio". L'annuncio della costituzione del gruppo era stato dato alla fine di luglio '69 e in settembre ci fu a casa mia a Roma in via dei Banchi Vecchi la riunione di fondazione. Tra i partecipanti Toni Negri, Franco Piperno, Giairo Daghini, Oreste Scalzone, Sergio Bologna, Lapo Berti. Utilizzando la struttura di "Quindici", i rapporti e anche parte del materiale non pubblicato, ho preparato, con l’appoggio di Feltrinelli, una nuova rivista intitolata "Compagni,". L’idea era quella di continuare l’opera di "Quindici", offrendo all’azione e al dibattito del movimento uno spazio e una visibilità mediatica. Ne sono usciti solo due numeri, non solo per l’improvvisa scomparsa di Feltrinelli, ma piuttosto perché sono nati e si sono moltiplicati i giornali dei gruppi extraparlamentari: quotidiani, settimanali, mensili, e quindi la funzione di dar voce al movimento era cessata, e io ho cominciato a collaborare ai primi numeri di "Potere Operaio". La redazione della rivista era a Milano, nella casa di Giairo Daghini, la famosa comune di via Sirtori. Ricordo che con una vecchia Citroen DS andavo all’aeroporto a prendere Giairo Daghini e Oreste Scalzone che arrivavano all’ultimo momento con gli articoli del giornale. Ci precipitavamo in tipografia per far comporre i testi col piombo delle linotypes, correggere le bozze e impaginare. Ci mettevamo due giorni. Sempre per Potere operaio ho curato le pubblicazioni «Linea di massa», erano opuscoli su temi specifici, come per esempio sul lavoro tecnico-scientifico, curato da Franco Piperno, o sui Cub della Pirelli. Lasciata la Feltrinelli nel '73-74 ho fatto per la casa editrice Marsilio una collana dedicata a testi del movimento intitolata "Collettivo", dove sono usciti tra l'altro Nord e sud uniti nella lotta dello scrittore operaio Vincenzo Guerrazzi e Scrittura e movimento di Franco Berardi Bifo. Su "Linus" pubblicavo le poesie della Signorina Richmond, ironico personaggio metá poesia e metá rivoluzione e nel '76 da Einaudi la raccolta di racconti La violenza illustrata . Mi ero intanto trasferito a Milano dove ho curato con Bifo alcuni numeri della rivista dell'autonomia "Rosso" e mi sono occupato di un nuovo progetto editoriale: l'Ar&a. C'era stato un importante convegno a Orvieto, nel '76, con accesi dibattiti sui rapporti tra cultura e movimento. Era stato organizzato dalla Cooperativa Scrittori, creata da Luigi Malerba e Elio Pagliarani con altri scrittori provenienti dal Gruppo 63. Era l'idea dell'editoria alternativa che circolava dopo il Sessantotto, con esempi realizzati in Germania, e anche in alcune zone del movimento in Italia: gruppi di scrittori o politici che si pubblicano da soli, si fanno la loro casa editrice, se la autogestiscono. Si tratta di iniziative piú che lodevoli che peró devono affrontare difficoltá spesso insormontabili: la debolezza finanziaria, la scarsa competenza editoriale, la poca possibilitá di diffusione. Per risolvere questi problemi si è pensato a una struttura che potesse fornire i servizi di cui dispone un normale editore medio alle piccole iniziative non in grado di sostenerli per la loro dimensione ridotta. Il lavoro redazionale, la grafica, il rapporto con la tipografia e con la distribuzione nelle librerie, l'ufficio stampa, l'amministrazione, il magazzino sono i servizi indispensabile per poter esistere sul mercato librario e superare la fase dilettantesca e artigianale dell'editoria alternativa, affascinante ma inefficace e sempre in perdita. Con l'Ar&a il lavoro degli editori si limitava alla ricerca dei titoli, al rapporto con gli autori e a mettere a punto i libri che intendevano pubblicare. Veniva definita la programmazione, le date di uscita dei titoli, e poi una volta consegnato il manoscritto alla redazione centralizzata l'Ar&a provvedeva a tutto. Il lavoro redazionale e grafico era eseguito professionalmente. Accentrando la stampa su un'unica tipografia era possibile ottenere prezzi vantaggiosi, e la stessa cosa valeva per l'acquisto della carta in grandi quantitativi. L'ufficio stampa poteva offrire ai giornali una vasta gamma di libri di cui occuparsi. Il fatto di operare per diverse sigle permetteva di presentarsi con un buon numero di uscite regolari mensili a un distributore nazionale, che non aveva interesse a lavorare per chi