#monaci Zen
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La condizione per la conoscenza è la curiosità (Jacques-Yves Cousteau)
Sono curiosa, lo ammetto. Non dei fatti altrui, tutt’altro, per fame di conoscere e di scoprire cose nuove. Penso che questa mia curiosità sia nata dal fatto di non aver potuto seguire il percorso di studi che preferivo, ovvero quelli umanistici. La conseguente consapevolezza di avere molte lacune culturali, ha fatto sì che in questi ultimi anni mi stia dedicando a colmare queste e altre lacune…
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Sollevo lo specchio della mia vita
Fino al mio volto: sessant’anni.
Scuoto con un colpo il riflesso –
Il mondo come al solito.
Tutto al proprio posto.
Dopo aver scritto queste righe, nel 1555, il monaco zen Taigen Sofu posò il suo pennello e morì.
(Dalla tradizione giapponese dei jisei, poemi scritti dai monaci zen e poeti haiku in punto di morte)
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Durante i ritiri di meditazione siamo per lo più in silenzio.
Il silenzio è una pratica preziosa, che va ben oltre il non parlare.
Il silenzio è lavorare con l'attività della mente, tutti i pensieri su questo e quello, il desiderio costante della mente di fuggire da ciò che è.
Nel silenzio, spesso abbiamo maggiori possibilità di vedere come operano la nostra mente e le nostre emozioni e di scoprire la saggezza che collega tutte le cose.
Spesso le persone non amano il silenzio perché nel silenzio siamo lasciati con noi stessi.
Non c'è via di fuga dai nostri pensieri, sentimenti e percezioni.
Se siamo nuovi alla pratica della meditazione e non abbiamo trascorso molto tempo con noi stessi, a volte il silenzio può sembrare quasi insopportabile.
Ricordo ancora i primi giorni e le settimane trascorse nel primo monastero buddista in cui mi sono formato. Camminando per il terreno, mi capitava di passare accanto a uno dei monaci.
Per un senso di educazione, per il desiderio di entrare in contatto (e per il disagio), dicevo: "Buongiorno".
I monaci passavano oltre, senza dire nulla e comportandosi, dal mio punto di vista, come se non esistessero.
La mia reazione immediata fu quella di sentirmi offeso e di pensare che non gli piacessi.
Man mano che il mio addestramento proseguiva, la mia mente ha attraversato molti cambiamenti, finché alla fine sono arrivato al punto in cui il silenzio dei monaci ai miei saluti non sembrava più personale
o non mi sembrava più un rifiuto.
Anzi, cominciai a vivere il silenzio come un grande sollievo.
Mi ero liberato dalle convenzioni sociali che spesso mi facevano sentire vuoto e comunque non visto o ascoltato.
Nel silenzio c'era un certo comfort nel relazionarsi con gli altri che non avevo mai sperimentato prima.
Praticare in silenzio in un gruppo ci invita a sperimentare un altro tipo di coscienza, un altro tipo di consapevolezza e nuovi modi di connettersi con gli altri.
C'è un approfondimento della consapevolezza e una grande opportunità di chiarire la mente.
di Claude Anshin Thomas
(monaco zen statunitense)
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Capitolo 3 (prima parte)
L’uomo fece ritorno al suo appartamento verso le tre e mezza di notte. Come al solito nessuno lo notò, come nessuno si era accorto di lui al momento dell’uscita. Un fantasma dello stesso colore del buio. Un attento osservatore avrebbe potuto dire che aveva l’aria stanca, ma tra quelle quattro mura non c’era un attento osservatore. Accese una fioca lampada da tavolo, si avvicinò allo stereo, infilò un cd nel lettore e scivolò sulla comoda poltrona di pelle disfacendosi delle scarpe. Era sempre stupefacente la fluidità e la rapidità dei suoi movimenti, anche di quelli che costituivano la routine.
Le note iniziarono a dimenarsi nell’aria fino a permeare l’intero ambiente, abilmente insonorizzato verso l’esterno.
“Come sail your ships around me
And burn your bridge down…”
Era The Ship Song, di Nick Cave and The Bad Seeds. Un pezzo che trovò miracoloso per quel determinato momento. Il disco era The Good Son e, se ricordava bene, era datato 1990; ma la sua attualità faceva spavento e rinfrancava. Il testo non lo entusiasmava particolarmente, ma la melodia e la profonda voce di Re Inkiostro erano da brividi. Si era oramai abbandonato quasi totalmente tra le braccia del suono, quando la voce lo strappò di forza all’estasi:”In un mondo in cui la morte è il cacciatore non ci sono decisioni grandi o piccole. Ci sono solo decisioni che prendiamo di fronte alla nostra morte inevitabile.”
