#luna park abbandonato
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Identità Sconosciuta di Patricia Cornwell: Il nuovo caso di Kay Scarpetta tra segreti, passato e indagini mozzafiato. Recensione di Alessandria today
Patricia Cornwell torna con un thriller avvincente che intreccia scienza, emozioni e misteri
Patricia Cornwell torna con un thriller avvincente che intreccia scienza, emozioni e misteri Con “Identità Sconosciuta”, pubblicato il 26 novembre 2024, Patricia Cornwell riporta in scena l’anatomopatologa Kay Scarpetta, protagonista di un caso intricato che mescola il passato personale della dottoressa con segreti scientifici e inquietanti scoperte. Un thriller che esplora i confini tra scienza…
#Alessandria today#Atmosfera Inquietante#autopsie e segreti#connessioni sovrannaturali#Google News#Identità Sconosciuta#indagini scientifiche#investigazione forense#italianewsmedia.com#Kay Scarpetta#legami familiari#Lettura Intensa#libro novembre 2024#Lucy Scarpetta#luna park abbandonato#misteri scientifici#mistero e suspense#narrativa contemporanea#narrativa poliziesca moderna#nuovo romanzo 2024#omicidi collegati#omicidio bambina#Patricia Cornwell#Patricia Cornwell 2024#Patricia Cornwell biografia#Pier Carlo Lava#Premio Nobel#romanzo emozionante#romanzo misterioso#romanzo poliziesco
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SCOOB!
Norville "Shaggy" Rogers è un ragazzino solitario, che fatica a farsi degli amici. Un giorno incontra un cucciolo di alano danese randagio con il quale fa subito amicizia e decide di chiamarlo Scooby-Doo. La notte di Halloween i due incontrano quelli che diventeranno i loro migliori amici e compagni di avventure: Fred Jones, Velma Dinkley e Daphne Blake. I cinque risolvono assieme il loro primo caso, smascherando il loro primo finto fantasma. Da quel momento diventano inseparabili e una volta cresciuti, iniziano a viaggiare per tutto il paese alla ricerca di misteri da risolvere, formando la Mistery Inc.
Quando il noto personaggio televisivo Simon Cowell propone alla Mistery Inc di fare finalmente un salto di qualità e diventare una vera società investigativa risolvi misteri, prima di iniziare a finanziarli cerca di convincere Fred, Velma e Daphne a escludere Scooby e Shaggy dalla squadra, ritenendo che questi rappresentino in realtà l'anello debole del gruppo, in quanto impegnati solo ad abbuffarsi tutto il tempo e a scappare. Offesi, Scooby e Shaggy decidono di lasciare spontaneamente la gang, prima che i loro amici possano fermarli. Quella stessa sera, mentre i due si consolano giocando a Bowling, vengono attaccati da dei misteriosi robot, chiamati "Rotten", intenzionati a rapirli. Durante la fuga, vengono catturati dal raggio traente di una misteriosa aeronave e una volta a bordo, scoprono di essere sulla Falcon Fury, l'aeronave del supereroe Blue Falcon e del suo compagno d'avventure, il cane robot Dynomutt, eroi di Shaggy e Scooby in gioventù. Nel frattempo, Fred e gli altri si accorgono della scomparsa dei loro amici e riescono a trovare uno dei robot che li hanno attaccati. Grazie a delle analisi condotte da Velma, scoprono che l'automa appartiene a Dick Dastardly, un ben noto super cattivo.
A bordo della Falcon Fury, Shaggy e Scooby fanno la conoscenza di Dynomutt, Dee Dee Sykes (la giovane assistente di Blue Falcon) e Brian, figlio del Blue Falcon originale, che ha da poco ereditato il costume e l'identità del padre, ora in pensione. I tre spiegano a Scooby e Shaggy che Dastardly sta cercando i tre teschi di Cerbero, tre antiche reliquie in grado di aprire una porta per il regno degli Inferi, ove si trova la stanza del tesoro di Alessandro Magno. Ignorano però cosa voglia Dastardly da Shaggy e Scooby. Quest'ultimo riesce a rintracciarli a bordo della propria aeronave e cerca di catturarli, ma la Falcon Fury riesce a sfuggirgli. Intanto Velma scopre, indagando su Dastardly, che negli ultimi tempi il criminale ha svolto numerose ricerche su diversi cani in tutto il mondo, compreso Scooby, e che tutti questi cani sono imparentati alla lontana con Peritas, il cane di Alessandro Magno, l'unico in grado di aprire la stanza del tesoro.
Scooby e gli altri vengono attirati in una trappola da Dick Dastardly, in un vecchio luna park abbandonato in Romania, convinti che vi si trovi uno dei teschi di Cerbero, il criminale sguinzaglia contro di loro i Rotten e cerca di catturare Scooby affermando che Shaggy non gli è utile in alcun modo e di aver già recuperato due teschi. Il gruppo riesce a fuggire e a trarre in salvo Scooby Doo ma Shaggy inizia a sentirsi escluso e a diventare geloso delle attenzioni che il cane riceve da Blue Falcon e gli altri, teme infatti di star perdendo il suo migliore amico. Intanto Dastardly rapisce Fred, Velma e Daphne, per poterli usare contro i loro amici: mentre sono sull'aeronave scoprono che Dastardly aveva un fido compagno di crimini, il cane Muttley. Quando Dastardly provò per la prima volta ad accedere alla stanza del tesoro negli inferi, senza utilizzare i teschi, mandò Muttley per primo. Il cane cercò poi di tornare indietro ma il portale si era già richiuso dietro di lui, in quanto non era il cane giusto. La ragione per cui Dastardly sta quindi cercando di riaprire il portale, non è il tesoro ma salvare Muttley, da anni prigioniero negli inferi.
Finalmente Blue Falcon e la sua squadra scoprono l'ubicazione dell'ultimo teschio, si trova svariati chilometri nel sottosuolo del Polo Nord, dove si è sviluppato un particolare ecosistema fermo ad una sorta di era preistorica. Qui Shaggy litiga con Scooby, rinfacciandogli di non tenere più alla loro amicizia, quando il cane decide di andare a cercare il Teschio con Blue Falcon e gli altri. Questi incontrano uno strano cavernicolo di bassa statura, Capitan Caveman, il guardiano del teschio, che sfida Scooby e Blue Falcon in un combattimento nell'arena, perché guadagnino il possesso della reliquia. Intanto, Fred, riuscito non si sa come a fuggire da Dick Dastardly, rintraccia Shaggy e lo convince a raggiungere Scooby Doo. Quest'ultimo e Blue Falcon, intanto, vengono facilmente sconfitti da Capitan Caveman e riescono a salvarsi solo grazie a Dee Dee e Dynomutt che neutralizzano il cavernicolo. Nello stesso momento arrivano Shaggy e Fred, il quale si rivela essere Dick Dastardly travestito, che rapisce Scooby e si impossessa del teschio, per poi fuggire, dopo essersi sbarazzato del vero Fred, di Velma e di Daphne, che vengono soccorsi da Blue Falcon e gli altri. Dastardly quindi fugge alla volta della città di Atene, dove intende aprire il portale per gli inferi.
Tutti sono sfiduciati e cominciano a litigare tra loro, finché Shaggy, sentendosi in colpa per aver permesso alla gelosia e al suo senso di inadeguatezza di minare la sua amicizia con Scooby, esorta il gruppo a ripartire per fermare Dastardly e salvare il loro amico. Il criminale trascina il malcapitato cane fino ad Atene e utilizzando i tre teschi di Cerbero, riesce a materializzare il portale degli Inferi. Tuttavia quando si serve della zampa di Scooby per aprirlo, Cerbero, il leggendario cane infernale e custode del tesoro, riesce a varcarlo e giunge nel regno dei vivi, intenzionato a distruggerlo e scatenare l'Inferno sulla Terra.
Shaggy e gli altri giungono troppo tardi e decidono di affrontare il mostro, decisi a ricacciarlo nell'Oltretomba e sigillarne l'entrata. Così mentre Shaggy, Scooby, Blue Falcon e i suoi compagni distraggono Cerbero; Fred, Velma e Daphne esaminano il portale e la pagina di un antico codice che Fred aveva precedente rubato dalla nave di Dastardly. Scoprono che il portale può essere sigillato nuovamente ma ad un prezzo molto alto. Dick Dastardly approfitta del trambusto per precipitarsi nella stanza del tesoro, che ignora per lanciarsi al salvataggio di Muttley, miracolosamente ancora vivo e lo riabbraccia con gioia. In seguito i due fuggono portandosi via una parte del tesoro.
Scooby e gli altri, con l'aiuto dei Rotten di Dastardly che Daphne era riuscita precedentemente a portare dalla propria parte, riescono a ricacciare Cerbero negli inferi ma Velma spiega che, secondo le iscrizioni, l'unico modo per chiudere la porta è da entrambi i lati, quindi dovranno essere due persone a farlo: l'erede di Peritas, cioè Scoby Doo e il suo migliore amico, ovvero Shaggy. Inizialmente Scooby vorrebbe sacrificarsi restando negli Inferi, ma all'ultimo Shaggy si sostituisce a lui e convince il suo amico a sigillare il portale con lui dentro. Scooby e la gang cadono preda dello sconforto per aver perso il loro amico, tuttavia Velma ritiene che Alessandro Magno non avrebbe mai accettato di separarsi del suo migliore amico ed è convinta che avesse escogitato un piano alternativo. Immediatamente compare una statua che lo raffigura insieme a Peritas. Quando Scooby tocca il sigillo posto sulla statua Shaggy riesce a tornare, per la felicità di tutti. Poco dopo i Rotten, rivoltatisi contro Dastardly e Muttley, catturano i due malviventi che vengono presi in consegna da Blue Falcon.
Tempo dopo, la nuova Mistery Inc apre finalmente i battenti, includendo Shaggy e Scooby. Infatti, Fred, Velma e Daphne comprendono finalmente che i due rappresentano un elemento insostituibile per la Mistery Gang, ovvero il cuore. All'inaugurazione presenziano anche Blue Falcon (come DJ), Dynomutt e Dee Dee. Finiti i festeggiamenti, la Mistery Inc viene ingaggiata per risolvere un nuovo caso.
Durante i titoli di coda, la popolarità della Mistery Gang aumenta e vengono visti consultare il dottor Benton Quest (padre di Jonny Quest) dopo aver lasciato i Rotten alle sue cure. Blue Falcon e Dynomutt formano la Falcon Force con dei nuovi membri: Capitan Caveman, lo squalo Jabber Jaw, Atom Ant e Grape Ape. Infine Muttley riesce a fare evadere Dick Dastardly di prigione.