produceva pochi titoli saltuari. Era stata creata una societá tra me, il giovane Luigi Durso che aveva procurato il finanziamento iniziale, e Gianni Sassi, personaggio dell'undreground milanese, proprietario della casa discografica Cramps per cui incidevano gli Area, che ne hanno suggerito il nome. Alcune sigle editoriali coinvolte preesistevano, come la Cooperativa Scrittori, le Edizioni delle donne e Multhipla di Gino Di Maggio, grande collezionista d'arte. Altre sono nate come emanazioni di riviste: L'Erba voglio di Elvio Facchinelli, le Edizioni Aut aut di Pierluigi Rovatti. Lavoro liberato di Francesco Leonetti era legata ai gruppi marxisti-leninisti, e I Libri del No di Dario Paccino ai comitati autonomi operai di Via dei Volsci, mentre Librirossi di Andrea Bonomi all'area autonoma milanese. Piú anomale le edizioni di Squilibri condotte da Dario Fiori detto Varechina che proponeva pamphlet provocatori come Un risotto vi seppellirá, materiali di lotta dei circoli proletari giovanili di Milano, e di Profondo rosso dedicate al thriller e inaugurate con i Racconti sanguinari curati da Dario Argento. Si producevano 7/8 titoli al mese, quanto un buon editore medio, i libri erano presenti nelle librerie, i giornali se ne occupavano, i ricavati delle vendite arrivavano regolarmente e venivano ripartiti con i diversi editori. Nel suo anno e mezzo di vita Ar&a arrivó a pubblicare piú di cento titoli, alcuni con un buon successo immediato come Il Superuomo di massa di Umberto Eco e Fantasmi italiani di Alberto Arbasino, oppure La fabbrica della strategia, 33 lezioni su Lenin di Toni Negri, Alice è il diavolo del collettivo A/traverso, e poi molti titoli delle Edizioni delle donne, in particolare S.C.U.M., manifesto per l'eliminazione dei maschi di Valerie Solanas. Ma nell'inverno 1978 l'Ar&a è costretta a interrompere la sua attivitá. Approfittando della lotta contro il terrorismo la repressione aveva cominciato a aggredire la parte piú esposta del movimento, l'informazione, l'editoria, le librerie, con continue perquisizioni e denunce. Minacce di arresto da parte dei carabinieri avevano convinto il socio finanziatore a sospendere temporaneamente le pubblicazioni, arresto che poi è diventato definitivo [...]».
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Intellettuali e guerra civile
«L'uccisione di Gentile avviene nel contesto di una guerra di liberazione che è anche, e per taluni prevalentemente, una guerra civile; è anche opportuno ricordare che, sul territorio nazionale, questa guerra civile dura da più di venti anni, e che centinaia di intellettuali antifascisti sono stati uccisi in quanto nemici, diretti o potenziali, del regime fascista. Nella guerra civile gli spazi intermedi tendono a scomparire; ciò che è dirimente è il campo a cui si aderisce. Giovanni Gentile, l'intellettuale di maggior prestigio tra i pochissimi che aderirono alla Rsi, e che presiede l'Accademia d'Italia, è considerato dai comunisti un nemico: immeritatamente? Chi conferisce la propria autorevolezza alla Rsi, avvalla anche una politica che pratica la caccia ai renitenti alla leva, la deportazione degli eberei e degli operai italiani. Se Gentile è giudicato fondatamente un nemico, la sua uccisione, dal punto di vista di chi l'ha decisa e di chi l'ha eseguita, è un atto di guerra, legittimo né più né meno di quelli che l'hanno preceduto. [...] Dal punto di vista politico l'attentato a Gentile, destinato a divenire il più famoso tra quelli compiuti dai Gap fiorentini, non giova alla coesione delle forze antifasciste impegnate nella lotta, anzi accentua diffidenze e incomprensioni mai del tutto superate. [...] Dal punto di vista strettamente militare, l'attentato non impreziosisce l'imagine dei Gap fiorentini: la vittima è un vecchio, disarmato e senza scorta. A differenza degli obiettivi colpiti fino a quel momento, Gentile non ha un ruolo all'interno della macchina repressiva, e non è un militare; tra i suoi esecutori, solamente Bruno Fanciullacci, forse, sa che Gentile è un personaggio di rilievo della cultura italiana [...]. Ciò che l'attentato esibisce non è la potenza militare dei gappisti, quanto piuttosto che per nessun nemico esiste una guarentigia, nemmeno se è intellettuale, o vecchio, o famoso, o disarmato; o tutte queste cose insieme».
