#chilligadventuresofgab
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IX - I tuoi particolari
Ho la febbre da quattro giorni e non so come farò a sopravviverle, visto che non posso farmi curare da mia madre. Per adesso resisto. Sudo tantissimo e mi bruciano da morire gli occhi, ma resisto. Tutti i chili presi in questi mesi, ne sono certa, li ho persi in questi pochi giorni di influenza e rimanere stesa a letto di venerdì sera non mi fa bene.
Non mi fa bene combattere col termometro e pensarti, anche se faccio fatica a recuperare un vero ricordo da usare per cullarmi in questo genere di stronzate. Parliamo poco e sempre di cazzate ed è strano pensare che per un momento ho creduto che avremmo parlato di troppe cose. Forse ci hai creduto pure tu, questo non posso saperlo. Il punto è che è difficile parlare di qualcuno senza veramente parlare con qualcuno, soprattutto se penso a tutte le volte che mi sono ritrovata in conversazioni di circostanza a parlare di terzi altrettanto di circostanza. È comico constatare come si dicano sempre le stesse cose. Ancora più comico è pensare di starsene a letto, quasi tentata di aprire quella chat whatsapp e scrivere una cazzata qualunque. La febbre, quando la tua temperatura corporea non ti permette di capire neanche dove tu sia, sembra un’ottima scusa per un sacco di cose. Me ne sto qui a pensare a mille modi per umiliarmi di nuovo e realizzo che non ho conversazioni da rivangare con te se non una, di sicuro l’unica ed irripetibile. Ho peró una serie di aneddoti ridicoli. Quel vizio di tamburellare sulla gamba con l’indice o con l’anulare, per esempio. L’indice quando sei concentrato, anulare quando sei nervoso. Quelle volte che giri il polso in maniera compulsiva, roba che mi fa venir voglia di alzarmi e inchiodarti sul posto per rimettere un po’ di ordine. Quando ridi lo fai in quattro modi diversi: il primo prevede faccia nascosta da qualche parte e spalle che sussultano quasi in silenzio, il secondo è più rumoroso ma paradossalmente meno scomposto ed esprime imbarazzo, il terzo è per quel divertimento naturale che si vede sulla faccia di tanti Signor Qualunque in Posti Qualunque e il quarto è per quando sei incredulo per qualcosa che un po’ ti innervosisce. Non credo di averti mai ancora visto felice. Quel vizio che hai di guardarti attorno sempre quando sei distratto in netto contrasto con il cipiglio serio che hai quando invece sei concentrato su qualcosa. Quella ruga verso il basso quando ti cambia l’umore. L’espressione sottile di quando vuoi fare lo sbruffone, Dio, che cosa assurda constatare quanto sia vera. Che strano pensare che sei davvero così, ma che contemporaneamente tu sia altro. E sono cose che non saprò mai per davvero. Il brutto dei piccoli particolari é che sono ricostruzioni, sapete? Crei veri e propri personaggi. Forse dovrei darti un altro nome ed un’altra vita su carta, ho pensato nel mio letto. Così l’ho fatto. E non sei più tu, è un’altra persona che ho creato da sola. Forse un giorno te la presenterò, se non mi scoccio prima. Se ci parleremo ancora fra qualche anno, magari. Se mi chiederai di dirti la verità e di illustrarti come volevo che andasse. Ho messo in fila i tuoi vizi in una sera di solitudine e ho realizzato che sei un disegno adesso. Lo stesso vecchio vizio di idealizzare chi non vuole restare, eccolo qui. E lo racconto perché credo che ascoltare le bugie di qualcuno sia qualcosa di molto più intimo dell’ascoltare la verità: ciò che vorresti fosse vero indica quello che sei con molta più precisione di quanto possa fare la realtà.
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VIII - Quello che non devi sapere
Quello che devi sapere, è che ho fatto bene a chiuderla qui. Chiuderla, semplicemente. Qualunque cosa potesse diventare.
Quello che non devi sapere è che un po’ mi ha fatto male pensare che a scappare sei stato tu. Sono io quella che fugge, di solito. Immagino si chiami karma. Quello che devi sapere è che ogni giorno che passa va meglio: le cose che non iniziano ti scivolano addosso, dopo un po’. Il problema io l’ho avuto sempre con i finali. Poi certo, dipende da come ti piace legger le cose: alcune fini per certa gente sono inizi e viceversa. Per me questa – qualunque cosa sia – ha una doppia valenza. E ho fatto bene. E diventa più semplice.
