#libri sul Titanic
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pier-carlo-universe · 1 month ago
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Kate Alcott - La ricamatrice di segreti. Una storia di riscatto, coraggio e amore. Recensione di Alessandria today
Biografia dell’autrice. Kate Alcott, pseudonimo di Patricia O’Brien, è una scrittrice statunitense che ha conquistato i lettori con romanzi storici ricchi di emozione e dettagli accurati.
Biografia dell’autrice.Kate Alcott, pseudonimo di Patricia O’Brien, è una scrittrice statunitense che ha conquistato i lettori con romanzi storici ricchi di emozione e dettagli accurati. Il suo lavoro si distingue per l’abilità di intrecciare personaggi femminili forti e determinati con eventi storici significativi, creando storie che lasciano un segno profondo. Recensione.“La ricamatrice di…
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unsognoallavolta · 1 year ago
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Persona in cerca di amic* ☀️✨️
Ehi ciao!
Sono Benny (o Ben), she/they, ho 23 anni. Mi sono appena laureata all'Accademia di Belle Arti e tra poco inizierò un master riguardo i videogame e il mondo 3d.
Sono un'ottimista, amante della vita e delle esperienze, di qualsiasi tipo, dal viaggio in macchina improvvisato alla serata tranquilla a guardare film e chiacchierare. Tra l'ascoltare e il parlare preferisco decisamente il primo: adoro poter conoscere le persone attraverso i racconti delle loro esperienze di vita.
La mia chiacchierata ideale è stesi sul letto, sul pavimento o su un prato, a guardare il soffitto o il cielo e chiedersi il perché delle cose, parlare di sogni, delle esperienze passate e di quelle che ci piacerebbe vivere. Senza vergogna o giudizio. Uno spazio sicuro di condivisione.
Sto cercando persone con cui chiacchierare della vita, commentare serie tv insieme, viaggiare e sognare, scoprire nuovi interessi e passioni, riscoprire ogni giorno quanto, nonostante tutto, siamo fortunati ad essere vivi.
Mi ritrovo spesso (quasi sempre) sola. Mi sono accorta che le persone buone molto spesso vengono usate e poi dimenticate. Attraverso questo blog mi piacerebbe trovare qualcuno che almeno una volta si sia sentit* così. Nessuno è destinato a rimanere solo, combattiamo insieme la solitudine 🌻
Qui vi lascio un elenco delle cose a cui sono interessata, spero potremo avere qualche interesse in comune 😊:
Serie Tv: Heartstopper, Good Omens, Loki, One Piece, Arcane, The Dragon Prince, The Owl House, Jujutzu Kaisen, Attak on Titan (e molte altre. Accetto volentieri consigli su nuove serie da vedere).
Film: mi piacciono tutti i generi tranne l'Horror (mi fanno troppa paura ����). Sono un'appassionata dei film d'animazione.
Libri: non leggo molto ma sono super disposta a leggere qualche libro insieme. Alcune mie letture correnti sono: La casa sul mare celeste, La canzone di Achille e Finché il caffè è caldo.
Videogiochi: Genshin Impact e Honkai Star Rail (ma spero di ampliare la mia lista al più presto).
Hobby: giardinaggio (amo le piante 🌱), disegno, fotografia, mondo 3d e animazione digitale, passeggiare immersa nella natura, viaggi.
Altri hobby a cui spero di avvicinarmi a breve: imparare a cucire e a usare l'uncinetto, dipingere sia su carta che su tessuti, imparare a scolpire con l'argilla e realizzare vasi e tazzine. Sono aperta ad imparare qualsiasi tipologia di arte 🎨
Se siete arrivat* fin qui vi ringrazio e se siete interessat* potete anche solo lasciarmi un 🩷, vi scrivo io 🥰
(Il mio main è @thinkingaboutminds, potete trovarmi anche lì)
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diluv-io · 11 months ago
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Converse bianche, Converse blu
Dieci anni fa ricordo di essere stato contento per aver finalmente comprato un paio di Converse bianche, da aggiungere a quelle rosse e blu che avevo. Dieci anni fa c’era già Instagram e ricordo di aver postato una foto con le tre paia di scarpe messe in fila e di aver messo come didascalia la bandiera francese. Dieci anni fa, in questo periodo, stavo studiando per prendere la patente e per l’ultimo anno di scuola.
Dieci anni fa mi sono innamorato di una ragazza.
Dieci anni dopo sono tornato a casa dal cinema, dove sono andato a rivedere un film che avevo visto diverso tempo fa e, cercando di individuare il momento preciso della prima visione, sono caduto in un vortice di nostalgia che mi ha portato a scorrere vecchie conversazioni Whatsapp con persone che non fanno più parte della mia vita. Tra loro ho ritrovato la ragazza di dieci anni fa. Quella conversazione non contiene che una manciata di messaggi, così come la chat di Instagram, con foto e messaggi precedenti caduti nell’oblio forzato dal passaggio del tempo. Tra i miei possedimenti più preziosi c’è, però, l’hard disk dove tengo il backup di tutta la mia vita digitale da che ho memoria.
Dieci anni dopo ho realizzato che quella ragazza ricambiava davvero il mio amore e ho ripensato a quante paranoie mi facessi ai tempi pensando il contrario.
Aveva i capelli biondi, un po’ mossi sulle punte, gli occhi castani dolci e lucidi. Metteva sempre l’eyeliner ma stava molto meglio senza. Aveva il naso alla francese e la pelle chiara e liscia. Vederla dava la sensazione di sentire il profumo di un ciliegio appena fiorito. Si vestiva in maniera semplice ed elegante, mai volgare. Era appassionata di libri e cultura francese, per questo e per il suo aspetto la chiamavo la parigina. Aveva un anno più di me, un fratello, un cane e una macchina. Prendeva lo stesso treno che, senza saperlo, avrei dovuto prendere io per mesi ogni giorno, due anni dopo. Frequentava la stessa università che, senza saperlo, avrei frequentato anche io, due anni dopo.
Aveva le Converse blu.
Ci siamo conosciuti una qualsiasi sera d’inverno. Era buio e i miei genitori mi avevano accompagnato a casa di uno dei miei migliori amici dell’epoca. Quella sera io, il mio amico e i suoi genitori, una nostra amica in comune e la parigina abbiamo cenato e guardato Titanic, mentre io mi innamoravo. A quei tempi leggevo Fitzgerald e sono sicuro di avergliene parlato, prima che con una scusa ci scambiassimo il numero di telefono.
Dieci anni dopo ho ricordato, o forse ho scoperto, che per mesi io e la parigina ci siamo mandati ogni giorno uno o più video in cui ci raccontavamo la nostra giornata e ci scoprivamo. Dieci anni dopo ho passato due ore a guardare foto e video di una ragazza di cui ora so poco e nulla.
Non ho avuto il coraggio di riguardare i video che ho mandato io, per vergogna principalmente, per paura di sentire un tono di voce diverso, per paura di vedere allo specchio, ora, degli occhi diversi.
Ho rivisto tutti i suoi, però. In quei video lei è in camera sua o in camera di sua nonna, in bagno mentre si asciuga i capelli lunghissimi, in metropolitana a Milano, sul treno o in stazione a Lambrate, nel cortile dell’università, in macchina. Nei video in macchina si sente anche la radio in sottofondo, che trasmette We can’t stop, Stolen dance e Summer. Nel più lungo lei parla di tante cose, poi si ferma, imbarazzata, facendo finta di non sapere cosa voler dire, poi appoggia il telefono da qualche parte e con le dita mi fa il simbolo del cuore. In alcuni sono presenti delle sue amiche o compagne di scuola, che la inquadrano mentre mi parla. In un altro è nella biblioteca dell’università, un po’ guardinga per non farsi vedere da nessuno, non può né parlare né fare rumore, allora inquadra il computer mentre scrive “ti voglio bene” nella barra di ricerca di Google. In un altro ancora guarda fisso in camera con gli occhi dolci e mi dice solo “sei proprio uno scemo”. Dieci anni dopo ho capito cosa volesse dire.
Abitavamo a un’ora di macchina di distanza. A quei tempi quella distanza sembrava incolmabile, ma non è questo il vero motivo per cui quell’amore è rimasto a mezz’aria.
Io e la ragazza di dieci anni fa non siamo mai potuti stare davvero insieme perché provenivamo entrambi da un ambiente che non concepiva l’amore più puro. Io e la ragazza di dieci anni fa ci siamo amati silenziosamente, quasi segretamente e litigando coi nostri genitori per questo. Io e la ragazza di dieci anni fa siamo stati costretti a smettere di sentirci per mesi, accumulando nel frattempo materiale da mandarci non appena fosse stato possibile riprendere i contatti. Io e la ragazza di dieci anni fa abbiamo solo un paio di foto insieme, fatte di nascosto durante una serata in un pub, in cui abbiamo fatto muovere due compagnie diverse da due città diverse solo per vederci e non rivederci mai più.
Dieci anni dopo ho amato di più e sono stato amato di più, ho sofferto come allora e più di allora, come sicuramente avrà fatto lei. Dieci anni dopo ho vissuto al massimo e sono stato miserabile, ma sempre libero, come spero anche lei.
Non siamo mai stati ufficialmente insieme, ma ci siamo lasciati, con una videochiamata. Credo fosse maggio, faceva già caldo ed ero nel parcheggio della scuola, aspettando che mio padre mi venisse a prendere, era sabato. Probabilmente portavo una camicia che ho ancora a casa dei miei.
Avevo le Converse bianche.
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zibaldone-di-pensieri · 3 years ago
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Avete presente quelle opere, che siano film o libri o giochi, che fanno parte di una serie e che cercano di creare un mondo tutto loro ben dettagliato e profondo?
Voi guardate queste opere, vi piacciono, cominciate ad appassionarvici sempre di più, ma poi iniziate ad interessarvi anche al loro universo, alla loro storia, alla cosiddetta LORE
E allora parte la ricerca di informazioni, di curiosità, di scoprire cose c'è stato anche nel passato, cosa ci potrà essere nel futuro, un approfondimento totale e completo, anche proprio della "società" di quelle opere
E mi riferisco soprattutto a quelle opere che creano davvero un universo immenso, il quale spesso e volentieri si fonda molto sul proprio passato.
Parlo ad esempio dell'universo del Signore Degli Anelli, di Star Wars, di Game Of Thrones, di The Witcher, di Attack on Titan, di Naruto, di Elder Scrolls, di Fallout
In questi titoli, spesso mi è parso di notare come, noi siamo catapultati all'improvviso in un determinato punto iniziale che chiamiamo presente, con uno scopo, una missione, un obbiettivo, poi però nel corso del tempo si susseguono diversi richiami del passato, è tutto appunto una conseguenza di cose successe prima, ma il Prima noi non lo conosciamo bene.
Tra quei titoli comunque, a mio parere l'universo più profondo, ricco di passato, è Elder Scrolls, un serie videoludica per chi non lo sapesse
Tra l'altro nell'ultimo capitolo della serie, Skyrim, sono presenti una quantità incredibile di LIBRI.
Tu giochi a skyrim per la trama, per lo stile, per il genere e ormai a 10 anni dalla sua uscita, quasi solo per le Mod fatte dagli utenti, di certo non per i libri
Tuttavia, tutti quei libri che puoi leggere durante la tua giocata (anche se non è di certo il massimo), raccontano chi più e chi meno, un mucchio di informazioni sulla società di Elder Scrolls e affrontano qualsiasi tematica
Si passa dai libri di cucina ai libri su chi sono le divinità che governano quell'universo
Libri su armi e armature, sulle razze che popolano l'universo
Sui luoghi che lo compongono
Su ciò che è accaduto in passato
Sugli imperatori e generali che si sono succeduti
Ci sarebbe proprio da mettersi a giocare a skyrim soltanto per leggere tutti i libri presenti nell'opera
Da essi si possono trarre moltissime informazioni sulla sopracitata Lore
Tra l'altro è il quinto capitolo della serie e gli altri sono ambientati in periodi precedenti
Come potete aver capito, l'universo di Elder Scrolls per me è uno dei migliori universi di fantasia mai ideati
Con una storia di fondo lunghissima, piena di avvenimenti di ogni genere che spero verrà ampliata ancora di più nel futuro
È qualcosa di incredibilmente intrigante.