USCITA: 2O2O
FONTE: WIKIPEDIA
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#ravenfirerpg [Pomeriggi in solitaria al parco interrotti] [Jordan e Shoto] [Parco abbandonato di Raven, tardo pomeriggio]
*Aveva coperto il turno a lavoro e ora aveva deciso di dedicarsi alla sua passione, che non era infastidire i fratelli - che in ogni caso rimaneva la sua preferita - ma andarsene al parco abbandonato per leggere, cosa che aveva per lui un sinistro fascino e lo calamitava in quel luogo in modo inspiegabile. Jordan aveva maturato nel tempo dei momenti di solitudine che si ritagliava per sè, specie da quando i "blackout" avevano cominciato a farsi più frequenti. Si ritrovava così, molto spesso, a recarsi in quel luogo e ritrovare la calma - e anche un po' di quello che definiva la sua "essenza" - nella lettura o rilettura di alcuni libri. Il fortunato di quel tardo pomeriggio era "Il conte di Montecristo", una rilettura per il fantasma che sentiva di essere un po' come Edmond Dantes nel suo ritorno a Raven, senza che però nessuno lo avesse tradito o fatto fare prigioniero, o che si fosse guadagnato per questo la sua ira e la sua vendetta. Gli piaceva semplicemente immergersi in quella storia, una delle prime lette dopo il risveglio come spettro, e che quindi poteva voler dire proprio una sorta di "ritorno a casa". Ma proprio mentre stava aprendo il testo e girando le pagine per trovare il segno - aveva fatto una pieghetta maledetta in mancanza di segnalibri utili - sentì di non essere solo, e il suo sguardo vagò fino ad incrociare un ragazzo, mentre una musica assordante si faceva strada nel silenzio. Una musica pessima al suo orecchio fine, ma pur sempre una melodia. E notò che stava... ballando? Il fantasma assottigliò lo sguardo abbandonando il suo angolo tranquillo e si avvicinò incuriosito. Si prese alcuni istanti, braccia incrociate sul petto, per osservarlo. Poi esordì.* Ci sono audizioni per qualche musical in città? Voglio partecipare nel caso. Shoto Ryuck *Shoto ama ballare, non può farci nulla, è l'unica cosa che gli permette di essere se stesso al 100%, poiché a volte persino a se stesso mostra un'immagine filtrata di sé. Per quanto, la sua passione per il ballo è assolutamente segreta,nessuno ha il permesso di sbirciare così nella sua anima. L'unico che ne è a conoscenza è suo cugino Hyo-Jae con cui la condivide. Per questo, quando il ragazzo lo interrompe, si blocca immediatamente e spegne la musica, rimettendosi immediatamente i guanti che aveva in tasca, che gli davan fastidio mentre ballava ma gli son necessari quando deve affrontare il mondo* No, nessun musical... Io ballo da solo, per conto mio... *alza lo sguardo una volta che è rientrato nella sua bolla di sicurezza e lo guarda negli occhi, il suo non è proprio stile da musical, ma se fosse proverebbe in una palestra, non all'aperto così... Si rende conto però che può aver dato fastidio, quindi non può essere sgarbato* La musica era troppo alta? [ https://youtu.be/f-CTTl3D5LM ] BTS Hope On The Street - Boy Meets Evil Practice Jordan Dickens *Jordan lo aveva osservato: era sinceramente incuriosito: insomma non gli era mai capitato di beccare qualcuno a ballare per davvero, così immemore della presenza altrui da lasciarsi andare completamente. Si poteva dire che fosse sinceramente ammirato dall'audacia del ragazzo. Alla sua affermazione riguardo i musical accennò un sorriso, increspando solo un lato delle labbra ben disegnate, e si diresse verso di lui con le mani nelle tasche della felpa.* Eppure secondo me potresti prendere in considerazione qualche audizione. Io sono un pezzo di legno e non faccio testo magari, ma tu sembri bravo. Per quanto voglia dire essere bravo per un pezzo di legno. *aggrottò le sopracciglia e sbuffò dal naso sorridendo ancora.* La musica era alta, ma ho letto in condizioni peggiori: tipo in un pullman con persone dormienti al mio fianco. *ebbe un brivido ricordando anche la puzza, e poi tornò su di lui.* Io mi chiamo Jordan. Shoto Ryuck *Shoto è imbarazzo, di solito non arrossisce facilmente, ma essere guardato in uno si quei momenti intimi che è sempre stato solo suo lo mette a dura prova. È abituato a starsene chiuso nei suoi spazi e a decidere lui chi, quando e come può entrarci. L'impetuosità e l'imprevedibilità che ha il mondo di metterlo alla prova lo sorprende sempre* Io... Ecco... Nessuno sa che ballo in realtà. Solo mio cugino. È una cosa che ho sempre considerato personale e mia, non mi apro mai così tanto con le persone. Penso sia per questo che non andrei bene si di un palco, sarebbe troppo per me. *porta una mano guantata dietro la nuca, grattandosela piano, dopodiché alza finalmente il capo verso si lui, guardandolo negli occhi con i propri spalancati* Oh.... Mi spiace aver interroto in qualche modo la tua lettura, starò più attento nell'accertarmi che non ci sia nessuno. Il mio nome è Shoto!
Jordan Dickens Mi verrebbe da dirti che nessuno sa che leggo, ma è una bugia. E' bello che tu abbia comunque qualcosa di solo tuo. *disse fissandolo senza tuttavia l'intenzione di imbarazzarlo ulteriormente. Lo ascoltò poi e immaginò che in effetti anche lui stesso si sarebbe imbarazzato a leggere su un palco: più che altro per i faretti accecanti negli occhi. Jordan non era tipo da imbarazzarsi per niente, era sempre stato così sin da quando aveva memoria.* Mi chiamo Jordan e puoi alzare il volume quanto ti pare. *sorrise cordiale facendosi più vicino, mani nelle tasche e andatura tranquilla. Un sorrisetto furbo a increspare le labbra carnose. Notò i guanti, ma non disse nulla. Forse non era umano o forse semplicemente preferiva evitare i contatti fisici e ridurli al minimo. Alzò il mento.* Hai scelto comunque un posto fantastico per ballare indisturbato: pensavo fosse segreto anche per leggere, ma non ho nulla in contrario a condividere il territorio. *disse ironico appoggiandosi a un tronco di un albero.* A parte ballare cosa fai, Shoto? Shoto Ryuck Anche perché implicherebbe che gli altri ti credano analfabeta... *accenna un sorriso per smorzare l'imbarazzo e riguadagnare controllo di sé stesso, perché Shoto deve avere sempre tutto sotto controllo. Apprezza anche che l'altro non gli offra la mano da stringere per presentarsi....questo gli fa capire che è una persona attenta ai dettagli, gli è stato chiaro che, per portare i guanti anche in una situazione del genere, non gli piace il contatto con il mondo* Jordan... Nemmeno per me è un problema condividerlo, soprattutto se non ti do fastidio mentre leggi...ma ad una condizione. Devi mantenere il mio segreto, non mi hai mai visto qui, né tanto meno ballare. Non amo che le persone abbiano uno spioncino da cui vedere ciò che c'è dentro di me *cerca di rendere l'idea, sul perché balla da solo e per se stesso, facendogli capire anche, in modo implicito, che vale anche per lui. Non intende cacciarlo dal suo posto per leggere, ma di fatto non vuole che colga troppi dettagli personali dalle sue coreografie. Le emozioni che esprime con quest'ultime, non le mostra mai, le tiene compresse dentro di sé, come la sua storia, perché non vuole essere giudicato per quella prima che per chi è* A parte ballare, esamino cadaveri. Ok, detta così suona davvero male...anche se è divertente. Sono un tirocinante in obitorio, ecco tutto. Tu invece, Jordan? Oltre leggere? Jordan Dickens Hai un buon senso dell'umorismo. Te ne do atto, come ti concedo una condivisione alla pari del territorio. *Mormorò con un sorriso ironico per poi aggrottare le sopracciglia alle sue successive parole. Un segreto. Ormai gli sembrava di essere il custode solo di quel tipo di confessioni o di scoperte, cose che dovevano rimanere nascoste, cose che Jordan avrebbe portato con sè nella tomba. Peccato che lui quel dettaglio lo avesse saltato a piè pari, ma ciò non toglieva che le promesse per lui valessero molto. Si porto indice e medio della mano destra alle labbra e poi si toccò il cuore come in un solenne giuramento, e si avvicinò di qualche passo a Shoto così da guardarlo meglio.* Nemmeno a me piacciono gli impiccioni. Abbiamo un accordo. *Pensò che aveva tutto il diritto di ballare e fare come gli paresse: Jordan non era tipo da tenersi le cose dentro, ma aveva la cattiva abitudine di esternare solo ciò che potesse essere facilmente gestito all'esterno. Non che si tirasse indietro in litigi o cose così, ma prediligeva il confronto cortese e il dialogo allo scontro aperto. Inoltre da più di nove mesi aveva preso una ulteriore abitudine pessima: implodere. I fatti legati alla sua sparizione rimanevano un mistero, ma Jordan ne sentiva tutti gli effetti. Era instabile, spesso irritabile, confuso, a volte si svegliava dopo una sorta di black out senza comprendere cosa fosse accaduto, e viveva nel costante terrore di ferire chi amava. Una gita proprio al Luna Park per mente e cuore, anche se ora si scosse per rispondere al ragazzo.* Morti? Penso andremo d'accordo. Se mi avessi detto che costruivi bambole forse avrei potuto esserne inquietato lo ammetto. Odio le bambole. Io sono un agente di polizia. Niente di eccitante. Ci sono stato spesso con la scientifica all'obitorio. Eppure non ti ho mai visto. Shoto Ryuck Beh, questa è una cosa che mi sento dire raramente! In molti pensano sia strano, soprattutto quando faccio battute sul mio lavoro... Ma a chi importa! *scrolla le spalle per poi rivolgere un sorriso gentile e di gratitudine quando il maggiore accetta di mantenere il segreto... Trova che sia gentile da parte sua e lo apprezza molto* Grazie... Ma tranquillo, non avrai una fila di paparazzi a farti domande al riguardo! *ci ride sopra, per sdrammatizzare. Non è che a qualcuno importi di se e dove lui balli. Non è un affare di stato* Gli agenti di polizia, soprattutto in divisa, sono per definizione eccitanti! Non mi meraviglia che tu non mi abbia visto, passo davvero inosservato, spesso sembro invisibile *sembra quasi un fantasma in effetti, che a volte può non essere visto, ma la realtà è che se ne sta sempre in disparte a lavorare ed è una persona che solitamente non attira l'interesse degli altri* Jordan Dickens Io penso sia un lavoro come un altro, ma con una nota maggiore di gotico. Sono un amante di quel tipo di letture, inutile dirlo. *ammise rimanendo con le mani nelle tasche, ma avvicinandosi. Era più forte di Jo: quando qualcosa lo incuriosiva doveva entrare a contatto con essa, e la stessa cosa valeva per "qualcuno".* Se dovesse accadere dichiarerei il falso come mai prima di ora. Lo prometto. Nessuno saprà della tua vena alla Dirty Dancing. *sussurrò ironico eppure con un tono molto serio mentre gli si poneva ora di fronte, né troppo vicino né troppo lontano, insomma a una giusta distanza. * Ci trovi sexy? Dovresti vederci con le macchie di caffè sulla maglietta o di marmellata. Una goduria per gli occhi. *fece l'occhiolino per poi scrutare l'ambiente intorno.* No. Non sei invisibile per niente. Nessuno lo è... *purtroppo, aggiungerebbe, considerato che a lui è capitato spesso desiderare di sparire affinché le cose potessero tornare alla normalità. E per un po' in effetti aveva fatto Puff, ma non era bastato.* Shoto Ryuck Beh, allora la mia storia ti piacerebbe... È abbastanza gotica *accenna un sorriso malinconico, non è un'ironia facile o leggera quella sul suo passato, ma è un modo per mascherare quanto dolore ci sia realmente stato* Se trovi un Patrick Swayze però informalo pure, mi raccomando... Mandalo da me... *ride, da adolescente ha guardato i suoi film fin troppe volte... Ma non sempre solo per la trama, ha avuto una cotta pazzesca per lui e suo cugino Hyo Jae ancora lo prende in giro* Devo ammettere che non lo sono, anche se in certe circostanze vorrei avere l'abilità di diventare invisibile.... In determinate circostanze attiro anche troppo l'attenzione *si riferisce a quando era su tutti i giornali a causa di suo padre, a quando nom toglie i suoi guanti anche in situazioni in cui è strano averli ma non può stare senza. In obitorio per la prima volta riesce a mimetizzarsi e sembrare quasi normale in realtà, altrimenti in molte circostanze è difficile non notarlo* Jordan Dickens *immaginò ci fosse una storia crudele, magari triste davvero, perchè quell'umorismo lo conosceva bene: quante battute aveva speso sul padre andato via? Aveva inventato i migliori giochi di parole su quella "perdita". Era un modo per difendersi, un modo per tirar su la corazza e fingere che la cosa non lo avesse toccato,con la consapevolezza di esserci rimasto sotto, ma la volontà di non lasciarsi schiacciare.* Se non avessi avuto una storia gotica io ora non starei parlando con te. *mormorò inclinando il bel volto dai tratti dure, schiodandosi finalmente dall'albero per raggiungerlo.* E' il peso gravoso che devono portare quelli speciali, non essere invisibili. *continuò estraendo una sigaretta dalla tasca per poi porgergli il pacchetto in una silente richiesta. Insomma se ne avesse voluta una.* Non sei un supereroe, al massimo un super ballerino. Direi che non si può avere tutto dalla vita. E poi sparire non è così divertente e utile come dicono. *e lo sapeva bene lui, che era sparito per un motivo brutto, costretto a guardare chi amava senza poter fare nulla per intervenire nei loro affari.*
Chiusa
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Silent Death, il reclamo
In altri tempi la vista delle montagne innevate, il cielo azzurro e il tepore del sole sulle gambe lo avrebbe fatto piacevolmente assopire, lì in terrazzo, disteso sulla sdraio col giornale abbandonato sulle ginocchia; ma da quando aveva fatto quella telefonata, l’inquietudine si era impadronita di lui, impedendogli di assaporare un qualsivoglia piacere o anche solo di starsene tranquillo.
Da quel giorno.., cos’era stato? Una settimana prima? Da quel giorno viveva nell’ansia di una fine imminente. Ma non era la fine a renderlo inquieto: quella era stata una fredda decisione, presa in piena coscienza e cognizione di causa. Ciò che lo faceva svegliare di notte, che lo faceva sobbalzare al minimo rumore, e che gli impediva di assopirsi al balcone al tiepido sole di primavera col giornale sulle ginocchia, era che non sapeva né come né quando sarebbe arrivata. Sapeva solo che sarebbe stato presto, molto presto.
Non esserne preventivamente informato faceva parte del servizio, ne era condizione imprescindibile, il sito di Silent Death lo diceva in modo molto chiaro, e lui non aveva potuto che convenirne: una morte silenziosa non puoi sentirla arrivare. E tuttavia da quando aveva fatto quel modesto versamento in bitcoin ed aveva acquistato il servizio, era come se ingenuamente aspettasse che qualcuno suonasse al campanello, e che gli si presentasse vestito di nero, occhiali da sole, valigetta in pelle nera: “Silent Death, buongiorno. Son qui per renderle il servizio.”
