#mi innervosisce da morire
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Amo mia madre ma il fatto che sia tragica su ogni cosa e trovi sempre modo per fare casini senza senso mi innervosisce da morire
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Mi passa sempre per la testa una domanda.. perché la gente si stupisce delle tue capacità. Non è sempre un male almeno per chi non ti conosce. Ma per tutte quelle persone che ti conoscono da anni ormai.. e si stupiscono del fatto che tu possa avere delle capacità.. che possono essere la qualunque (cucinare un buon dolce, non far morire una pianta, intraprendere un dialogo profondo). Mi chiedo sempre se le persone accanto a me davvero mi conoscano davvero, oppure si sono fatti un idea intrinseca nella loro mente su come potrei essere. Chi ti conosce da anni non è pronto a vederti sviluppare o crescere. Chi ti conosce da quando sei nato.. ti da un pregiudizio qualsiasi cosa tu faccia. E lo stupore che hanno vedendo che hai sviluppato delle doti, è la cosa che più mi manda fuori di testa, mi innervosisce. Mi fa dire.. ma davvero pensavi che io non riuscissi a farlo..? Ma quanto credi in me..? Ma che persona pensi io sia..?
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Mentre parlavo con mia madre (che ha tendenze transfobiche) del fatto che anche un bambino di otto anni può sperimentare disforia di genere, la sua risposta è stata che i bambini a quell'età pensano solo a giocare.
Trovo molto interessante (o dovrei forse dire sconsolante) come ci sia sempre questa dialettica del "proteggiamo i bambini" e poi i bambini non vengano trattati e considerati come esseri umani e quindi in quanto tali come in grado di provare dolore, tristezza, confusione, sofferenza e tutta quella gamma di emozioni che vengono considerate negative e quindi non proprie degli spensierati bambini che in quanto tali possono solo provare gioia, felicità et similia.
#che nervosismo#io già a dieci anni pensavo alla morte#questa cosa dei bambini che vengono trattati come degli incapaci#e che non possono provare vero dolore o sofferenza#mi innervosisce da morire#argh
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Ricaduta.
Ogni tanto le vecchie ferite si riaprono. Ed oggi è di nuovo uno di quei giorni. Uno di quei giorni come lo scorso anno dove tutto sembra pesare sull'anima. Mi da fastidio pensare, ascoltare, il sole non mi riscalda, mi innervosisce anzi, sento ogni piccola parte del mio sistema nervoso caricarsi di elettricità. Un mix di ansia, fastidio, rabbia, delusione ed a tratti apatia che appesantisce il corpo e la mente spezzando il fiato. Si, oggi è proprio come un anno fa, quando il lexotan non fa più neanche effetto e l'unica cosa positiva è che sembra un bel giorno per morire.
#vita#scrivere#scrittori on tumblr#quello che ho in testa#pezzi di vita#vivere#sfogo#sono io#cose dal mio quaderno#depressa#un vuoto enorme#senso di vuoto#rabbia#ansia#apatia#delusione#fastidio#ricaduta#sentimenti#depression
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Capitolo VII
Un’altra ragione per cui Sami mi innervosisce è che si sveglia sempre presto.
Niente di male se ci si fermasse a questo. Mi andrebbe bene se fosse semplicemente un po’ mattiniero e volesse indossare un accappatoio di lana solo per farsi l’accoppiata caffelatte-sigaretta mentre guarda l’alba dalla finestra con aria drammatica.
Lui no. Lui deve svegliarti. Lui deve rispondere al telefono, fare note vocali chilometriche su argomenti di cui non frega un cazzo ad anima viva.
In parte penso faccia apposta a svegliarmi, non vedo altra ragione per cui non potrebbe rimandare questa sessione di teleconferenze a più tardi, o almeno abbassare la voce.
Quindi rieccoci, alle sette di mattina: io e Sami nella mia mansarda, lui col telefono sospeso per aria e il pollice premuto sull’icona del microfono di Whatsapp. Mi ha già fatto svegliare col piede storto.
Se le altre volte riuscivo a rimanere almeno in dormiveglia, questa volta le sue lunghe mani scheletriche cominciano a scuotermi.
“Ti ho trovato qualcosa da fare.”
Alzo gli occhi e afferro il cuscino sotto la mia testa per soffocarmi.
Sami me lo toglie violentemente, mi tira uno schiaffo sulla coscia e mi punta lo schermo del suo cellulare in faccia. E’ un annuncio di lavoro.
“Cercano dei pony pizza qua in fondo alla via.”
“Cosa? Davvero?”
“Sembrano pagare anche abbastanza bene, ti dirò...”
“E perché dovrebbero prenderci? Ho zero esperienza, mi va già bene che ho la patente.”
Sami assume una smorfia confusa, prima di alzarsi dal letto di colpo.
“Prenderci? No, no, io non lo faccio.”
Rimango in silenzio, non ho neanche voglia di chiedergli perché non voglia trovare un altro lavoro che non abbia a che fare con la macelleria.
“Quindi… perché dovrebbero prendermi, allora?”
“Vincenzo. Questa pizzeria è una mini-catena in cui lavora un suo amico. Ti faccio mettere buona parola e sei dentro di sicuro.”
Nel momento in cui nella mia testa appare il suo volto, si attiva anche una roulette con tutte le ragioni per cui averci a che fare potrebbe portare a conseguenze negative.
“Non voglio farmi aiutare da Vincenzo. Faccio da solo che è meglio.”
Poi, a Cordello, chi vuoi che sgomiti per consegnare delle pizze, alla fine? Gli manca personale. Probabilmente sarebbero in grado di prendere pure un maiale per potersi mettere l’animo in pace.
Sbuffo.
Non lo so.
“Oh, provaci. Non ti costa niente. Non hai un cazzo da fare comunque.”
Faccio spallucce, prima di stiracchiarmi e controllare il telefono.
Mi si ferma il cuore appena leggo una notifica su Whatsapp da Giuditta, ma cerco di non sembrare sorpreso quando noto che Sami mi sta fissando.
Si avvia verso la mia scrivania, dandomi le spalle e lasciando cadere l’accappatoio.
Le sue curve delicate e scoperte creano una silhouette timida, dove nulla è troppo piccolo o troppo grande. Fisicamente, lui è l’equilibrio.
Osserva un libro di astronomia, di fianco ad alcuni miei vecchi appunti di letteratura inglese.
“Qual è il tuo pianeta preferito?” mi chiede.
E’ di buon umore. Di solito non vuole mai sapere cosa mi piace.
