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Un libro per Natale - Per un magico viaggio in India, accompagnati dalla coinvolgente e delicata narrazione di Corrado Debiasi
Ci sono libri che leggi e ne assorbi l’essenza come nel caso de Il monaco che amava i gatti, opera prima di Corrado Debiasi, trentino, appassionato di filosofie orientali, che ha fatto dello yoga e spiritualità il fulcro del suo percorso di vita, raccogliendo in questo libro gli insegnamenti sui valori profondi delle sette rivelazioni che ha ricevuto da altrettante persone straordinarie…
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Gramellini stamani, ha raccontato sul fondo della prima pagina del Corriere della Sera, del libro che ha appena finito di leggere.
Un libro che ieri, ahimè, ho letto anch'io sul treno, un treno puzzolente, sporco, pieno, sudato, in ritardo.
Un libro che è ambientato in una società distopica, dove due trentenni su tre sono ancora a casa dai genitori e dove uno su dieci è ancora sotto la soglia minima di povertà. Un libro che ha scritto l'ISTAT (ah, marrani! proprio ora, proprio adesso che ci sono le elezioni!), un testo terribile e paradossalmente gratuito.
Quindi un libro per cui non sono previste promozioni nelle librerie, in TV, alle radio, neanche nessun post con supporter adoranti, nessun selfie né, tantomeno, firmacopie.
Un libro che mi riporta ad un altro libro, "Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, scritto nel '53 in cui si descrive una società distopica in cui leggere o possedere libri è reato.
Nel libro dell'ISTAT il reato è l'utilizzo della logica.
Perché basterebbe leggere la prima pagina di testo, al punto 1.1., a circa metà pagina dove dice: "Le quotazioni delle materie prime energetiche hanno continuato a mantenersi moderate. Nella media del 2023, il prezzo del Brent è stato di 82,6 dollari al barile, oltre il 17 per cento al di sotto dell'anno precedente (99,8 dollari)..."
Basterebbe questo.
E mi viene in mente quello che ha scritto su un altro fondo di prima, sulla Stampa, Mattia Feltri. Basterebbe questo per tornare indietro, a cinque anni fa, e ricordare il video dell'attuale presidente del Consiglio che dal benzinaio, poco prima delle scorse europee, con un biglietto da 50 euro raccontava che 35 euro del suo pieno andavano (e ancora vanno) ad uno stato tiranno. Lei le avrebbe tolte quelle accise lì, se fosse stata scelta.
È stata scelta!
Quelle accise sono ancora li.
Anzi, adesso metteranno tasse anche sulle auto elettriche visto che non riescono ad avere gli stessi numeri di consumo sui carburanti. Continueremo a pagare la filiera del potere, della corruzione, dell’inefficienza.
Un po' come quelli che aspettavano il treno in banchina oggi, un treno cancellato, così, senza nessun motivo da raccontare, da dire, da giustificare agli utenti.
lo sono partito con venti minuti di ritardo, un caos bestiale e quella gente era ancora lì.
Gente che lavora, magari gli stessi raccontati dall’ISTAT, quelli che nonostante l'impiego lo possiedano, non riescono comunque a garantire la sopravvivenza ai loro figli. 9,8 su cento secondo quel libro (basterebbe guardare la figura 2.5 del libro, dove si parla di retribuzioni lorde annue, una figura eh, non c'è da leggere).
E quel binario vuoto, con le bestemmie, gli zaini, i messaggi ai familiari, le richieste di informazioni chieste ai capitreno che non sanno nulla, mi hanno fatto pensare al libro di Bradbury e alle colpe che si hanno se oggi ancora leggi.
Perché se leggi, poi delle domande te le fai.
Al contrario degli slogan che ti fanno sentire tronfio, contento per una sciocchezza, il libro necessita di capacità ulteriori.
I libri, contrariamente agli slogan, ad esempio, moltiplicano l'esperienza. Gli slogan la confondono.
Ecco, quel binario sembrava la metafora della vita attuale. Dell’Italia oggi.
Perché nonostante tu paghi soldi "buoni" per i biglietti, per gli abbonamenti, per i servizi, poi in questo racconto distopico, capita che quei biglietti, abbonamenti, servizi, all'improvviso spariscano.
Senza nessun motivo che tu possa comprendere o per cui tu possa chiedere compensazioni, o semplicemente spiegazioni.