Aspettava anche quel pomeriggio, mentre guardava le montagne bianche e il cielo blu, e sentiva il sole scaldargli le gambe, e non riusciva a leggere il giornale e nemmeno ad assopirsi... E fu per via del suo sguardo inquieto e della sua attenzione involontariamente vigile che vide un uomo spuntare tra i bossi e arrancare goffamente verso di lui sul prato in ripida pendenza; le sue scarpe a suola liscia lo facevano slittare sulle zolle e una valigia visibilmente troppo pesante rendeva ancora più penosa la sua salita. Lo osservò sbalordito senza muoversi e senza aprir bocca, tanto la scena era improbabile, e si domandò se non fosse un dimostratore del Folletto che aveva perduto la strada.
Lo vide fermarsi un paio di metri oltre la ringhiera del terrazzo, proprio di fronte a lui, deporre per terra la valigia, tirar fuori un fazzoletto e detergersi il sudore; poi aprire la valigia, ed estrarne una pistola. Fu allora che capì: “Silent..?! Silent Death..?!”, domandò. Il tipo fece un impercettibile segno di assenso, una specie di sorriso obliquo; aveva preso un silenziatore dalla valigia, fece per avvitarlo alla canna della pistola, ma si guardò attorno e lo ripose, dopo avere deciso evidentemente che non ne valeva la pena. Poi controllò la carica, tolse la sicura e puntò la pistola. “Silent death..!! Not this!!” urlò lui reclamando i termini del contratto. Il rimbombo dello sparo fece fuggire gli uccelli dal bosco. “Јеби се, сероњо”, biascicò il tipo. E sputò sul suo corpo che dava gli ultimi sussulti.
(Scopro un agente Morte Silenziosa, nella vita Jessica Valiant, uscito dalla tenebrosa fantasia dei creatori della saga Wolfenstein. Per quel che ricordo di Wolfenstein, l’aggettivo silenziosa non può che essere usurpato. Comunque, rendiamole omaggio riproducendo il suo ritratto: le è stato fatto al luna park, al banco del tiro a segno, ne ho anche io uno da qualche parte.)
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avventurieri in altri mondi
avventurieri in altri mondi
Dopo le prime scene , si vedono delle persone entrare in una specie di Luna Park che sembra abbandonato in un posto che appare deserto.Una volta entrati a bordo di una imbarcazione , all’interno si vedono dei mostri finti meccanici tipo quelli della sala degli orrori tipica dei Luna Park , subito dopo i 3 o 4 personaggi tra qui una bella donna vengono trasportati in un altro mondo desertico e li’…
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𝟐𝟎𝟏𝟗𝟎𝟗𝟏𝟒
𝟐𝟎𝟏𝟗𝟎𝟗𝟏𝟒
Alle sette del mattino, il treno per Busan era già affollato: giovani che partivano per un weekend fuori, bambini e anziani che tornavano a casa dopo aver passato il Chuseok con la loro famiglia, coppie che partivano per godersi il mare della città.
Jung BonHwa guardava quest'ultime con immensa invidia: il viso pallido a seguito degli attacchi di panico che la sua stessa testa aveva generato durante quella notte, le occhiaie che circondavano le due brillanti mezzelune deturpate dalla stanchezza, dall'insonnia e dalle lacrime.
Il giovane di ventisette anni restava vicino al finestrino, nelle orecchie i propri auricolari: Riopy suonava ancora e ancora quella melodia che era stata colonna sonora della migliore giornata della sua vita. Non aveva bisogno di chiudere gli occhi per vedere Brian suonare su quella spiaggia di Bali, bellissimo e etereo - una brezza marina gli toccava appena i capelli e, avida, portava con sé la musica che fatalmente era entrata nel cuore del coreano.
Con il suono di quella melodia ancora nelle orecchie avevano espresso le proprie promesse, si erano legati in un matrimonio completamente loro.
Gli occhi si riempirono ancora di perle salate - chinò lo sguardo sulle proprie mani tremanti: le unghie parevano troppo corte, il sangue era incrostato dove un tempo vi era la pelle rovinata. Le dita cercavano l'une le altre, continuando a torturarsi.
L'anello argentato era intatto al suo dito, il metallo non era mai stato così freddo, mai così pesante: quel sole, quella luna, stavano cercando instancabilmente di ricongiungersi; le loro altre metà, però, giacevano su un letto di ospedale.
Sapeva da ore che qualcosa non andava: Brian non lo avrebbe mai abbandonato, mai lasciato da solo. Brian non se ne sarebbe mai andato, ma avrebbe raggiunto la loro casa il prima possibile - avrebbero dovuto festeggiare il Chuseok insieme, quella sera, mangiando avanzi e ridendo del loro pastore tedesco.
Avrebbero dovuto stringersi e festeggiare, accarezzarsi e ridere, ringraziarsi e amarsi.
Avrebbero parlato della loro giornata, sussurrato confessioni toccanti e accarezzato ogni brandello di oscurità, fino a riportarlo alla luce.
Non era andata così: Brian non era tornato a casa. BonHwa aveva chiamato instancabilmente il numero del compagno; in risposta, solo la comunicazione del dispositivo spento.
Era rimasto ore a camminare per le strade di Seoul, ore a chiamare il suo nome nei pressi dei locali più affollati. Si era spinto attraverso folle, per poi crollare a terra, sfinito, attendendo di recuperare le forze. Il nome amato era uno spettro sulle sue labbra, ripetuto in una cantilena stanca e colma di speranza.
Fu poi il turno degli ospedali: uno dopo l'altro, iniziando dai maggiori.
«No, mi dispiace, non è presente nessuno a queste indicazioni.»
«Nessun paziente corrisponde a questa descrizione.»
«Questo nome non è presente tra i dati. Sono desolato, signore.»
Ogni tasto rosso corrispondeva ad un nuovo tentativo - gli ospedali di Seoul non diedero alcuna risposta affermativa.
E così non lo fece il dottor Park, o la dolce nonna Walsh che lo guardò con occhi confusi quando si presentò alla sua porta con i capelli scombinati, gli occhi terrorizzati.
Brian sembrava semplicemente sparito nel nulla. Quanto sarebbe stato facile paragonarsi ad una qualunque avventura di una notte, credere di essere stato abbandonato? Quanto sarebbe stato facile smettere di cercare e piangere sull'idea della propria solitudine?
Nulla di tutto ciò accadde: quella mente paranoica e spaventata sapeva non essere così. All'altezza del cuore, una stretta soffocante gli impediva di credere che fosse tutta una fuga. Il dolore lacerante era ciò che accompagnava la paura - fusi l'uno nell'altro, i due sentimenti portavano ad una sensazione di consapevolezza: era successo qualcosa a quel suo ragazzino, quella sua volpe, quel suo amore.
La chiamata era giunta alle sei del mattino: BonHwa era ancora seduto sul pavimento del loro soggiorno in un'attesa disperata; Amélie e Dahlia sembravano starsi rassicurando a vicenda dormendo l'una acciambellata con l'altra; persino Naree pareva particolarmente mansueta.
Un'aria terribilmente gelida impregnava quella stanza - il freddo gli era entrato nelle ossa; nessuna finestra rimasta aperta.
Il numero sconosciuto illuminava lo schermo: il primo segnale dopo una giornata intera.
Rispose immediatamente.
«Parlo con Jung BonHwa?»
«Sono io.»
«Sono il dottor Kang, dal Busan Centrum Hospital. Riguarda il signor Brian Walsh.»
Il cuore di BonHwa parve fermarsi di colpo - il respiro in gola si bloccò. Dovette lottare per rimanere vigile.
«Cosa gli è successo?»
«È stato ritrovato svenuto in un cimitero-» il giovane non fece finire la spiegazione; era come se avesse compreso. Sapeva esattamente quali parole sarebbero state pronunciate.
Forse, le conosceva da ore.
«È...» suoni gutturali gli si bloccarono tra le labbra, il pensiero di ciò che stava per chiedere lo distruggeva. Non poteva vivere senza di lui: lo aveva detto, lo aveva ripetuto.
Non poteva vivere senza di lui.
Le lacrime rincominciarono a cadere, le gambe sembravano tremare sotto il suo peso; non si era neanche reso conto di essersi alzato.
Quella calda rugiada non poteva essere fermata, i polmoni parevano non collaborare. Il suo corpo stava cedendo di nuovo - l'unico segnale che fosse ancora vivo, che quel gelo non lo aveva divorato, che quel panico non lo aveva distrutto.
Fu grato a quell'uomo che comprese la sua richiesta.
«Non è in pericolo. Se ci raggiunge, le spiegheremo la situazione.»
«La ringrazio. Arrivo.»
Quattro ore di viaggio lo separavano dall'uomo della sua vita.
Quattro ore di viaggio in un treno affollato, da solo - in mente solo la salvezza di colui che lo aveva salvato.
Sperava solo di potergli stringere le mani, di poterlo accarezzare e posare la testa sul suo petto.
Sperava solo di poterlo osservare sorridere, di sentire la sua voce chiamarlo "bambinone" o "Big Bear". Voleva solo sentire la sua voce sussurrargli di non piangere.
Fino ad allora, lacrime calde avrebbero rigato il suo volto, le mani avrebbero cercato di ricordare il calore di un altro paio di mani - l'unico di cui avesse conosciuto la delicatezza, l'unico che avrebbe sempre cercato.
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Vacanze romane con Sylvia Iparraguirre. L’icona della letteratura argentina fa un giro alla “Sapienza”, mi parla di Borges, si sdraia sul petto di Walt Whitman e dice, “le parole sono pericolose”
Tra poco compirà 74 anni, è stata una ragazza affascinante – lo intuisco dalle fotografie che la ritraggono con il suo professore di Università, Jorge Luis Borges – è una signora che continua a conturbare: autonoma, felice, dall’intelligenza rigorosa. Di Roma la affascinano i colori, così carichi, gli alberi, che le ricordano i quadri del Rinascimento, a pranzo, poco dopo, mi dirà, con docile fierezza, “sono sempre stata una donna indipendente, questo per me è importante”. Dirà anche un’altra cosa, su cui concordiamo, con certezza d’acciaio, “le parole sono pericolose”. Per me, Roma resta un’Idra: mi si attorciglia a spirale, spiro, non mi ispira.
*
Una vasta fetta della letteratura argentina contemporanea giace sulle spalle di questa signora minuta e decisa, Sylvia Iparraguirre. La sua storia ho cercato di raccontarla in un ciclo di interviste pubblicate su Pangea (qui, qui e qui). La incontro per la prima volta, insieme alla professoressa Mercedes Ariza, che mi aiuta (il mio inglese è portuale, lo spagnolo non lo conosco ma amo ascoltarlo). “Molto presto nella mia vita (la frase è di Marguerite Duras) ho compreso, non con la ragione ma come si sanno le cose con naturalezza, che ho vissuto due vite: una visibile e un’altra invisibile. La vita invisibile cominciava e terminava con la lettura. In essa, convenivano balene bianche, castelli di Scozia, mummie e piramidi, i cavalieri di re Artù, un uomo naufragato in un’isola deserta. Non è, tuttavia, un mondo che si conclude nell’immaginario infantile. L’universo parallelo della vita invisibile è continuato nel tempo e giunge a oggi come uno spazio dove prendono forma e relazione personaggi, paesaggi, idee. Un luogo mitico, ideale, speculativo che ha forgiato una immagine mutevole di me e che si è esteso ed è divenuto tanto più complesso quanto più sono cresciuta come lettore”. Queste sono le frasi d’esordio de La vida invisible, l’ultimo libro di Sylvia Iparraguirre, pubblicato per Ampersand nel 2018, una autobiografia per libri e per incontri. Nel libro, Sylvia parla del suo rapporto con Borges, con Cortázar, “che uomo dolcissimo, è stato ospite a casa nostra, più di una volta”. Alla ‘Sapienza’, più tardi, parlerà di cosa significa “dirigere una rivista letteraria e fare resistenza culturale durante la dittatura militare”. La rivista, El Ornitorrinco fu fondata da Sylvia insieme al marito, Abelardo Castillo, e a Liliana Heker. Castillo, più grande di lei di 13 anni, morto due anni fa, è stato tra i grandi ‘movimentatori’ della cultura argentina del secondo Novecento. Con dedizione, Sylvia sta curando l’edizione dei diari. “Non era un uomo facile. Ci siamo sposati, abbiamo deciso di non avere figli, abbiamo passato una vita destinata alla scrittura. Ci dividevamo in due stanze, lui lavorava in una, aveva bisogno di musica, io in un’altra, nel silenzio. Non avevamo orari. Ci siamo amati, molto. Ma non ci siamo concessi nulla sul piano letterario, eravamo feroci, l’uno con i testi dell’altro”. Sylvia tiene gli occhiali da sole. La luce le dà fastidio, dice. La luce come una turba di lucertole, penso. Penso che abbia amato e sofferto, Sylvia. E tradotto la vita nella scrittura.