“Giove” gli rispondo immediatamente, senza quasi prendere il fiato: “è un pianeta enorme. Se ci andassi moriresti in un secondo perché verresti risucchiato verso il centro e saresti schiacciato dall’atmosfera.”
Lui assume una smorfia inquietata e, girandosi a mezzo busto, mi dice semplicemente: “Divertente.”
“Sono serio!” insisto, balzando a gambe incrociate e svegliandomi d’improvviso: “poi, una cosa che piacerebbe anche a te, è che a volte piovono diamanti. Come su Saturno. Piovono dei cazzo di diamanti liquidi, capisci?”
Comincio a ridere, al punto che ci metto qualche secondo prima di accorgermi che Sami non sta dicendo niente da oltre un minuto, si limita a sorridere senza neanche mostrare i denti.
Evento più unico che raro, uno di quelli che mi segnerei sul calendario se ce l’avessi sottomano.
“Che c’è?”
Lui fa spallucce, continuando a guardarmi.
“Sei bello quando sei preso da qualcosa.”
Arrossisco, inclino la testa di colpo, come se mi avesse spezzato il collo.
Forse rendendosi conto della mielosità del momento, Sami afferra i suoi pantaloni.
Mentre estrae un accendino e due Camel dal suo pacchetto di sigarette, cambia discorso: “Ma se questo pianeta andasse a puttane, dove potremmo andare nella Galassia?”
“Principalmente Marte, è piccolo e freddo ma ci sta. O almeno non moriresti in un secondo.”
“Sembra annoiarti Marte.”
“Lo fa. Cioè, su Giove piovono diamanti, Marte è soltanto una Terra un po’ difettosa che usiamo come boa di salvataggio nel caso la Terra fosse invivibile.”
Lui sghignazza, negando con la testa come per darmi del deficiente. Si avvicina, grattandosi l’interno coscia destro.
Si rimette a letto, davanti a me. Anche lui a gambe incrociate.
Mi imbocca la sigaretta.
Rimaniamo in silenzio per i primi tiri, guardandoci a vicenda negli occhi come due bambini curiosi, poi mi alzo per aprire la finestrella della mia veranda.
“Sai cosa? Io da quando sono piccolo sono triste perché nella nostra vita probabilmente non potremo mai raggiungere un pianeta più lontano di Marte” gli confesso, come se non riuscissi a smetterla di vomitare ogni mio parere sull’astronomia.
“Eh, ma anche te non ti accontenti mai.”
“Sami, ci sono metodi che potremmo usare in situazioni disastrose per preservare la vita umana. Non è che ci speri, eh, però…”
Rimaniamo in silenzio.
“Lo hanno chiesto in una lezione di Etica e Morale, una volta” continua lui, abbassando lo sguardo: “nel caso avessi la possibilità di andare su un pianeta completamente nuovo, sapendo che sopravvivrai e sarai uno dei capostipiti della nuova umanità… abbandoneresti la Terra o rimarresti?”
“Andrei immediatamente” gli rispondo, senza pensarci due volte.
I suoi occhi sembrano spegnersi, la cittadina all’interno della sue iride ha un blackout.
“Tu no?” gli chiedo, non capendo la sua reazione.
“Assolutamente no. Ho… ho tutto qui, io sono abitante della Terra e mi va bene così. Un trasferimento su un altro pianeta non lo farei, anche se fosse l’Eden. Sono fedele al mio, di pianeta.”
Posso capire, Sami alla fine se la vive bene.
“E no, non è perché c’ho i soldi, Christian. E’ perché sono fedele e mantengo l’orgoglio di morire per gli errori dell’umanità piuttosto che andare altrove e distruggere un altro ecosistema.”
Sembra davvero arrabbiato, ma come sempre quando si parla di qualcosa deve girare la discussione su di lui, quindi interpretare il ruolo dell’eroe dell’umanità è sicuramente una performance credibile. Per quanto di dubbia genuinità.
Il pensiero di Giuditta mi viene in mente. Lei, stupenda, che sta leggendo un manuale di fisica e si sistema gli occhiali, scomodi su quel naso da topo.
Finisco la stizza e butto il mozzicone fuori dalla finestra. Con una scusa, scappo in bagno.
Apro il rubinetto come escamotage, e passo alla notifica di Whatsapp con una velocità impressionante.
Mi cade l’occhio sugli ultimi messaggi che ci siamo inviati, e si vede che sono io a forzare un po’ le conversazioni.
Non so bene perché, a volte mi sembra che parlare a Giuditta sia quello sbaglio per cui pagherò delle conseguenze enormi. Nonostante sia ancora in tempo per salvarmi, continuo imperterrito la mia strada. In fondo, non seguiamo sempre l’istinto, perché non ha sempre ragione. Altrimenti saremmo tutti vincitori della lotteria, penso.
Giuditta
10.15
“Scusami veramente.
Con questi telefoni sono sempre stata una merda.”
10.47
“Tranquilla.”
10.48
“Posso farti una domanda?”
Giuditta
10.50
“Odio chi me lo chiede. Fammi la domanda e basta.”
10.52
“Le nostre conversazioni fanno schifo perché ci siamo baciati?”
Non so se l’aver parlato così convinto di astronomia mi ha dato quello sprint per estrarre la criniera da leone e affrontare il problema di faccia, fatto sta che sto tremando e sudando freddo.
Il suo ‘sta scrivendo…’ mi sta mettendo un’ansia assurda, sento le orecchie pulsare. Se non fosse per l’acqua del rubinetto probabilmente mi si sentirebbe ansimare per tutta Cordello.
Nel momento in cui Sami bussa prepotentemente alla porta, il telefono mi scivola dalle mani e cade nel lavandino.
“Cazzo, cazzo, cazzo” bisbiglio tra me e me, riafferrandolo e spegnendo l’acqua.
Prendo un asciugamano lì vicino e comincio a pulire il cellulare, con lo stress e il panico di una persona che sta cercando di fare una rianimazione cardiopolmonare a qualcuno per la prima volta.
“Sbrigati che devo pisciare. Sei dentro da un’ora.”
Tiro lo sciacquone ed esco in velocità, ridendo nervosamente.
Il telefono sembra andare ancora. Sospiro, mentre Sami mi chiude fuori dal bagno.
Giuditta
11.01
“A me è piaciuto, in realtà.”
Mi sento le guance incandescenti, e mi lancio sul letto come un felino che attacca una preda.
11.01
“Anche a me, un sacco.
Rimpiango di non aver accettato l’invito e di
essermene andato via da casa tua dopo la festa.”