Era il libro. Il libro non dormiva mai.
Si alzò lentamente, si tolse tutti i vestiti esattamente lì dove si trovava e andò ad infilarsi sotto la doccia. L’acqua gelata lo riconsegnò tonificato alla realtà contingente, come se avesse trascinato con se, giù per lo scarico, tutto il passato; quello remoto e quello più prossimo.
“Acqua passata non macina più”, recitava un proverbio delle sue origini e come tutti i proverbi era una combinazione ben calibrata di saggezza popolare e ovvia banalità.
Ma il getto d’acqua non riuscì a cancellare anche la voce, lei era rimasta, niente e nessuno sarebbe riuscito a spegnerla.
“Un buon cacciatore conosce soprattutto una cosa: conosce le abitudini della sua preda.”
Lo sapeva bene. Non c’era bisogno che arrivassero le parole di un libro, da un’altra vita, a ricordarglielo. Lo aveva imparato sul campo e sulla sua pelle. Lo portava addosso marchiato a fuoco. Tre anni con i monaci Shaolin in Tibet e due anni e mezzo con gli Yaqui di Sonora in Messico lo avevano forgiato nell’acciaio e reso invincibile. Aveva patito ogni sorta di privazione ed aveva imparato ad amarla. Aveva imparato la pazienza, l’attesa, l’azione chirurgica; aveva imparato a nutrirsi del suo stesso dolore e ad uscirne fortificato nel corpo e nello spirito. Aveva imparato a maneggiare le armi più improbabili e a respirare la nebbia dell’universo. Ne era uscito ciò che era adesso: un cacciatore. Il cacciatore.
“Per essere un cacciatore bisogna essere in perfetto equilibrio con ogni altra cosa, altrimenti cacciare diventerebbe un lavoro senza senso.”
Era stanco di ascoltare. Chiuse l’acqua ed uscì dalla doccia. Sapeva come fermare il libro, almeno per un po’. Si asciugò con maniacale accuratezza, indossò un paio di calzoncini, una maglia a maniche corte e si accomodò sulla sedia a dondolo faccia a faccia con L’Urlo.
“Ci siamo, a noi due.” Pensò
A poco a poco sentì il progressivo rilassamento delle membra, così spinse dolcemente indietro la sedia e si sedette sui talloni.
“Nello Zen non c’è meta, la via coincide con la metà” Mormorò a se stesso.
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Dormiamo in un tempio buddista a Koyasan 1/2
Prima parte del nostro viaggio a Koyasan, dove dormiremo in un tempio Buddista con i monaci del Kumagai-ji.
Dopo l’accoglienza in una magnifica stanza tradizionale con tatami, circondata da meravigliosi giardini giapponesi, andremo in giro per le strade piene di templi di Koyasan.
Visiteremo il Danjo Garan complex con i suoi magnifici templi e subito dopo il Kongobu-ji temple con il suo fantastico giardino zen di pietre.
La sera stanchi, tornati al tempio, i monaci ci faranno trovare una magnifica cena vegetariana
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È LA SOMMA CHE FA IL TOTALE
Puoi fare yoga ogni mattina, contorcerti in mille posizioni e salutare il sole con tutta la tua buona volontà, ma se poi passi il resto della giornata a rimuginare su ogni dettaglio della tua vita... beh, l'ansia ti farà visita lo stesso. E indovina un po'? Ti ammali.
Anche se mangi solo verdure biologiche, coltivate con amore da monaci tibetani su vette incontaminate, se dentro di te continui a pensare che nessuno ti capisce, che il mondo è contro di te... la solitudine ti mangia vivo. E ti ammali.
Puoi praticare mindfulness finché non diventi un tutt'uno con l'universo, respirare come un maestro zen e concentrarti sul "qui e ora", ma se non molli quei maledetti sensi di colpa che ti porti dietro come un bagaglio a mano, l'autosabotaggio farà il suo corso. E ti ammali.
Puoi seguire tutte le regole di vita sana che vuoi: dieta a base di quinoa, smoothie ai frutti esotici e jogging con playlist motivazionali. Ma se ogni giorno ti svegli con la paura di essere giudicato, con il perfezionismo che ti perseguita e l’ossessione del controllo, tutto quel cibo sano non ti salverà. Perché ti ammali.