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dudewayspecialfarewell · 4 years ago
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Per chi non lo sapesse Tim Ferris è tipo Montemagno, ma meglio. Ha fatto 10 anni fa la cosa delle interviste e ci ha tirato fuori due libri” Tool of titans” e l’altro “Tribe of mentors”. In quest’ultimo ho trovato con estrema frequenza citato un libro, “ Man’s search for a meaning” di Viktor Frankl .
Viktor Frankl potrebbe essere definito come l’uomo che ha scoperto il senso della vita e l’ha scoperto in un lager. Viktor Frankl era uno psichiatra ebreo che internato nei campi di concentramento notava come le persone che resistevano a quelle condizioni tremende erano coloro che trovavano un senso alla loro vita.
Lo studioso che doveva terminare un libro, l’uomo che doveva sposarsi, lo stesso Frankl trovava conforto nell’idea di rivedere la moglie.
Se si va ad osservare bene, un dolore sofferto per una causa specifica, o alla quale noi riusciamo a dare un senso è qualcosa di molto potente. Un esempio è V per vendetta, un uomo in grado di immolarsi per qualcosa in cui crede fermamente, cosi come i manifestanti in piazza, o chiunque stia lottando per qualcosa in cui crede.
Il senso della vita è questo: dare un senso al dolore che patiamo affrontando la vita con uno scopo.
Domenica sono andato in bici verso Torbole, sul Garda. Lungo la ciclabile, uno dei tanti pezzi in cui strada e ciclabile si toccano, sono rimasto impressionato dal traffico e da due tedesche che si sporgevano dai finestrini urlando “ Ciao Beli” per poi continuare in quell’insieme di colpi di catarro che costituiscono i fonemi della lingua tedesca.
Questa domenica dicevo, ho pensato “ Vado a cazzeggiare un paio d’ore a Torbole cosi mi distraggo” e mi sono ritrovato a fare l’anello Torbole-Tempesta ( se siete su Tik Tok you know)e poi a fare parte del Monte Baldo in bicicletta. Dopo circa 12 kilometri da Torbole ho mollato il Baldo.
In quel preciso istante avevo fatto circa 52 km da Trento ( e gli stessi mi aspettavano al ritorno). Il polmone sinistro, già più piccolo di suo, non ama particolarmente andare in bici in salita, specie perché fumo da anni, pratica che dopo domenica, e un altro evento precedente ho deciso di eradicare definitivamente.
Nel mezzo di colpi di tosse, e assenza d’aria che avrebbero fatto pensare c a chiunque che fossi un caso grave di Covid o avessi una broncopolmonite da meta medioevo. In quel preciso momento ho pensato che la mia vita avesse senso, specie se smetto definitivamente di fumare e aumento la mia capacità polmonare abbastanza da non farmi mancare il respiro, o di ritardare il più possibile il momento in cui ti manca l’aria e riesci a ispirare pochi secondi tra un colpo di tosse e un altro.
Mi sono sentito felice di vivermela, di potermi permettere di fare 100 km in bici in un weekend, di poter salire, e soprattutto, di poter fare meglio. Una ricchezza che anche chi è ricco non può comprare, perché tempo, dedizione e fiato si fanno.
Eh niente, nel mentre che tossivo mi sono messo a camminare per i boschi, ho trovato una specie di seme di avocado, molliccio dentro e l’ho leccato. Cosi per curiosità. Poteva essere velenoso? Si. È stato nel secondo in cui ho realizzato che forse era meglio non leccarlo che ho realizzato che forse avrei dovuto seguire le tedesche e la fiumana di gente verso il Garda, gente che si stava godendo la prima giornata di mare/ lago, invece che smettere di respirare e andare a leccare cose nei boschi.
Tutto quello che posso dire è semplicemente che io così sono felice. E senza fiato, ma ancora per poco
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magicnightfall · 5 years ago
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(IF YOU WANNA BE MY) LOVER
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you gotta get with my friends. Si può dire, per restare in tema spicegirlsiano, che questi amici siano i precedenti sei album di Taylor Swift: Taylor Swift (duh), Fearless, Speak Now, Red, 1989 e reputation. C’è, infatti, una differenza fondamentale tra quelli e Lover, il suo ultimo lavoro, che non riguarda né il genere, né la poetica: Lover è il primo disco pubblicato con la nuova etichetta, la Republic Records, e non con quella storica che era la Big Machine Records. Invero, il trasloco ad altra casa discografica non è stato propriamente un fulmine a ciel sereno, perché si sapeva da un po’ che il suo contratto era in scadenza, e non c'erano voci di un rinnovo. Ciò che, tuttavia, ha creato un vero e proprio terremoto - tanto nei fan quanto nell’industria musicale stessa - è stato il motivo sotteso a questa rivoluzione: il fatto che, all’avvicendarsi di un nuovo consiglio di amministrazione nella Big Machine dopo l'alienazione della stessa, abbia fatto seguito il categorico rifiuto di vendere a Taylor i master delle canzoni prodotte e distribuite sotto l’egida di detta casa discografica fino a quel momento, ovvero fino a reputation. A onor del vero, le era stato proposto di “riguadagnarseli” uno a uno: un vecchio album per ogni nuovo, una clausola che più che vessatoria era semplicemente ricattatoria. Ora, per quanto i diritti di autore - morali e, in parte, economici - siano comunque riconosciuti, in questo modo Taylor ha perso (ed è evidente che non l’abbia mai avuto) il pieno controllo della sua produzione musicale. In quanto di proprietà di altri, infatti, non può opporsi all’utilizzo che quegli stessi decidano di farne: se ridistribuirla e come, se utilizzarla e come (film, pubblicità…). Lover, d’altro canto, costituisce un vero e proprio spartiacque tra il passato e presente, in quanto si tratta del primo album che Taylor possiede davvero. In effetti, la questione dell’avere piena disponibilità del proprio lavoro artistico è diventato in breve il pièce de résistance del suo pensiero nel contesto del business musicale: non c’è intervista, dopo che la cosa è diventata di pubblico dominio, in cui non ne abbia fatta menzione, e nella live-chat per il rilascio del video di Lover è stato il primo consiglio che ha dato rispondendo alla domanda su cosa consigliasse a chi volesse intraprendere la carriera di cantautore: “Cerca di fare del tuo meglio per avere la proprietà del tuo lavoro”. Come già per le note questioni Spotify e Apple Music (di cui potete leggere qui) Taylor si trova a fare da apripista per una conversazione più ampia, che non riguarda solo lei stessa, ma tutti gli artisti in generale. In questo senso è un po’ come il Titanic: è necessario che contro l’iceberg si schianti qualcuno o qualcosa di molto grosso e di molto rilevante, perché poi ci si adoperi per cambiare le cose. Così, se è stato proprio il naufragio del Titanic ad avviare il processo di riforma della legislazione marittima, rendendola più rispondente alle esigenze emerse l’indomani del disastro (per farvela molto breve: scialuppe in numero sufficiente per tutte le persone a bordo, operatori radiotelegrafici in servizio giorno e notte, generatori ausiliari di corrente, scafi rinforzati, riduzione della velocità in presenza di ghiaccio), così Taylor si appresta a rivoluzionare (di nuovo) l'industria discografica. Questo perché la gattara ha sempre dimostrato di riuscire a stare a galla con più di quattro compartimenti invasi dall’acqua, e siccome è sempre la prima a sbatterci il muso e non è mai tipa da lasciar correre, e vista e sperimentata la sua influenza, sono sicura che nel prossimo futuro si assisterà a una qualche inversione di tendenza. O perlomeno, il che è comunque auspicabile, i giovani artisti si affacceranno in questo mondo con una maggiore consapevolezza di quello che li aspetta, e forse sapranno anche tutelarsi. Fatta questa dovuta premessa, Lover. È un bell’album. Un gran bell’album. Anche se non sono ancora sicura se sia allo stesso livello di 1989, che per me è il non plus ultra a livello spirituale, ecumenico e grammaticale, di sicuro si colloca sul podio. È un album sull’amore e tutte le sue sfaccettature - positive, negative, finanche spaventose - e il fatto che una persona quale yours truly, che non è mai stata innamorata di niente e di nessuno se non di Floppy, il suo gatto (e, ochèi, di John Krasinski), lo piazzi così tanto in alto nella sua classifica personale, è piuttosto eloquente di come, tredici anni di carriera e sette dischi dopo, Taylor Swift ci sappia ancora fare. *** Com’è ormai tradizione all’uscita di ogni nuovo album, in questo papiro oscenamente lungo proporrò la mia analisi dei brani di Lover. Devo dire che, rispetto agli altri di cui ho scritto (Red, 1989 e reputation) ho avuto parecchia difficoltà a fare mente locale e a ragionarci sopra. È vero che questo disco arriva in un momento, per me, psicologicamente davvero sfibrante, ma non è solo questo: il fatto è che, dietro al pop energico, accattivante e orecchiabile, Taylor ha saputo nascondere una complessità - umana e artistica - che ho faticato a mettere per iscritto. Mai come con quest’album ho pensato, infatti, che la musica di Taylor vada lasciata fluttuare nell’etere senza doverla per forza ancorare a qualcosa, qualsiasi cosa, che sia un’analisi, un ragionamento, un goffo tentativo di sviscerarla. Anche in questo senso il divario tra Lover e il suo immediato predecessore, reputation, non potrebbe allora essere più marcato: non solo per le atmosfere calde, rassicuranti e (per lo più) felici dell’uno rispetto a quelle cupe, elettriche, a tratti nervose dell’altro, ma anche e soprattutto perché reputation era una vera e propria presa di posizione, i cui retroscena non potevano non essere districati. Ora, pur essendo senz’altro vero quanto sopra, io nella vita solo due cose so fare: lamentarmi di aver fatto giurisprudenza, e scrivere di Taylor Swift. Quindi, cari amici vicini e lontani, ecco a voi il Tomone 4.0.™. P.S. Riproporrò in questa sede la conta alcolica, che è stata molto apprezzata nel tomone su reputation, anche perché qualcuno dovrà pur farsi carico della evidente tendenza di Taylor all’etilismo. Io, nel dubbio, metto il SerT tra le chiamate rapide. LADIES AND GENTLEMEN, WILL YOU PLEASE STAND? I Forgot That You Existed [Taylor Swift, Louis Bell, Adam Feeney] La traccia di apertura dell’album pare, almeno di primo acchito, fuori posto: per il tema trattato, infatti, sarebbe sembrata più idonea una sua collocazione in reputation, a chiusura del cerchio. L’interpretazione che io avevo dato di quel disco, infatti, è quella di un percorso organico di crescita in cui si parte dall’affrontare di petto il problema (un vero e proprio invito a farsi sotto, dicevo nel commento a I Did Something Bad) e si arriva al momento in cui ci si rende conto che di certe cose è necessario farsi una ragione e passare oltre (This Is Why We Can’t Have Nice Things), tant’è che, chiosavo, “TS6 indugia molto di più sulla rinascita che sulla rivincita”. Se ci si sofferma appena un po’ di più, tuttavia, si comprende come, invece, abbia senso che si trovi in TS7: innanzitutto, serve del tempo per arrivare a provare quell’indifferenza celebrata nella canzone, serve del tempo per riuscire a vedere le cose dalla giusta prospettiva e con il giusto distacco. Tematicamente sì, questo brano avrebbe avuto senso in reputation, ma forse sarebbe stato un po’ prematuro: avrebbe avuto più il sapore di un “pio desiderio” (in quanto le ferite erano ancora aperte) che di una vera e propria realizzazione di quanto predicato e, proprio per questo, l’affermazione di imperturbabilità sarebbe risultata meno credibile. Inoltre, se del caso, avrebbe potuto trovarsi in reputation soltanto se accompagnata da una produzione ben più corposa: così presentato, infatti, il brano è orecchiabile senza dubbio, ma in qualche misura piuttosto basilare, senza guizzi o trovate brillanti (e anche come durata - nemmeno tre minuti - è piuttosto sottotono). Ma, e questo è il nodo della questione, è giusto così. Anzi, non potrebbe (né dovrebbe) essere altrimenti: è la dimostrazione concreta che quell’indifferenza sia stata raggiunta sul serio. #AlcoholicCount: 0 #FavLyrics: “Sent me a clear message / Taught me some hard lessons / I just forget what they were” Cruel Summer [Taylor Swift, Jack Antonoff, Annie Clark] Chiariamo una cosa, Taylor: non hai diritto alcuno di qualificare un’estate come “crudele” se non l’hai passata sopra i libri a studiare per l’esame di Stato per avvocato. La tua sarà pure “crudele” ma la mia è inumana e probabilmente in contrasto con la CEDU, quindi nella gara a chi ha un'esistenza più misera e barbina vinco io, stacce. Detto ciò, la canzone sarebbe stata un perfetto primo singolo (estivo, a maggior ragione), affatto impegnato e impegnativo ma energico e accattivante, che di sicuro avrebbe destato curiosità dell’album, e mi ha stupito il fatto che non sia stata estratta, lasciando invece l’incombenza a ME!. È piuttosto interessante notare come il brano ricordi per molti aspetti Love Story (“And I snuck in through the garden gate / Every night that summer just to seal my fate” - “So I sneak out to the garden to see you”) con la differenza che se in Love Story la relazione deve restare clandestina (“We keep quiet 'cause we're dead if they knew”), qua invece è vissuta (o almeno questa è l’intenzione) alla luce del sole (“I don't wanna keep secrets just to keep you”). Curiosamente, se ascoltate una di seguito all’altra, Getaway Car e Cruel Summer sembrano operare una transizione senza soluzione di continuità (in questo vi è utile attivare l’opzione “dissolvenza brani” di iTunes), e dove l’una fisiologicamente cala l’altra inizia a crescere, come se fossero, però, la stessa canzone. #AlcoholicCount: 4 (drunk x2, bar x2) #FavLyrics: “Devils roll the dice, angels roll their eyes / And if I bleed, you'll be the last to know” Lover [Taylor Swift] La canzone che dà il titolo all’album fa proprio venir voglia di essere innamorati (ma per fortuna poi passa). Vabbè, dai, cinismo a parte è una canzone dolcissima, e il primissimo ascolto ha avuto su di me l’effetto di farmi vivere la giornata in modo meno scorbutico del solito. Di questo brano mi piace, anzitutto, la presenza massiccia e preponderante del basso in apertura (il suono del basso elettrico è tra quelli che amo di più al mondo, insieme alle fusa di Floppy), che fa venire subito alla mente un ballo tra due sposi: riesco vividamente a vedere la scena, da una parte una piccola orchestra, al centro i due sventurati che ondeggiano come un pupazzo gonfiabile di una concessionaria di auto, e dall’altra parte gli invitati, alcuni commossi, altri che ingurgitano senza ritegno tutte le tartine burro e alici su cui riescono a mettere le mani (ogni riferimento alla sottoscritta all’ultimo matrimonio cui ha partecipato è puramente casuale). Lo stesso bridge ha il gusto di un voto nuziale (e quel “borrowed” e quel “blue” fanno pensare alla tradizione per cui la sposa dovrebbe indossare una cosa prestata e una cosa blu, oltre a una vecchia, una nuova e una regalata). È interessante leggere questa canzone in contrasto con Cornelia Street: se quella, infatti, è pervasa dal dubbio che le cose non durino, questa è permeata di un sano e solido ottimismo, e soprattuto di certezza (“I’ve loved you three summers now, honey, but I want 'em all”). Il verso più interessante, a parer mio, è “And at every table, I'll save you a seat”: Taylor sta affermando che sa che il suo “lover” si presenterà a ogni occasione, cioè non dovrà mai aspettarlo invano. Sono finiti i tempi in cui vi era chi non riusciva nemmeno ad avvertire di non poter partecipare a una festa di compleanno. #AlcoholicCount: 0 #FavLyrics: “Ladies and gentlemen, will you please stand? / With every guitar string scar on my hand / I take this magnetic force of a man to be my / Lover / My heart's been borrowed and yours has been blue / All's well that ends well to end up with you / Swear to be over-dramatic and true to my / Lover” The Man [Taylor Swift, Joel Little] Nessun preambolo, nessuna preliminare divagazione, la canzone inizia secca in medias res e ci racconta come sarebbe la vita di Taylor (e di qualsiasi altra donna) se avesse una stanghetta in meno sul secondo cromosoma X: se, cioè, fosse nata uomo. Il brano gratta appena la superficie del problema, ma nei suoi tre minuti e dieci offre una interessante panoramica esemplificativa dei due pesi e delle due misure cui la società costringe le donne a sottostare, per cui, a parità di comportamento, quello dell’uomo è ammirevole, quello della donna riprovevole. Oppure, a parità di risultati, quelli dell’uomo sono incontestati, quella della donna sminuiti (se non proprio messi in discussione). Ciò che rende interessante ed efficace il brano è il modo stesso in cui è costruito, cioè da un solo punto di vista, quello ipotetico maschile. Per ogni situazione presentata, e il modo in cui questa viene percepita dagli altri, non si illustra anche quella femminile, che invece è lasciata aleggiare nel sottotesto: sta all’ascoltatore rendersi conto di quale sia la realtà. Così facendo, si favorisce la riflessione (o almeno si spera). Quando, per esempio, dice che se fosse un uomo sarebbe “Come Leo [Di Caprio] a Saint Tropez” (in riferimento alla ben nota tendenza di questi a frequentare per brevi periodi solo ragazze appena ventenni), cioè un gran figo, un playboy, non dice anche che, al contrario, nella stessa posizione una donna sarebbe vista solo come una puttana: non lo dice perché è implicito. È, appunto, auspicabilmente l’ascoltatore che, di fronte al verso “I'd be just like Leo in Saint Tropez” si domanderà: “Ochèi, a parti invertite la cosa come sarebbe vista?”. Perché se è Taylor a doverglielo dire, da una parte gli entrerebbe e dall’altra gli uscirebbe o, peggio ancora, verrebbe percepita soltanto come patetico vittimismo. Se invece (sempre auspicabilmente) ci arrivasse da solo, allora, forse c’è speranza. Questa canzone è, senza dubbio, tra le mie preferite di tutto Lover, e in particolare mi ha colpito il bridge, e la dicotomia che si crea nei versi “And it's all good if you're bad / And it's okay if you're mad” e “They'd paint me out to be bad / So it's okay that I'm mad”, dove quel “mad”, l’essere arrabbiati, è l’uno conseguenza dell’altro, laddove però solo il primo è giustificato, perché sentimento appartenente all’uomo. Mi ha fatto, tra le altre cose, venire in mente ciò che disse Cat Grant a Kara Danvers dopo un inusitato scatto d’ira di quest’ultima (in cui, peraltro, chiedeva soltanto di essere trattata con rispetto) nell’episodio 1x06 di Supergirl: “Non puoi arrabbiarti al lavoro, soprattutto se sei una ragazza. Quando lavoravo al Daily Planet, Perry White ha preso una sedia e l’ha gettata fuori dalla finestra perché qualcuno non aveva rispettato una scadenza e no, non aveva aperto la finestra prima. Se io avessi tirato una sedia o, mio Dio, se avessi tirato un fazzoletto, sarebbe stato su tutti i giornali. Sarebbe stato un suicidio professionale e culturale.” Interessante anche quel “When everyone believes you / What's that like?”, e la mente non può tornare al processo per molestie sessuali intentato dal suo molestatore (sic!), il quale non solo ha palpato quel che non doveva, ma ha anche cercato di instillare il dubbio che Taylor non dicesse la verità (e in effetti in molti hanno subito dubitato della sua parola - ordinaria amministrazione per qualsiasi donna). Per approfondire, qui il resoconto della vicenda giudiziaria. #AlcoholicCount: 1 (drinkin’) #FavLyrics: “I'm so sick of running as fast as I can / Wondering if I'd get there quicker if I was a man” The Archer [Taylor Swift, Jack Antonoff] La famigerata traccia numero cinque. Un pezzone che va a fare compagnia a Cold As You, White Horse, Dear John, All Too Well, All You Had To Do Was Stay e Delicate. La voce, siccome riverberata, sembra provenire da lontano, e con essa la riflessione, l’esame di coscienza: Taylor sa di aver ferito (“I’ve been the archer”) ma anche di essere stata ferita (“I’ve been the prey”). È una canzone che parla di sé e parla a sé (come già faceva Never Grow Up), e sembra fare un po’ il punto di ciò che è stato e di quello che dovrà essere (il futuro è dato da quel “Help me hold on to you”, nel senso che Taylor è da lì che intende ripartire). La parte più bella è senza dubbio il bridge, che peraltro attinge testualmente alla filastrocca che vede protagonista l’uovo antropomorfizzato Humpty Dumpty. Detta omelette-wannabe, infatti, “sul muro sedeva” e “dal muro cadeva, e non bastarono a metterlo in piè tutti gli uomini e i cavalli del re” (“Humpty Dumpty sat on a wall / Humpty Dumpty had a great fall / All the king’s horses and all the king’s men / Couldn’t put Humpty together again”). La canzone è altresì colorata da figure idiomatiche quali “I cut off / my nose just to spite my face” (che indica un comportamento che, posto in essere per ira o vendetta, finisce col danneggiare soprattutto l’autore stesso), similitudini (“I pace like a ghost”), metafore (“archer” e “prey”), ed è connotata tanto da una triste rassegnazione agli aspetti negativi della vita (“The room is on fire / Invisible smoke / And all of my heroes / Die all alone”, “Screaming, Who could ever leave me darling... But who could stay?”, “'Cause all of my enemies / started out friends”) quanto da una voglia di riscatto personale (“I’m ready for combat”) perché è lei stessa si definisce la parte oscura (“dark side”) di qualcun altro che reputa migliore. #AlcoholicCount: 0
#FavLyrics: “All the king's horses / All the king's men / Couldn't put me together again / ‘Cause all of my enemies / Started out friends / Help me hold on to you” I Think He Knows [Taylor Swift, Jack Antonoff] Non sono mai stata una fan del falsetto e non cambierò certo idea ora, ma questa canzone mi piace così tanto che posso anche chiudere un occhio (fortunatamente, poi, la cosa riguarda solo i ritornelli). Ciò non toglie che la parte migliore sia il bridge perché: 1) è un bridge di marca Taylor; 2)d lì canta normale. Bello lo schioccare di dita che tiene il tempo e esprime proprio quel senso di sicurezza, quell’attitudine cool che promana dalla persona di cui ci sta parlando. E il modo in cui dice “I’ll drive” mi manda in brodo di giuggiole. #AlcoholicCount: 0 (e per fortuna, visto che ha deciso di guidare) #FavLyrics: “Lyrical smile, indigo eyes, hand on my thigh / We can follow the sparks, I'll drive” Miss Americana & The Heartbreak Prince [Taylor Swift, Joel Little] Se in testa alla Lover-classifica c’è, per me, Death By A Thousand Cuts, bisogna pure ammettere che Miss Americana & The Heartbreak Prince la tallona a stretto, strettissimo giro. Cavolo, potrei persino arrivare a piazzarle ex aequo sul gradino più alto del podio. Tutta la canzone è una grande e riuscita metafora politica, che sfrutta gli elementi tipici del mondo del liceo per raccontare una realtà ben più vasta e attuale. La stessa Taylor, nelle secret session, ha confermato l’origine politica dell’ispirazione. Assodato questo, è allora piuttosto facile interpretare il brano per mezzo di tale specifica chiave di lettura. La canzone illustra una progressiva e inevitabile disillusione nei confronti del mondo che ci circonda. Certo, Taylor si riferisce agli Stati Uniti, ma racconta per forza di cose di un disagio globale. Così, all’inizio - stante anche la fisiologica immaturità data dalla giovane età - tutto sembra idilliaco. Non so se scomodare il Candido di Voltaire e la solita pippa sul migliore dei mondi possibili, ma ci siamo capiti (“You know I adore you, I'm crazier for you / Than I was at 16, lost in a film scene / Waving homecoming queens, marching