Mentre Giuditta sta scrivendo la risposta, non riesco a non immaginarmela lì, ad addentare un cornetto alla crema con le sue mani bianche, sempre sporche di inchiostro ai lati. Mi scrive con una mano sola. La sua concentrazione visiva alterna il focus tra la tastiera e lo smalto rovinato sulle sue unghie, che le ricorda sempre che deve andare dall’estetista uno di questi giorni.
Anche ora che mi scrive è circondata da libri di astronomia, mancano ancora due mesi alla prima sessione di esami, ma a lei non basta passarli. Deve stupire, impressionare.
Giuditta è nata per questo e sa sfruttare il suo dono in una maniera folgorante.
Giuditta
11.03
“Tranquillo, con Sami di mezzo è stato meglio così.”
11.05
“Lo pensi davvero?”
… perché io no. Rimarrò sempre col dubbio di cosa sarebbe successo se avessi dormito da lei.
Avrei allungato la magia del momento, l’avrei vista sciogliersi i capelli, toccarsi il pizzo del reggiseno e assassinarmi con quegli sguardi che sembrano dire “mangiami”.
Due mani fredde e bagnate mi circondano il petto in una morsa delicata, e gemo.
“Dio mio, da quando ti basta così poco?” chiede Sami, divertito.
Ce l’ho in tiro, e nella confusione, mi giro e butto il ragazzo sul materasso del letto.
Mi metto sopra di lui.
Ho un alito spiacevole di mattina, quindi evito sempre di baciarlo o parlargli a due centimetri dal naso. Le mani, però, quelle funzionano sempre bene.
Non voglio sapere cosa pensa Giuditta del nostro bacio, o di cosa avrei potuto fare quella sera. Non ci voglio pensare.
Sto con Sami. Voglio Sami.
Gli comincio a mordere il collo, mentre lui comincia ad ansimare.
Continuo a segarlo, a macchinetta, e mi infilo una mano nelle mie mutande. Sento la vena del mio pisello caldissima, sta pulsando come un cuore, e sento la vita.
Mi viene da urlare, perché ho le gambe sbagliate in testa, vedo una chioma mora invece che dei ricci biondi.
Comincio a spingermi col bacino in mezzo alle sue gambe, in un movimento che ricorda una creatura marina subacquea.
Continuo a segarci entrambi, finché lui non viene sulla sua stessa pancia qualche minuto dopo.
Io, dopo una debole lotta, mi arrendo. Lascio che le gambe di Giuditta mi circondino il collo e stringano forte, come due tentacoli di un polipo affamato.
Nel momento in cui vedo il mio sperma schizzare su Sami, capisco. Mi tiene la mano, mi guarda con aria sognante, e capisco tutto. Sto tessendo una trama vergognosa, e uno tra me, Sami e Giuditta, prima o poi, cadrà vittima degli altri due.
Sondaggio: 07.09.2019, 11.25 AM
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Cronache romane
(premessa: mi sono divertita un sacco, i momenti belli superano quelli di nervoso, al punto che io sarei rimasta là attaccata alla porta della stanza e non sarei tornata più a casa. Ad ogni modo voglio comunque fare una riflessione/sfogo su ciò che invece mi ha fatto innervosire.)
Ho organizzato questi tre giorni nella capitale per rompere con la routine, cambiare aria e stare in mezzo a persone che non mi conoscevano. (molto carini e ospitali i romani, tra l'altro)
Ho trascinato con me mia cugina, la quale è una delle poche che fondamentalmente mi asseconda in ogni mia proposta. Rispetto ad altre persone lei si organizza più facilmente. (con altre pare quasi che devi fare domanda al ministero, anche solo per un caffè giù al palazzo). Dunque pensavo fosse la compagnia più adatta e, in linea di massima è stato anche così, perché ho praticamente deciso io dove andare, cosa fare e come muoverci. Lei si è praticamente affidata a me, come se fossi sua madre. Un po' perché sa che, anche in situazioni di scompiglio, so essere abbastanza pratica, un po' perché mi sono resa conto nell'arco dei tre giorni che in realtà non sapeva un cazzo di dove stavamo andando, di cosa avremmo visto. (Esempio eclatante: Piazza Venezia. Siamo davanti all'Altare della Patria, lei dopo aver fatto le foto si gira e mi chiede: Da', ma questo che è? E io le rispondo, facendole notare che ogni anno il presidente è lì in occasione della festa della Repubblica e lei apre internet e va a verificare. Ma cazzo verifichi? Uno: dovevi già saperlo. Due: metti pure in dubbio quello che ti dico.)
Dunque lei era tranquilla e accettava ogni proposta da parte mia perché, come ho detto, non sapeva nemmeno di cosa stessi parlando... ma, perché c'è sempre un ma, trovava comunque qualcosa da dire. Ovviamente. Perché sennò che gusto c'è?
Il primo giorno tra le altre cose arriviamo a Fontana di Trevi. Io faccio varie foto e una la posto nelle storie con un riferimento a Mastroianni. E lei? Che dice? 'Uaaaa, bello mo ti copio'.
Allor. Io non ho il dominio e il copyright su 'ste cose. Però quanto mi urta quando fanno ciò che faccio io, senza nemmeno sapere perché, senza nemmeno avere la minima idea. E vabè. Stai zitta. Tanto è una stronzata. Dai, Dani che sarà mai? Lascia perdere. In fondo ti stai divertendo e dopo ne riderai comunque.
"Mi fai na foto davanti alla fontana?" (ero pronta già a questo rischio, quindi accetto e non dico nulla.) Da una foto siamo passate a SESSANTUNO foto davanti alla fontana. Non le piaceva nemmeno una. Tra l'altro anche io le avevo chiesto di farmene un paio e mi ha fatto venire l'ombra in faccia, vabè. Non fa niente. Lasciamo stare. Non importa. Ci stiamo divertendo, non mi pare il caso di fare scenate del genere. (Pt. 2 o 3)
Passiamo a Piazza di Spagna, altre dieci/quindici foto a lei, tre a me.
"Oh, ascolta adesso andiamo a prendere la metro per andare al Roseto."
Ora ho letto su Google Maps, ma credo che anche se avessi chiesto a chiunque del posto mi avrebbe risposto così. Per arrivare al Roseto Comunale si deve scendere alla fermata del Circo Massimo. Noi però eravamo a Piazza di Spagna, quindi come si fa? Erano due linee di metro differenti. Quindi da là arriviamo a Termini e lei fa: ma il circo massimo non sta qua.
Eh grazie al cazzo, amò! Le spiego che dobbiamo prendere l'altra linea e scendere da n'altra parte e mi fa una scenata, con uno di quegli scatti che giuro l'avrei lasciata là e me ne sarei andata. Avrei voluto dirle anche 'se sei così brava perché non ti sei informata tu? Perché non metti tu le indicazioni e lasci che io segua te?'