Ricorda, è la somma che fa il totale.
Non basta fare stretching e mangiare semi di chia. Tu non sei solo un corpo che corre su un tapis roulant o che si siede in perfetta postura da meditazione. Sei anche mente, emozioni, spirito. E se trascuri una parte, le altre non possono compensare.
Impara a curarti a 360 gradi. Smettila di fingere che solo l'insalata possa salvarti se poi dentro di te c'è una guerra in corso.
L'equilibrio vero arriva solo quando ti prendi cura di tutto il pacchetto: corpo, mente e anima.
Altrimenti, preparati… perché, indovina? Ti ammali.
Luigi Silvestri
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La strada fangosa
Una volta Tanzan ed Ekido camminavano insieme per una strada fangosa. Pioveva ancora a dirotto. Dopo una curva, incontrarono una bella ragazza, in chimono e sciarpa di seta, che non poteva attraversare la strada. «Vieni, ragazza» disse subito Tanzan. Poi la prese in braccio e la portò oltre le pozzanghere. Ekido non disse nulla finché quella sera non ebbero raggiunto un tempio dove passare la notte. Allora non poté più trattenersi. «Noi monaci non avviciniamo le donne» disse a Tanzan «e meno che meno quelle giovani e carine. È pericoloso. Perché l’hai fatto?». «Io quella ragazza l’ho lasciata laggiù» disse Tanzan. «Tu la stai ancora portando con te?».
Da “101 storie zen”
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Liberati da Stress e Ansia con Questa Semplice Lezione Zen!
Con un mio commento
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Questa e' la mia migliore occasione - Soen Ozeki
Questa e’ la mia migliore occasione – Soen Ozeki
Poesie che – in qualche modo – abbiano attinenza con la meditazione. E’ da un po’ che non ne pubblico. Ma devo riprendere questa curiosa abitudine perché leggerle, oltre che aiutare a riflettere – e quindi in senso lato a meditare – può essere utile per intuire lo spirito della meditazione, ossia l’atteggiamento di fondo secondo cui ciascuno dovrebbe porsi, in modo diretto, immediato, senza…
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Buonasera Doc, ha qualche storia zen per una persona che non si è mai sentita così sola al mondo come stasera?
Quando il poeta Shigeo Kageyama giunse al cospetto dell’Eremita Jiraiya oramai aveva preso la decisione di fare seppuku, poiché troppo grande era la sua solitudine interiore e lui non più capace di coglierne la bellezza.
O saggio Eremita Jiraiya - disse inchinandosi - sono qua a domandarti il perché io non riesca più a descrivere la bellezza dell’Hanami e veda solo il cadere del petalo senza la speranza del rinnovamento. Cosa devo fare per ritrovare l’amore per lo Shodo?
L’eremita uscì dalla porta del tempio dove si era affacciato al richiamo disperato del poeta e dopo averlo osservato mentre si prostrava sul selciato dell’ingresso, volse il suo sguardo al cielo.
Il vento si sta alzando - disse pensieroso - e nubi nere si addensano all’orizzonte... Poeta, hai con te i tuoi Quattro Tesori? Vorrei che componessi un haiku.
Shigeo Kageyama alzò la testa stupito e onorato da questa richiesta e con gesti rituali depose pennello, inchiostro, pietra e carta davanti a sé - Sarà un grande onore per me, Maestro Jiraiya.
Mentre il poeta era immerso nel suo Shodo, il vento cominciò ad alzarsi e un rumore di tuono saettante a serpeggiare tra le nuvole scure.
Ecco, O Maestro, questo è l’haiku che ho avuto l’onore di comporre per te
Salice curvo Il mio cuore cede al pianto triste
e col capo chino gli porse il foglio sottile col lucido inchiostro ancora fresco.
In quel momento, la pioggia cominciò a battere forte sulle pietre lucidate dai passi di monaci ormai scomparsi e il poeta la vide colpire il foglio, senza che l’Eremita facesse alcun gesto di riporlo all’asciutto.
Dov’è la tua poesia adesso? - chiese il vecchio al poeta che, inorridito, osservava l’inchiostro colare dal foglio e diluirsi nella pozzanghera ai suoi piedi.
È... andata perduta, maestro?