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Vent’anni fa Sylvia scrive il libro di maggior successo, La terra del fuoco. Nel 2001 il libro esce per Einaudi: complesso, alto, vigoroso. Come una appendice al romanzo, scrive Tierra del Fuego: una biografía del fin del mundo. In Italia questa scrittrice di genio è pubblicata da Crocetti (Luna Park) e da L’Asino d’Oro (Il ragazzo dai seni di gomma, Sotto questo cielo). Mi domando perché non sia stata invitata alla scorsa sessione del Salone del Libro di Torino, intitolato a Cortázar, insieme a Liliana Heker, per parlare di letteratura durante un regime canino, caino. Troppo lavoro, troppa fatica, forse. Mi regala un libro, Del día y de la noche, pubblicato in Argentina nel 2015. Piccole prose liriche. Una, Reclinando, frente a un río, ha per protagonista un dolcissimo Walt Whitman. Me la faccio leggere. “Celebro me stesso, dice il meraviglioso Walt Whitman, sdraiato tranquillamente sulla collina verde dove è sempre primavera. Con la sua ruvida camicia da contadino e il cappello di paglia, Walt, chinato, appollaiato su un gomito, mira l’Hudson mordendo un filo d’erba nel sole pomeridiano. Una celebrazione così innocente, così adamiticamente maschia… Il paesaggio che guarda lo commuove profondamente: una grande nazione si estende ai suoi piedi, con fiumi, montagne, uomini occupati e macchine poderose. Guarda, Walt Whitman, e pensa come tutto fluisca in armonia con quel punto, all’orizzonte: il futuro… Con quale naturalezza celebra e canta ciò che contiene tutto. Mi invade il desiderio intenso di chinarmi sul suo petto, sulla sua barba bianca mossa dal vento e lì, al suo fianco, cantarmi e celebrarmi. Ma è difficile. Bisognerebbe avere avuto un commercio molto prolungato e libero con il mondo, come lui, una fede indubitabile nel futuro per poter, solo in quel momento, tentare il canto”.
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L’autore dell’articolo insieme a Sylvia Iparraguirre, a Roma. In mezzo, Borges…
Sylvia mi spiega come un semplice pronome (voi al posto di lei), nella frase finale della Terra del fuoco, “una traduzione altrimenti impeccabile”, abbia alterato l’intero senso del romanzo. Ci sarebbe da scriverne un racconto borgesiano, le dico. Sylvia, icona della letteratura argentina, ride. Poi mi fa un regalo. Dentro una busta di carta. Il Diálogo con Borges di Victoria Ocampo, edito dalle edizioni di Sur nel 1969, cinquant’anni fa. Che regalo! In Italia il libro è stato pubblicato da Archinto, qualche anno fa. Per la prima volta, la Ocampo scava nella genealogia di Borges. “Nella sua famiglia ci sono diversi soldati e comandanti: crede che questo abbia avuto un ruolo nella sua vita, nella sua letteratura?”, chiede Victoria. E Borges, sornione, “Nella mia vita non lo so, nella letteratura sì. Non mi ha mai abbandonato la nostalgia di vivere quel destino epico che le divinità mi hanno negato, saggiamente, senza dubbio”. In un altro punto, si tocca l’intimo. “Non ho mai pensato di diventare famoso. Né di essere amato. Pensavo che essere amato fosse una specie di ingiustizia: non credevo di meritare alcun amore speciale e ricordo la vergogna, durante il mio compleanno, di ricevere tutti quei regali per cui non avevo fatto nulla, era una specie di impostura, non li meritavo”. Torno a Sylvia. “Oggi vengono da me e mi chiedono di pubblicare. Non si attende al linguaggio, non ci si imprime dentro un’opera. Ora la letteratura mi pare per lo più marketing”. Non si lamenta, come tutti, ha luce il suo viso.
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Dopo aver incontrato dei “burocrati della cultura”, come dice lei, disinteressati alla letteratura ma preoccupati del ‘business’ editoriale, la Iparraguirre non si scompone. “Che incontro interessante”, fa. Io, sconsolato, le chiedo, perché? “Li metterò in un mio racconto!”. E sorride. Così, la letteratura riscatta tutto. (d.b.)
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ORTEZZANO – “Senza studio e curiosità non si va da nessuna parte. Non pensate alle stelle, pensate ad imparare il lavoro e a dare il massimo. E quello che fate, fatelo con il cuore”. Sono alcune delle riflessioni che lo chef stellato Moreno Cedroni ha regalato ai tanti studenti e amministratori locali che hanno preso parte all’ultima tappa di Gener(Y)Action, segnata anche da un ottimo pranzo finale preparato dalle classi VA e IIIA dell’Istituto “Urbani” di Porto Sant’Elpidio, insieme ai docenti Enrico Maria Rimbano e Enrico Fioroni.
La lectio magistralis
“Siamo qui per capire dove andrà l’agroalimentare, ma prima dobbiamo capire dove stiamo andando noi” ha esordito Cedroni. “L’orto della nonna scandiva il tempo e le stagioni. Io sono un cuoco contemporaneo e dò il giusto valore al cibo; per noi che non abbiamo conosciuto la fame il cibo non è solo nutrimento ma anche nutrimento dell’anima. E tutti abbiamo la fortuna di vivere nel chilometro zero. Le Marche sono una regione che potrebbe essere un vero e proprio luna park, perché c’è tutto: olio, vino, pesce, carne, tartufo, legumi. Abbiamo un patrimonio inestimabile”.
Sono due gli aspetti che Cedroni ha voluto rimarcare agli studenti dell’Agraria di Montegiorgio e del “Tarantelli” di Sant’Elpidio a Mare: il ricordo e la curiosità nel conoscere. “Siete gli unici che potete portare avanti le tradizioni, perché se non abbiamo la nostra memoria storica di un sapore come facciamo a sapere qual è il pomodoro migliore? Solo che noi vogliamo l’isola che non c’è, vogliamo i prodotti tutto l’anno, vogliamo prodotti privi di nutrimento che costano il doppio. Ma l’anima del cibo è l’anima di quelle mamme e di quelle tradizioni. I miei ricordi sono in una ricetta: la fettina di mia mamma, in padella con un po’ di olio, uno spicchio d’aglio e una spruzzata di vino. E quel sapore dove ti porta? A costruire nuove ricette”.
Il mercato è capace di stregare i consumatori con i suoi 3×2, con l’olio a 4 euro e la pasta a 0,50 al chilo, ha sottolineato. “Ma come fa a costare così quell’olio? È impossibile. Non dobbiamo guardare il costo al litro o al chilo, ma piuttosto quello che serve a noi. Nutrirsi è da considerarsi un atto sacro e noi abbiamo la fortuna di poter scegliere. È tempo di restituire l’anima al cibo, riscoprire il suo magico potere di creare convivialità e comunità. Dobbiamo scegliere cosa mangiare e cosa non mangiare. Siamo invaghiti delle trasmissioni di cucina, ma poi a casa si cucina sempre di meno e crescono i prodotti di quarta gamma, quelli già pronti”.
Altro tema toccato da Cedroni è stato quello dello spreco alimentare. “Nel mio ristorante l’ho vietato e dobbiamo avere una gestione del prodotto tale che venga riutilizzato. Un cuore di un cavolfiore o di un frutto viene ricotto e rigenerato per il pranzo del personale, che è una cosa sacra. E questa cosa mi è stata insegnata nella comunità di San Patrignano”.
Scegliere sempre ingredienti di valore, con certificazioni, anche cercando dove possibile di sapere delle condizioni delle persone che vi lavorano. “È il modo in cui mangiamo a rivelare chi siamo. Per i nostri nonni i pasti erano momento fondamentali, oggi lo sono molto meno. Le nostre tendenze alimentari si dimenticano di un concetto basilare: quello del piacere. Ma il buon cibo è sorgente di energia pura, è fonte di positività che si propaga in tutte le azioni quotidiane”.
Cedroni ha invitato i giovani a valorizzare i prodotti locali e tipici dei nostri contadini, a favorire la diffusione dell’agricoltura biologica (“Sono i prodotti non biologici che costano troppo poco” ha rimarcato), oltre che a limitare le fonti di inquinamento.
Rivolgendosi agli amministratori, lo chef stellato li ha invitati ad un miglioramento genetico evolutivo dell’agricoltura biologica. “Consiste nel creare produzioni mescolando semi e incrociandoli tra loro tra diverse varietà e lasciandole evolvere. Questo offre la possibilità di adattare la cultura non solo alle variazioni nel lungo periodo, ma anche di anno in anno. Importante anche il ritorno ai frumenti antichi, il grano negli anni è stato svilito del suo valore identitario”.
Attenzione anche sulla Dieta mediterranea. “Abbiamo cominciato a rovinare le nostre buone abitudini dopo gli anni ’50. E oggi possiamo dire c’era una volta la Dieta mediterranea. Nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo ci sono due bambini obesi ogni 10, nei paesi nordici uno ogni 10. Un approccio contemporaneo alla cucina: questo deve essere il vostro obiettivo, con scelte consapevoli da abbinarsi a scelte eticamente corrette”.
Un passaggio Cedroni lo ha fatto anche sulla produzione di rifiuti. “Nel mio ristorante abbiamo abbandonato l’uso di plastica non riciclabile. Ognuno di noi nel suo piccolo può fare qualcosa per contribuire ad un mondo migliore”. Quindi, cibo come tradizione, amicizia, ritrovo, rituale e piacere. “Pensateci quando mangiate una cosa e non ragionate su cosa state mangiando”.
Per la sua conclusione ha scelto una ricetta fatta dalla madre con una pentola a pressione, “un oggetto da riscoprire”. “Puliamo per bene i carciofi, lasciamo un pezzo di gambo e prepariamo un trito di pane secco, prezzemolo, aglio, olio extra vergine e sale. Poi farciamo i carciofi e prepariamo la pentola a pressione. Per 12 carciofi ci vorrà un po’ d’olio, 200 ml d’acqua e 200 ml vino bianco. Ci metto anche pomodorini e salsicce a pezzettini. Chiudo la pentola sul fuoco basso e da lì saranno 14 minuti. Quando aprite la valvola non vedete l’ora di assaggiare quel piatto e di farci una scarpetta”.
Gli interventi
Diversi gli interventi che hanno preceduto la lectio magistralis di Cedroni. Tra questi il sindaco Giusy Scendoni, che ha ringraziato la Provincia e l’Anci per aver scelto Ortezzano. “Questo è un progetto importantissimo, messo in campo perché vuole far rinascere un territorio puntando su elementi fondamentali come giovani e lavoro. Il mio auspicio è che possa continuare ed essere rifinanziato. In questo territorio della Valdaso si produce la maggior parte dei prodotti agricoli delle Marche, ci sono imprese agroalimentari di successo e con segnali positivi sul fronte dell’imprenditoria giovanile. C’è anche un contratto agroalimentare d’area, che vede coinvolti 19 Comuni e più di 100 privati. Occorre andare sempre più verso una produzione di qualità, che tuteli l’ambiente e che possa dare un prodotto finale di qualità. Le potenzialità del settore sono tante, ma c’è bisogno di giovani che decidano di restare qui e continuare ad investire”.
Particolarmente emozionata la presidente della Provincia Moira Canigola. “Gener(Y)Action è un progetto che abbiamo voluto fortemente. Aver visto in questi mesi tanti ragazzi è un risultato particolarmente importante. Il nostro è un territorio difficile, colpito duramente dal terremoto ma ricco di tante possibilità. Abbiamo cercato di sviscerare tanti aspetti e sfaccettature in questi nove incontri, a cui hanno preso parte ben 700 ragazzi. In più abbiamo lavorato aprendo degli sportelli in diversi Comuni della nostra provincia, creato sportelli Fare Impresa e parlato di Europa.
Siete voi una delle risorse più importanti del nostro territorio – ha aggiunto rivolgendosi agli studenti -, sarete quelli che queste potenzialità dovranno trasformarle in realtà e in sviluppo. Un bilancio conclusivo positivo per numeri e risposta, quindi, ma con un piccolo vuoto. “Speravamo, ma ancora questa speranza non è finita, che questo progetto possa essere rifinanziato e possa durare ancora tanto tempo. L’attenzione c’è e i risultati si possono raggiungere”.
Per la Regione Marche è intervenuto Carlo Sciarresi, responsabile regionale per il riconoscimento della qualifica di imprenditore agricolo. “Come Regione abbiamo attivato il Piano di Sviluppo Rurale 2014-2020, che aiuta gli investimenti nel settore. Agli oltre 500 milioni iniziali si sono aggiunti 180 milioni per il cratere e in questo budget il 15% è destinato alla creazione di imprese. In questi anni il mondo agricolo è cambiato e oggi si apre una strada molto importante a cui legare l’informazione e la formazione. È molto importante la passione, ma anche la conoscenza. Un augurio a voi affinché possiate sviluppare passione e tanta voglia di intraprendere”.
“L’agricoltura 4.0 è un qualcosa di reale e possiamo farlo anche qui con gli strumenti che abbiamo a disposizione – ha sottolineato Adriano Mancini, ricercatore dell’Università Politecnica delle Marche -il percorso evolutivo dell’uomo segue il percorso evolutivo dell’agricoltura ed ogni progetto deve partire da una domanda: chi sono i reali beneficiari del mondo agricolo? Sono i consumatori, i produttori, i distributori, gli investitori, le istituzioni. Bisogna capire che non è solo un problema di popolazione, non dobbiamo fermarci a questo incremento ma anche a quello del budget calorico. Per questo motivo bisogna produrre in modo più sostenibile.