Al che, forse si capiva che mi fossi incazzata, le dico faccio capire che se il problema sono l'euro e cinquanta della corsa, gliel'avrei pagata io. Lei mi dice di no, che dovevo solo stare più attenta. (mamma sei tu?) Che poi la voglia di replicare nemmeno c'era, visto quanto fossi stanca. Alla fine si è calmata perché nel roseto ha potuto fare cinquemila foto e le è piaciuto. (Qua mi ha fatto belle foto, quindi perdonata, anche se non dimentico).
La sera per andare a mangiare più di una persona ci dice che la cosa migliore da fare è andare a I Monti, perché là si mangia bene. Dunque dopo una doccia ci dirigiamo là. Dopo 22.000 passi lei ha la brillante idea di mettere le scarpe con la punta e il tacco e si lamenta per il dolore ai piedi, quindi finiamo in una trattoria di merda e super turistica in cui la cena era 'na schifezza, ma vabè là non voglio darle la colpa perché in effetti si era fatto tardi, molti erano chiusi e quindi pace. Anzi, alla fine ne abbiamo riso entrambe una volta in stanza.
Il secondo giorno prendiamo Uber e andiamo alla Galleria Borghese. Io che le parlo estasiata, innamorata di tutto quello che vedo e lei che a malapena mi ascolta. A na certa quindi mi zittisco e mi tengo i miei pensieri per me. Davanti al Ratto di Proserpina ci è mancato poco che mi sentissi come Standhal. Ad un certo punto mi viene a chiedere cosa significasse "Ratto". E niente, io ero galvanizzata perché mi piace quando mi vengono a chiedere le cose, mi fa sentire degna di stima e intelligente. Anche là, dopo la domanda non si è soffermata sulla risposta. Ha fatto un cenno e stop. Senza entusiasmo. E un po' mi ha intristito sta cosa.
Il pomeriggio, dopo altre ventimila foto (pare sia venuta per aggiornare il profilo IG. Anche io ho fatto tante foto, ma non campo in funzione del social) a Villa Borghese e una carbonara che mi ha fatto commuovere tanto era buona, comincia a piovere. Ma niente di serio, per me potevamo continuare a fare un giro, magari non per strada ma in qualche luogo al chiuso. Roma è piena di roba da vedere, qualcosa avremmo trovato. No, lei va in panico con la pioggia, quindi torniamo. Io ero nervosissima. Odio la pioggia, odio essere chiusa dentro (dopo un anno e mezzo, non mi va di stare in quarantena anche a Roma) e divento malinconica. Fortunatamente grazie ad un aiuto esterno che mi fornisce info su dove andare (ancora grazie se mi leggi), le dico con tono che non ammette repliche che saremmo uscite a mangiare fuori. Lei accetta ma comunque, a suo modo me la fa pagare. Arriviamo al punto e guarda il menù con una faccia che nemmeno so come interpretare. "Non ho fame, non so che prendere". Alla fine scegliamo con calma, parliamo un po' e pare che mi abbia perdonata per averle cambiato i piani. (Come ho detto, quando poi vede che la porto in bei posti si tranquillizza, ma prima mi deve far sentire un attimo in colpa).
Tornate in stanza vuole dormire con le finestre chiuse. Minchia, oh! Ma fa più caldo a Roma che a Napoli, cosa vuoi chiudere sta cazzo di finestra. (Ho vinto io alla fine).
Il terzo giorno le ho fatto vedere delle chiese dopo colazione. (io dico 'le ho fatto vedere' , perché lei aveva già visto tutto quello che pensava di voler vedere). Passiamo per Via Merulana, che poi era la strada con cui si incrociava Via Mecenate, che era dove stavamo noi, e avevo intenzione di condividere con lei le mie conoscenze letterarie. Provo a parlare due volte, lei sta con whatsapp e allora mi sto zitta di nuovo. Qua mi ha fatto arrabbiare veramente. (nei giorni precedenti erano solo scatti momentanei, a cui sono abituata poiché lei è così da sempre, quindi si stemperava e si stava bene). Uno può accorgersi immediatamente quando sono arrabbiata o intristita. Perché comincio a non parlare.
Ero arrabbiata perché ci siamo rallentate in quanto doveva mettere il post su Instagram, mentre io volevo andare a vedere l'Estasi di Santa Teresa. Su ste cose sono come i bambini. Ci avevo messo il pensiero e ci tenevo a vederla, quindi quando mi è stata chiusa la porta in faccia alle 12.00 in punto, mi sono incazzata un sacco. Ma che le potevo dire? Ormai era tardi. Le dico che sono rimasta male, che avrei voluto vedere l'opera, ma lei se ne sbatte il cazzo e mi dice "Eeeeeh che dobbiamo fare, torniamo ora". Torniamo. Le propongo il Mercato dell'esquilino. Arriviamo ed entriamo. Si innervosisce e mi fa uscire esattamente cinque minuti dopo. Che schizzinosa. Non le piaceva. Boh.
Torniamo indietro e prendiamo da mangiare. "Oh andiamo a mangiare a Parco del Colle Oppio?" Accetto perché in effetti piaceva anche a me come idea. Volevo mangiare all'ombra, su una panchina e lei no. Mi ha fatta mettere al sole, a morire di caldo, perché si doveva fare la foto mentre mangiava con Il Colosseo dietro.
Ma dico io si può vivere in funzione dei post su Instagram? Anche io pubblico eh. Anche io a volte dico 'oh questa cosa è proprio instagrammabile', però che cazzo manco ad essere così fissata, eh.
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IX - I tuoi particolari
Ho la febbre da quattro giorni e non so come farò a sopravviverle, visto che non posso farmi curare da mia madre. Per adesso resisto. Sudo tantissimo e mi bruciano da morire gli occhi, ma resisto. Tutti i chili presi in questi mesi, ne sono certa, li ho persi in questi pochi giorni di influenza e rimanere stesa a letto di venerdì sera non mi fa bene.