Quello che non devi sapere è che ho paura di avvicinarmi perché dai miei errori non imparo mai e i no non mi hanno mai davvero convinta, a quanto pare. Quello che non devi sapere è che la mia unica paura è parlarti ancora. Quello che non devi sapere è che non volevo dirti niente, che la mi reticenza è l’imbarazzo di sapere di aver sbagliato. Avvicinare qualcuno significa prima o poi doversi raccontare e io non lo volevo né prima, né poi. Non con te né con nessun altro. Quello che devi sapere è che mi hai fatto un favore, quello che non devi sapere è che nonostante tutto capire cosa è meglio per noi resta difficile. Quello che non devi sapere é che provo un fastidio che quasi mi fa prudere tutta la pelle, e odio che tu non voglia sapere. Quello che devi sapere é che odio essere guardata come se ricordassi, perché so che ricordi, e non sentirsi chiedere niente. Quello che devi sapere è che non voglio compassione. Quello che devi sapere è che ho fatto la valigia per venirmi a costruire una vita che mi rendesse finalmente felice. Serena, almeno.
Quello che non devi sapere è che per un minuto ho sperato volessi farne parte. Quello che devi sapere è che hai fatto bene, che prima o poi sarei scappata io. Non sei indimenticabile ed io non sono intercambiabile.
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VI - Le maschere più mainstream
Milano è vittima della neve da tre giorni. Nevica, ma fino ad oggi i fiocchi non erano riusciti ad arrivare al suolo, sciogliendosi giusto in tempo sulla mia giacca. Oggi invece le strade sono ghiacciate. Io come sto? Non saprei dirvelo. Quando vivete lontani da casa, avrete dei giorni in cui vi sveglierete con la nostalgia. Non ha importanza che la vostra vita vi piaccia, che le cose stiano andando più o meno bene: succederà. E se questa vi sembra la scoperta dell’acqua calda, rilancio ed aggiungo che ognuno di voi la prenderà in maniera diversa. Alcuni si butteranno giù fino alla prossima serata che non permette di pensare, altri invece avranno solo una vena un po’ più amara nel sorriso. Io sono nella seconda categoria, almeno oggi, almeno adesso che non so dove riporre una serie di informazioni e casini che stanno lastricando la strada di quest’esperienza. Sempre per la rubrica “ovviamente”, i guai nascono quando iniziate a frequentare gli altri, ad interpretare a modo vostro le cose che vi accadono attorno per poi scoprire che avete sbagliato tutti i calcoli. Allora le cose sono due: o analizzi in maniera matura e distaccata quanto ti ha coinvolto, oppure tagli con un coltellino le funi che tengono legate la tua vita a quella nuova vicenda. Potete immaginare quale scelta abbia fatto io. Il problema dei morti che camminano, però, è che appunto camminano e respirano in prossimità della vostra esistenza e beh, non è esattamente semplice. Non è semplice neppure se le tue coinquiline ti fanno vedere film come “la dura verità”. La buona notizia è che passa più o meno tutto. Questo l’ho imparato prima di partire, poi l’ho consolidato quando sono arrivata a Milano e cose apparentemente insormontabili mi sono scivolate alle spalle come se niente fosse. Ci sono canzoni che non ascolterete più, altre alle quali vi arrenderete nei momenti di sconforto, ma le cose, esattamente come quei due minuti di parole e musica, passano e si trasformano. A volte tocca a te mettere il punto, altre volte le cose si chiudono da sole.
Può aiutare convincersi di aver voluto vedere un tesoro dove si nasconde un po’ di polvere e qualche moneta d’argento, che non sempre chi hai attorno nasconde quello che sente per non farsi conoscere. Anche in quel caso, bisogna mettere in conto che a qualcuno interessa far conoscere le maschere più mainstream del suo armadio e chi sei tu per invertire la rotta? Le persone non si salvano, meglio che lo sappiate. Non si salvano se non te lo chiedono, non si salvano neppure se ti pregano di prenderle per mano. Non tutto ha un perché. E so quello che vi ho detto nel post appena precedente, ma il punto è che non tutti vogliono rispondere ad una domanda quando agiscono. Va bene così. Non puoi dirigere le corde del cuore di qualcuno verso di te, anche quando sai che non si starebbe male, che forse si potrebbe ridere e perché no, essere un po’ felici.