La carta fissa le parole, le parole fissano il pensiero e il pensiero cerca di fissare ciò che l’anima intravede nella visione del Mondo - disse il vecchio e poi fece un gesto in direzione delle pozzanghere - Come quest’acqua presto verrà asciugata dal vento per essere portata a cadere in altri luoghi così la tua poesia non è nell’inchiostro che rimane sulla carta ma nella bellezza che si insinua nel cuore di chi la legge e che ne porta ad altri la gioia. Finché il tuo canto che credi inascoltato verra ripreso da altre bocche, tu non sarai mai solo al mondo.
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Mi auguro ti sia piaciuta e se proprio non meno solo, spero che perlomeno ti abbia fatto sentire ascoltato.
Lunghi giorni e piacevoli notti a te.
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A PROPOSITO DEL SILENZIO di Claude Anshin Thomas (monaco zen vietnamita) Durante i ritiri di meditazione, stiamo per lo più in silenzio. Il silenzio è una pratica preziosa ed è molto più che non parlare. Il silenzio riguarda lavorare con l'attività della mente, tutto il lavorio del pensiero a proposito di questo e di quello, il desiderio costante della mente di sfuggire a ciò che c'è. In silenzio, abbiamo spesso la grande opportunità di osservare come lavorano la nostra mente e le nostre emozioni e di scoprire la saggezza che collega tutte le cose. Alle persone spesso non piace il silenzio perché in silenzio restiamo con noi stessi. Non c'è scampo dai nostri pensieri, sentimenti e percezioni. Se siamo nuovi nella pratica della meditazione e non abbiamo trascorso molto tempo con noi stessi, a volte il silenzio può sembrare quasi insopportabile Ricordo ancora i miei primi giorni e le mie settimane nel primo monastero buddista dove ho studiato. Camminavo e mi trovai a passare vicino a uno dei monaci. Per un senso di gentilezza, volendo connettermi e per un senso di disagio, lo salutai con un "Buongiorno". I monaci semplicemente passarono, senza dire nulla e agendo, dal mio punto di vista in quel momento, come se non esistessi. Nessuna risposta. La mia reazione immediata fu quella di sentirmi offeso e di presumere che non gli piacessi. La mia mente ha attraversato così tanti cambiamenti dopo quell’evento fino a quando sono finalmente arrivato al punto di capire che non c’era più nulla di personale. In effetti, ho iniziato a percepire il silenzio come un grande sollievo. Mi sono sentito liberato dalle convenzioni sociali che spesso mi fanno sentire vuoto e non visto o ascoltato. Nel silenzio c'era un certo conforto riguardo agli altri che non avevo mai conosciuto prima. Praticare in silenzio in un gruppo ci invita a sperimentare un altro tipo di coscienza, un altro tipo di consapevolezza e nuovi modi di connetterci. C'è un approfondimento della consapevolezza e una grande opportunità per chiarire la mente. (da: facebook) 🌹 https://www.instagram.com/p/B-MZq6dquua/?igshid=1qmrdxyxh6msg
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Una vita lunga 101 anni - di cui una trentina vissuti in Estremo Oriente - più di 30 libri scritti, due secoli attraversati da protagonista, a partire dalla Belle Époque sino alle rivolte studentesche del 1968.
Questi sono solo alcuni dei "numeri" di una donna veramente straordinaria, la prima occidentale ad aver mai visitato nel 1924 Lhasa, capitale e città santa del Buddismo tibetano.
Alexandra David-Néel nacque nei dintorni di Parigi il 24 ottobre del 1868 da un francese ugonotto e socialista, e da una belga cattolica e monarchica, che per molti versi era l'opposto del marito.
Fin da bambina desiderò, come scrisse lei stessa, "andare oltre il cancello del giardino e partire per l'ignoto", immaginato come luogo dove potersi sedere da sola a meditare, senza nessuno accanto.
Proprio per questo, a 16 anni s'allontanò dalla casa di famiglia in Belgio, in tempi in cui le donne sole erano considerate pazze o prostitute, per raggiungere l'Olanda a piedi e di qui imbarcarsi per l'Inghilterra, poi l'Italia, la Francia e la Spagna, in un peregrinare incessante.
A Londra conobbe Mrs. Morgan che l'introdusse nel ristretto mondo della teosofia, corrente di pensiero per cui tutti gli esseri viventi appartengono a un'unica famiglia nella quale le varie religioni sono espressioni di una sola verità, che a lei - figlia di un protestante e una cattolica - si attagliava perfettamente.
In questo ambiente s'accostò per la prima volta al Buddismo Zen che la folgorò al punto da diventare la ragione di vita che la spinse, fra l'altro, a studiare le lingue orientali, a partire dal sanscrito sino al tibetano.