Non mi fa bene combattere col termometro e pensarti, anche se faccio fatica a recuperare un vero ricordo da usare per cullarmi in questo genere di stronzate. Parliamo poco e sempre di cazzate ed è strano pensare che per un momento ho creduto che avremmo parlato di troppe cose. Forse ci hai creduto pure tu, questo non posso saperlo. Il punto è che è difficile parlare di qualcuno senza veramente parlare con qualcuno, soprattutto se penso a tutte le volte che mi sono ritrovata in conversazioni di circostanza a parlare di terzi altrettanto di circostanza. È comico constatare come si dicano sempre le stesse cose. Ancora più comico è pensare di starsene a letto, quasi tentata di aprire quella chat whatsapp e scrivere una cazzata qualunque. La febbre, quando la tua temperatura corporea non ti permette di capire neanche dove tu sia, sembra un’ottima scusa per un sacco di cose. Me ne sto qui a pensare a mille modi per umiliarmi di nuovo e realizzo che non ho conversazioni da rivangare con te se non una, di sicuro l’unica ed irripetibile. Ho peró una serie di aneddoti ridicoli. Quel vizio di tamburellare sulla gamba con l’indice o con l’anulare, per esempio. L’indice quando sei concentrato, anulare quando sei nervoso. Quelle volte che giri il polso in maniera compulsiva, roba che mi fa venir voglia di alzarmi e inchiodarti sul posto per rimettere un po’ di ordine. Quando ridi lo fai in quattro modi diversi: il primo prevede faccia nascosta da qualche parte e spalle che sussultano quasi in silenzio, il secondo è più rumoroso ma paradossalmente meno scomposto ed esprime imbarazzo, il terzo è per quel divertimento naturale che si vede sulla faccia di tanti Signor Qualunque in Posti Qualunque e il quarto è per quando sei incredulo per qualcosa che un po’ ti innervosisce. Non credo di averti mai ancora visto felice. Quel vizio che hai di guardarti attorno sempre quando sei distratto in netto contrasto con il cipiglio serio che hai quando invece sei concentrato su qualcosa. Quella ruga verso il basso quando ti cambia l’umore. L’espressione sottile di quando vuoi fare lo sbruffone, Dio, che cosa assurda constatare quanto sia vera. Che strano pensare che sei davvero così, ma che contemporaneamente tu sia altro. E sono cose che non saprò mai per davvero. Il brutto dei piccoli particolari é che sono ricostruzioni, sapete? Crei veri e propri personaggi. Forse dovrei darti un altro nome ed un’altra vita su carta, ho pensato nel mio letto. Così l’ho fatto. E non sei più tu, è un’altra persona che ho creato da sola. Forse un giorno te la presenterò, se non mi scoccio prima. Se ci parleremo ancora fra qualche anno, magari. Se mi chiederai di dirti la verità e di illustrarti come volevo che andasse. Ho messo in fila i tuoi vizi in una sera di solitudine e ho realizzato che sei un disegno adesso. Lo stesso vecchio vizio di idealizzare chi non vuole restare, eccolo qui. E lo racconto perché credo che ascoltare le bugie di qualcuno sia qualcosa di molto più intimo dell’ascoltare la verità: ciò che vorresti fosse vero indica quello che sei con molta più precisione di quanto possa fare la realtà.
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Ora parlare con persone che prima sentivo tutti i giorni mi irrita e innervosisce da morire
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Pattini
«Spesso le scelte più giuste sono quelle che ai loro occhi sono le più sbagliate.»
Non mente, K. K. non mente mai. Lo osservo mentre si tinge i capelli di rosso. Sembra che abbia sgozzato qualcuno nella vasca. «Se lo facciamo ci iscrivono all'Arena. Io a malapena riesco a stare sui pattini.» «Il ghiaccio non è così scivoloso quando non è ancora sporco di sangue.» Mi fa cenno di passargli l'asciugamano e gliela porgo. Se l'arrotola sulla testa ed esce dalla vasca. «È impossibile che non ci sia del sangue.» rispondo seccato «Lo sai che c'è sempre una vittima.» «Non ai primi gironi, Ventisei.» Ha ragione. Però potrei essere ferito al collo e morire dissanguato. Potrei scivolare, battere la testa e crepare sul ghiaccio. E poi non è detto che l'Arena sia pulita quando tocchi a me. K. indossa la tuta dei Vincitori, poi apre la finestra per far uscire fuori tutto il vapore. Ha uno sguardo strano da quando lo hanno costretto a vestirsi a quel modo. Non riesce nemmeno a guardarsi allo specchio. «Senti, K.» esito «forse la sto vedendo come se dovessimo fallire al cento percento.» Non mi risponde. Sa benissimo che lo dico tanto per non scoraggiarlo, ma forse ho solo peggiorato la situazione. «Di solito i Rei non vincono mai, è matematico. Qualcuno mi ha sabotato le lame dei pattini, eppure guarda.» e afferra i lembi della tuta «Ora sono un Vincitore. Il pianeta mi ama. Ho smesso di blaterare, cercare di cambiare le cose e sono diventato il problema represso, una soddisfazione. Ho sgozzato una Pattinatrice Volontaria, che plot twist. Solo che io non volevo farlo, era lei quella lì pronta ad ammazzarmi. Eppure penso a lei ogni notte, e piango.» Abbasso lo sguardo. «Quindi» riprende «non pensare che non abbia chiaro quello a cui stiamo andando incontro, perché non ci tengo proprio ad una replica. Se ti ho detto di farlo è perché sono sicuro che andrà tutto bene.» Apre la cassa di metallo sotto alla branda e ne tira fuori un fucile al plasma. «L'altro è per te.» Lo estraggo dalla custodia. È freddo e pesante. È come se mi stesse fissando, come se fosse pronto a sparare. Imbracciarlo mi innervosisce. «Tranquillo, Ventisei. Mi farebbe più paura se mi dimenticassi di togliere la sicura.» ghigna «Idiota.»
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Io Natalia Ginzburg non la sopporto. Eppure, continuo a leggerla, perché come ammazza gli uomini lei, su carta, come gli spara e li odia, nessuna mai…
Io Natalia Ginzburg non la sopporto. Niente mi piace di lei, come pensa, come scrive, come veste, come è. La sua prosa a cantilena mi innervosisce, le sue parole mi intristiscono, il suo giornalistico dare un colpo al cerchio e uno alla botte mi scatena piani omicidi. Per non parlare delle sue ‘idee’ politiche, la summa del sentito dire, del nulla da dire ben dissimulato da pacifismo, a schermo di un credo comunista morto stecchito.