La mia coinquilina calabrese sta per portarci a casa un’amica. “Così ti fa una bella lavata di testa sugli uomini”, mi ha detto. Inutile dire che non voglio vederne neanche in foto. Le mie coinquiline credono sia perennemente triste e qualche volta penso che abbiano ragione. E’ l’interpretazione che ti fotte. A volte bisognerebbe leggere e basta.
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V- Gli amori, come la lavastoviglie, sono una questione di incastri
L’amore, come la lavastoviglie, è una questione di incastri. A Milano non fanno che ricordarmelo tutti: sugli autobus, in metro, a casa e nella nostra aula universitaria. Un film verità guardato con le coinquiline, poi un discorso tra colleghi che si dimostra più illuminante di quel che credevo, e infine mie riflessioni inutili quando la lavastoviglie strapiena non si chiude, nonostante la fatica. E dopo tanto, incastrando piatto su piatto, l’elettrodomestico funziona ed io mi ricordo che il segreto è trovare la falla da riempire con quello che hai e che non sembra trovare un posto dentro di te. Mi ricordo che se ti senti un mezzo schifo, se ti alzi la mattina con lo scazzo che solo vedere lui ti sa provocare, che se ti senti messa all’angolo più di quanto tu ti sia sentita libera in un momento di scellerato coraggio, allora non stai incastrando. Stai solo forzando. E forzare non equivale ad amare o ad amarsi, perché venirsi incontro non è come starsi contro. Faccio fatica a tenerlo a mente, forse per via dell’eredità che le relazioni dei più grandi che mi circondavano mi hanno lasciato. Ora che è cambiato il cielo, la casa, la routine e il panorama devo ricordarmelo. Ora che non ho finestre dalle quali si veda Milano, non devo dimenticare di esserci.
Ora che la vita mi ha regalato qualcosa, non devo sputarle in faccia e tenere a mente quello che ho chiesto a me stessa. Il tempo che volevo darmi e la chance di prendere e vivermi qualcosa di bello e sano. Ho smesso di usare la parola “normale” per descrivere un sogno. Tutto quello che ho sempre desiderato non era “normale”.
Non esiste niente di “normale”. Esistono i pregiudizi, i cliché e le banalità, quelle sì. La normalità è un’invenzione di un vecchio noioso che non voleva sentirsi chiamare “scontato”. Credo nelle cose che si incastrano, ecco. Neppure nei compromessi, che non sono mai stata brava a farne e sono scappata dai “per sempre” e dai progetti dopo pochi mesi. Credo nei puzzle, perché se io sono una figura composta da frammenti delle ragazze che sono stata, perché non dovrebbe valere lo stesso per i rapporti con gli altri? Le case crollano senza una base solida, è vero, ma cosa cazzo ne ho mai saputo io in fondo? Ho sempre abitato solo i castelli di carte, qualche volta quelli in aria. Va ancora bene così. L’arroganza non è altro che un peccato di speranza e porto quest’idea con me da quando andavo a scuola e non sapevo come gestire l’insofferenza dei docenti. Parlo come se avessi snocciolato tutte le esperienze del mondo, ma la verità è che non ho mai costruito una casa, io. Per adesso vi parlo di come riuscire a fare una lavatrice senza impazzire e di come non perdere il tuo tempo dietro qualcuno che non ti vuole. O che non ti vuole abbastanza, il verdetto è lo stesso. Vi recito quello che ho imparato, come in quell’esercitazione del cazzo pensata dal prof di dizione per torturarci: le convivenze, le faccende domestiche, le amicizie e gli amori non sono altro che incastri più o meno di successo. Forzare equivale a rompere. Non vi dico di lasciare che le cose si trasformino davanti ai vostri occhi perché io stessa odio restare ferma, ma vi chiedo di non cercare di infilarvi in spazi che vi stanno stretti. Ne uscirete soltanto più rotti. E no, non penso che tutto abbia una ragione, ma forse diventare grandi è capire che anche quello che ti accade inspiegabilmente, prima o poi deve rispondere alla domanda “perchè”. Arrivare impreparati all’interrogazione è possibile, ma evidentemente non ti sei affastellato abbastanza. Evidentemente poteva fregartene di più e forse ti stai solo costringendo in uno spazio. Forse chi (ti?) vuole trova un modo. In fondo nessuna lavastoviglie si chiude solo con un pizzico di fortuna