A 21 anni partì per la prima volta per l'India, con l'intento di approfondire i suoi studi.
Tornata in Europa senza un soldo, si sforzò per un po' di vivere "all'occidentale" scontrandosi però quotidianamente con i limiti - per lei intollerabili - imposti al suo genere dalle convenzioni del tempo, tanto da risolversi ad accettare un impiego da cantante lirica presso l'Opéra di Hanoi al solo scopo di tornare in Estremo Oriente.
In Vietnam rimase dal 1895 al 1897, anno in cui rientrò in Francia per imbattersi nell'ingegner Philip Néel, che sposò senza alcun trasporto nel 1904 perché lui, a lei, garantiva una certa solidità economica; lei invece, a lui, il prestigio sociale derivante dal matrimonio con una donna che s'era già costruita un nome coi suoi primi scritti.
La repulsione di Alexandra per il sesso e tutto ciò che fosse maschile, causata anche dall'ipocrisia di una società dove gli uomini si sposavano per generare figli, ma trovavano il piacere fuori dal vincolo coniugale, l'indusse subito a trascorrere pochissimo tempo accanto al marito, che tuttavia nutrì sempre nei suoi confronti un affetto sincero.
L'Ing. Néel, comprendendo il disagio psicologico della moglie, accettò la sua proposta d'intraprendere "un lungo viaggio" da sola in Oriente, lasciandola partire nel 1911 senza però immaginare che non l'avrebbe più rivista per ben 14 anni.
L'India e il misteriosissimo Sikkim (piccolo stato himalayano) furono le prime tappe del suo viaggio. Proprio a Gangtok conobbe il locale Maharajah, il Dalai Lama e il "Gomchen" ("il grande meditatore") del monastero di Lachen, di cui divenne discepola seguendone gli insegnamenti per oltre due anni, durante i quali il suo fisico si trasformò, rifiorendo.
Sempre in Sikkim fece conoscenza con un ragazzetto quattordicenne, Aphur Yongden, per il quale provò un legame spirituale immediato tanto da adottarlo come figlio e tenerselo accanto per oltre quarant'anni, sino alla sua morte prematura.
Ormai espertissima di Buddismo Zen, con lui viaggio in Giappone, Corea, Cina e Mongolia, dove soggiornò a lungo presso il monastero di Kumbum di cui, in uno dei suoi libri, descrisse incantata la straordinaria processione mattutina di circa 3.800 monaci buddisti diretti alla sala delle meditazioni.
Viaggiando a piedi o, quando andava bene, a dorso d'asino o di yak, nel 1923 raggiunse in incognito e travestita da uomo, sempre col fedele Yongden, la mitica città tibetana di Lhasa, interdetta alle donne, dove s'intrattenne a lungo venendo però alla fine scoperta e cacciata a causa dell'unico "vizio" occidentale rimastole: quello di farsi un bagno caldo quotidiano nella vasca portatile che aveva con sé.
Rientrata in Francia nel 1925, si separò dal marito col quale però avrebbe sempre mantenuto rapporti cordiali, per stabilirsi con Yongden in Provenza, a Digne-les-Bains, in una villa chiamata "Samten-Dzong ("Fortezza della meditazione") dove si dedicò alla scrittura dei suoi numerosi libri, fra cui il famoso "Viaggio di una parigina a Lhasa", nel contempo ricevendo visitatori da tutto il mondo, sempre intrattenuti con le sue riflessioni, e non mancando di ripartire di tanto in tanto per l'amato Oriente.
Poco prima di spirare l'8 settembre del 1969, quasi cento-unenne, volle rinnovare il passaporto con l'idea d'intraprendere un ultimo viaggio che, invece, avrebbero fatto le ceneri sue e di Yongden nel 1973, per essere disperse nelle sacre acque del Gange, a Benares, come lei desiderava tanto.