*
Eppure, la leggo. Dimmi se non è potere questo. La leggo, e se devo dire con quali pagine ho passato ore fattive, devo in tutta onestà includerci anche le sue. È come diceva Sartre, come mi ha insegnato lui, bisogna leggere chi ti è agli antipodi, ti è ostile, e non ci andresti mai a cena. Così in biblioteca, invece di studiare, stavo a leggere lei, che mi aveva legato, con quel suo È stato così, e qui è vero, e le va riconosciuto: come su carta, con l’inchiostro, ammazza gli uomini la Ginzburg, nessuna mai. Gli spara, li uccide e li odia, come odia la famiglia, e la fa a pezzi dopo averla processata, e non lasciarti incantare da Lessico Famigliare, ma quale agiografia, è libro di vendetta, di furente protagonismo, è Natalia che nella sua storia ti fa credere che quasi non c’è, si nasconde, e invece è lei la luce, la star, non sulla scena ma dietro, è lei la regista di personaggi ridotti a manichini, sgonfi, appiattiti alla dimensione di un tic, di un modo di esprimersi, o di muoversi. E io, quanto ho odiato Lessico Famigliare? Tanto, l’ho odiato, ma fino a gettarlo al muro, te lo giuro, e per quel suo “diceva” ripetuto ossessivo, da presa in giro, lessico che a tratti ti fa temere la lallazione, insopportabile, e quei detti idioti, che ti intasano la testa, “tutta di lana Lidia!”, ma che caz*o frega a me di quei proverbi lì, e poi, fammela dire tutta, quando tra quelle pagine qualcosa di grosso accade, arriva la Storia, arriva Turati, Leone Ginzburg, allora Natalia non scrive più, si ferma, dove ti interessa non va oltre, per sapere dell’agonia di Leone bisogna aspettar la Fallaci, recuperare quell’intervista alla Ginzburg del 1963, per imparare cosa può essere il buio ma quello violento, e l’esser soli, dimenticati, e cosa sia la lealtà a un Paese che quasi non è il tuo e non ti merita, e ti scorda e ti tradisce il giorno dopo che gli hai sacrificato la vita.
*
E però: l’ho ripreso in mano, quel Lessico maledetto, tempo dopo, superando la nausea di quella nenia scritta, interminabile: ne ho compreso d’un tratto la paura, immagini di terrore che mi sono rimaste addosso, sul corpo, come graffi, frasi che ti si inchiodano in mente: quella scena dei panni stesi, a Roma, Piazza Bologna, panni che volano giù, e lei scende a riprenderli, e in quel volo, tra quelle scale, capire, respirare quell’angoscia, come fosse la tua, e la mancanza di dignità di donna che segue, il chiedere aiuto a chi non conosci, e scappare, dormire, per strada, nell’assenza di ogni pudore, intimità, decenza. La paura che ti vengano a prendere e portarti via, che ti rimane dentro, per sempre, negli occhi allo spioncino di chiunque venga a suonare alla tua porta, anche di chi aspetti, di chi sei tu che hai invitato.
*
Natalia Ginzburg non sapeva cucinare, guidare, tenere chissà che conversazione, si addormentava nel bel mezzo di un discorso. Credeva nei tarocchi, vendeva copie a caterve, e se la fermavano per strada per salutarla si stupiva che la riconoscessero. Usava – e male – la macchina da scrivere e solo per gli articoli, ma ogni suo libro lo scriveva a mano, seduta in poltrona, a penna biro per una grafia enorme e infantile su fogli di carta bianca. Appena le scoppiava in mente e tra le dita una storia, caffè e una sigaretta dopo l’altra, rigorosamente senza filtro, dalle 4 di mattina fino a sera tardi, “strappando in fretta quel che c’è da strappare prima di essere stritolati”. Quando scriveva, Natalia Ginzburg era come posseduta, in stato di trance, e i personaggi non li inventava, non li creava, erano loro che le si affollavano intorno, la assediavano, a rivelarle parole che lei raccoglieva come foglie cadute lungo la strada: è tutto in La Corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg, la biografia di Sandra Petrignani. L’ho appena letta e non cambio idea, mi riconfermo nell’abisso che separa me e Natalia Ginzburg politicamente e nelle faccende di letto e di testa più importanti: io non do fiducia a chi non capisce Philip Roth, o si permette di rompere l’anima a Moravia perché scrive di sesso, lo rimprovera di scrivere di sesso, e di dare pensiero, voce e anima al suo pene, come fa appunto Moravia in Io e Lui. Io do zero fiducia a chi non piace la Nutella, a chi scrive che i film di Bertolucci sono “falsi morti vuoti”, e che Ultimo Tango a Parigi è “ciarpame di bassa letteratura”: perché, cara Natalia, se non ti si contorce nel sesso Brando in Ultimo Tango, mi sa che qualcosa che non va ce l’hai..!
Però: con stupore ho scoperto che in certi punti Natalia Ginzburg mi sta vicino, e non solo nel rifiutare ogni femminismo, ma pure nel nascondere il dolore, lei che diceva che la sofferenza è simile a una vergogna, non è fertile, non va divisa con gli altri, ma che appartiene a noi, solo a noi, e deve morire con noi. E poi, quel suo Discorso sulle donne, quel nostro cadere ogni tanto in un pozzo, ovvero soffrire di un dolore solo nostro, ancestrale, dolore che ci portiamo generazione dopo generazione, dolore che hanno tutte, in modo diverso ma tutte, dolore figlio di secoli di tradizione, soggezione, schiavitù, e dolore “che non sarà facile vincere, e che sarà difficile liberarmene mai. Un essere libero non casca mai nel pozzo ma si occupa di tutte le cose importanti e serie che ci sono al mondo e si occupa di se stesso solo per sforzarsi di essere ogni giorno più libero. Così dovrò imparare a fare anch’io per prima perché se no certo non potrò combinare niente di serio”.
*
(Senti: ma tu lo sapevi che Natalia Ginzburg ha avuto una storia di sesso con Quasimodo? Io no. Hai capito, la suorina! Lei era vedova ma lui sposato e si incontravano negli alberghi di Genova i più infimi, si scrivevano di nascosto, e la Ginzburg ci ha pure pianto, per lui, perché credeva d’essere importante, non una tra le tante, quando lo sanno tutti e non oggi ma già al tempo, che per Quasimodo valeva il motto ‘ogni lasciata è persa’, lui che se le faceva tutte, sempre, e sempre più d’una per volta).