band playing / I’m lost in the lights”). Ben presto, però, ci si accorge della realtà per quella che è (“American glory faded before me / Now I'm feeling hopeless, ripped up my prom dress / Running through rose thorns, I saw the scoreboard / And ran for my life”). La seconda strofa mi ha fatto pensare fin da subito alla contrapposizione tra Democratici e Repubblicani (il blu, peraltro, è il colore che contraddistingue i primi), e allora non è un’ipotesi peregrina credere che quel “She’s a bad, bad girl” possa riferirsi nientemeno che alla candidata presidenziale Hillary Clinton. Quello stesso blob arancione di Donald Trump l’aveva definita, in effetti, una “nasty woman”. La strofa successiva è ulteriormente esplicativa: alla luce dei rigurgiti fascisti e in generale di estrema destra (“I see the high fives between the bad guys”) in ogni dove, il team di Taylor - come anche quello di tutte le persone sedute dalla parte giusta della storia - “is losing, battered and bruising”. E a questo punto la situazione è più tetra che mai (“American stories burning before me / I’m feeling helpless, the damsels are depressed / Boys will be boys then, where are the wise men? / Darling, I'm scared”). Se non altro, la canzone è permeata anche da sentimenti positivi, in quanto Taylor si dice convinta che prima o poi vinceranno (“And I'll never let you (Go) 'cause I know this is a (Fight) / That someday we're gonna (Win)”). D’altronde anche nel vaso di Pandora, fuorisciti tutti i mali, si era mantenuta sul fondo la speranza. Credo che questa sia una delle canzoni più riuscite di Taylor, non solo di questo album ma della sua carriera intera: è senza dubbio commendevole come sia stata in grado di parlare di una situazione molto specifica senza tuttavia mai farvi riferimenti espliciti, ma soltanto attraverso figure retoriche. Non che ve ne fosse bisogno, ma Miss Americana & The Heartbreak Prince è l’ennesima prova di quale cantautrice talentuosa sia. Cambiando radicalmente discorso, la base di Miss Americana & The Heartbreak Prince ricorda tantissimo quella di So It Goes… tant’è vero che nei primissimi ascolti, mentre ancora tutto era un brodo primordiale e facevo fatica a distinguere gli elementi di specificità, dopo “It's been a long time coming, but” mi veniva quasi automatico completare con “And all our pieces fall / Right into place”. #AlcoholicCount: 0 (eppure in questo caso avrebbe avuto tutti i motivi de ‘mbriacasse) #FavLyrics: “American stories burning before me / I’m feeling helpless, the damsels are depressed” Paper Rings [Taylor Swift, Jack Antonoff] Questa canzone è speculare a Stay Stay Stay. In effetti, si può dire che a essersi invertite siano i ruoli. Se in Stay Stay Stay era l’altra persona a farsi carico, oltre che delle cose positive (“My hopes and dreams”) anche di quelle negative (“My fears” e le arrabbiature), qui è Taylor a dire di volere contribuire a portare il fardello (“I want your complications too / I want your dreary Mondays”) perché, evidentemente, ora è psicologicamente in grado di farlo. Non solo, ma anche i due pre-ritornelli, identici se non per la variazione dei pronomi (“I” e “You”) denotano equilibrio e parità nel rapporto, segno di maturità. Questa canzone mi fa pensare agli anni ’60 (epoca che ho sempre associato a idee positive e possibilità), e il fatto che sia così up-tempo me la rende davvero irresistibile. #AlcoholicCount: 1 (wine) #FavLyrics: “I like shiny things, but I'd marry you with paper rings” Cornelia Street [Taylor Swift] La canzone è delimitata, all’inizio e alla fine, da due versi uguali: “«I rent a place on Cornelia Street», I said casually in the car”, e tutto quello che c’è in mezzo non è che un film mentale. Taylor immagina la vita in Cornelia Street, e ragiona sulla paura che ha di perdere la persona con cui, nella casa situata in quella medesima via, vorrebbe trascorrere la vita. In quattro minuti viene sviscerata tutta la storia, dagli inizi ancora tutti da scoprire e da comprendere (“We were a fresh page on the desk / Filling in the blanks as we go / As if the street lights pointed in an arrow head / Leading us home”), passando per gli inevitabili problemi (“I packed my bags, left Cornelia Street / Before you even knew I was gone”) fino ad arrivare, da ultimo, alla positiva risoluzione (“But then you called, showed your hand / I turned around before I hit the tunnel / Sat on the roof, you and I / You hold my hand on the street / Walk me back to that apartment”). Alla fine, però, la canzone ritorna al punto di partenza (“«I rent a place on Cornelia Street», I said casually in the car”), ed è come se Taylor si riscuotesse da quella fantasia: nulla di tutto quello che ha cantato è accaduto, ma potrebbe. Ma forte di quel lieto fine, butta lì di aver affittato un posto... Piccola nota curiosa: l’autoplagio. I versi del bridge “Barefoot in the kitchen / Sacred new beginnings” suonano esattamente identici al ritornello di Invisibile, brano del suo primo disco (“I just wanna show you / she don’t even know you”). #AlcoholicCount: 3 (drink, drinks, bar) #FavLyrics: “We were a fresh page on the desk / Filling in the blanks as we go / As if the street lights pointed in an arrow head / Leading us home” Death By A Thousand Cuts [Taylor Swift, Jack Antonoff] Questa canzone è ciò che, in reputation, è stata per me Getaway Car, ciò che in 1989 è stata Wonderland, ciò che in Red è stata Holy Ground, ciò che in Speak Now è stata Long Live, ciò che in Fearless è stata Love Story, e ciò che, infine, in Taylor Swift è stata I’m Only Me When I’m With You. Trattasi, in poche parole, di quelle canzoni che vorrei trasmesse in filodiffusione sulla mia tomba, roba che già da ora sto mettendo da parte i soldi per pagare la SIAE, così almeno il mio esecutore testamentario non avrà di che preoccuparsi. Quello che mi piace di questo brano è come sia così pieno di un’emozione tanto intensa - emozione che sembra fuoriuscire proprio da quei mille tagli - ma non essere in alcun modo ispirato alla vita privata di Taylor (per quanto, ovviamente, nessuna canzone di un’autrice così coinvolta come Taylor potrà mai essere intrepretata asetticamente: un minimo di lei e delle sue esperienze c’è e ci sarà sempre). In questo caso, infatti, l’ispirazione è dichiaratamente il film Netflix Someone Great scritto e diretto da Jennifer Katyn Robinson. Film che, va detto, non ho alcuna intenzione di guardare perché le commedie romantiche non sono tanto il mio genere, e soprattutto perché non ho nessunissima voglia di associare questa canzone a film diversi che non siano quelli che mi faccio io in testa. #AlcoholicCount: 4 (drunk x3, wine) (e il fatto che abbia iniziato a parlare ai semafori non depone certo a favore della sobrietà) #FavLyrics: “Paper cut stains from my paper-thin plans / My time, my wine, my spirit, my trust / Tryna find a part of me you didn't take up / Gave you so much, but it wasn't enough / But I'll be alright, it's just a thousand cuts” London Boy [Taylor Swift, Jack Antonoff, Cautious Clay, Mark Anthony Spears] Questa è la canzone che mi piace di meno. È leggera e senza pretese, una versione più sofisticata di Gorgeous, ma mentre quella alla fine è simpatica e divertente, questa non è niente di più de ‘na Lonely Planet di Londra, e in effetti salvo (ma appena appena) solo il ritornello. Ad ogni modo, fortuna che si è innamorata di un ragazzo di Londra, perché la città, con i suoi numerosi punti di interesse e la sua vivacità culturale, si presta ad essere “visitata” virtualmente. Chissà che pezzo avremmo ottenuto se si fosse innamorata di un ragazzo di Pantiere di Castelbellino. #AlcoholicCount: 3 (Tennessee whiskey, pub, drinking) #FavLyrics: “But something happened, I heard him laughing / I saw the dimples first and then I heard the accent / They say home is where the heart is / But that's not where mine lives” Soon You’ll Get Better (feat. Dixie Chicks) [Taylor Swift, Jack Antonoff] Questa canzone, come già Ronan, è una di quelle che ti devastano l’anima. Pertanto questa canzone, come già Ronan, la skipperò a ogni piè sospinto. È la seconda volta che Taylor affronta un tema orrendo come il cancro, ma se Ronan celebrava e piangeva un bambino che non aveva mai conosciuto, Soon You’ll Get Better la riguarda personalmente, trattandosi di sua madre Andrea. Sono i dettagli che colpiscono, dettagli concreti, palpabili: non si parla, qui, della luce ultravioletta del mattino, o di fumo invisibile, ma di capelli che si intrecciano ai bottoni del cappotto, i barattoli arancioni dei medicinali (che Taylor definisce “holy”, “sacri”, perché potrebbero contenere la chiave della salvezza), lo studio del medico: è come se la cruda realtà si fosse rivelata tutta insieme, come una doccia fredda, e si notano cose cui mai si sarebbe pensato di dover prestare attenzione. Quando, nell’introduzione, parlavo delle sfaccettature spaventose dell’amore, è a questa canzone che mi riferivo. Qui, infatti, emerge tutta la paura di Taylor di perdere la persona che ama di più al mondo (“Desperate people find faith, so now I pray to Jesus too”), ma anche tutta l’intenzione che ha di sostenerla in questo percorso: vuole illuminarle il cielo, e anche se è consapevole di non essere in grado di farlo, ci proverà lo stesso (“I’ll paint the kitchen neon, I'll brighten up the sky / I know I'll never get it, there's not a day that I won't try”) (questo pezzo mi devasta solo a scriverlo). E allora adesso ciò che il promemoria di Never Grow Up (“Remember that she’s getting older too”) lasciava implicito, cioè che la madre non ci sarebbe stata per sempre, si carica di un significato ben più severo, un ulteriore non detto che pesa come un macigno: “Non ci sarà per sempre, e potrebbe esserci per ancora meno tempo”. E se in Never Grow Up si faceva riferimento a quell’egoismo di un’adolescente che non vede, giustamente, l’ora di vivere la vita alle sue condizioni (“And you can't wait to move out someday and call your own shots”), qua emerge l’egoismo tipico e comprensibile di chi, di fronte a un lutto - vero o solo potenziale - mette al centro se stesso: paradossalmente, infatti, la morte non è mai questione di chi se ne va, ma di chi resta, che deve imparare a vivere facendo a meno di qualcosa su cui ha sempre potuto contare (“And I hate to make this all about me / But who am I supposed to talk to? / What am I supposed to do / If there's no you?”). Questi versi credo siano tra i più belli di Taylor, perché di un’onestà disarmante e dolorosissima. #AlcoholicCount: 0 #FavLyrics: “I’ll paint the kitchen neon, I'll brighten up the sky / I know I'll never get it, there's not a day that I won't try” False God [Taylor Swift, Jack Antonoff] Per prima cosa, buon per Taylor ad avere così tanta stima di sé da paragonarsi a New York City. Io sò dieci anni che me sento come la zona industriale di Baranzate. Per seconda cosa, questa canzone detiene senz’altro lo scettro e la corona e il mantello d’ermellino di canzone più suggestiva di tutto il disco. L’atmosfera, data dal sassofono, è scura e fumosa, quasi da locale seminterrato in cui si suona il jazz. Mi sembra proprio di vedere gli avventori, la band, i camerieri che si destreggiano tra i tavoli con i vassoi. L’unica altra canzone che mi abbia mai fatto così vividamente pensare a una simile scenografia è Piano Man di Billy Joel, che però è già in partenza ambientata in un bar. Quindi plauso a Taylor per aver saputo evocare immagini in me tanto realistiche senza elementi che le richiamino direttamente. Ora che ci penso anche So It Goes... aveva sortito un effetto analogo, quindi complimenti due volte. Ora, la canzone si snoda fondamentalmente sul contrasto tra sacro e profano, laddove però, a ben guardare, il sacro ha ben poco di sacro (è una religione che adora un falso Dio), e il