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IV- La favola degli specchi, Mr Knorr e altri racconti
Due post in pochi giorni, devo essere ammattita. Sarà il weekend, sarà che Milano ha deciso di diventare più fredda e piovosa del solito sapendoci a casa. Non fatevi ingannare dalle instagram stories di una serata in discoteca fra amiche: dovete sapere che prima di lanciarci per le strade della città, abbiamo mangiato zuppa. O forse dopo, non ho ricordi così chiari. In ogni caso, la zuppa non l’abbiamo neppure fatta noi, ma è gentilmente offerta da Mr.Knorr, uomo misericordioso che ha pensato a persone come me e le mie coinquiline e che per una lunga serie di motivi (compresa la bontà delle sue ricette ai piselli) meriterebbe l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica. Ci stiamo lavorando, voi nel frattempo ricordatevi di questo post e di me che scrivevo sulla mia pagina facebook quanto non mi serva diventare un’influencer. Nel frattempo a ballare ci siamo andate e trovare dei vestiti a tema con la serata è stato un parto, salvo poi scoprire che a Milano non vale - e questa è la scusa che usiamo più o meno per qualsiasi cosa da quando siamo arrivate - e che tutti avevano optato per un outfit a caso, compresi i tre bomber con i maglioncini e la camicia sbronzi fino ai piedi che ci hanno importunato. Delle discoteche milanesi ho imparato che a) il guardaroba è un salasso: cinque euro per tenermi un cappotto e chissà se a fine nottata lo ritrovo b) bere equivale ad ipotecarti un rene, che sia acqua o che sia un drink, sto ancora pagando le rate di quel bicchiere c) se hai le coinquiline fighe non potrai mai restare ferma nello stesso punto della pista per tutta la sera. E no, qui non ti danno il tavolo col tuo nome che non puoi portare neanche a casa, meglio che lo sappiate prima di decidere di partire. Da mezzanotte alle quattro del mattino abbiamo finto che non ci facessero male le ginocchia già dopo due ore di serata e siamo andate avanti ad oltranza fino all’orario in cui è lecito dire “dai, andiamo” senza sembrare delle scassacazzo. In tutto questo, la mia chat di whatsapp ha deciso di rianimarsi di giovedì sera nel più improbabile dei momenti e fra una cosa da fare e l’altra non ho avuto quasi il tempo di rallegrarmene. Quando il mio umore ha cominciato a svettare neanche si fosse fatto una botta di coca, la tv che non funziona neppure con un miracolo ha deciso di atterrarlo di nuovo. Dopo aver comprato un decoder ed un’antenna abbiamo capito che per risolvere il problema chiameremo Mago Merlino. Salvo vederlo scuotere la testa perché per il paziente non c’è niente da fare. Il sommo stregone potrà aggiustare (forse) i televisori, ma non la parabola discendente della mia esistenza, visto che appena credo di aver capito come gira il mondo, il mio telefono torna a tacere ed io ricomincio a considerare di non aver effettivamente compreso un cavolo. Un vizio che avevo anche prima di partire: almeno così sapete che sono sempre io e che sto bene. Siamo alla terza settimana senza uno specchio e ieri pomeriggio, mentre in due eravamo alla ricerca di un paio di jeans che valessero una riduzione più o meno consistente del conto, ho realizzato in un camerino quanto cazzo di tempo è che non guardo il mio riflesso. Trauma a parte, la cosa mi ha portato ad un’inutile quanto non richiesta