Santo Peli, "Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza".
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Is this classe disagiata?
«Queste lunghe citazioni erano necessarie per richiamare più vivamente possibile il rapporto di contiguità e osmosi che nell’ultimo decennio ha tenuto insieme tre elementi ben visibili del panorama italiano:
- La crisi, la sconfitta e la metamorfosi culturale di tutta la Sinistra. - La presenza diffusa e pervasiva di un nuovo “ceto emergente”, composto in prevalenza da individui e gruppi che vengono da sinistra ma che tendono ad abbandonare comportamenti e valori “di sinistra” per affermarsi, di fatto, nella società così com’è. - La riscoperta della Letteratura (della “creatività” e in genere dei “valori culturali”) come attributo di ceto e come status symbol: mezzo di autoaffermazione e promozione più che veicolo di conoscenza, sintomo di conflitto e immaginazione alternativa.
Forse si tratta di una maligna suggestione, ma niente ha fatto pensare recentemente alle descrizione classiche o a quelle aggiornate della Piccola Borghesia quanto l’onnivoro trasformismo dei tipi intellettuali presenti sulla scena. Anche la produzione e il consumo di letteratura sembrano sembrano essere anzitutto un modo di esprimersi di questa classe o quasi classe difficilmente definibile. Quelli che nella seconda metà degli anni Settanta venivano chiamati “i nuovi Soggetti Sociali” (soprattutto giovani scolarizzati e donne emarginate dai luoghi di produzione e di potere), politicamente e sindacalmente molto combattivi, hanno visto in seguito frustrate le loro aspettative più ambiziose e, costretti sulla difensiva dalla mutata situazione politica, hanno cambiato pelle. Culturalmente si rifugiano in una Nuova Soggettività pronta a dare fondo all’intera tradizione culturale, opportunamente manipolata e ridotta in briciole, pur di crearsi una confortevole immagine di sé, un’identità attraente e suggestiva. È questo il pubblico più vasto e anche più avvertito della cultura. Un pubblico ipersensibile ad ogni richiamo, che si è riconosciuto, contemporaneamente, nei film di Wim Wenders e di Nanni Moretti, che adora New York e la “finis Austriae”, che legge e tiene sul comodino “Il nome della rosa” perché è un libro divertente e sitruttivo, che non manca di curiosare ansiosamente fra le pagine di “Alfabeta”, che consuma in tutte le forme qualsiasi cosa abbia a che fare con Nietzsche e con la psicanalisi, che si porta sempre dietro un libro Adelphi come si porta un distintivo di riconoscimento, che considera il Beaubourg la più alta manifestazione della cultura contemporanea. in questo pubblico “intelligente” (a cui da sempre si rivolge un settimanale come “L’Espresso”) c’è in realtà molto candore, un atteggiamento di fondo essenzialmente acritico e soprattutto una sete inestinguibile di identità, di identificazione, di adeguamento e di appartenenza. La letteratura entra a far parte oggi del suo perpetuo maquillage culturale come un ingrediente particolarmente ricercato e apprezzato».
Alfonso Berardinelli, La nuova piccola borghesia e il suo stile (1985)
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shitposting
Nel Novecento la guerra civile si è organizzata e combattuta tra classi, partiti, ideologie opposti; oggi, che le classi sembrano evaporate, i partiti fusi e le ideologie liquefatte, la guerra civile pare dispiegarsi nelle filter bubbles deflagrate, nelle tribù memetiche armate, negli sciami di atomi radicalizzati. Se il fenomeno Hitler nacque e crebbe nelle birrerie, oggi attraverso le piattaforme sociali si propaga il nuovo antico male occidentale.