Barbara Costa
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1 ott 2018 19:10 IL PRODUTTORE A 90 ANNI RACCONTA ANEDDOTI GUSTOSISSIMI E CRUDELI: '''IL TASSINARO' DI SORDI? UNA NOIA MORTALE. ALBERTO FECE CERTI SALAMELECCHI AD ANDREOTTI… NESSUNO OSAVA DIRGLI CHE NON SI DOVEVA CIMENTARE NELLA REGIA'' - ''TROISI? I GIOVANI SONO TERRIBILI. QUANDO LO INTERVISTARONO DISSE…'' - IL 'NO' A 'RAMBO', IL PRIMO BUD SPENCER E TERENCE HILL CEDUTO A UNA CIFRA IRRISORIA. ''IL CASO BRIZZI? FORSE QUALCOSA DI VERO C'È, MA MI RICORDA QUANDO UNA RAGAZZA RESTO' NUDA DAVANTI A ME. LE DISSI CHE MIA MOGLIE…''
Malcom Pagani per Vanity Fair
Fino a un paio d’anni fa, dice il novantenne Fulvio Lucisano: «Non mi ero accorto di essere così vecchio. Sciavo regolarmente e salivo in moto. Ora che Paola e Federica, le mie figlie, me l’hanno sequestrata mi tocca pedalare clandestinamente in bicicletta». Fondò la IIF, 600 film prodotti o distribuiti, nell’agosto del 1958.
Da allora, nell’epopea di un cinema inclassificabile in cui il genere (l’horror e il fantascientifico, il giallo e la farsa, i poliziotteschi e le commedie sexy) si è affiancato ai premi Oscar e alle avventure con Ferreri, Zeffirelli e Comencini, molti incontri, qualche litigio e ondate di ricordi che indietreggiano e avanzano come una marea: «Per Due marines e un generale con Franco e Ciccio, andai a ingaggiare Buster Keaton in America».
Più Viale del tramonto che Luci della ribalta: «Keaton aveva superato i 70 da un pezzo e qualche impellente necessità economica. Prese 20 mila dollari, ma fu molto professionale. “Questi due hanno talento”, diceva di Franchi e Ingrassia, magari appaiono un po’ naïf, ma sono molto bravi».
Era un po’ naïf anche lei?
«Volevo fare l’avvocato come mio padre, ex seminarista cresciuto con 16 fratelli e tornato dalla guerra, dove era stato assistente del supremo tribunale militare, incazzatissimo con il re che non aveva proclamato lo stato d’assedio contro il duce. “È un vigliacco”, diceva. A casa erano tutti antifascisti, a partire da mia nonna, una calabrese analfabeta che veniva dall’Aspromonte ma aveva le idee chiare: “Ma questo Musolino, esattamente, cosa vuole?”».
Lei che cosa voleva?
«Rendermi indipendente. L’occasione me la diede un produttore americano, Samuel Bronston. Nel ’49 lo vidi spuntare nell’ufficio di mio padre. Cercava aiuto per girare un documentario sull’Anno Santo. Pagavano benissimo. Tre volte lo stipendio di un impiegato. Cercai di farmi ingaggiare, ci riuscii e da allora indietro non sono più tornato».
Pochi anni dopo fondò la IIF.
«Per poter lavorare in autonomia e distribuire i film che producevo. Mi chiudevano sempre le porte in faccia, così riunii alcuni agenti regionali e partimmo».
Fu per reazione?
«Alla Titanus, per dire, neanche mi ricevevano. Goffredo Lombardo, il capo, dal suo trono ci guardava con aria di sufficienza. Era piccolo e basso, Lombardo. Ma sul trono sembrava altissimo».
All’epoca il cinema italiano era un’industria fiorentissima.
«Si producevano più di 300 film all’anno. Si sperimentava. C’era febbre, fame, curiosità».
Lei conobbe bene Andreotti. Per alcuni censore senza fantasia, per altri, tra tutti lo sceneggiatore Rodolfo Sonego, un benemerito: «Non avete capito niente, Andreotti forse ha ucciso 5 film, ma ha permesso di realizzarne 5.000».
«Sonego, un comunista intelligente, aveva capito. Avrebbero dovuto fare tutti un monumento ad Andreotti. Da sottosegretario con delega allo spettacolo fece approvare una legge in cui gli americani erano costretti a lasciare il 50 per cento dei proventi dei loro film in Italia».
Una manna.
«Poi arrivò quel coglione del suo successore e la legge venne massacrata. Dino De Laurentiis per protesta lasciò l’Italia e fece bene».
Lei è l’ultimo esponente dei capitani coraggiosi che come Ponti e De Laurentiis segnarono una stagione del cinema italiano.
«Dino era un mio amico. Pensi che l’ultima telefonata, prima di morire, la fece a me. Persi la chiamata e non risposi. Il giorno dopo non c’era più il tempo».
Che uomo era?
«Un personaggio difficile che a stare zitto proprio non riusciva. Nel 1992 comprai Indocina, un film che aveva vinto l’Oscar per il miglior film straniero e che prima di distribuire ero intenzionato a tagliare perché troppo lungo. Mi serviva il permesso del regista, Régis Wargnier, e così con mille diplomazie lo invito a Roma per parlarne. Sulla porta della moviola incontriamo Dino, che senza chiedere permesso si siede con noi e comincia a commentare il film ad alta voce: “Questa scena è inutile, quest’altra è leziosa, qui c’è un controcampo di troppo” e così via. Wargnier si innervosisce e alla fine se ne va irritatissimo decidendo di non tagliare neanche un secondo. Piano miseramente fallito, il mio».
Le è capitato spesso?
«È la vita. Vinci, perdi, pareggi. A volte hai intuizioni luminose e altre fai delle cazzate veramente plateali».
Esempi?
«Mi offrirono il primo Rambo a una cifra irrisoria. Vidi il film e lo trovai stupendo, ma c’era una carica di violenza così profonda che non me la sentii. Esitai nel comprarlo e ancora me ne pento».
Ha altri rimpianti?
«Nel 1969 avevo prodotto Dio perdona... io no!, il capostipite di tutta la saga con Bud Spencer e Terence Hill, ma il regista Giuseppe Colizzi, con il quale avevo rapporti burrascosi, mi indusse a cedergli i diritti del film per 50 milioni. Non ero del tutto persuaso, ma mi feci convincere da mia moglie: “Prendi i soldi, che ti importa?”. Il film uscì e incassò un miliardo e 200 milioni dell’epoca. Praticamente lo regalai. Terence Hill iniziò così, per caso. L’attore che avevamo scelto si ruppe la gamba, anzi venne scaraventato giù dalle scale da una fidanzata gelosa e fummo costretti a sostituirlo».
Con i registi ha avuto rapporti faticosi?
«Se il regista non si monta la testa è un conto, ma quando se l’è montata non lo recuperi più. In certe occasioni capitava di litigare. Con Marco Ferreri, per Diario di un vizio, discutemmo aspramente sulla scelta degli attori. Su Sabrina Ferilli eravamo entrambi d’accordo, invece Jerry Calà proprio non mi convinceva».