riflessione. Torno a casa dei miei per tre giorni il mese prossimo e riavere uno specchio vorrà dire guardare in faccia quanto sono cambiata. Quanto mi sento cambiata. Il riflesso di tutto questo lo vedrò nella vita che avevo e che non so se riconoscerò. Qui parte quell’inutile discorso su quanto sia importante avere un riflesso di se stessi, potete anche chiudere adesso. Mi piacerebbe vedermi con gli occhi di chi mi conosce. Da tanto o da poco tempo, in ogni caso sarebbe bello specchiarmi e capire quanto sono diversa ed uguale a me stessa. Se penso alla paura che mi faceva l’idea di cambiare in maniera tanto profonda, quasi mi vien da ridere. Deve essere stata la prima volta che non ho confuso paura ed euforia, quella, e non ho neppure annotato la sensazione. Ieri sera, durante una di quelle conversazioni a cuore aperto che fai con la tua coinquilina se sei fortunato come me, ho sentito più pungente la mancanza del mio migliore amico. Le ho fatto leggere una di quelle lettere scritte a mano che mi ha lasciato prima di partire, di quelle che leggo quando le cose sembrano andarmi male o quando mi sento un puntino solo nell’universo sconfinato. Ho pensato a quanto sarà bello rivedersi la prossima volta, al fatto che forse lo stringerò un po’ di più e criticherò di meno la sua guida solo perché quei parcheggi bislacchi mi mancano ogni volta che salgo su un enjoy. Ho pensato che Milano è come avere delle ripetizioni in materia di espressione e manifestazione dei miei pensieri e sentimenti. Perché non dico mai quello che penso e parlo troppo per non parlare davvero. A volte riesco a scriverlo, ma quello è un altro discorso. Penso a quando una persona mi ha detto che in queste righe ci sono io. E chi sono io? Cosa penserebbero quelli che mi conoscono da una vita? La conoscono questa me che digita oppure no? Mi piace di più la persona che sta scrivendo o quella che anche solo un mese fa teneva tutto nei suoi blocchetti? Cosa pensa il mio migliore amico della donna che è qui, davanti a questo computer? Può immaginare la postura e forse addirittura l’espressione del mio viso, perché abbiamo diviso ogni spicchio della quotidianità, ma quale sarà il verdetto quando saremo di nuovo nella stessa auto, a mangiare patatine dopo un film che non abbiamo quasi guardato per fare battute stupide, esattamente come due giorni prima che io partissi la prima volta? Vorrei fosse fiero, perché un po’ io lo sono. Vorrei lo fossero tutti. Vorrei dall’altra parte che quelle tremila me che si affacciano ad intervalli puntuali in qualsiasi cosa faccio riuscissero a farsi conoscere per una volta. Presentarsi, semplici come le conosco, per dire “eccomi qui”. A volte è abbastanza anche solo un “eccomi qui”. E’ uno slancio di coraggio, di quello che ho sempre cercato di avere nella vita. Alle volte dimostra di più una seria dose di incoscienza che un discorso ben calcolato. Una confidenza che non avresti fatto, che un po’ rimangeresti. A volte il vero specchio di quello che sei è lì. Al diavolo le presentazioni ragionate. Al diavolo quello stupido rito del prepararsi prima di mostrarsi agli altri.
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II - Carte da decifrare
Una delle cose più belle quando torni a casa, è rivedere gli amici. Premere di nuovo play su quella vita e su quell’affetto che prima erano quotidianità. Tutto sembra scorrere come prima della tua valigia piena e dei tuoi tremila biglietti di Italo, ma il tuo occhio attento se ne accorge: qualcosa suona in maniera diversa. Gli ingranaggi sono gli stessi, eppure c’è un rumore che ti sfugge e capisci che non saprai mai davvero ripararlo, che andare avanti è anche accettare che alcune cose un po’ si crepino ed amarle comunque così, sperando che non si rompano a forza di crepe irreparabili.