profano è davvero profano (finanche peccaminoso: “But we might just get away with it / Religion's in your lips”, “We might just get away with it / The altar is my hips”) e l’una e l’altra cosa costituiscono, alla fin fine, causa ed effetto reciproche. #AlcoholicCount: 1 (wine) #FavLyrics: “But we might just get away with it / Religion's in your lips / Even if it's a false god / We'd still worship / We might just get away with it / The altar is my hips / Even if it's a false god / We'd still worship this love” You Need To Calm Down [Taylor Swift, Joel Little] Per quanto riguarda questa canzone, resto ferma sulle mie convinzioni iniziali (di cui potete leggere diffusamente qui). C’è sicuramente da lodare il testo impegnato, che ben si colloca nell’economia globale dell’album e rappresenta adeguatamente la presa di consapevolezza politica di Taylor, e sopratutto la strutturazione in tre grandi blocchi tematici (gli hater, la discriminazione della comunità LGBTQ, l’artificiosa competizione tra donne) ma resta, comunque, irrimediabilmente scarna a livello musicale. #AlcoholicCount: 1 (Patrón) #FavLyrics: “And I ain't tryna mess with your self-expression / But I've learned the lesson / That stressing and obsessing / ‘Bout somebody else is no fun. / And snakes and stones never broke my bones” Afterglow [Taylor Swift, Louis Belle, Adam Feeney] Una delle canzoni più interessanti è senz’altro Afterglow. Potrebbe, tematicamente, fare il paio con il verso di The Archer dove Taylor sottolinea la sua tendenza autodistruttiva a rovinare qualcosa di buono e a danneggiare se stessa nel medesimo processo (“I cut off / my nose just to spite my face” ). Qui, in effetti, lo dice peraltro esplicitamente, senza farsi scudo della retorica: “I blew things out of proportion”, “Thought I had reason to attack”, “Why'd I have to break what I love so much?”, “I'm to blame”, “Hey, it's all me, in my head / I’m the one who burned us down”. Ci vuole coraggio ad ammettere di essere in torto e a fare un passo indietro, assumersi le proprie colpe, ed è quello che sta facendo qui Taylor. #AlcoholicCount: 0 #FavLyrics: “It's so excruciating to see you low / Just wanna lift you up and not let you go” ME! (feat. Brendon Urie) [Taylor Swift, Brendon Urie, Joel Little] Il brano che è nientemeno il primo singolo estratto da Lover è anche quello che, a questo punto, sembra il più fuori posto. Liricamente è la canzone più debole di tutte (insieme a London Boy), ciò non toglie che mi era piaciuta all’epoca e continua a piacermi ora (avendo contezza, certo, che rispetto ad altri pezzi il confronto è impietoso). Non mi dilungherò troppo, e per un’analisi più approfondita vi invito a leggere qui. In questa sede mi limito a dire che la canzone mi piace perché, fondamentalmente, è un’esaltazione della singolarità e delle imperfezioni di ognuno, cose che in fin dei conti ci rendono quel che siamo. Rispetto alla versione singolo, quella dell’album ha perso il verso “Hey kids, spelling is fun”. Tanto quanto non capivo perché vi fosse stato inserito in primo luogo, tanto non ho capito perché abbia deciso di toglierlo. Sì, c’è chi si è lamentato perché lo trovava stupido, ma non è che stiamo parlando di una canzone papabile per il Nobel per la letteratura, quindi boh, statevi un po’ scialli. Tra l’altro il buco, per chi è abituato alla versione originale, si nota parecchio. #AlcoholicCount: 0 #FavLyrics: “Living in winter, I am your summer” It’s Nice To Have A Friend [Taylor Swift, Louis Bell, Adam Feeney] Sarò sincera: io questa canzone non l’ho capita. Per prima cosa, strana è strana. È anche molto breve, durando appena due minuti e trenta. In realtà non è tanto il fatto che sia breve a essere strano (I Forgot That You Existed ne dura 2:51, Cruel Summer 2:58, I Think He Knows 2:53, You Need To Calm Down 2:51) quanto piuttosto che mi pare che manchi qualcosa. Come se uno andasse al cinema a vedere un film di Star Wars e poi uscisse dalla sala dopo aver letto le scritte in giallo (non che, in effetti, la terza trilogia dia motivi validi di restare fino alla fine della pellicola). La sensazione che mi provoca è di essere rimasta in qualche modo “appesa”. “Sì, e quindi? Finito qua?” ho pensato. Il Manzoni si sarebbe domandato dove fosse “il sugo della storia”. Volendo lavorare un po’ di fantasia, in effetti, una storia c’è. O forse sono semplicemente io che mi sono costretta a trovarla, perché tanto di qualcosa avrei dovuto scrivere. Innanzitutto, la canzone è molto basilare nella sua struttura: si alternano semplicemente tre strofe e tre ritornelli, senza nemmeno un bridge. Le strofe, ad ogni modo, hanno uno sviluppo narrativo evidente, seppure piuttosto fumoso. A me sembra (ma qualsiasi cosa dica è da prendere cum grano salis, perché ripeto, questa canzone non l’ho capita) la nascita di un’amicizia che poi si trasforma in amore, e quell’amore viene infine sigillato nel matrimonio. Così abbiamo: Strofa 1: “”Wanna hang out?" Yes, sounds like fun” ; Strofa 2: “Something gave you the nerve / To touch my hand”; Strofa 3: “Church bells ring, carry me home / Rice on the ground looks like snow”. E non deve, allora, suonare fuorviante quel “friend” del titolo e dei ritornelli, perché l’amore passa anche dall’amicizia (e non necessariamente il primo assorbe la seconda). In effetti, già in You Are In Love Taylor non esclude le due cose, e le fa coesistere contemporaneamente: “Pauses, then says "You're my best friend, "And you knew what it was / He is in love”. Peraltro, anche in Paper Rings si passa dall’essere amici all’essere, evidentemente, qualcosa di più. Ciò che, ad ogni modo, mi fa impazzire (in senso sia positivo - perché mi piace un sacco - che negativo - perché non ho idea per quale motivo sia lì) di questa canzone è la tromba, che conferisce al brano un’atmosfera davvero indecifrabile. #AlcoholicCount: 0 #FavLyrics: “Light pink sky up on the roof / Sun sinks down, no curfew” Daylight [Taylor Swift] Fatta eccezione per l’album omonimo, tutti i dischi di Taylor si chiudono su una nota positiva (Change, Long Live, Begin Again, Clean, New Year’s Day). Evidentemente, anche questo non è da meno. È in qualche modo confortante rendersi conto che Taylor ora si trovi in un momento della vita in cui non vede che la luce del giorno (per quanto non tutti i cieli siano sempre luminosi, come quelli che sovrastano quanto raccontato in Soon You’ll Get Better). Ora, il bello delle canzoni di Taylor è come, sebbene nella maggior parte dei casi ancorate a situazioni personali specifiche, e in linea di massima riflettenti le sue esperienze e le sue considerazioni sull’amore romantico, possano in ogni caso attagliarsi anche a persone che, poniamo, hanno intenzione di vivere la propria esistenza da zitella con un gatto di nome Secondo Conflitto Mondiale. Perché se è vero ed evidente che Daylight parli dell’amore, e quella sensazione di ottimismo che vi si accompagna una volta trovato, è pure vero che vi si possa intuire anche un significato più universale. Per quanto mi riguarda, versi come “I've been sleeping so long in a 20-year dark night / And now I see daylight, I only see daylight” mi fanno credere e sperare che a un certo punto le cose andranno a posto. Nel mio caso specifico, la mia notte oscura e piena di terrore dura da dieci anni e non da venti (pietra miliare di quando è andato tutto a scatafascio è stata l’iscrizione a giurisprudenza), ma per il resto mi ci ritrovo. In definitiva questa canzone mi fa pensare a quel fumetto in cui c’è una persona con un cubo di Rubik al posto della testa, tutto mescolato, e la didascalia che accompagna le vignette spiega che se ancora non hai capito quale sia il senso e lo scopo di tutto, non significa che non ci riuscirai e un giorno - e qui il tipo ha il cubo in perfetto ordine - potresti addirittura guardare indietro e chiederti perché mai ti eri preoccupato tanto. Tutto però sta arrivarci, a quel giorno, e non sbroccare prima (tutti gli allibratori dei peggiori bar di Baranzate danno per assolutamente certa la seconda circostanza, comunque). Ma basta parlare di me e dei miei patemi esistenziali. Per quanto invece concerne, nello specifico, l’amore romantico, è interessante vedere quel riferimento esplicito a Red (“I once believed love would be burning red”) e di come la prospettiva di Taylor sulla questione sia cambiata in positivo, tanto che adesso quel medesimo sentimento non è più rosso, ma oro. #AlcoholicCount: 0 #FavLyrics: “I’ve been sleeping so long in a 20-year dark night / And now I see daylight, I only see daylight” STEP INTO THE DAYLIGHT AND LET GO Un paio di considerazioni tecniche, prima di quelle emotive. Mi ha stupito parecchio la presenza di ben quattro canzoni che non arrivano nemmeno a tre minuti, che per me è un po’ un requisito di durata minimo. La cosa, certo, è compensata dal fatto che nel disco siano presenti ben diciotto brani, un’enormità, ma un minimissimo sforzo in più forse si poteva anche fare. Non è una cosa poi così fondamentale, dopotutto è la qualità che conta, ma il fatto che quei pezzi entrino tre-quattro volte in alcune delle mie canzoni preferite in assoluto nei secoli dei secoli amen (Nightfall On The Grey Mountains [Rhapsody] 7:20, Destruction Preventer [Sonata Arctica] 7:39, White Pearl, Black Oceans… [Sonata Arctica] 8:47, The Scarecrow [Avantasia] 11:15) mi lascia un po’ così. Non serve nemmeno andare a pescare in un genere lontano come il metal, quando la stessa Taylor, ai tempi, non si faceva certo scrupoli a dilungarsi (Dear John 6:46, Last Kiss 6:09, Enchanted 5:53, Long Live 5:18). Ma vabbè, è una riflessione che lascia un po’ il tempo (capito? Il “tempo”... *tap tap* è acceso questo coso?) che trova. Per il resto, ho apprezzato moltissimo come Taylor sia stata in grado di rinnovarsi anche questa volta, e soprattuto come abbia saputo, di nuovo, sperimentare: ci sono alcuni punti, infatti, estremamente suggestivi (quali la tromba di It’s Nice To Have a Friend, il sax di False God, quell’intermezzo strumentale che inizia al minuto 2:54 di Miss Americana) che è certo inusuale trovare in brani pop. Per quanto riguarda le considerazioni emotive, non ho poi molto da dire se non che un album upbeat come questo non poteva capitarmi in un periodo peggiore (e quindi, in senso lato, migliore), dove in termini di futuro e di soddisfazione personale - fatta eccezione per il romanzo per il quale ho firmato un contratto di edizione - non riesco a vedere più in là del mio naso (e non c’entra il fatto che sia più miope di Hans Uomo Talpa). Quindi niente: siccome quest’esistenza stinfia al momento non sembra che un lunghissimo lunedì, posso almeno dire che c’è la musica di Taylor a renderla meno dreary e più shiny.
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pollockdipoesie · 6 years ago
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Gennaro Carotenuto 7 Mag 2019
Il Salone del libro e il fascismo col quale dovremmo convivere
Il corto circuito creatosi sul “Salone del libro” di Torino, è esclusiva responsabilità di chi ha preso la decisione tutta politica di accettare i fascisti di Casa Pound. Per questo livello decisorio, totalmente chiuso al dialogo, impersonato dalla dichiarazione della dott. Rebola, direttrice del Circolo dei lettori, il fascismo è una legittima sensibilità politico-culturale da rispettare come le altre. Ciò (Rebola dixit, dorso torinese di “Repubblica”, 5 maggio, p. V, taglio basso) “in nome della Costituzione e della libertà di espressione”. Questo è stato il pacchetto etico imposto ai vari Lagioia, Lipperini, Raimo (quest’ultimo con una triste marcia indietro notturna), che evidentemente non hanno avuto la forza, non solo contrattuale, per ottenere l’unica cosa sensata prima del circo scatenatosi nelle ultime 48 ore, cioè rompere il contratto con Altaforte.