Accompagna questo testo una foto di Alexandra David-Néel in compagnia del fido Aphur Yongden
(Testo di Anselmo Pagani)
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"A Napoli si racconta un’antica storia, addirittura pare presa in prestito anche dai monaci Zen che dice: “se il saggio, sempre che sia un saggio napoletano, indica la tazzina di caffè che ha preparato, lo sciocco guarda il caffè”. Perché “sciocco” vi chiederete subito voi. Ma perché non dovrebbe guardare il caffè, ma il dito, e poi continuare a vedere sin dove sale e dove porta. E la risposta è solo una. Porta ad un napoletano. Ed eccolo il vero segreto del perché il caffè napoletano è il più buono di tutti. E’ il napoletano. Colui il quale lo prepara come se fosse un rito, colui il quale lo gusta poi con passione, e ne fa una filosofia anche soltanto del sorseggio. A Napoli e per il napoletano il caffè è un rito antropologico, un rito sociale, la scusa per una chiacchierata, per una confidenza e sinanche per condire una battuta. Ecco perché qui il caffè è più buono. Non è una semplice bevanda. E’ tutto questo". ° #home #coffee #naples #neapolitan #italy #italian #breakfast #morning #morningroutine #traditions #quotes #caffé #shades #today #vibes #days #light #cute #picoftheday #photography #instagood #instafeed #myfeed #vsco #march #chiasfeed #cozymorning (at Campania) https://www.instagram.com/p/B9lttgIKdba/?igshid=1krfo9thkfb0x
#home#coffee#naples#neapolitan#italy#italian#breakfast#morning#morningroutine#traditions#quotes#caffé#shades#today#vibes#days#light#cute#picoftheday#photography#instagood#instafeed#myfeed#vsco#march#chiasfeed#cozymorning
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Qualunque monaco girovago può fermarsi in un tempio Zen, a patto che sostenga coi preti del posto una discussione sul Buddhismo e ne esca vittorioso. Se invece perde, deve andarsene via.
In un tempio nelle regioni settentrionali del Giappone vivevano due confratelli monaci. Il più anziano era istruito, ma il più giovane era sciocco e aveva un occhio solo.
Arrivò un monaco girovago e chiese alloggio, invitandoli secondo la norma a un dibattito sulla sublime dottrina. Il fratello più anziano, che quel giorno era affaticato dal molto studio, disse al più giovane di sostituirlo. «Vai tu e chiedigli il dialogo muto» lo ammonì.
Così il monaco giovane e il forestiero andarono a sedersi nel tempio.
Poco dopo il viaggiatore venne a cercare il fratello più anziano e gli disse: «Il tuo giovane fratello è un tipo straordinario. Mi ha battuto».
«Riferiscimi il vostro dialogo» disse il più anziano.
«Be’,» spiegò il viaggiatore «per prima cosa io ho alzato un dito, che rappresentava Buddha, l’Illuminato. E lui ha alzato due dita, per dire Buddha e il suo insegnamento. Io ho alzato tre dita per rappresentare Buddha, il suo insegnamento e i suoi seguaci, che vivono la vita armoniosa. Allora lui mi ha scosso il pugno chiuso davanti alla faccia, per mostrarmi che tutti e tre derivano da una sola realizzazione. Sicché ha vinto e io non ho nessun diritto di fermarmi». E detto questo, il girovago se ne andò. «Dov’è quel tale?» domandò il più giovane, correndo dal fratello più anziano.
«Ho saputo che hai vinto il dibattito».
«Io non ho vinto un bel niente. Voglio picchiare quell’individuo».
«Raccontami la vostra discussione» lo pregò il più anziano.
«Accidenti, non appena mi ha visto lui ha alzato un dito, insultandomi con l’allusione che ho un occhio solo. Dal momento che era un forestiero, ho pensato che dovevo essere cortese con lui e ho alzato due dita, congratulandomi che avesse due occhi. Poi quel miserabile villano ha alzato tre dita per dire che tra tutti e due avevamo soltanto tre occhi. Allora ho perso la tramontana e sono balzato in piedi per dargli un pugno, ma lui è scappato via e così è finita». - Nyogen Senzaki
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M'è tornata la voglia, ma questa volta senza mestizie e frustrazioni, una cosa allegra che mi tiene compagnia. E poi dicono che fa bene alla prostata, abbiamo l'approvazione della scienza. La noluntas, il non volere, il non bruciare più nelle fiamme della passione, la conserviamo per l'età della dentiera o per quando ci faremo monaci, rigorosamente zen. Intendo la voglia di scrivere.
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I PRINCIPI DEL BUDO
a cura di Monaco Guerriero Sono qui elencati i 5 Spiriti ovvero i Principi del Budo (La Via Marziale) giapponese, da cui poi si formò il Codice Marziale dei Samurai, i famosi Monaci-Guerrieri del Giappone.MUSHIN:Stato in cui la mente è libera da ogni pensiero. Il principio fondamentale dello Zen che punta al vuoto della mente che da forma al tutto.ZANSHIN:Stato in cui la mente è pienamente…
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