Dall'epoca di Lenin, di tempeste d'acciaio, al tempo dei Breivik, vile, paranoide e disperato. Il materialismo storico su cingoli che si impantana nel collasso dell'immaginario, del progresso, del futuro. Postironia diffusa ovunque ma non c'è un cazzo da ridere.
L'incendio banale di Notre Dame, cuore d'Europa, è un simbolo potentissimo dentro questa percezione palpabile della fine.
Lo sentiamo, il rombo del crollo.
La tocchiamo, la depressione dilagante.
Le vediamo già, le macerie, perchè ci viviamo.
Scriveteci un longform sulle vostre riviste culturali, io ho solo la forza di farci shitposting.
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Vi è stato un tempo
«La fine della guerra ha aperto in tutto il mondo un periodo nuovo, profondamente diverso dai precedenti. In questo periodo i contrasti tra le due opposte classi sociali, tra chi comanda e chi dovrebbe ubbidire, tra chi è padrone dei mezzi di vivere e di produrre e chi per vivere deve vendersi a un padrone, tra chi è proprietario e chi è salariato, tra chi è ricco e chi è povero, sono diventati sempre più profondi. Vi è stato, anzi, un tempo, subito dopo la fine della guerra, in cui sembrava che i dominatori del mondo, cioè la classe dei proprietari, dei padroni, dei ricchi, stesse per venire travolta, come da una gigantesca ondata, dalla rivolta dei poveri, degli sfruttati, dei salariati, nei quali la guerra aveva sparso un malcontento enorme, ai quali, anzi, la guerra stessa aveva insegnato la ribellione. E la vittoria degli sfruttati sugli sfruttatori parve, in quel momento, possibile, soprattutto perché, sempre in conseguenza della guerra, correva il pericolo di andare distrutta tutta l'organizzazione economica che gli sfruttatori avevano creata e sulla quale si fondava il loro dominio. Quale in queste condizioni il dovere dei lavoratori, dei ribelli decisi a combattere per distruggere la società attuale e crearne un'altra, nella quale vi sia per tutti maggiore giustizia e più grande libertà? E evidente. I lavoratori dovevano lottare, approfittando delle condizioni eccezionali, per affrettare la caduta del regime attuale, dovevano lottare con violenza sempre più grande per strappare il potere ai loro nemici, e dovevano sempre più allontanarsi da questi loro nemici, e stringersi attorno ai propri organismi come un esercito alla vigilia dell'urto e della vittoria suprema. Ebbene, mentre le masse capivano assai bene che questa era la necessità del momento e con entusiasmo davano la loro adesione alle organizzazioni [sindacali] e al Partito [socialista], perché volevano essere guidate alla lotta, gli uomini che stavano a capo delle une e dell'altro non ne volevano sapere.»
A. Gramsci, «Il perché della scissione», in La Compagna, 13 maggio 1922
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Brenton Tarrant è uno di noi
da Modena antifascista
L’autore del manifesto politico dietro la strage di Christchurch non è un folle, è il figlio legittimo, integrato e coerente, del tempo in cui viviamo: il tempo della crisi.
Crisi – nel suo significato originario di trasformazione radicale – che non è solamente materiale, ovvero di decadenza di un intero ciclo di egemonia ed accumulazione capitalistica, ma anche politica e sociale, che sconquassa le categorie e i rapporti su cui si sono retti patti e conflitti, e che sconvolge aspetti culturali, antropologici, esistenziali – collettivi e individuali – che si erano dati lungo tutto un arco storico.
Brenton Tarrant, come del resto qualsiasi jihadista cresciuto nelle metropoli d’Europa, parla la nostra lingua. Ha 28 anni, è cresciuto con internet e la sua cultura, dentro l’atomizzazione della forma di vita neoliberista, giusto in tempo per assistere alla decomposizione dell’ordine liberale. Depressione e disperazione, meme e cinica postironia nichilista, disintermediazione politico-culturale e catastrofe ecologica planetaria. Un senso della fine che, dentro un eterno presente senza storia e senza futuro, si compenetra con la fine del senso, sprigionando energia distruttiva. Che non trova niente a incanalarla verso fini progressivi. E per questo va a scorrere, inevitabilmente spinta dalla forza di gravità, sui solchi già tracciati nel terreno.