Oggi il punto di svolta è l’Agricoltura 3.0 che prende il termine di Precision Farming: se diamo più di quello che serve al terreno, lo stiamo danneggiando; dobbiamo invece capirne le reali necessità. Gps, droni e satelliti sono il cuore vitale dell’agricoltura di precisione, perché riescono a vedere dove ci sono i problemi e su quella base possiamo decidere di andare con il trattore e spruzzare la quantità di prodotto giusta”.
Di grande interesse anche la storia del giovane Andrea Servili, proprietario di un’azienda di trasformazione agroalimentare con sede ad Amandola, tornato dopo un periodo come ricercatore universitario dalla Nuova Zelanda per investire in un territorio difficile e in un momento particolare, vale a dire 10 giorni prima la grande scossa del 30 ottobre.
“Non è stato semplice riorganizzare le idee, ero pieno di entusiasmo e di aspettative, invece ho trovato una situazione non ideale per cominciare. Ma più che guardarmi indietro ho deciso di guardare avanti. Lo sforzo più difficile è stato quello di vedere tante persone andarsene. A distanza di due anni rispondo che me l’ha fatto fare la passione che ho per questo lavoro: lavorare in mezzo alla natura è una ricchezza indescrivibile, così come l’amore per il mio territorio. Oggi ho realizzato ciò che volevo fare e che in quella situazione era impensabile. E sono felice. Mi piacerebbe lasciarvi un consiglio: quello di scegliere il lavoro che vi piace, non fate scegliere agli altri o agli eventi che accadono nella vita”.
La perfetta linea di collegamento tra prodotto e cucina: così è stato presentato ai giovani Sandro Pazzaglia, uno dei 12 Senatori a vita della Federazione Italiana Cuochi, che da anni si è dedicato alla formazione e al rapporto proprio con le nuove generazioni.
“Questo target ha bisogno di fatti, non di chiacchiere. Avete una grande opportunità: avete al fianco le istituzioni, avete la tecnologia e avete la gioventù. Il ricambio generazionale è importantissimo, ma non dimentichiamo la riscoperta di alcune peculiarità, come la mela rosa dei Sibillini. Il mio dispiacere è che non parliamo mai del tartufo dei Sibillini che non ha nulla da inviare agli altri, così come dell’olio extra vergine di oliva e i formaggi splendidi che abbiamo. Da un punto di vista d’impresa c’è un campo vastissimo, ma fate una profonda riflessione su quelle che sono le vostre aspettative professionali”.
“C’è tanto orgoglio in questa mattinata – ha concluso Maurizio Mangialardi, presidente dell’Anci Marche -, siamo stati capaci di aver intercettato risorse, coinvolto scuole, Comuni e imprenditori per far capire come quella disponibilità che hanno i nostri ragazzi possa trovare un percorso di vita, di relazione e di lavoro. Penso che questo progetto debba avere un proseguo. Oggi abbiamo perso le nostre relazioni, non sappiamo più cosa è un ‘noi’ e guardiamo solo ad un ‘io’.
Così ci chiudiamo e non abbiamo più il senso dell’insieme, e quando non c’è questo non c’è il senso di cosa ci fa stare insieme. L’idea di ritrovare la filiera vera sta nel rimettere al centro il ‘noi’. Facendo questo ritorna il rispetto dei luoghi, dell’uomo e del lavoro dell’uomo. Allora potremo ritornare a vedere il lavoro di cittadinanza, la gente che lavora, che ha passione e che in questo trova il futuro”.
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FRAMMENTO
Mi alzo dal letto, devo prendere le cose e uscire, casa di Viola non è più così accogliente. Mi sento di troppo, come se in realtà non ci fosse un posto per me tra quelle mura. Scendo le scale vedo la tua giacca sulla sedia rossa, c’era scritto “IL TUO ODORE” sopra. (Mi Manchi)
Mi siedo sulla sedia e mi raggomitolo nella tua giacca, so che Viola non scenderà, sicuramente stava limonando con guido, ogni sospiro in quella giacca è preziosissimo. (MI mancano i tuoi abbracci, la tua pelle sulla mia)
Quell’ultimo bacio afrodisiaco, mi ha spezzato il cuore, ancora sto rinunciando a tutto quel che di bello abbiamo avuto e piango, come quella sera dopo il luna park.
Il tuo odore è come una doccia calda, appena tornati dal freddo inverno. Brucia, sento i polmoni ingiallirsi della tua fragranza e diventare oro grezzo.
Mi alzo non so con quale forza, in certi momenti sento come se tu piangessi con me. é strano davvero, in certi momenti posso dire di essere certa che tu sei da qualche parte, a piangere le mie stesse lacrime.
Saluto Viola, torno a casa, ho sul letto ancora le stesse coperte in cui hai dormito tu l’ultima volta. (Anche a me manca poter dormire assieme)
Non riesco a cambiarle, ho ancora la foto di te raggomitolato, dormiente, io lì davanti a te a farti la foto, quanto amore…
A cena con mia madre e mia sorella, si parla del più e del meno, mi vengono ricordati i miei dolori mestruali#come controllare i crampi.
Mi ricordo di essere stata in quella stessa stanza con te, Viola e Kate.
Io stavo malissimo, è così difficile sopportare in presenza di altri.
Ci stiamo alzando per salire in camera, appoggio la testa sul tavolo manifestando l’intensità del mio dolore, tu allunghi la mano sulla mia testa io mi alzo, comprendo il tuo gesto e lo apprezzo, davvero. LA mattina seguente ci siamo dati il primo bacio. Non è sempre stato facile starti vicino, ma per quei momenti, come il tuo ritorno a Lambrate, avrei davvero venduto l’anima… (TI AMO/ piango)
Ritorno al presente, sono a cena con mia madre, io e te non parliamo e piangiamo separati, sì perché non stiamo più assieme. Non potrebbe mai più essere lo stesso.
Sì TI HO PERDONATO CAVALIERE, perché ti amo. Vorrei tornare, ma so che se lo facessi adesso sarebbe un’errore e se aspetto, forseFORSEEE riuscirei a non tornare da te. Voglio… dare gli esami, maturare quel che ho imparato di noi. Voglio provare a dimenticarti, voglio riuscire a stare bene da sola. Se dopo tutto questo potrò vederti e riscoprirò il mio sentimento ancora vivo, combatterò per te. Ribalterò ogni mio limite, nella speranza di riuscire a raggiungere te. NOn mi aspettare deficiente! Cazzo ti(mi) odio!
# sei davvero di quanto più bello mi sia successo nella vita.
Quante volte lo hai ripetuto, alternando con un “Ti Amo”, quella sera a Genova nel ristorante abbandonato, ero così felice, e forse solo adesso capisco quanto.
Quello, Quel sentimento come si è trasformato mentre eri con lei?
Quell’amore a me ha sempre portato a non scegliere nessun’altro al di fuori di te.
Non avrei mai accettato nessun’altra intimità al di fuori della nostra, ma tu Sì. Va bene così, non mi importa più. Ti ho perdonato, idiota! (Ti Amo)
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Se avete fatto i centri estivi al Negrone non potete non ricordarvi di Greenland. Grazie a Human Safari possiamo dargli un ultimo sguardo
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Scappiamo... Andiamo in qualche posto abbandonato, stanotte. In un luna park, un parcheggio, un cinema, dove vuoi... Sediamoci sul cemento coperto di erbacce, con le tue Black Devil e una bottiglia di vodka, vicini perché fa freddo, con i respiri che si condensano... toglimi la sigaretta dalla bocca, appoggia le tue labbra sulle mie e fammi dimenticare chi sono per una notte.
@rebbbutch
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John Wick A bordo della Cadillac rosso fiammante decapottabile, noleggiata qualche ora prima appena atterrato negli Stati Uniti, aveva deciso di fare un breve giro lungo la tanto romanzata East Coast. Il suo obiettivo era però tornare a New York, a bordo della sua auto, godendosi quelle ultime ore di libertà prima della fine del test di Margot. Era vestito in abiti civili, il gomito appoggiato sulla portiera e fermo al semaforo rosso osservava la spiaggia. A Helen quella visione sarebbe piaciuta da morire, molte volte avevano passeggiato sulla sabbia a piedi nudi, godendosi il vento sul viso e le gocce salmastre che si levavano dal mare sferzate dal vento. Tornavano a casa umidi, salati, ma poco importava, erano loro due, contro ogni altro problema. Sul volto di John apparve un’ombra, un alone oscuro, se solo la malattia avesse colpito lui e non lei, ora Helen starebbe passeggiando a piedi nudi sulla sabbia, ricordando i loro bei momenti insieme. Non era giusto che qualcosa al di sopra di tutto li avesse separati, la sua intera vita era stata un’ingiustizia. Strinse la mano attorno al volante, i muscoli si tesero a tal punto da fargli partire una fitta dalla ferita che si era riaperta dopo la colluttazione con Margot. Margot. Il semaforo tornò verde e John sembrò tornare in sé, era come se una delle onde della risacca avesse strappato dal suo viso quei brutti pensieri e li avesse riportati nella profondità dell’oceano. Svoltò, decidendo di lasciarsi il mare alle spalle. Questa volta non visitò il Continental di Los Angeles, tirò dritto per un rifornimento, un po’ di spesa e poi via, verso la Route 66. In un dollar store cercò qualche cd usato da poter piazzare in auto durante il viaggio e prese quasi come un segno il fatto che qualcuno avesse deciso di abbandonare una raccolta di canzoni di James Taylor. “Chi potrebbe mai rivendere un capolavoro simile?”, si chiese mentre raccoglieva un paio di altri cd: Genesis ed Eric Clapton Con movimenti lenti e noncuranti pagò, sotto braccio aveva una busta di carta con beni di prima necessità, poi chiese anche un paio di pacchetti di Marlboro e un accendino nuovo, il suo era andato perso probabilmente al Luna Park abbandonato. Dopo poco era di nuovo alla guida, con il vento umido e soffocante del deserto. Inserì il cd nell’autoradio e alzò il volume, con un sospirò lasciò volare via assieme allo spostamento d’aria tutti i brutti pensieri, aveva tutto il tempo di pensare al lutto una volta di nuovo a casa, in quella enorme casa vuota nella periferia di New York. https://www.youtube.com/watch?v=XAzgwSLiMUc
Margot Forrester Margot era tornata al Continental di Amsterdam coperta di melma viscida non ben identificabile. Aveva fatto l'errore di credere che quel passaggio sotterraneo conducesse a qualche stanza interrata riservata ai cavi elettrici di collegamento tra le varie giostre del Luna Park e i due immensi generatori di energia che aveva trovato nel magazzino, ma era stata delusa. Una volta entrata nella Casa Stregata aveva dovuto fare i conti con bambole meccaniche che saltavano fuori all'improvviso da ogni anfratto buio, luci psichedeliche che non avevano fatto altro che irritarla ulteriormente e urla agghiaccianti che la accoglievano nelle stanze con uno schema non ben definito. Doveva ammettere che c'era stato un momento in cui si era /quasi/ spaventata: la nuova sala a cui aveva trovato accesso aveva una pianta circolare, piuttosto claustrofobica con le sue alte pareti spoglie, le ampie piastrelle a scacchiera del pavimento e un'unica finestra troppo sopraelevata perché si potesse scorgere alcunché dell'esterno. Al centro era stato posizionato un fantoccio macilento che riproduceva un condannato alla gogna, con tanto di ceppi alle mani e al collo. L'assassina si era avvicinata con diffidenza al manichino, aspettandosi che si muovesse all'improvviso o che un infido registratore al suo interno riproducesse, senza il minimo preavviso, l'ennesimo urlo straziante. Ormai era arrivata a pochi passi di distanza ma quella ridicola imitazione umana in cera scadente non aveva ancora dato segni di vita. Non appena la killer si era accorta di aver trattenuto il fiato fino a quel momento si era concessa di rilassarsi un poco, ma in quell'esatto istante una grande lama argentata era calata a ghigliottina a pochi centimetri dal suo naso, decapitando la bambola. La donna arretrò con un balzo, con il cuore in gola. Quella non era un'attrazione da Luna Park, era una dannata trappola mortale! Probabilmente John, alla sua veneranda età, sarebbe stato colto da un infarto, lì dentro, pensò Margot. John. Probabilmente a quell'ora se l'era già filata abbandonandola in quel cimitero di vecchia ferraglia, ma soprattutto, sottraendosi alla minaccia della sua arma 3D. Proseguì con i nervi a fior di pelle, raggiungendo finalmente l'ultima stanza della Casa. La vista sull'ambiente era impedita da una porta socchiusa. La killer si insospettì, dunque rimase immobile al suo posto, allungando solo una mano per sospingere lievemente il legno tarlato. La porta si aprì cigolando e un secchio metallico si rovesciò spandendo quelli che sembravano visceri sintetici per tutto l'ingresso. Margot tirò un angolo della bocca in un mezzo sorriso ed entrò, sposando il secchio che ancora dondolava dall'altro dello stipite. Scivolò sul liquido gelatinoso di cui erano impregnate le interiora e rovinò sulle natiche. D'istinto si era aggrappata al secchio, trascinandolo con sé; in questo modo aveva scoperto che quel recipiente infernale era collegato ad un gemello di dimensioni lievemente più piccole che le rovesciò sulla testa una grande quantità di sangue finto. La donna si tirò in piedi furibonda, snocciolando una sequela di volgarità e benedizioni che la decenza impedisce di riportare e si guardò intorno alla ricerca di una grata di collegamento con il sottosuolo. Come anticipato nell'incipit però, il condotto non si collegava ad una stanza, bensì alle fogne. Passò un altro paio d'ore alla ricerca della sua pistola e finalmente poté tornare all'albergo, sfinita e coperta di robaccia dalla punta dei capelli ai posti più impensabili. Certamente i killer olandesi che si trovavano per caso nella hall, al suo arrivo, non avrebbero dimenticato quella visione tanto in fretta. La prima cosa che fece, una volta raggiunta la propria camera fu prepararsi un bagno caldo e buttarsi in ammollo per tre quarti d'ora buoni, con tanto di idromassaggio. Quando le sue dita furono talmente raggrinzite da somigliare alla buccia di una prugna secca, si decise ad abbandonare la vasca confortevole e a gettarsi addosso un accappatoio. Tamponò l'acqua dai capelli con un asciugamano e si guardò allo specchio per assicurarsi di essersi ripulita a dovere. Mentre esaminava le escoriazioni che le rovinavano i gomiti e le ginocchia, le arrivò una chiamata sul cellulare. Era Sam, da New York: « Si può sapere dove cavolo eri finita? Sto cercando di chiamarti da ore. » « Ho avuto da fare! » rispose lei acida « Che vuoi? » « I tuoi scagnozzi hanno registrato l'ingresso di Mr Wick su suolo americano, come da tua richiesta, volevo informarti. » Margot grugnì con disappunto e guarì le sue ferite con un rituale lescanzi, mentre ringraziava l'amico e prendeva a fare i bagagli. Prima di lasciare l'hotel, domandò al receptionist di mandare i suoi vestiti sporchi in lavanderia e farli poi recapitare all'indirizzo che appuntò sul retro del biglietto da visita di uno dei suoi alias. Prese il primo volo per la costa orientale degli Stati Uniti e si addormentò come un sasso sul velivolo. Aveva otto ore di viaggio per blandire la stanchezza.