I decisori della massima fiera editoriale italiana hanno così scelto di lanciare un segnale pesantissimo, ma perfettamente in linea col clima generale del paese: “col fascismo bisogna convivere”. Mi è sovvenuto quel ministro di Berlusconi del “con la mafia bisogna convivere” che, scava scava verso il fondo, ha portato al Salvini del “i camorristi si ammazzino tra di loro e non rompano le palle”, preciso segnale politico del Ministro degli Interni alla criminalità organizzata, passato pressoché sotto silenzio nella sua allucinante gravità solo domenica.
C’è un’Italia che “col fascismo bisogna convivere” perché è fascista, fascioleghista, o benpensante (i vari Battista), che considera l’antifascismo come “il problema” e il 25 aprile un derby. Ma c’è anche un’Italia che si sente buona, giusta e antifascista, che “col fascismo bisogna convivere” per malinteso liberalismo, perché Voltaire bla bla, perché tanto ci facciamo comunque le nostre belle iniziative civili, i nostri saloni, la repubblichetta dei libri (a negazione del paese reale), e nessuno ci impedirà di celebrarci Primo Levi, e non importa se gomito a gomito con chi Levi lo gaserebbe volentieri qui e ora, non nel 1943.
È quell’Italia civile, civilissima che si è rinchiusa nel bel gesto e nelle belle lettere, e sarebbe troppo facile ricordare il dibattito politico sulle periferie impoverite vs. centri benestanti per avere chiaro che (Zero Calcare lo dice molto bene) lo spazio ai fascisti vada conteso metro per metro. Lo sta facendo Polacchi a Torino, non per colpa di chi lo voleva fuori, ma di chi lo ha fatto entrare. I fascisti sanno perché sono al Salone del libro; perché i dieci metri del loro box diventino non 12, 13, 14, ma mille e poi tutti e 60.000 dell’intero salone. Non è colpa di Wu Ming se i giornali intervistano Polacchi, ma di chi gli dà agibilità politica, dal Ministro degli Interni alla dott. Rebola.
Continuo a pensare che la parola esatta l’abbia detta il figlio di Leone e Natalia (mi si perdoni il ricorso genealogico, ma per deformazione professionale trovo la contestualizzazione indispensabile per le nuove generazioni), il grandissimo storico Carlo Ginzburg: “il problema è esclusivamente politico” e le questioni legali e commerciali sono secondarie. Con il fascismo non si può convivere perché la convivenza col fascismo è incompatibile con la democrazia, col pluralismo e con tutte quelle (altre) sensibilità da rispettare delle quali blatera la dott. Rebola e che il fascismo nega.
E no, non necessariamente la democrazia è più forte del fascismo. Affermarlo è ipocrita, consolatorio e assolutorio. Lo hanno chiarito – la Storia fa tenere la schiena dritta – i sopravvissuti della Shoah, che escludono di partecipare se ci saranno i fascisti. Vogliamo accusarli di intolleranza? Mentre intorno a Lagioia si continua a spacciare l’idea di una festa della lettura, che sembra sempre più il ballo del Titanic, le vittime della Shoah lamentano (cfr. La Stampa di oggi) di non essere state degnate di risposta da chi nel Salone decide davvero. La Storia, sempre quella, a volte mette davanti a scelte scomode; ma la sensibilità dei sopravvissuti conta evidentemente meno.
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bangtanitalianchannel · 6 years ago
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[ARTICOLO] Ecco quello che una boyband coreana può insegnarci sulla globalizzazione 4.0
“Per i lettori dell’edizione Americana del TIME Magazine non c’erano dubbi: la boyband coreana dei BTS dovrebbe essere eletta Persona dell’Anno del 2018. Al termine di un sondaggio condotto a livello globale, i BTS hanno continuato a mantenere il loro vantaggio iniziale vincendo contro candidati come il pianeta Terra e il presidente americano Donald Trump.
Ma chi sono I BTS? A meno che quest’anno non abbiate vissuto da eremiti (come me), non farete questa domanda. Il fenomeno K-pop ha rilasciato due album che si sono posizionati al primo posto della classifica Billboard Top 200 e ha battuto Justin Bieber diventando il Top Social Artist del 2018. Inoltre, i BTS sono gli artisti di cui si parla di più al mondo.
Dando uno sguardo al loro successo globale, tuttavia, ci permette di identificare una peculiarità. Le loro canzoni sono prevalentemente cantate in coreano, non in inglese. Non sono i soli in questo. Artisti latino-americani come Fonsi (autore di Despacito) e Enrique Iglesias, o altri artisti coreani come PSY (autore del Gangnam Style) dimostrano che la globalizzazione della cultura non coincide ormai più con l’americanizzazione. Da questo momento dunque la globalizzazione sarà sempre più diversificata?
A partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fino agli anni 2000, la direzione imboccata dalla globalizzazione culturale era solo una: quella della lingua inglese e della cultura Americana.
Mentre molti Paesi europei fino agli anni ’60 erano ancora parecchio influenzati dalla cultura francese, il trend è iniziato a cambiare a partire dal 1945. I soldati americani erano giunti in Europa per combattere, ma avevano anche portato la Coca Cola, la musica jazz e l’ossessione per i film di Hollywood. Anche in altri continenti l’emergente potenza economica e politica dell’America stava sempre più influenzando la cultura.
Davvero dunque, mentre molte società asiatiche ed europee erano focalizzate sul riorganizzarsi, la cultura americana ha conquistato il mondo. Elvis Presley, Frank Sinatra, Marvin Gaye, Aretha Franklin e James Brown hanno dato il via al trend. Col passare dei decenni, solo Brits e altri artisti di lingua inglese come i Beatles e i Rolling Stones sono veramente riusciti a stare al passo con i colleghi americani.
Ad oggi non si può negare che la cultura dominante a livello globale sia quella Americana. I film che hanno registrato il ricavo più alto di sempre sono praticamente solo quelli di Hollywood (basti pensare ad Avatar, Titanic o Star Wars). Gli album più venduti di tutti i tempi sono per la maggior parte americani (anche se la band australiana degli AC/DC e la band britannica dei Pink Floyd hanno dato del filo da torcere a Michael Jackson).
La maggior parte dei social media e delle aziende internet sono americani. E la cultura del cibo, anche se molto varia, è ancora influenzata dal McDonalds, dalla Coca Cola, da Starbucks e dalla Pepsi Cola.
Questo sviluppo non sarebbe stato possibile senza una maggiore globalizzazione dell’economia mondiale e dell’impatto trasformativo della tecnologia. Negli anni ’60, i voli transatlantici e le registrazioni in radio hanno reso possibile ai Beatles di far nascere una vera e propria mania in America. Negli anni ’90 e 2000, mercati aperti a tutto il mondo e internet hanno permesso a un fenomeno culturale di espandersi anche più velocemente.
Il New York Times ha riportato che per il 2007 metà delle rimanenti 7000 lingue erano in pericolo di estinzione. Per il 2017, il World Economic Forum ha scritto che più di 1500 tra queste avevano meno di 1000 persone capaci di parlarle.
Come l’UNESCO, braccio educativo, scientifico e culturale delle Nazioni Unite, ha fatto notare al Rio+20 (N/B: conferenza sullo sviluppo sostenibile tenutasi nel 2012 a Rio de Janeiro), l'omogeneità della cultura ha portato anche altri rischi.
Nel 2012 ha detto: “Seppur questo fenomeno promuova l'integrazione delle società, può anche portare ad una perdita dell’originalità della cultura locale, che in cambio potrebbe condurre alla perdita di identità, ad esclusioni ed anche a conflitti”. La recente esplosione di violenza incitata tramite social media globali come Facebook e Twitter mostrano che era una visione previdente.
Quindi ci sono gli effetti economici di una cultura globalizzata. Già prima della popolarità dei social media e delle compagnie dette Big Tech (N/B: società basate sullo sviluppo di tecnologie), meno di una dozzina di compagnie - come “Disney”, “21st Century Fox”, “Sony” e “Viacom” - possedevano la fetta maggiore dei media e delle istituzioni più importanti al mondo.
L'arrivo di grandi piattaforme tecnologiche ha solo accelerato i trend verso una concentrazione maggiore del mercato e i rischi di perdita della diversità culturale.
Infine, per quanto ci possano piacere il nostro panino con patate fritte, la nostra busta di patatine e il nostro bicchiere di caffè da portar via, anche la cultura globalizzata dei fast-food ha aggravato i problemi mondiali.
Se tutti consumassero la stessa quantità di hamburger degli americani o creassero la stessa spazzatura, il cambiamento climatico e l'inquinamento sarebbero insormontabili e l'obesità causerebbe anche più malattie e morti.
Bomba a orologio o manna dal cielo?
Questo porta ad alcune importanti domande. La globalizzazione della cultura guidata dall'America è una bomba ad orologio autodistruttiva destinata ad uccidere lentamente le lingue, le culture e la vita stessa? È un fenomeno che arricchisce le culture locali con un diverso set di influenze straniere? O dovremmo essere agnostici a riguardo, purché porti ad un risultato migliore per la società e l'ambiente, come un governo migliore o una gestione del clima? 
Se a fino poco fa la prima domanda sembrava probabilmente risposta da un “sì”, i BTS, Fonsi e i loro compagni hanno dimostrato che una globalizzazione più diversificata non può essere completamente esclusa.
Consideriamo per primo il caso di Luis Fonsi. Con la sua hit “Despacito”, il cantante portoricano ha infranto sette record “Guinness”, tra cui il primo video di YouTube a raggiungere 5 miliardi di visualizzazioni e la traccia più ascoltata nel mondo. Con questo ha dimostrato che si può influenzare la cultura globale anche attraverso la lingua spagnola e la cultura caraibica. Ciò non sorprende se si considera che ci sono 437 milioni di persone che parlano lo spagnolo come prima lingua, a confronto dei 372 milioni di nativi anglofoni. 
Il caso dei BTS è forse anche più impressionante, perché è anche più avverso ad ogni probabilità culturale. Mentre lo spagnolo, assieme al cinese mandarino e all'inglese, appartiene alla top 3 delle lingue più parlate nel mondo, il coreano non compare neanche nella top 10. Infatti, la Corea fino ad un secolo fa era conosciuta come il “Regno Eremita” per il suo isolamento culturale ed economico. 
Di questo isolamento ci sono tracce ancora oggi. Nelle economie di altri Paesi del G20, come in quella della Francia o della Germania, la maggior parte dei successi musicali del 2017 sono state canzoni in lingua inglese, mentre in Corea comunque nella lingua nazionale e i BTS non sono un’eccezione, essendo i loro brani cantati in coreano con solo alcune parti del testo in inglese. Eppure il gruppo è diventato comunque il fenomeno musicale globale dell’anno.
A questo si aggiunge il fatto che il successo del gruppo sia in parte dovuto anche a spinte dal basso verso l’alto, nel senso che sono stati i fan a darvi un enorme contributo traducendo e sottotitolando i video e le esibizioni in inglese. I BTS non sono, inoltre, i primi artisti K-pop ad aver ottenuto  successo a livello internazionale: in Occidente, ad esempio, PSY è molto conosciuto, così come lo sono altri gruppi coreani in diversi Paesi dell’Asia, dalla Cina al Vietnam, per arrivare al Giappone.
Ovviamente, come una rondine non fa primavera, per così dire, così non saranno Fonsi e i BTS da soli a cambiare la globalizzazione culturale, ma anche in altri settori nuovi protagonisti culturali sono emersi da realtà diverse da quella americana e l’Asia, in particolare, sta giocando un ruolo fondamentale.