Come Anders Breivik e Luca Traini prima di lui, Brenton Tarrant infatti ha semplicemente cristallizzato in atto ciò che è quotidianamente diffuso a livello liquido e gassoso nelle nostre società, non solo occidentali. Ciò che respiriamo ogni giorno. Ciò che è stato sciolto nei pozzi da cui ci abbeveriamo. Il manifesto che ha mosso i fucili mitragliatori degli stragisti sulla folla inerme in preghiera si intitola, paradigmaticamente, “The Great Replacement”: La Grande Sostituzione. Parole, concetti diventati moneta comune in occidente, che ritornano. Ma che hanno un origine precisa. La sostituzione etnica, il genocidio – culturale e biologico – della razza bianca, la grande paranoia contemporanea dell’uomo occidentale: dal grezzo cospirazionsimo suprematista a fine teoria della Nouvelle Droite (dice niente il best seller di Renaud Camus “Le Grand Remplacement”?), dalla marginalità degli ambienti neonazisti a strumento di campagna elettorale del governo. In Italia, dalla copertina del Primato Nazionale alla tv in prima serata, fino al Ministero dell’Interno.
Brenton Tarrant, che si è filmato mentre uccideva cinquanta persone disarmate, si definisce un fascista. Lo è. Ma le sue parole sembrano appena uscite dal telegiornale della cena. Da un qualsiasi talk show televisivo in prima serata. Dall’intervista alla radio di qualche rappresentante delle istituzioni, magari “oltre la destra e la sinistra”. Dal tweet di qualche politico che si dichiara contro i poteri forti ma di buon senso, populista ma non razzista, Dalla Vostra Parte ma prima gli italiani bianchi. L’omogeneità etnica e l’organicità nazionale come valori in sé. L’immigrazione come un complotto contro gli autoctoni. L’uomo bianco sotto attacco, devirilizzato, sterilizzato, come vittima. La decadenza dell’occidente, l’invasione islamica, il razzismo differenzialista. L’etnonazionalismo mascherato da identitarismo, la guerra civile-razziale. Tutto ciò è perfettamente compatibile con la democrazia liberale. La tragedia non è soltanto l’orrenda strage, ma la legittimità sociale, il senso comune, l’integrazione culturale e la nobiltà politica che sono state conferite agli assiomi che l’hanno portata a compimento.
Il passaggio dalla metapolitica, ovvero dalla costruzione di egemonia culturale, alla lotta armata di lupi sempre meno solitari e sempre più organizzati, sul modello di Daesh, alla guerra civile. Dentro questo ampio spettro, la strage di Christchurch porta allo scoperto, attraverso la loro coerente estremizzazione e come un presagio, le matrici di processi di lungo periodo in atto già da tempo nelle nostre società, dentro cui specifiche forze stanno operando per determinarne una possibile direzione e un tendenziale sbocco. Dentro questo spettro si rimodula il potere sovrano, se esso è colui che decide sullo stato di eccezione.
Dentro a tutto ciò, a partire da tutto ciò, le categorie che abbiamo utilizzato fino ad ora paiono inermi, non più efficaci, limitate a comprenderne la portata. Le bussole antropologico-politiche di un intero arco di civilizzazione si stanno riorientando: vediamo il movimento, non riusciamo a coglierne appieno la direzione d’approdo.
Dentro a tutto ciò, di fronte a tutto ciò, il senso di quello che chiamiamo un antifascismo per il XXI secolo è tutto da ricercare, costruire, sviluppare, necessariamente, crediamo, travalicando i limiti dell’antifascismo stesso.
Questa la porta stretta entro cui, necessariamente, passare.
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Abbiamo bisogno di un disegno
Lo stragista di Christchurch ha 28 anni, la mia età: è un cosiddetto millennial. Prima di compiere l'attentato, ha postato il suo manifesto su /pol/ di 8chan («Time to stop shitposting and time to make a real life effort»).