Diario di un vizio, il penultimo film di Ferreri, andò a Berlino in concorso e venne fischiato. Ferreri tenne la conferenza stampa da Roma in pieno stile Ferreri: «Sono un genio. Se fossi nato adesso sarei uno di quei bambini superdotati che sono padroni di tutte le discipline dell’universo. E infatti ho fatto film superdotati».
«Marco un genio lo era davvero, ma era anche intrattabile e molto presuntuoso. Gli suggerivo una soluzione e lui diceva solo: “Nun se po ffà”. Mi trattava come un bambino».
Diario di un vizio fu anche il penultimo film di Ferreri.
«Feci anche uno degli ultimi film di Comencini dopo essere stato in causa con lui per vent’anni. Girammo in Calabria, con Volonté e Abatantuono, anche se Comencini di girare in Calabria non voleva saperne: “Ambientiamolo a Calcata, a Sud rischiamo che ci rapiscano tutti”. Per rassicurarlo dovetti portarlo da Lessona, il prefetto di Reggio, figlio di un ministro delle colonie fasciste».
Lei è del 1928. Il fascismo l’ha vissuto in pieno.
«Le botte che mi diedero i fascisti davanti all’edicola quando mi sorpresero a comprare L’Osservatore Romano me le ricordo ancora e non mi sono dimenticato di quel tipo che uscì per le strade di Roma in camicia nera, come se niente fosse, il 25 luglio del ’43. Volevano linciarlo. Lui correva e intanto si girava verso gli inseguitori gridando: “Ma che volete?”. Non aveva ascoltato la radio e nessuno aveva avuto la grazia di avvertirlo».
A proposito di figli del ’900. Lei lavorò a lungo con Alberto Sordi.
«Dopo un paio di film a tinte malinconiche, Alberto doveva tornare a far ridere. Così convocai Age e Scarpelli e mettemmo in piedi Il tassinaro. Sordi guidava Zara 87 e tra un semaforo e l’altro ascoltava le storie dei suoi passeggeri, dal marito in crisi ad Andreotti. La comparsata del divo Giulio era prevista per il primo agosto. Lo avevo avvertito: “Saremo cattivissimi con te”. E lui, da uomo di mondo, aveva risposto soltanto: “Mi fido di voi”.
Una volta sul set però, Sordi, che per Andreotti aveva una venerazione, si mise sull’attenti. Batté letteralmente i tacchi e tagliò di sua iniziativa la battuta “Presidente, quanto è veloce a occupare i posti” che avevamo scritto per l’occasione. Il cameo si rivelò, un po’ come il film, di una noia mortale. Avrebbe dovuto graffiare, ma era tutto un salamelecco. Un inchino. Un’occasione mancata».
Perché?
«Perché nessuno diceva a Sordi, che come tutte le divinità aveva una sua corte di yesman: “Alberto, sei un grande attore, ma non dovresti cimentarti nella regia”. Qualsiasi fesseria facesse scattava l’applauso. Fellini, altro ospite prestigioso del film, l’aveva capito. Ci promise: “Se lo fa Andreotti lo faccio anche io”. Mantenne la parola, ma una volta sul set, resosi conto della trappola, ci disse: “Mi avete fregato”».
Il Sordi uomo? Avaro come raccontano?
«Testardo sicuramente, avaro forse. Effettivamente saremo andati a pranzo un milione di volte e mai che abbia pagato un caffè».
Lucisano, la critica non era benevola con i suoi film.
«Hanno sempre sparato a zero, ma non me ne è mai importato niente».
A Venezia, durante una retrospettiva che le dedicò la Biennale, Quentin Tarantino venne a salutarla. Sotto il braccio aveva la pizza di Cosa avete fatto a Solange?, uno dei suoi gialli prodotto all’inizio degli anni ’70.
«Ci sono state riscoperte tardive e oggi film come quello o Terrore nello spazio di Bava sono incensati. Per Nicolas Winding Refn Terrore nello spazio è pura Pop art. Con Bava che era figlio di Eugenio, un vero maestro, faceva film sottili e inquietanti e nella vita aveva paura anche della sua ombra, discutevamo spesso, ci appassionavamo e parlavamo fino a notte. Oggi non succede più. Oggi si mandano le mail».
Lei produsse anche Ricomincio da tre di Massimo Troisi. 15 miliardi di incasso.
«Insieme a Ottavio Jemma, il vero sceneggiatore del film, suggerii a Troisi di ripetere le battute due volte perché alla prima, il napoletano era così stretto da risultare incomprensibile. Troisi era giovane, non facilmente indirizzabile. Gli presentai Sordi e convinsi Alberto a concedere un’intervista in cui lodava lui e la nuova comicità napoletana. Passano due mesi e finalmente tocca anche a Troisi concedere un’intervista. Gli domandano di Sordi e lui: “È un vecchio trombone”. I giovani sono terribili».
Il cinema italiano si è perso?
«Dall’80 in poi, con l’avvento delle tv commerciali, ha subìto un notevole peggioramento. Ci sono talenti come Max Bruno che mi permettono di non disperare però».
Il film più difficile della sua vita?
«Il giovane Toscanini di Zeffirelli. Costò molto più di quanto incassò, ma per contenere Zeffirelli ci sarebbe voluta la mano di Dio. Ci feci certe litigate in Portogallo, con Franco, che tremavano le mura dell’albergo. Liz Taylor, poi, sembrava la principessa sul pisello. Altera, scostante, si dava arie insopportabili. Io non capivo. Pensavo: ma come? Ti do un sacco di soldi, vuoi almeno dire buongiorno?».
Altri caratteri difficili?
«Massimo Girotti. In uno dei miei primi film, I quattro del getto tonante, aveva un pessimo rapporto con l’attrice protagonista. Era sempre incazzato. “Mi sono stufato di questa cretina”, urlava fuori dall’albergo. “Se voglio, io lo metto nel culo anche al cavallo che sta in piazza”. “Massimo, il cavallo è di bronzo”, rispondevo. “Mi sembra imprudente”».
Lei ha lavorato anche con Fausto Brizzi. Cosa pensa delle accuse di molestie che lo hanno investito prima di vederlo assolto?
«Che forse qualcosa di vero poteva anche esserci, ma per saperlo senza ombra di dubbio bisognerebbe esser stati lì. A metà degli anni ’60, per dirle quanto è antica la storia, venne da me in ufficio una ragazza bellissima. Si sfilò l’impermeabile e restò nuda. Rimasi imperturbabile: “La ringrazio signorina, ma le consiglio di rivestirsi. Mia moglie è al piano di sopra e potrebbe scendere in qualsiasi momento”» (ride).
Dove si vede tra vent’anni?
«All’altro mondo».
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