Come quando un treno fa una linea diversa e tu rimani lì, con il tuo appuntamento del cazzo che fallisce perché qualcuno dice (se ti va bene altrimenti lo subisci e basta) che oggi, guarda un po', ci mettiamo 30 minuti di più perché passiamo sulla linea Bangalore-Varanasi.
Un mondo in cui le bugie sono le uniche certezze.
Come se tu andassi al bar a chiedere un tramezzino, lo paghi e il barista ti dica: "il tuo tramezzino arriva fra venti minuti".
O, ancora peggio, "non c'è più".
Al bar te ne puoi andare. In stazione ti attacchi al cazzo (cit. un pendolare storico accanto a me).
Ah, dimenticavo, quel libro dell’ISTAT, ripeto gratuito, parla di noi. Noi che abbiamo ministri, sottosegretari, presidenti di Regione rinviati a giudizio o indagati.
In Germania un ministro si dimise per aver copiato una tesi.
Da noi ...vabbè lasciamo stare
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“ L'orologio della stazione batté la mezzanotte. Il lamento lontano cessò di colpo, come se aspettasse il tempo dell'orologio. «È cominciato un altro giorno», disse l'uomo, «da questo momento è un altro giorno». Restai in silenzio, le sue affermazioni non lasciavano spazio a interlocuzioni. Passò qualche minuto, mi parve che le luci delle banchine si fossero affievolite. Il respiro del mio compagno si era fatto pausato e lento, come se dormisse. Quando parlò ancora ebbi una specie di soprassalto. «Io vado a Varanasi», disse, «lei dov'è diretto?». «A Madras», dissi io. «Madras», ripeté lui, «sì sì». «Vorrei vedere il luogo in cui si dice che l'apostolo Tommaso subì il martirio, i portoghesi ci costruirono una chiesa nel Cinquecento, non so cosa ne sia restato. E poi devo andare a Goa, vado a consultare una vecchia biblioteca, è per questo che sono venuto in India». «È un pellegrinaggio?», chiese lui. Dissi di no. O meglio, sì, ma non nel senso religioso del termine. Semmai era un itinerario privato, come dire?, cercavo solo delle tracce. «Lei è cattolico, suppongo», disse il mio compagno. «Tutti gli europei sono cattolici, in qualche modo», dissi io. «O comunque cristiani, è praticamente la stessa cosa». L'uomo ripeté il mio avverbio come se lo assaporasse. Parlava un inglese molto elegante, con piccole pause e le congiunzioni leggermente strascicate ed esitanti, come si usa in certe università, me ne accorsi. «Practically... Actually», disse, «che parole curiose, le ho sentite tante volte in Inghilterra, voi europei usate spesso queste parole». Fece una pausa più lunga, ma capii che il suo discorso non era finito. «Non sono mai riuscito a stabilire se è per pessimismo o per ottimismo», riprese, «lei cosa ne pensa?». Gli chiesi se poteva spiegarsi meglio. «Oh», disse, «è difficile spiegarsi meglio. Ecco, a volte mi chiedo se è una parola che indica superbia o se invece vuol dire soltanto cinismo. E anche molta paura, forse. Lei mi capisce?». «Non so», dissi io, «non è molto facile. Ma forse la parola "praticamente" non vuol dire praticamente niente». Il mio compagno rise. Era la prima volta che rideva. «Lei è molto bravo», disse, «ha avuto ragione di me e nello stesso tempo mi ha dato ragione, praticamente». Anch'io risi, e poi dissi subito: «comunque nel mio caso è praticamente paura». “
Antonio Tabucchi, Notturno indiano, Sellerio Editore (collana La memoria n° 93), 2002³³ [1ª ed.ne 1984]; pp. 40-42.
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Lo Zen e l'arte di annoiare i lettori con libri che sembrano Instagram Stories
Il problema non è quel libro, il problema vero è lo Zen, o meglio, il modo maldestro con cui l’occidentale tentava, e tenta ancora oggi, di infilare l’esotismo per giustificare profondità di pensiero. La morte di Robert M. Pirsig e la motocicletta, ronf.