Si intitola "The Great Replacement": la Grande sostituzione. «I am just a regular white man, from a regular family». Si dichiara ex comunista, anti-imperialista ed eco-fascista, richiamandosi - non apertamente - a Dugin. Spiega che i "meme hanno fatto più per la causa etnonazionalista che qualsiasi altro manifesto". Tra i propri ispiratori, prima dei crociati di Lepanto o di Carlo Martello scritti sui caricatori, prima di Dylan Roof, prima del "justiciar knight" Breivik, c'è l'italiano Luca Traini, seguace del Capitano, attivo con Casapound e militante della Lega. Trump è visto come un simbolo della rinnovata identità bianca. Ci sono la teoria del genocidio bianco, le paranoie neomalthusiane, l'ossessione per lo stupro etnico. La disperazione, la depressione e la decadenza - in particolar modo sessuale - della civiltà occidentale sono al centro in tutto lo scritto. L'invasione islamica. La guerra civile-razziale contro occupanti e traditori, di cui si dichiara combattente, partigiano. La convergenza dell'estrema destra e dell'estrema sinistra nel movimento populista di riscatto. Non si dichiara affatto neonazista, anzi, sono ridicoli, fuori dalla storia. Dichiara la morte del conservatorismo tradizionale della destra. La sua è rivoluzione nazionale. Il suo razzismo è quello differenzialista, quello della Nouvelle Droite. Parla di una marcia luminosa ma veloce nelle istituzioni ma che non c'è una soluzione democratica. Parla di radicalizzare attraverso le emozioni, non la razionalità. «Above all, just don’t be stale, placid and boring. No one is inspired by JebBush». Parla di combattere il pensiero unico, l'informazione mainstream asservita ai poteri forti. Parla della centralità dell'ambientalismo e dell'ecologia per questo nuovo movimento nazionalista. Cita R. Kipling. Trolla il lettore citando videogames: «Were you taught violence and extremism by videogames, music, literature, cinema? Yes, Spyro the dragon 3 taught me ethno-nationalism. Fortnite trained meto be a killer and to floss on the corpses of my enemies. No». E poi li trolla con il copypasta del Navy Seal. Si viene poi a sapere che trafficava coi bitcoin. Non a caso ripete il mantra ancap "Taxation is theft". Prima di fare fuoco su centinaia di persone inermi fa una diretta: come sottofondo la canzone cetnica di Remove Kebab, poi grida «Subscribe to PewDiePie!», il canale dello youtuber influenzato dall'alt-right.
Piccoli eventi grotteschi, weird, legati a processi più ampi, torrenti carsici che a un certo punto della storia si inabissano, lavorano per decenni o secoli per poi ritornare a esplodere in superficie, l'accelerazione di profonde trasformazioni sociali, culturali e tecniche di lungo corso. La crisi. Da 4chan al pensiero irrazionale, dal Gamergate al fascismo, dall'ISIS agli incel, da Breivik a Salvini, dalla depressione millennials alla paranoia etnica, dal sesso al nichilismo, dal complottismo alla decadenza geopolitica dell'occidente.
Si vedono i fili della trama, rimane inafferrabile il disegno.
L'attentatore di Christchurch, come Breivik, non è assolutamente un pazzo, o riduttivamente un terrorista nazista, è molto di più. E molto peggio. Siamo nel cuore della questione politico-antropologica attuale.
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Scambio di telegrammi: Lenin-Stalin, 7 luglio 1918
7 luglio 1918, ore 1 di notte, località Tsaritsyn (conosciuta poi come Stalingrado).
«Al Commissario del popolo Stalin. Oggi verso le 3 del pomeriggio un socialista-rivoluzionario di sinistra ha ucciso Mirbach con una bomba. Questo assassinio fa chiaramente il gioco dei monarchici ossia dei capitalisti anglo-francesi. I socialisti rivoluzionari di sinistra, rifiutandosi di consegnare l’assassino, hanno arrestato Dzerzhinsky e Latsis e hanno dato inizio a una rivolta contro di noi. Noi li liquideremo senza pietà stanotte stessa e diremo al popolo la verità: ne abbiamo fin sopra i capelli della guerra. Abbiamo in ostaggio centinaia di socialisti-rivoluzionari di sinistra. È indispensabile schiacciare dappertutto senza pietà questi miserabili e isterici avventurieri che sono diventati un’arma nelle mani della controrivoluzione. Chiunque è contro la guerra sarà con noi. Riguardo a Baku, la cosa più importante è che voi siate costantemente in contatto con Shahumyan e che Shahumyan conosca le proposte fatte dai tedeschi all’ambasciatore Joffe a Berlino, secondo cui i tedeschi acconsentirebbero ad arrestare l’offensiva dei turchi su Baku se noi garantissimo ai tedeschi una parte del petrolio. Naturalmente noi acconsentiamo. Siate dunque implacabili contro i socialisti-rivoluzionari di sinistra e teneteci informati. Lenin» [1]
7 luglio 1918, ore 3 di notte, località Tsaritsyn.