John Wick Lungo la strada aveva ricominciato a pensare un po', la strada era dritta e non c'era traffico a distrarlo. In lontananza vedeva la strada bagnata e tremolante, segno che il sole stava creando strani miraggi. John recuperò dal borsone sul sedile posteriore una bottiglietta d'acqua e ne sorseggiò metà del contenuto, sperando di sentire quasi un retrogusto di Bourbon. https://www.youtube.com/watch?v=B2hTQjK1Fa4 Una nuova canzone era già partita, viaggiava da così tanto che ormai il cd volgeva al termine. Guardò brevemente sul sedile del passeggero e osservò il secondo cd della collection che era già pronto a sostituire il primo. John prese a guidare con la sola mano sinistra, la decapottabile sfrecciava sulla strada pigra e dritta. Era ormai la una inoltrata quando l'auto si fermò in uno degli sparuti agglomerati lungo la route 66. Lì fece rifornimento e poi si infilò nel café per mangiarsi un panino. Estrasse il cellulare dalla tasca e scorse nella rubrica fino a trovare l'alias di Margot, premette il tasto per comporre un messaggio e lo inviò con un mezzo sorriso divertito. "Daddy è quasi convinto che sta per vincere. Se posso darti un suggerimento, sarebbe meglio tu che preceda le mie mosse più che seguirle. Poi non dire che non ti sto aiutando." Finì il suo panino con estrema calma, pagò e si rimise alla guida. Una volta giunto a Tucson si fermò, lasciò l'auto noleggiata in una stazione e si diresse grazie a un paio di mezzi verso la periferia. A passi lenti e misurati entrò in un piccolo aeroporto privato e raggiunse gli uffici. Rimase in attesa per un buon quarto d'ora fino a che una segretaria lo chiamò. «Cosa posso fare per lei?» chiese con cordialità fin troppo forzata. «Vorrei prenotare un volo privato fino a New York. Appena possibile.», John fece scivolare una moneta d'oro sulla scrivania della segretaria di mezz'età che sembrò impallidire subito. Ci fu un cambio così repentino che la segretaria scattò in piedi, come se avesse aspettato quel giorno da una vita, come la preparazione a un incendio o a un tornado. «Mi scusi, non avevo immaginato che...Torno subito. Mi scusi ancora.» Dopo qualche minuto comparve un uomo in ottima forma nonostante l'età, si fermò a guardarlo prima di avvicinarsi guardingo e porgergli la mano. «Siamo onorati di poterla servire, Signor-?» «Wick. John Wick.» L'uomo che fino ad allora aveva mantenuto una sorta di aria professionale sembrò trattenere a stento un sorriso e indicò con un braccio l'uscita che dava sulla pista di atterraggio. «Prego, prego Mr Wick. È un grande piacere poterla aiutare. Dunque non avevamo pianificato alcuna disponibilità nell'immediato, ma per Mr Wick devo proprio fare un'eccezione. Senta mi lasci cambiare, intanto la faccio accomodare sul mio personale aereo.» John fu piuttosto stupito da tanta cordialità, fece un breve cenno, una sorta di ringraziamento silenzioso e salì sul piccolo aereo privato. Le poltrone erano comode, il tavolo era ampio. Appoggiò il borsone in una cappelliera in finto legno lucido e si sedette. Considerando la differenza di orario sarebbe giunto a destinazione a più o meno ventiquattro ore dalla scadenza della settimana. L'atterraggio nel piccolo aeroporto privato della periferia di New York fu placido. John ringraziò di nuovo l'uomo che osservò quella moneta con aria soddisfatta. John si chiese a cosa sarebbe servita e soprattutto perché aspettasse così tanto di poter pagare qualcuno dell'ordine per un servizio da una moneta. John prese un taxi e raggiunse la propria casa, Charon sembrava essere lì, con "Senza Nome". Il receptionist quando lo vide arrivare sorrise cordialmente e lo raggiunse. «Mr Wick, ho appena visitato questo bravo ragazzone. Però devo dire che non mangia molto quando lei è lontano.» Il cane gli corse incontro a una velocità così elevata che John dovette prepararsi all'impatto fatale. Si chinò e lasciò che il cane gli leccasse la faccia e per poco non lo facesse cadere a terra. «La ringrazio infinitamente. Credo che le chiederò ancora questo favore.» John frugò in tasca, ma Charon fu svelto a sollevare una mano. «No Mr Wick, nessun compenso la prego. Fossero questi i miei unici impegni le chiederei qualcosa, ma diciamo che prendermi cura di un cane così buono è un piacere.» John si alzò e restituì un cenno di ringraziamento. «La ringrazio. Senta appena torna al Continental potrebbe avvisarmi all'arrivo di Margot Forrester?» Charon fece un breve inchino professionale, «Certo Signor Wick. Arrivederci.» John, seguitò a ruota dal cane che continuava a camminargli attorno alle gambe, finalmente entrò in casa e controllò che fosse tutto come lo aveva lasciato. C'era troppo silenzio in quell'enorme casa, c'era un'atmosfera che non si sapeva ancora spiegare, a cui non sapeva abituarsi.
Margot Forrester Quando l'aereo atterrò al JFK di New York, Margot si svegliò dai soliti incubi apocalittici conditi per l'occasione da memorie spezzate della sua breve ma intensa esperienza da fuggiasca. Aveva rivisitato stralci di volti familiari che le avevano chiuso la porta in faccia senza troppi complimenti; altri che avevano scosso la testa, a malincuore; altri ancora, pochi, che l'avevano aiutata. Dopo aver raggiunto un sudato accordo con CIA ed FBI, l'assassina era tornata a casa propria, stremata e tremante di follia rabbiosa. Aveva aperto la vecchia bottiglia di whiskey invecchiato che uno dei suoi colleghi le aveva regalato come benvenuto, dopo la sua prima missione come supporto bellico per il governo e si era trascinata nel giardino sul retro dell'abitazione. Aveva fatto avanti-indietro dal soggiorno molte volte, trasportando bracciate di parrucche, abiti e accessori vari che le erano serviti per mascherare la sua identità, nel corso dell'ultimo periodo. Li aveva infine ammucchiati sopra al prato incolto, ormai infestato da erbacce. Era la prima volta che tornava a casa dopo quegli anni di esilio coatto, ma non aveva voluto sedersi nemmeno un momento. Era troppo stanca e demoralizzata, con un grave lutto a pesarle sulla coscienza, per abbandonarsi su una poltrona, guardarsi intorno e rendersi conto di essere finalmente libera, nell'ambiente che aveva sempre considerato un rifugio personale. Doveva prima esorcizzare quelle brutture che le stringevano la gola con un groppo doloroso e le soffocavano il cuore. Aveva creato un cerchio alchemico attorno al mucchio di vestiti e li aveva annaffiati con l'intera bottiglia di whiskey. Lo stesso vetro era finito frantumato sulla montagna di abiti, vittima del più disperato impeto di rabbia e poi, dopo un brusio di parole nell'antica lingua degli sciamani, un fuoco violaceo era divampato al centro del cerchio, bruciando tutto ciò che Margot aveva ammassato al suo interno. Aveva ridotto in cenere quel miscuglio di pezzi di stoffa e capelli sintetici, non voleva più vederli. Aveva affidato alle fiamme misericordiose tutti i ricordi brutti. Era rimasta a lungo immobile in quella posizione con gli occhi troppo asciutti perché riuscissero a sfogare qualche lacrima, limitandosi ad ascoltare il dolore che defluiva dal suo corpo e le gocciolava dalle dita insieme al sangue, dove i frammenti di vetro avevano lacerata la pelle. Aveva buttato nel fuoco tutti i documenti, tutti i passaporti falsi che aveva usato, quegli alias sarebbero morti quella stessa sera per non tornare alla vita mai più. Avrebbe chiesto a Samuel di procurarle nuove identità con relative scartoffie burocratiche. Infine, quando aveva saziato a sufficienza la sua anima ferita, aveva curato i tagli che le solcavano le mani, lasciando solo un alone più scuro, dove una fiamma guizzante le aveva lambito la pelle. Un monito per il futuro che sembrava dire: fidarsi è bene, tenere in conto del tradimento è meglio. Mentre montava sull'auto convenzionata con il Continental aveva sfiorato quella piccola cicatrice bruna, tornando a pensare al test. Osservò l'orologio: le ultime 24 ore erano agli scoccioli. Abbandonò la testa sul sedile, contemplando amaramente l'idea del fallimento. Non appena ebbe raggiunto la hall, Charon le consegnò la nota autografa di Jonathan, a cui rispose con un insulto e un bacio velenoso stampato sul retro. Lo aveva poi riconsegnato al receptionist, per farlo consegnare al destinatario, dopo circa un'oretta. Sì, perché nel frattempo le era venuta un'idea. …. Margot aveva dato appuntamento a John nel bar dell'albergo, ad uno dei tavolini al centro della sala. Si era cambiata per l'occasione, indossando della graffiante pelle nera addolcita da una camicetta di seta bianca. Quando Charon l'aveva vista, aveva scosso la testa trattenendo un sorriso: ormai cominciava a capire che l'assassina si vestiva bene solo in due occasioni, quando doveva fare impressione o quando era incazzata nera. Sul tavolo giacevano una preziosa scatola di legno lavorato con un biglietto sopra. « Che c'è? » aveva domandato la donna, quando John le aveva rivolto uno sguardo sorpreso, velato da lieve sarcasmo. « Ho deciso di seguire il tuo consiglio e accettare la sconfitta in modo sportivo. Dai, apri quel dannato regalo. Ci ho messo una vita a sceglierlo. » Lo sportello in legno della scatola era collegato ad un meccanismo interno ideato dalla killer in persona, per cui, aprendolo, un braccio metallico in miniatura stappava il coperchio della cartuccia e una molla spingeva il tubetto di plastica verso l'esterno. « HA! » aveva urlato Margot entusiasta, quando la vernice era esplosa in faccia a John. Tamburellò con le mani sul tavolo mentre, alle spalle, del sicario, Addy si era avvicinata con un secchio pieno di glitter e gliel'aveva rovesciato sulla testa. A quel punto Margot si era alzata per posizionarsi accanto all'assassino e si era abbassata per inquadrare tutti e tre nella fotocamera del cellulare. « Un sorriso per le telecamere... » Al momento dello scatto, le due donne si erano scambiate un cenno cameratesco e gli avevano scoccato un bacio su ciascuna guancia, prima di darsi il cinque. Addy aveva rifilato un colpo giocoso sulla spalla di John: « Pare proprio che qualcuno abbia vinto la sfida. »
John Wick Dopo qualche ora di assoluto riposo a casa propria, con il suo amico senza nome, aveva deciso di tornare al Continental, per attendere e assistere alla totale sconfitta di Margot.Era arrivato da Charon e gli aveva consegnato il messaggio, il receptionist sembrava piuttosto divertito da tutta quella storia, soprattutto perché ne conosceva le fondamenta.Quando a John, mentre si stava facendo ricucire dal medico del Continental nella propria suite, arrivò il messaggio decise che era il momento più esilarante dell'intera settimana.Il medico lo ricucì per bene, ammonendolo per l'ennesima volta, sul fatto che non avrebbe dovuto fare sforzi.John si rivestì di tutto punto, si era sistemato la capigliatura e persino la barba. Quando era sceso c'era di nuovo John Wick e un vago profumo di dopobarba francese.Si era seduto al tavolo, dove Margot lo stava aspettando, vestita come Catwoman. «Finalmente hai accettato la tua misera sconfitta. E grazie per il regalo, non dovevi disturbarti. Ne avrei anche io uno per te, ma penso che te lo darò domani.» Aveva tentato di aprire la scatola, ma ancora prima di realizzare cosa stesse accadendo, una cosa molliccia e puzzolente gli era esplosa in faccia. «Ah-ah, molto divert-» Non aveva fatto in tempo a finire la frase che Bruto alle sue spalle gli aveva rovesciato in testa una quantità industriale di glitter. Probabilmente per toglierli tutti si sarebbe dovuto calare nudo nel monte Fato. Aveva guardato le due, nella maniera più criptica possibile e poi aveva iniziato con le mani a togliersi il più grosso dalla faccia. E dai vestiti. «Vi ringrazio ragazze, tutte queste attenzioni sono ben accette, sia chiaro. Ma speravo in qualcosa di meno appariscente.» Quando si era voltato verso Margot aveva barba glitterata, un sopracciglio impregnato di rosa e il gel che teneva a posto i capelli aveva inglobato sia glitter che qualche schizzo rosa. John si guardò poi le scarpe, la cravatta e la giacca, ancora ben allacciata e appena stirata. «Tu e io, Addy, facciamo i conti più tardi, tu invece, Magot, dovrai andare a riferire tutto a Winston. Comincia ad andare, io ti raggiungo subito.» Si era alzato lentamente, la nuvola di glitter era caduta a terra, John la aveva scavalcata e aveva ripreso a scrollarsi di dosso quella fiera luccicante. «Mi spiace Abby, dovrai ripulire tutto questo casino. Fortunatamente dopo il lavoro potrai andare a riposarti un po’, no?» «Non dirai sul serio vero?» «Ti sembro una persona non seria?» Mentre si allontanava a passi lenti Addy dietro di lui aveva messo le mani sui fianchi e aveva alzato la voce. «Provaci a fare qualcosa e giuro che vengo a tirarti una secchiata d’acqua nel sonno. Mi hai capito bene Jonathan?» Purtroppo però John era già giunto alle spalle di Margot e si stava sentendo parecchio osservato da Winston. «John, Miss Magot qui mi stava parlando di un test, ma non sono sicuro di aver capito quale test.» Solo allora John si era piegato in avanti e aveva con quel movimento sparso qualche glitter persino lì e sulle spalla di Margot. «Già, Margot, quale test?», aveva sussurrato mentre Winston continuava. «Non c’è nessun /test/ di ammissione al Continental. Io chiedo se qualcuno vuole entrare perché so già come lavora.» John si era raddrizzato di nuovo e Winston era tornato a guardarlo di sbieco, cercando di fare la tipica faccia da “vedo, ma non voglio chiedere nulla”. «Quindi. Se non avete altro da dire, mi spiace ma torno alle mie scartoffie.», Winston aveva liquidato così Margot e John silenziosamente si era allontanato, cercando di non farsi sentire nemmeno da Margot.