di Giulia Pompili, 26 Aprile 2017
http://www.ilfoglio.it/cultura/2017/04/26/news/robert-m-pirsig-morte-lo-zen-e-l-arte-di-riparare-la-motocicletta-131669/
Roma. Ci sono certe librerie, in certi salotti, che tradiscono tutto. Alcuni volumi sono facili da individuare – Il Piccolo Principe, Il gabbiano Jonathan Livingston – gli altri sono quelli di retaggio scolastico – incontestabili, sfogliati ai tempi del liceo, tipo il Giovane Holden. Ci sono i regali di Natale accumulati negli anni – Il nome della rosa, Va’ dove ti porta il cuore. Ma questo non è un maldestro tentativo di giustificare la bassa affluenza alle fiere dell’editoria. E’ piuttosto una teoria sul perché, durante alcuni decenni, sugli scaffali di un numero considerevole di persone abbia stazionato un romanzo che inizia così: “Senza togliere la mano dalla manopola sinistra vedo dal mio orologio che sono le otto e mezza. Il vento, anche a cento all’ora, è caldo e umido. Chissà come sarà nel pomeriggio, se già alle otto e mezza c’è tanta afa”.
Si dà il caso che ieri sia scomparso a ottantotto anni Robert M. Pirsig, autore di uno dei libri che fecero la storia dell’editoria americana degli anni Settanta, “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”. Un milione di copie vendute nell’anno dell’uscita, il 1974, e altri cinque milioni in diverse traduzioni durante i successivi quarantatré anni. Pirsig era un tipo anche simpatico, e con una vita complicata: espulso dall’Università del Minnesota, finì nell’esercito, di stanza in Corea fino al 1948, e si avvicinò al buddismo zen durante i viaggi in Giappone. Studiò Filosofia a Chicago e a Varanasi, si laureò in Giornalismo. Tra il 1961 e il 1963 fu più volte internato in un ospedale psichiatrico per la depressione. La passione per lo Zen la passò anche al figlio Chris, che nel 1979 fu ammazzato nel cortile del San Francisco Zen Center dove viveva – all’epoca il tempio, fondato dal giapponese Shunryu Suzuki, era il quartier generale dei beat californiani, che si riunivano all’alba per fare zazen, meditazione. Del resto Chris era l’altro protagonista del “viaggio iniziatico” dal Minnesota al Pacifico che valse a Pirsing, squattrinato e rifiutato da oltre cento case editrici, un Guggenheim Fellowship e una recensione sul New Yorker di George Steiner che lo paragonò a “Moby Dick”.
Il problema, naturalmente, non è solo che a leggere “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”, oggi, vengono in mente subito i diari di Dibba – deformazione fogliante e millennial. Dice Maurizio Crippa che bisognerà aspettare “Notas de viaje” di Che Guevara (1992) per avere un altro libro iconico-motociclistico simile, e che comunque la manutenzione della motocicletta è uno dei long seller di Adelphi, e fa parte del fascino di Adelphi essere riuscita a venderlo “manco fosse Kafka”. In fondo non è nemmeno tutta colpa di Pirsig: il suo libro ha in qualche modo liberato, anzi, rottamato la letteratura americana di “Sulla Strada”, e ha il merito di aver strapazzato i luddisti dell’epoca, quelli che “odiano la tecnologia”, tutto ciò che è loro incomprensibile proprio come “la meccanica della motocicletta”. In questo unico successo di Pirsig (scrisse un altro libro nel 1991, “Lila: un’indagine sulla morale”, una specie di sequel in barca, un flop) il problema vero è lo Zen. O meglio, il modo maldestro con cui l’occidentale tentava, e tenta ancora oggi, di infilare l’esotismo per giustificare profondità di pensiero e vendere al lettore diciassette giorni di viaggio “iniziatico”, che però non sono molto diversi da una story di Instagram.
Pirsig copiò l’idea da “Lo Zen e l’arte del tiro con l’arco” del filosofo tedesco Eugen Herrigel, un libro del 1948 sul Kyudo: un volume difficile, che non ha niente a che fare con il romanzo, e che racconta il tentativo di avvicinamento di un filosofo occidentale allo zen e alle filosofie orientali. Non c’è niente di naïve nel Kyudo. E invece al libro di Pirsig seguirono una serie di “Lo Zen e l’arte della corsa”, “Lo Zen e l’arte di allevare galline”, “Lo zen e l’arte di fare una torta”, “Lo zen e l’arte di invecchiare bene”, cui fa capo perfino “Lo Zen e l’arte di scopare” di Jacopo Fo, per dire come poi, nell’editoria, le cose possano sfuggire di mano facilmente. Insomma, lasciamo i best-seller alle loro epoche di riferimento, e al prossimo “Lo Zen e l’arte di” sapete a chi dare la colpa.
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