La prima Intelligenza Artificiale a condurre un telegiornale viene dalla Cina e parla sia il mandarino che l’inglese, mentre sempre di più Hollywood subisce l’influenza delle  compagnie cinesi e degli attori asiatici con i quali lavora, e degli esempi sono “The Great Wall” con Matt Damon e Jing Tian, oppure uno dei successi cinematografici  del 2018, “Crazy Rich Asians”, film con un cast completamente asiatico e basato su una serie di libri parimenti di successo.
Nel settore tecnologico, una delle più famose compagnie di streaming, “Spotify”, è svedese, mentre in quello sportivo, sia i Mondiali di calcio FIFA che i Giochi Olimpici possono vantare di aver celebrato nazioni e culture diverse, pur dovendo affrontare delle critiche per la cattiva gestione della governance.
Tuttavia per quanto i campioni dell’americanizzazione della cultura globale possano essere oggetto di biasimo, alcune delle compagnie più rappresentative in questo senso hanno condotto il mondo verso un positivo cambiamento culturale.
Il quadro generale
Saadia Zahidi del World Economic Forum, nel suo libro “50 Million Rising”, ha scritto che “McDonald’s” è stata una tra le prime compagnie ad aver integrato nella forza lavoro le donne in Paesi a maggioranza musulmana come l’Indonesia e l’Arabia Saudita, mentre “PepsiCo”, sotto la guida del CEO (N/B: “direttore d’azienda”) di origine indiana Indra Nooyi, ha iniziato ad allontanarsi dalla produzione di bevande zuccherate per investire in attività come “Sodastream” che commercializza l’acqua di rubinetto ed evita la plastica. Ma questi sono elementi che potrebbero risultare mancanti al quadro culturale  generale del 2018. Il fatto che siano cantanti e gruppi dai Caraibi o dalla Corea a creare i successi musicali più popolari del mondo dimostra che, dopo tutto, non c’è nulla di inevitabile nel processo di americanizzazione della globalizzazione culturale. Le culture diverse, quasi sicuramente, continueranno ad esistere e ad incrociarsi influenzandosi vicendevolmente come hanno fatto per secoli fino ad ora, ma quello che è davvero essenziale è che ognuno abbracci la propria cultura e che i politici e le altre parti interessate rafforzino e promuovano i legami culturali nella società. Ma se i membri di un gruppo musicale del “Regno Eremita” possono essere eletti come “Personalità dell’anno” nella capitale economica del mondo, una monocultura globale non è poi così vicina, in fondo.”
Traduzione a cura di Bangtan Italian Channel Subs (©Cam, Clara, jimindipityR) | ©weforum
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love-nessuno · 6 years ago
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---QUESTO PICCOLO GRANDE MONDO IPOCRITA--- BOY ERASED (vite cancellate) SODOMA (Un'inchiesta capace di riscrivere la storia della Chiesa) Due titoli che racchiudono una verità allucinante che ancora non vogliamo vedere. In queste due settimane di ferie mi ero ripromesso di fare due cose; leggere il libro di Frédéric Martel SODOMA, e vedere il film su una storia vera BOY ERASED (vite cancellate) del regista Joel Edgerton. Parto da quest'ultimo; questo film che tratta una storia vera, ha il grande pregio e merito di svelare e farci entrare in un mondo fatto di ipocrisia e pregiudizio dove si pensa che un "essere umano" possa essere “modificato”, partendo dal presupposto che il suo “essere” sia derivato da un modo, un atteggiamento, oppure una scelta. Benvenuti nel mondo delle terapie di “conversione”o “riparative”; centri tutt'ora operativi, in numerose località statunitensi (ben 700.000 persone sono state coinvolte in queste aberranti pratiche, che niente hanno di scientifico, ma rette solo da un falso retaggio religioso). Jared è un diciottenne, figlio di un pastore battista (Russell Crowe) e di una madre devota (Nicole Kidman) , perfettamente integrato in un tessuto rispettoso di sani ed integerrimi valori americani. Basta poco però, per rischiare di venire emarginato da tutto questo, in primis dalla famiglia, poi dalla comunità, infine dalla chiesa stessa. Basta rivelare di sentirsi attratto dagli uomini. Ma Jared non ha nulla da temere, sta a lui scegliere se davvero vuole “cambiare” e continuare ad essere amato e rispettato; per questo le porte del centro “Love in Action”, programma “Rifugio” sono aperte.(naturalmente pagando somme ingenti.) Ecco Boy Erased, il film manifesto di un percorso doloroso, inumano, traumatico, che molte volte ha causato suicidi, e che al tempo stesso è stato capace di portare alla consapevolezza e alla propria autodeterminazione. Ed è un percorso che il film interpretando questa storia vera, sottolinea in maniera perfetta, oserei dire consolatoria, con tanto di “poster” finale a suggellarne il buon esito. Jared abbandonerà questo “covo di matti”, andrà a vivere a New York con il suo compagno e vivrà in modo sereno la sua “vera vita” con successo. “Il pregiudizio, sia che tu lo eserciti o che ne sia vittima, danneggia sempre tutti” E veniamo a Sodoma, il libro inchiesta, del famoso scrittore e giornalista sociologo, Frédéric Martel, uscito da poco in contemporanea e tradotto in otto lingue, in una ventina di Stati, oltre all' Italia e Francia, dal Regno Unito agli Stati Uniti, dall'Australia al sud America, dalla Polonia alla Spagna ai Paesi bassi e altri ancora. Una indagine capillare svolta con novizia di particolari e fatti, tutti raccontati dai diretti interessati e che getta su questa istituzione ombre, misfatti e peccati mortali. Se da un lato la chiesa vorrebbe “curare” gli omosessuali, dall'altro scopriamo con questa inchiesta, se ancora ce ne fosse bisogno, una cruda ma reale verità. La chiesa con i suoi rappresentanti, preti, arcipreti, vescovi, arcivescovi, cardinali e papi; è l'essere fondamento, l'essenza, la natura, la realtà, la sostanza più vera dell'omosessualità. Ricordate quando si parlava di lobby gay all'interno del Vaticano? E le preoccupazioni del Papa? Ebbene non esiste solo una lobby gay in vaticano, ma esiste una quasi totalità di comunità di chiesa gay. Impedire l'ingresso ai seminari alle persone gay, non significa solo diminuire i casi di vocazione sacerdotale, ma svuotare e chiudere completamente le chiese. Cinquecento55 pagine che si basano su un gran numero di fonti reali. Durante gli oltre quattro anni di inchieste sul campo, sono state intervistate quasi 1500 persone in Vaticano e in trenta paesi diversi, tra questi figurano 41 cardinali, 52 vescovi e monsignori, 45 nunzi apostolici e ambasciatori stranieri e oltre 200 sacerdoti e seminaristi, tutti contrassegnati con nome e cognome. Tutte queste interviste, sono state realizzate sul campo di persona e registrate con l'aiuto di 80 “researchers”, corrispondenti, consulenti, mediatori e traduttori impegnati per svolgere al meglio le ricerche necessarie per il libro, Tutto questo per dire che niente è inventato o creato ad arte per screditare la chiesa. La chiesa si è screditata da sola. Perché coloro che tacevano ora hanno accettato di parlare. C'è un segreto in Vaticano che non può più essere ignorato. Dall'uscita di questo libro, stranamente, ma anche molto sospetto, la stampa e le televisioni non ne parlano; perché farlo significherebbe far crollare quella diga di falsità e ipocrisia che ancora con fatica continua a reggere. Francesco anche con il suo Motu Proprio, la sua ultima legge n. 297, non intende più chiudere gli occhi; troppi sono i casi di abusi sessuali che si contano ormai a migliaia, anzi a decine di migliaia, in tutto il mondo e sono un vero e proprio morbo per la chiesa cattolica. Ogni settimana vengono presentate nuove denunce, vengono accusati o incolpati vescovi, ci sono sacerdoti condannati e si susseguono gli scandali. In oltre l'80% dei casi si tratta di abusi omosessuali. Non è più possibile per Francesco, mettere la testa sotto la sabbia e tenere la linea di Giovanni Paolo II e dei suoi bracci destri, Angelo Sodano e Stanislaw Dziwisz ; ne mostrare indulgenza come faceva Benedetto XVI e dal cardinale Tarcisio Bertone. E' ormai assodato che le dimissioni di Benedetto non sono certo causate da motivi di salute, ma ben più vicine a problemi derivanti dall'omosessualità. Mi ricorda molto le sue scarpette rosse. Nessuno è innocente, tutti sono colpevoli. La causa profonda degli abusi sessuali sta nella rigidità di facciata che nasconde una doppia vita, (celebrare messa al mattino e cercare qualche escort in piazza dei cinquecento a Roma o nel resto dei “batuage” del mondo la sera) , e anche nel celibato dei sacerdoti. Dietro la maggior parte dei casi di abuso sessuale, ci sono sacerdoti o vescovi che hanno protetto gli aggressori a causa della propria omosessualità e per timore che questa possa essere rivelata in caso di scandalo o processo. La cultura del segreto (fai ma non dire nulla) era necessaria per mantenere il silenzio sulla forte presenza di omosessualità nella chiesa e ha permesso di nascondere gli abusi sessuali e ai carnefici di agire. Il Papa è convinto che la vicenda sia solo all'inizio, la chiesa è una torre di Pisa che minaccia di crollare o come il Titanic che affonda mentre l'orchestra continua a suonare. E' necessario cambiare tutto, se non si vuole rischiare di voler far scomparire una religione. All'interno del Vaticano esiste una macchina da guerra contro l'omosessualità, chiamata “La congregazione della fede”, a lungo chiamato “ Sant' Uffizio” incaricato della tristemente celebre “Inquisizione” e del suo famoso “Indice” (l'elenco di tutti i libri censurati e proibiti). Questo ministero del Vaticano continua ancora oggi a fissare la dottrina e definire il bene e il male. Tra i venti cardinali che attualmente figurano nell'organigramma della congregazione della dottrina della fede, una dozzina sono omosessuali “praticanti”, almeno cinque vivono con un ragazzo, tre fanno regolarmente ricorso a prostituzione di sesso maschile. Quindi, la congregazione è un caso clinico interessante, ed è il cuore dell'ipocrisia vaticana; essendo in gran parte omosessuale, questo clero impone l'odio verso gli omosessuali, ovvero l'odio di se stessi, con un atto di disperato masochismo. Questo interessante, anche se molto impegnativo libro, l'ho letto con grande passione, molta curiosità, ma altrettanta sofferenza; e alla fine ne devo dedurre che tutto quello che ho appreso, dalle confessioni di verità, alle dichiarazioni, misfatti, crimini e omissioni, mi hanno colpito molto, e in molti casi fatto provare un senso di schifo, di indignazione, di pena. Da omosessuale, il loro comportamento mi ferisce, perché dipingono l'omosessualità come il peccato, la volgarità, l'essere contro natura; moralmente disonesto. Come quel mantra che predicavano al congresso della famiglia di Verona “figli di Satana.” Loro sono tutto fuorché “moralmente onesti”; se volevano essere liberi di vivere la propria omosessualità con onestà e coerenza dovevano cercarsi un' altro lavoro e vivere con naturalezza per se stessi e nei confronti degli altri. La loro azione di mistificazione, inganno, montatura, truffa, ha causato e causa tutt'ora sofferenza e morte in tanti paesi del mondo dove per causa del fanatismo religioso le persone vengono discriminate e anche uccise. La superbia, la supponenza, di tanti cardinali e vescovi, è sconcertante. La loro vita da nababbi pieni di ricchezza in appartamenti di 900 metri quadrati e macchine di lusso, meriterebbe i strali di un Dio che loro vorrebbero misericordioso e buono, ma che a loro dovrebbe riservare le pene più infime dell'inferno. Il potere economico, all'interno della chiesa è più feroce e crudele del più malvagio degli assassini. E qui come non potrei infilarci il nome dell'arcivescovo americano Marcinkus, omosessuale attestato con un debole per le guardie svizzere e poi con una relazione con un sacerdote svizzero, ma questo sarebbe