Qualcosa suona in maniera diversa ma tu hai le spalle larghe e lo immaginavi, perché un po’ è giusto che sia così. Altre cose, invece, che negli anni sono sempre state uguali e sullo sfondo del tuo scorrere quotidiano, è meglio che continuino a suonare sempre nella stessa maniera, che non acquisiscano troppa importanza. La partenza mi ha insegnato che cambiare gli equilibri di sempre non è consigliabile: si modificano da soli, ma guai a te se provi a toccarli di tua spontanea volontà. Le cose grandi speri che restino sempre grandi, quelle piccole devi farle rimanere piccole. Il processo inverso è praticamente una minaccia bomba in una stazione ferroviaria: morirei subito, visto che non so fare la valigia leggera e non ho mai neppure saputo correre. In educazione fisica ero l’unica ad avere 5, quindi meglio starsene in trincea che correre in giro per il campo di una battaglia che sai di perdere in partenza. Fra poco sarà l’ultimo dell’anno ed io ho paura (che novità). Gennaio significa ripartire, in tutti i sensi. Non so se sono pronta ora che so cosa (non) mi aspetta. Se ho imparato che il timore non è un salvagente, ma una benda sugli occhi, dall’altra parte non riesco a non pensare lo stesso a cosa sarebbe più facile, a cosa sarebbe più casa. Penso e penso e quasi mi convinco che forse sarebbe bello fermarsi un attimo, ragionare, posare un secondo la valigia. Non faccio in tempo ad immaginare quanto potrebbe essere bello che mi ricordo perché non posso guardarmi indietro e cosa c’è in gioco. Cosa non posso dare a chi ho attorno se resto qui. Così guardo il mio mazzo di carte e alla fine realizzo che le scelte producono nuove realtà, ma che sono anch’esse conseguenza di qualcosa. Sono il risultato di tutto quello che mi è successo fino all’11 novembre, tutto quello che ho deciso prima di quel biglietto di Italo.
Vi capita mai di sentire che non potete restare, ma non potete neppure partire? Bene, non so se andrà mai meglio. Ancora non sono arrivata a quella fase della vita da fuori sede in cui posso dirvi che le cose migliorano e blabla. So solo che questa sensazione ce l’ho addosso anche io. Che ho paura come voi oppure che ne ho diversamente da voi che mi state leggendo. Però, ragazzi, abbiamo 20 anni e dobbiamo andare. Dobbiamo cadere, avere paura e tatuarci addosso quello che crediamo di aver imparato dalle nostre ferite, perché vi prometto che arriverà un giorno in cui la paura non la sentiremo più. Vi fidate di me? Ottimo, perché state già facendo la scelta sbagliata e dall’errore vengono le storie migliori. Spargo le carte sul tavolo e faccio finta di non aver previsto l’allarme bomba in stazione che potrebbe esplodere presto o tardi. Tocco equilibri perché non ne ho mai avuti e non saprei vivere con. Sempre in attesa di trovare la quadratura del cerchio.
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X - Ultime lettere
La mia terra è magia. Lo dicono tutti quelli che partono, certo. Io faccio parte della schiera di coloro che si accorgono di quello che hanno solo quando non ce l’hanno più. E’ così da quando ho memoria: ho sempre avuto gli occhi talmente puntati al futuro, alla speranza e al meglio che, chissà quando, ancora deve arrivare, che non ho mai preso un momento per dirmi che forse qualcosa l’ho già costruita. Chiunque abbia parlato con me è rimasto sconcertato davanti alla mia perenne convinzione che sia tutto ancora da mettere su. “Hai 23 anni” - mi dicono - “e hai più di quello che tanta gente più grande di te abbia mai osato pensare. Fermati un attimo”. Fermati un attimo. Mi sono fermata questa sera, proprio davanti agli artisti di strada che suonavano Despacito. E a Milano ne vedo tantissimi, ma non ho mai visto gruppi di amici fermarsi a ballare in strada. Qualche ora fa mi sono seduta ad ammirare questo. Milano è bellissima, stronza e indelicata. E’ una botta nello stomaco, è l’attivista che urla durante una protesta. Milano è indifferente e ti taglia le dita come vetro dimenticato sull’asfalto. Milano è quella che vorrei essere, mentre la mia terra è la risata che mi esplode in viso quando meno me l’aspetto. E’ urlare in strada il nome di qualcuno che conosci da sempre. La mia terra è l’abitudine che mi ha annoiata per anni, l’idea sbagliata poi smentita di essere in possesso delle vite di tutti i passanti visti e rivisti per una vita. E’ l’abbraccio del proprietario dell’unica libreria del centro che sta per chiudere un’altra giornata, ma che mi richiama indietro per stringere la bambina che