«Al compagno Lenin. Spedisco oggi stesso a Baku un corriere con una lettera. Tutto sarà fatto. Per quanto riguarda gli isterici, siate certi che la mano non ci tremerà. Con i nemici tratteremo da nemici. Stalin» [2]
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Dentro la catastrofe, ai lati opposti delle barricate
Il terrore che lo desta di soprassalto nel cuore della notte - sebbene egli viva in paesi opulenti e pacifici - è naturale, così com'è naturale il capogiro di chi scorge l'abisso dinanzi a sé. Sarebbe insensato cercare di persuaderlo che l'abisso non esiste. E anzi, quando uno cerca consiglio in se stesso, è bene che ciò avvenga proprio sull'orlo dell'abisso. Come si comporta l'uomo di fronte e in mezzo alla catastrofe? È questo il tema che diventa ogni giorno più assillante. Tutte le questioni confluiscono in questa soltanto, fondamentale. [Ernst Jünger, Trattato del ribelle]
Il concetto di progresso va fondato nell’idea della catastrofe. Che “tutto continui così” è la catastrofe. Essa non è ciò che di volta in volta incombe, ma ciò che di volta in volta è dato. Il pensiero di Strindeberg: l’inferno non è nulla che ci attenda - ma la nostra vita qui. [Walter Benjamin, Angelus Novus]
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Walter Benjamin, Sul nuovo libro di poesie di Erich Kästner - 1931
«[...] La grottesca sottovalutazione dell’avversario che sta alla base delle loro provocazioni non è l’ultimo dei segni che rivelano quanto la posizione di questi radicali di sinistra sia una posizione perdente. Questi intellettuali hanno poco a che fare con il movimento operaio. Sono invece un fenomeno di disgregazione borghese, che fa da contrappunto a quella mimetizzazione feudale che l’impero ha ammirato nell’ufficiale in congedo. I pubblicisti del tipo di Kästner, Mehring o Tucholsky, i radicali di sinistra sono la mimetizzazione proletaria della borghesia in sfacelo. La loro funzione è quella di creare, dal punto di vista politico, non partiti ma cricche, da quello letterario non scuole ma mode, da quello economico non produttori ma agenti. Ed è vero che da quindici anni in qua questi intellettuali di sinistra sono stati ininterrottamente gli agenti di tutte le congiunture culturali, dall’attivismo all’espressionismo fino alla Nuova Oggettività. Ma il loro significato politico si riduceva a convertire riflessi rivoluzionari, nella misura in cui apparivano nella borghesia, in oggetti di distrazione, di divertimento, di consumo. In tal modo l’attivismo seppe privare la dialettica rivoluzionaria del suo carattere di classe, dandole il volto indeterminato del sano buon senso. [...] Insomma, questo radicalismo di sinistra è proprio e precisamente quell’atteggiamento a cui non corrisponde più nessuna azione politica. Non è a sinistra di questa o quella corrente, è semplicemente a sinistra del possibile. Poiché non mira ad altro, a priori, che a godere se stesso, in una quiete negativistica. La trasformazione della lotta politica da coazione a decidere a oggetto di piacere, da mezzo di produzione ad articolo di consumo - è questa l’ultima trovata di questa letteratura. [...] Quello che è certo è che il brontolio che si ode in questi versi ritiene ha più della flatulenza che della sovversione. Da sempre la stitichezza si è accompagnata con la malinconia. Ma da quando nel corpo sociale gli umori ristagnano, siamo continuamente investiti dal suo tanfo. Le poesie di Kästner non migliorano l’aria».
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