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Margot Forrester 05/05/2017, Aeroporto di Schiphol, Amsterdam. John e Margot si erano svegliati di buon mattino per partire alla volta dell'Olanda. Avevano deciso di risparmiarsi un po' d'ansia e affrontare almeno il viaggio insieme, prima di vestire nuovamente i panni di preda e predatore. In fondo, Miss Forrester aveva già dimostrato di aver buone doti da segugio e chi commissionava gli omicidi ai dipendenti dell'Ordine forniva sempre un dossier ben dettagliato sulle vittime designate, era raro che i killer dovessero progettare una missione partendo da zero. Una volta atterrati, i due avevano seguito il resto dei passeggeri lungo il percorso obbligato che li avrebbe condotti verso i nastri trasportatori su cui scorrevano i bagagli. Margot si era stiracchiata per dare un po' di sollievo alle membra intorpidite da un'ora di viaggio incastrata sul sedile dell'aereo. Si era distratta per cinque minuti, forse dieci contando il momento in cui aveva individuato la propria valigia e si era fatta strada tra la folla per recuperarla. Quando era riemersa dalla bolgia umana, si era guardata attorno in cerca del collega, ma John era sparito. La donna roteò gli occhi al cielo e si avviò verso l'uscita dove un'auto convenzionata con il Continental del posto la stava aspettando. Durante il tragitto aveva inviato un'email a Samuel, affinché le trovasse qualcuno in grado di procurarle un'arma innocua ma di calibro inferiore rispetto all'ingombrante fucile che aveva dovuto usare nei giorni precedenti. La sosta all'hotel fu molto breve: si limitò a procurarsi le chiavi della stanza e a posare il proprio bagaglio, prima di montare nuovamente in auto e dirigersi all'indirizzo che le aveva procurato l'hacker newyorkese. Prima di proseguire verso la periferia, Margot aveva rischiesto una sosta presso uno dei Coffe Shop più cari e rinomati che l'autista le aveva indicato, per prendere un “regalo” all'amico di Sam. Aveva speso circa tre quarti d'ora all'interno del negozio a farsi una cultura sulla Cannabis: la differenza tra Indica e Sativa, la notevole capacità d'adattamento a condizioni ambientali molto diverse, le qualità che si potevano trovare in commercio e gli effetti diversi che si potevano ottenere a seconda degli incroci all'interno della stessa specie botanica. Non sapendo bene cosa potessero gradire i suoi contatti, aveva acquistato varietà diverse ed era tornata alla macchina. Non era mai stata ad Amsterdam prima di allora e l'esperienza di poter comprare della droga in un negozio con regolare licenza le era sembrata piuttosto surreale. I sobborghi urbani si rivelarono meno loschi e fatiscenti di quel che si era aspettata, ma Alain, il ragazzo tatuato che avrebbe dovuto procurarle l'arma corrispondeva all'incirca al classico cliché da malvivente di piccola taglia. Quando l'assassina aveva estratto il fucile di plastica, l'uomo aveva sgranato gli occhi e aveva ridacchiato: « È un giocattolo. » Dal momento che si era sentita ripetere la stessa frase almeno una decina di volte nell'ultima settimana, la killer cominciava a spazientirsi: « Mi fa piacere che l'umanità conservi ottime capacità deduttive. Possiamo finirla con le ovvietà e parlare d'affari? Ho bisogno di una pistola artigianale che possa essere caricata con queste. » Aveva estratto le cartucce di vernice e gliele aveva mostrate. Il ragazzo dovette reprimere a forza una risata, ma una lacrima di ilarità sfuggì comunque al suo controllo. Concordarono le qualità dell'arma da costruire in materiale plastico e stampa 3D e il conto da versare a lavoro finito. Alain le disse di ripresentarsi a quello stesso indirizzo circa quattro o cinque ore più tardi per ritirare la merce. Ore 16:30, stessa giornata. Margot si trovava sulla terrazza panoramica dell'Eye, il palazzo dei cinema, a pensare ad un modo per rintracciare Jonathan. Chiuse gli occhi e provò ad immedesimarsi nell'assassino: se fosse stata nei panni del signor Wick, cosa avrebbe fatto? Dove sarebbe andata? Si rese conto di sapere poco di lui, oltre al fatto che aveva perso la moglie, che era un amante delle auto d'epoca e che sarebbe stato in grado di uccidere chiunque si fosse azzardato a toccargli il cane. In quel momento, Margot fu colta da un'epifania. Si sentì incredibilmente sciocca per non averci pensato prima. Si assicurò che non ci fosse nessuno nei paraggi, dopodiché si concentrò e sfiorò con un dito il tatuaggio tribale che le decorava il polso. Sentì il proprio centro di gravità spostarsi dal suo baricentro, risalire lungo la spina dorsale e avvolgersi in spire d'energia attorno al braccio. L'inchiostro nero del disegno sembrò fremere e sollevarsi dall'epidermide in una densa nebbia scura. L'ombra assunse una forma sempre più definita, fino a raggrumarsi in un gigantesco mastino nero. La donna si abbassò per dargli una grattatina tra le orecchie e posò la fronte a quella dell'animale. « Sii i miei occhi. » sussurrò e gli fece annusare il bendaggio che aveva cambiato la sera prima a Jonathan e che si era dimenticata di gettare nella spazzatura. « Sii le mie orecchie ed il mio fiuto. » La bestiola guaì e partì alla caccia, con Margot alle calcagna. Di lì a poco, John, in un vecchio Luna Park abbandonato, si sarebbe trovato la strada sbarrata dal grosso cane dall'espressione consapevole ai limiti della razionalità e dalle iridi cerulee che ricordavano spaventosamente quelle di Miss Forrester.
John Wick Aveva approfittato forse un po’ troppo maleducatamente della distrazione di Margot per filarsela senza essere visto. In realtà non si era nemmeno impegnato molto, aveva semplicemente scelto una direzione poco ovvia, era passato in bagno e poi era uscito da una delle uscite più lontane. Un taxi chiamato al volo lo aveva portato al Continental, dove aveva posato le sue cose, salutato un po’ tutti coloro che conosceva anche solo di nomea e dopo di che aveva iniziato a visitare la città, con gli occhi di un turista in vacanza. La schiena e la ferita da arma da fuoco gli stava dando in effetti molti meno problemi da quando Miss Margot aveva deciso di dargli una mano con le cure e per quello si sentiva decisamente in colpa. Entrò in un coffee shop piuttosto piccolo, all’interno di esso qualcuno era intento a scegliere cosa comprare, altri erano già belli che andati, seduti in modo poco elegante attorno a un tavolo. John scosse la testa osservandoli. «Signore? Signore?», il commesso attirò l’attenzione del sicario sporgendosi in avanti. John si voltò verso di lui, sfilando la mano dalla tasca. Posò una moneta dell’ordine sul bancone, in modo naturale e quasi noncurante. Il giovanotto, però, sembrò impallidire, raccolse la moneta e silenziosamente svanì nel retro. Quando riemerse porse a John una lettera, chiusa con un timbro di ceralacca. «Buon proseguimento Signore», mormorò infine il ragazzino mentre John usciva, avvolto nel più funereo silenzio. Per spostarsi questa volta si affidò a un autista del Continental, raggiunse un luogo all’apparenza lugubre e trasandato, ma per le persone che abitavano il loro mondo delle tenebre, quello era un luogo piuttosto frequentato, sebbene fosse praticamente vuoto. John sospinse un cancello che si aprì cigolando, il sicario entrò a passi lenti, aspettandosi sia il nulla che un qualsivoglia benvenuto. Fu lì che aprì la lettera, ruppe il sigillo con un colpetto ed estrasse la lettera dalla busta. John lesse velocemente quel foglio di carta anticato, poi nascose la busta e la lettera nella tasca della giacca. Si guardò intorno lentamente fino a quando individuò la galleria degli specchi. Si addentrò seguendo un presunto istinto, i suoi passi echeggiavano nella penombra. «Chi è là?», gracchiò una voce femminile, piuttosto anziana. «Wick. Mi serve una scorta di quelle prelibatezze che solo lei sa fare.» John, grazie anche alla voce di lei, era riuscito a raggiungere la donna, che aveva adornato la parte finale del labirinto con una scrivania e veramente fin troppe boccette e vasetti colmi di erbe. «Ah, Jonathan. L’uomo più silenzioso dei morti che miete. Vieni avanti, lascia che ti veda.» La donna avanzò lentamente sollevando le mani verso il suo viso. John si lasciò tastare, mentre osservava gli occhi lattiginosi dell’anziana e il suo sorriso che si allargava sempre di più. «Mi fa piacere che tu venga sempre qui a fare rifornimento.», la donna riabbassò le braccia e si mosse nel suo spazio quasi come se ci vedesse, «Mi dispiace per tua moglie John, mi è giunta la notizia qualche settimana fa. Per certi mali nemmeno l’alchimia può fare qualcosa. Ma ti avrei aiutato, hai fatto così tanto per me.» John era rimasto in silenzio, con le braccia rilassate lungo ai fianchi. La donna nel mentre aveva riempito una piccola scatola di legno di una serie di fiale e qualche sacchetto di polvere. «Spero che tutto il resto proceda, tuttavia.» «Non posso lamentarmi.», mormorò John con voce calda, ma pacata, «La ringrazio ancora. Qual è il prezzo?» La donna sventolò le mani a mezz’aria, quasi volesse scacciarlo come una mosca da lì. «Suvvia John, questo è il minimo. La storia di tua moglie, quello che è successo dopo... È un omaggio. Queste vecchie ossa non possono più viaggiare come una volta.» John nel mentre si era guardato intorno. «Oggi è particolarmente vuoto questo posto.» «Ho spedito tutti a fare rifornimento, altri invece sono in consegna. Ora non lavoriamo solo per voi assassini in giacca e cravatta, ma anche per qualche politico, numerosi sportivi e tutti coloro che si possono permettere di fare ordini.» John infilò la scatola sottobraccio e annuì, anche se la donna non poteva vederlo. «Temo proprio che debba andare ora. Sono nel bel mezzo di un lavoro.» La donna sorrise e con un cenno salutò John. «Spero di rivederti prima del mio funerale, Mr Wick.» Il sicario aveva ridacchiato e aveva percorso il labirinto a ritroso, fino a tornare alla luce del sole. Si stava avviando verso l’uscita quando un cane gli si era parato di fronte. John pensava appartenesse a qualcuno degli invisibili abitanti di quel parco, ma al suo richiamo il cane non sembrò muoversi. «Hey bello, vieni qui.»