sono stata. “Dov’eri finita?” mi ha chiesto con un sorriso. E ancora “quel ragazzo sembra così incompleto senza di te che gli giri attorno”. Nessuno è incompleto. Volevo dirlo ad alta voce, ma ho lasciato perdere. Nessuno è incompleto quando sa dove vorrebbe restare e io questo non lo sapevo. Sei incompleto quando per capirci qualcosa hai bisogno di andare. Sono l’unico puzzle ancora da completare, lo ammetto. Conoscersi è qualcosa che ho sempre sottovalutato. Ho sempre fieramente affermato che è impossibile sapere chi si è. Molto più semplice è prefissarsi chi vuoi diventare ed è quello che ho fatto per una vita intera, fino a collezionare una serie di esperienze che non disdegno e non rinnego. E’ molto più eccitante sognare di diventare qualcuno, ma ho compreso di aver sempre scritto nelle mie agende colossali bugie. Forse non voglio diventare qualcuno. Voglio sapere di essere qualcuno. Voglio essere fiera, voglio abbracciare il proprietario dell’unica libreria della città col sorriso che non sa di milioni di “se”. Voglio smettere di rinnegarmi e crescere la donna che sto diventando sulla base dei passi compiuti dalla bambina di 11 anni che usciva di nascosto da sola solo per sedersi tra quegli scaffali pieni di libri. Voglio lasciare in giro per il mondo la storia di quel negozietto che mi ha regalato più di quanto una grande città possa fare: una coscienza. Voglio vedere un po’ di cose prima di scegliere un posto in cui vorrei tornare. Avevano ragione i miei insegnanti, ma nessuno mi aveva ancora detto che il posto dove tornare puoi essere anche tu. Semplicemente la tua storia. Io voglio poter tornare da me stessa, non importa dove la vita voglia condurmi. Ho passato così tanto tempo a dirmi che le cose cambiano prima o poi e che se impari a muovere quelle mani che hai avvolto inutilmente nelle maniche delle tue felpe per anni, puoi costruire qualcosa. Costruirti. Ho passato così tempo a giocare al Dio onnipotente che non mi sono resa conto che i mattoni che costruiscono il più bello dei castelli sono corrosi dalla storia, dal tempo che passa. Tutto è sempre stato futuro senza presente perché pensavo fossi da buttare. Pensavo che sarei sbocciata. Non so se lo sto facendo, ma se non ho storia non ho futuro. Quello che non ci dicono è che Dio ha dovuto rinunciare a qualcosa. Cristo era un uomo prima di essere un profeta: ha maledetto suo padre come tanti di noi, ha desiderato che il tempo si cristallizzasse in un eterno presente solo quando l’alba di un nuovo futuro si stava avvicinando. Avrebbe voluto una vita umana ma la necessità di diventare quel qualcuno lo ha condotto a morire su una croce. Per cosa? Dio ha rinunciato a qualcosa per meritarsi l’appellativo, ma io non voglio rinunciare ai miei passi. Sono una donna che ha messo i piedi uno dietro l’altro, delle volte correndo, altre volte barcollando su tacchi che non ha mai saputo portare. Non voglio rinunciare alla mia storia. Milano mi sta insegnando a guardare al passato più che a puntare al futuro ed è positivo. Non credevo potesse succedere. Vorrei dire a Vicenzo, che poi è Alfonso, che l’unica incompleta sono io. Che ho ancora bisogno di andare, ma che non posso rinunciare alle panchine sulle quali mi sono seduta. Che continuo a essere lì, ferma tra gli scaffali di quella libreria, a sognare la donna che sarei diventata. A sentirmi chiamata a un futuro che volevo - che voglio - segnare. Perché voglio che la mia firma sia incisa tra le cose che contano, perché per me vivere ha sempre voluto dire mettere un mattone in più nel castello di qualcun altro. Mi hanno chiesto in tantissimi perché volessi fare proprio la giornalista. Perché scegliere di cancellare la mia voce per affermare quello che penso. Non ho mai risposto bene a questa domanda. Ho detto ai piani alti che avrei voluto raccontare agli altri quello che non sapevano, ma la verità è che raccontare alle persone chi sono equivale a mettere ordine in quello che penso, ammesso che si possa. Prima di raccontare a voi, amici miei, sto raccontando a me stessa. Perché ho cambiato idea più volte di quante mi sia capitato di lottare per qualcosa e allora è giusto che io lo ammetta. Continuo a cercare di crearmi un’idea. Non so se siano le motivazioni giuste, ma sono le mie e vada come vada. Continuo a sperare che fare la valigia mi porterà a qualcosa, ma la verità è che non puoi fare i bagagli e non puoi costruire un’idea se non guardi a quella che sei stata.
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