Margot Forrester Il mastino contrasse i muscoli di tutto il corpo e sembrò fissare un punto non ben definito, alle spalle dell'uomo. Margot aveva appena superato il cancello d'ingresso al parco abbandonato e si era nascosta dietro ad una gigantesca attrazione, in tempo per assistere alla scena. Non appena i suoi occhi incontrarono quelli del famiglio, annuì con sicurezza accompagnando il gesto con un morbido battito di ciglia accondiscendente. Il cane allora si rilassò e dopo un attimo di tentennamento abbassò la testa e corse incontro a Jonathan, scodinzolando affettuosamente. L'assassina trattenne un sorriso e si dileguò all'interno dell'edificio centrale del Luna Park. L'interno era buio, perciò Margot dovette recuperare la torcia appesa alla cintura e puntarla verso il centro della stanza: la prima cosa che vide fu il banco della biglietteria, affiancato da tornelli arrugginiti. C'era puzza di muffa ed umidità lì dentro, probabilmente il tetto era danneggiato in qualche punto e non tratteneva più la pioggia. Con un balzo ben calibrato, la donna superò le barriere e proseguì la sua avanzata verso il cuore dell'edificio. Oltre alla biglietteria non vide molte altre stanze a parte un paio di piccoli spogliatoi riservati allo staff e uno sgabuzzino. Il primo camerino era piuttosto vivace nella sua trascuratezza: il grande specchio contornato da luci che sovrastava la toletta era macchiato da vecchi residui di colla, segno che qualcuno in passato aveva probabilmente attaccato fotografie e biglietti per rendere il locale più personale. Altre chiazze sporcavano la superficie del tavolo, forse avanzi di cerone e altri belletti. In un angolo era sistemato un grosso stand appendiabiti, guarnito di un'infinità di grucce, alle quali erano ancora appesi tutte le divise e i costumi usati dagli impiegati. La killer li fece passare tutti, carezzando le stoffe con le mani guantate. Trovò delle uniformi più classiche e sobrie, probabilmente riservate agli addetti alla biglietteria e ai banchi alimentari. Dal tessuto proveniva ancora un leggero aroma di pop corn, zucchero filato e croccante. La donna trovò poi alcuni costumi da clown e altre mascotte non ben identificabili. In quel momento le venne un'idea. Con l'ultima esperienza in cui si era comportata in modo teatrale si era ritrovata un coltello alla gola, ma proprio non riuscì a resistere alla tentazione: abbandonò il proprio soprabito, ripromettendosi di tornare a recuperarlo più tardi, afferrò una delle giacche più sobrie da abbottonarsi sopra la maglietta e una fedora nera da calcarsi sulla testa, dopo aver legato i capelli in uno chignon disordinato. Tornò davanti allo specchio armata di torcia per osservare l'insieme. La casacca era di un beige sbiadito dai lavaggi e al petto aveva appuntato un cartellino contornato di rosso su cui era stato ricamato il nome “Jen”. Margot si domandò se avesse una faccia da /Jen/ prima di avvolgersi i caricatori pieni di cartucce attorno alla vita come una seconda cintura e recuperare la pistola artigianale. Proseguì superando lo sgabuzzino delle scope e finalmente raggiunse l'ultima sala del piano: un gigantesco magazzino in cui giacevano pezzi smembrati delle giostre, evidentemente da riparare, scaffali zeppi di attrezzi e pezzi di ricambio, alti fino al soffitto e infine, sul fondo, un gigantesco quadro elettrico affiancato dai più grandi generatori che Margot avesse mai visto. Fortunatamente la chiave era ancora inserita, quindi dopo un attento esame dei pulsanti, non aveva fatto altro che girarla, riportando alla vita i generatori e sollevare la leva più grande. Le luci all'interno del locale e presumibilmente all'esterno si accesero dopo una breve esitazione intermittente. La killer cominciò a premere tutti i bottoni del quadro e una classica melodia da Luna Park animò quel cimitero di giostre, mentre le attrazioni riprendevano vita. Dopo aver creato il perfetto scenario da film dell'orrore, tornò verso la biglietteria e uscì. Trovò John dopo diversi minuti, ancora affiancato dal famiglio e si avvicinò con circospezione, con la pistola sollevata di fronte a sé. Sparò il primo colpo, ma l'uomo si accorse della sua presenza, probabilmente individuando il suo riflesso da qualche parte e si scansò all'ultimo. Il mastino cambiò improvvisamente atteggiamento, lanciando un ringhio di avvertimento e preparandosi ad attaccare. « No! » dichiarò Margot e il suo ordine perentorio echeggiò per tutto il parco « Da qui ci penso io. » Il mastino si allontanò di qualche passo, sempre tenendo la scena sotto controllo. La killer sorrise divertita: la situazione cominciava a farsi interessante.
John Wick Era stata una trappola fin da subito. Lo aveva capito solo una volta che aveva utilizzato la caduta in avanti con slancio per raggiungere un riparo. Tuttavia quel suo saggio e veloce utilizzo del mae mawari ukemi, gli aveva provocato una fitta lancinante alla ferita. Rimase senza fiato, ma non per quel motivo smise di ragionare. Era difficile però far funzionare il cervello dopo quel rumore tutto improvviso e quei cigolii misti a musiche stonate per via del troppo tempo passato dall’ultima volta che erano risuonate. Si era inoltre aspettato che il cane balzasse contro di lui per agevolare evidentemente Margot. “E ora da dove spunta quel cane?” «Bella mossa!», gridò John senza nascondere una voce leggermente incrinata dal dolore ancora fresco e pulsante, «Ce l’hai quasi fatta. Ma temo che questa strategia del cecchino non funzioni.» John stava prendendo tempo. Era rimasto chinato dietro il bordo metallico delle autoscontro e lentamente aveva iniziato a strisciare verso il retro. Aveva così dato modo a Margot di capire la sua posizione e probabilmente immaginare che non stesse molto bene. John però si era spostato, silenziosamente, dietro ai bordi metallici e alle scalette che innalzavano l’attrazione. Il sicario tentò di aggirare l’assassina. Fu quasi tentato di trovare un’uscita libera e allontanarsi da lì, ma l’irrefrenabile tentazione di testare realmente Margot lo tenne ben ancorato dietro al suo nascondiglio. Sporse appena la testa, talmente preciso nei movimenti da essere quasi disumano. Il dolore sembrava essersi riassorbito attraverso muscoli e nervi, ma sentiva chiaramente quella parte di schiena umida e calda. Imprecò tra i denti e scivolò in avanti sgattaiolando fino a una delle colonne che reggevano il tetto di una delle attrazioni, proprio a qualche passo da Margot. Aveva tentato di rallentare i propri battiti, gli allenamenti estenuanti avevano donato a John la capacità di modellare i suoi bisogni fisici e plasmarli in energia, concentrazione e potenza. Quando gli altri venivano colti da stanchezza cedendo poi a sbavature nel combattimento o nelle scelte di azione, John diveniva l’esatto opposto: più la tensione saliva, più diveniva serio, quasi raccolto in un personale stato di trance. Quando sentì che il momento fu propizio e i suoi battiti tornarono a essere morbidi e lenti, John uscì allo scoperto, portandosi alle spalle di Margot e immobilizzandole il polso che reggeva la pistola con la propria mano destra e la gola, con il braccio sinistro. Così facendo aveva esposto il suo fianco forte e non quello ferito. La prossima mossa sarebbe stata quella di disarmarla, sempre se Margot non avesse reagito prima.
Margot Forrester « No, infatti. Contando la fortuna sfacciata che sembra assisterti in questa dannata competizione, un approccio da cecchino non funziona, ecco perché mi sono procurata qualcosa di più immediato. » A Margot non era sfuggita la nota dolente nella voce dell'uomo: probabilmente la sua schiena ferita non aveva gradito lo scarto brusco, ma la donna non fece una piega. A maggior ragione, se il proprio avversario era ferito ed impossibilitato a reagire con prontezza, non poteva permettersi di fallire. Individuò la direzione della voce e si avvicinò con cautela, con la pistola sempre salda tra le mani, ma, mentre faceva il giro della pista da autoscontro, si rese conto di non aver definito alcun piano d'azione. Forse doveva rivedere davvero l'approccio teatrale che sembrava tanto divertirla perché il suo gioco personale tendeva a cozzare con la praticità del lavoro. Ma che le era preso? Da quando aveva cominciato a lavorare per se stessa si era forse rammollita? Quando andava in missione per conto del governo, doveva attenersi a direttive precise e quando non erano in azione sul campo, gli attivi si allenavano. Non c'era tempo per i giochetti mentali all'epoca, ma adesso che non doveva più rispondere a nessuno all'infuori di se stessa sembrava essersi arenata ad un approccio languido: molte volte le sue vittime non erano nemmeno a conoscenza della minaccia che stava per travolgerle e con il tempo aveva finito per annoiarsi. L'unica cosa che manteneva alta l'adrenalina era proprio quel gioco: lanciare degli indizi alla preda, poco per volta, e gustare sulla lingua il sapore della consapevolezza e della paura, man mano che l'interessato si rendeva conto del pericolo incombente. Forse quel lavoro, tutti quegli omicidi l'avevano toccata più di quanto pensasse, forse con il tempo aveva finito per diventare una sadica senza scrupoli. No, non era così. Erano quelle stupide emozioni umane, quei pensieri pregni di un'emotività incontrollabile che traboccavano, contaminando il suo raziocinio. Ripeté a se stessa che non poteva esserci altra spiegazione: lo spirito del cavaliere era appesantito da quel corpo fragile, da quel contenitore psicotico che faticava a mantenersi distaccato dal contesto. Ma la verità era che quel difetto l'aveva caratterizzata anche nel Regno dei Cieli. Durante le sessioni di allenamento con suo fratello maggiore, il cavaliere della conquista militare, si ritrovava sempre a boccheggiare, riversa sul pavimento. Il guerriero bianco la guardava sputare sangue e scuoteva la testa con disappunto. Era la più forte tra i quattro dell'apocalisse, tanto implacabile e ribollente, quanto il fratello era freddo e calcolatore. Non aveva la pazienza di studiare un piano tattico, ecco perché nonostante la potenza della sua spada, si ritrovava sempre sconfitta, eterna seconda. Ed ecco che successe di nuovo: si trovò placcata alle spalle, la mano armata bloccata e un braccio attorno alla gola. « Se volevi invitarmi a ballare, bastava chiedere. » disse ridacchiando. Impigliata in quella posizione, i pensieri ripresero da dove si erano interrotti: insieme a John, la immobilizzarono i ricordi del Padre che la cacciava in malo modo, accusandola di essere solo una ragazzina ingrata, gelosa del fratello, quando lei si lamentava del gioco infantile tra Lui e Lucifero. Prima che se rendesse conto, fu investita da un macigno di rabbia e dolore e il mastino rispose alle sue emozioni. Si apprestò di nuovo a balzare, ma Margot fu più svelta. Il legame psichico con il famiglio le permise di leggere le sue intenzioni prima che agisse. Approfittò del momento di distrazione regalatole dalla belva ringhiante: inarcò la schiena, si piegò sulle ginocchia per allentare la pressione sulla gola e rifilò una gomitata ben piazzata tra le costole dell'uomo. Fece un quarto di giro su se stessa e caricò sui talloni con tutta la forza che aveva in corpo. Trascinò a terra entrambi nell'esatto istante in cui il mastino spiccava il balzo letale, deviando dalla sua traiettoria, ma nello scontro, l'assassina aveva perso la pistola. Dopo averla individuata, ad un metro circa di distanza, fece per strisciare in avanti, ma si sentì afferrare una gamba e fu trascinata all'indietro. Le sfuggì un lamento quando l'attrito con il cemento le scorticò i gomiti e le ginocchia. Istintivamente afferrò una sbarra metallica collegata alla piattaforma mobile di un carosello e la giostra seguì il suo movimento. Spostandosi, l'attrazione urtò l'arma 3D che ruzzolò sul pavimento infilandosi tra le grate di un tombino. Margot sollevò il capo e si trovò di fronte l'immagine orripilante del mostro dipinto sull'insegna della “Casa degli orrori”. Buttò velocemente un'occhiata all'orologio e poi a John. « Non è ancora finita. » disse precipitandosi verso l'edificio con la speranza di trovare un collegamento con l'area sottostante il manto stradale.
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