per questo prete il peccato minore; Famoso per essere il favorito di Giovanni Paolo II , nominato capo dello IOR, la famosa banca Vaticana che con lui ha conosciuto innumerevoli intrighi finanziari e spettacolari scandali. Accusato e incriminato di corruzione, e sospettato di aver fomentato assassinii compreso quello di Papa Giovanni Paolo I. Come ancora irrisolti appaiono, lasciando molte ombre e vergogne; l'omicidio della guardia svizzera Cédric Tornay del suo comandante e la moglie; anche in questo caso entra in gioco l'omosessualità. Altro mistero scandaloso, che meriterebbe finalmente la verità, il rapimento di Emanuela Orlandi. Il vaticano in quanto a segreti di stato, non è secondo a nessuno. Vorrei definire la chiesa non con parole mie, ma con quelle di un gesuita, padre Federico Lombardo, portavoce di due papi e cacciato dal gesuita Francesco: “l'obbedienza al papa è un valore assoluto, un valore che supera di gran lunga la verità. Quello che io vedo bianco, creda che sia nero se la chiesa gerarchica così stabilisce. La chiesa cattolica è certamente l'organizzazione che parla di più di verità, ha sempre questa parola in bocca. Brandisce costantemente la verità. Nel contempo è l'organizzazione che mente di più al mondo. Il “soldato” Lombardi è stato spesso costretto andare al fronte , incaricato di smentire e di difendere l'indifendibile ; un susseguirsi quasi ininterrotto di fallimenti, errori, scandali, affari e controversie. A differenza di altri però, lui è andato in pensione con grande umiltà e vive in una stanza spartana. A questo punto mi piacerebbe farvi una lunga lista di nomi di cardinali, vescovi e monsignori gay, dimenticavo papi; ma sarebbe interminabile e lunga da leggere; allora vi allego qualche dichiarazione simpatica, come quella di un arcivescovo gay della curia romana soprannominato “ La Paìva”che dice: “Lei sapeva che il papa è circondato da omosessuali?” Pensate quanto erano bellicosi in Vaticano; ai tempi del World Gay Pride tenutosi a Roma l'8 luglio 2000, i cardinali erano furiosi contro la sfilata gay, perché era stato loro rifiutato di parteciparvi con un carro. Simpatico poi quel cardinale polacco che chiamano “la vedova” da quando è morto papa Giovanni Paolo II, era il suo fedele e affidabile servitore. Un' altro simpatico cardinale in Vaticano viene chiamato Platinette, proprio come quella drag Italiana, e insieme ad un altro cardinale chiamato “la mongolfiera” per la sua arroganza e vanità, facevano parte di quella che potrebbe essere chiamata la prima “cerchia di lussuria” intorno a papa Giovanni Paolo II. Esistevano poi altre cerchie lussuriose che riunivano gli omosessuali “praticanti” a livelli gerarchici inferiori. I prelati eterosessuali erano e sono rari così come la castità era ancora più rara. Ecco una “perla” del cardinale Angelo Sodano, che dopo aver sempre difeso per principio i sacerdoti sospettati di abusi sessuali, dice “Dei non hominum est episcopos iudicare” (spetta a Dio, non agli uomini, giudicare i vescovi) Naturalmente sono solo pochi spunti, il libro ne racconta a migliaia; e per riassumere l'intera inchiesta posso dire: la misoginia del clero( atteggiamento di avversione e di repulsione da parte dell'uomo verso i rapporti sessuali con donne), la fine delle vocazioni sacerdotali, la cultura del silenzio in caso di abuso sessuale, le dimissioni di papa Benedetto, la guerra contro Francesco. Una rete smisurata di relazioni creatasi attorno alla vita intima dei sacerdoti, capace di sfruttarne le fragilità più profonde e di influenzare l'esercizio del potere della chiesa. Il volto nascosto della chiesa: un sistema costruito, dai seminari più piccoli alla curia romana, sulla doppia vita omosessuale e sull'omofobia più radicale. Più un prelato si mostra omofobo in pubblico, più è probabile che sia omosessuale in privato. La questione gay, naturalmente non spiega tutto, ma è una chiave decisiva per comprendere il vaticano e la sua posizione nella nostra società. Se si ignora questa dimensione relativa all'omosessualità, ci si priva di un elemento essenziale per decifrare gran parte dei fatti che hanno segnato la storia e la politica degli ultimi decenni. Dietro la rigidità c'è sempre qualcosa di nascosto, in tanti casi una doppia vita. Benvenuti in vaticano, una delle più grandi comunità omosessuali del mondo. “La Chiesa ha ammesso di aver commesso molti errori, solo che non vuole ammettere che sta continuando a farne.” Giovanni Corbanese
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iosononati · 2 years ago
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Guida 2: Parenti e tempo libero
Attività 1. L’abbigliamento
Vocabolario: Rappresentare sul blog in forma grafica e scritta minimo 30 parole del vocabolario imparato nell’ unità 8.
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Second life: Inviare al blog l’audio con la descrizione del tuo avatar.
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Link audio:
Trascrizione audio: Ciao! Descriverò l'abbigliamento del mio avatar. Il mio avatar ha un maglione rosa e una maglietta bianca. Ha una collana e un girocollo. Indossa blue jeans e scarpe da ginnastica rosa. E questo è tutto, ciao!
Attività 2. Cose di famiglia
Attività 3. I gusti sono gusti
Presentandomi: Inviare all’aula virtuale (nella guida 2) il testo di minimo 80 parole.
Ciao! Mi chiamo Natalia. Ho 18 anni. Vivo a Bogotà. Sono uno studente. Sono una ragazza creativa, affettuosa e curiosa. Mi piacciono molto le lingue. Amo ballare, cantare e disegnare. Non mi piace organizzare i miei vestiti. Odio dormire con le luci accese. Adoro il cioccolato. La mia bevanda preferita è l'acqua. Mi piace molto la musica, la mia artista preferita è Lana del Rey. Mi piacciono anche i BTS. Il mio libro preferito è Lolita (Vladimir Nabokov) e El Túnel (Ernesto Sábato). Il mio film preferito è Titanic. Mi piacerebbe visitare la città di Tivoli perché penso che sia bellissima. Mi piace la città e la campagna. Preferisco il freddo che il caldo, ma solo un po'.
Profilo personale: Scrivere sul blog il profilo personale dei compagni di gruppo.
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Attività 4. Prova le tue conoscenze
Autovalutazione: Scrivere l’autovalutazione sul blog.
In questa guida ho imparato un nuovo vocabolario sull'abbigliamento e ho imparato a descrivere i miei gusti e le mie preferenze meglio di prima. Penso di dover migliorare di più il mio modo di studiare perché faccio ancora fatica ad esprimermi un po' in italiano, ma sto facendo più progressi ogni giorno. Devo rivedere la pronuncia di ogni parola e l'accento. Il mio piano per migliorare è ascoltare musica in italiano e leggere i miei libri preferiti in italiano. Voglio anche rivedere i tutorial forniti dal mio tutor e utilizzare le applicazioni per imparare le lingue.
Progetto Finale: Profilo Aziendale.
https://iosononati.tumblr.com/post/694587255213506560/progetto-finale-profilo-aziendale
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enyora · 3 years ago
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Non credo che il ricordo di te seduto a gambe incrociate sul quel tappeto arancione sbiadirà facilmente dalla mia memoria; come il sorriso che mi ha accompagnata per il resto della giornata.
Come quando mi insegui "solo" per baciarmi un'ultima volta prima di dormire.
Vedi io non so spiegare a parole quello che succede dentro di me in momenti come questi. Perché sono eterei ed eterni, sono fuori dalla realtà e tu sai che provare a sfuggirle è il mio passatempo preferito.
Se leggessi poesie ci sarebbero fiumi, oceani di nero su bianco che potrei usare per provare a spiegare.
Ecco si, ma non posso, non è il mio campo; Io funziono con le immagini. Posso dirti, però, che per me sei come quando sento per caso la colonna sonora di Titanic, familiare e commovente e tutta la mia infanzia;
Sei la città del mio cuore quando la attraversavo con gli auricolari sempre alle orecchie e la meraviglia negli occhi ad ogni passo, ad ogni nuovo angolo che scoprivo;
Sei un tesoro salvato dalla strada;
Sei tutti i posti che vorrei visitare;
Sei Louise Barragan e Luise Khan;
Sei tutte le volte che mi bagno non appena mi sfiori;
Sei tutti i sogni che voglio realizzare;
Sei il concerto dei Sigur Ros in una vallata islandese;
Sei i libri di Wilbur Smith;
Sei uno di quei video sugli animali che ci fanno sempre piangere.
Sei il mio anello del piede;
Sei il mio sogno di vivere in un campeggio;
Sei camminare a piedi nudi;
Sei sott'acqua;
Sei tutte le volte che mi preparo a scattare una fotografia;
Sei i film di Baz Luhrmann;
Sei il monologo finale di amami sei hai coraggio;
Sei il gioco del silenzio;
Sei komorebi;
Sei la mia casa col giardino;
Sei Oceano mare;
Sei Ludovico Einaudi sotto la pioggia;
Sei il vento che mi scompiglia i capelli mentre andiamo a fare una gita;
Sei il mio cuscino Memory foam;
Sei volevo solo averti accanto.
Sei le notti insonni che trascorro guardando il mare;
Sei le discese in bicicletta;
Sei le bambine che cercavano conchiglie;
Sei le colonne sonore Disney;
Sei la prima volta che ti ho pestato il piede;
Sei il sushi di Shanghai;
Sei i barattoli pieni colori;
Sei pupu quando giochiamo a rifare il letto;
Sei casualità, sorpresa, intensità, sei possibilità;
Sei libertà;
Sei una polaroid;
Sei il nostro primo bacio;
Sei natura selvaggia e indomabile;
Sei Amrita;
Sei il mio posto più in alto del mondo;
Sei il mio tappeto volante.
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weirdesplinder · 4 years ago
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SERIE TV di PRIME VIDEO che vi consiglio di guardare
Naturalmente questi consigli sono del tutto soggettivi e guidati dal mio gusto personale, e  a differenza della lista che avevo stilato per Netflix, non  citerò solo produzioni originali Amazon, ma anche vecchie serie tv  ormai di culto e da rivedere assolutamente ora che sono disponibili su questa piattaforma:
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THE BOYS
Tratto da un famoso fumetto americano con lo stesso titolo.
Trama:   Cosa succederebbe se i supereroi usassero i propri poteri e il proprio status per corrompere le autorità, scendere a patti con aziende di poco rispetto o perpetrare abusi di ogni tipo? Servirebbe qualcuno per tenerli a bada. Ed è qui che entrano in gioco i Boys, un gruppo di guardiani riunitisi per contrastare i Seven, i sette supereroi pagati dall'agenzia multimiliardaria Vought International. Dietro i sorrisi smaglianti e la loro straordinaria forza si celano infatti azioni tutt'altro che nobili, e farle venire alla luce sarà un'impresa davvero eroica. 
Perchè guardarla: Perchè è innovativa, dissacrante, ironica, anticonformista e fatta molto bene.
THE EXPANSE (con riserve)
Serie tv  tratto dall'omonima serie di nove libri (e non ancora completata credo), scritta da Daniel Abraham e Ty Franck sotto lo pseudonimo di James S. A. Corey. La prima stagione del telefilm è tratta dal primo libro intitolato Leviathan Il risveglio.
Trama: Nel XXIV secolo, il sistema solare è stato colonizzato dagli umani e si trova in una situazione di precario equilibrio geopolitico a causa delle tensioni fra la Terra e le ex-colonie marziane, oramai indipendenti sotto il vessillo della Repubblica congressuale marziana e del degrado sociale in cui sopravvive gran parte della popolazione degli avamposti nella fascia principale degli asteroidi e i pianeti esterni. In questo difficile contesto, si intrecciano le vicende del detective di polizia Josephus Miller, di stanza su Cerere, a cui viene affidata l'indagine sulla scomparsa di una donna terrestre, Julie Andromeda Mao, e il secondo ufficiale del cargo porta ghiaccio Canterbury, James Holden, inavvertitamente coinvolto in un incidente che rischia di destabilizzare irreversibilmente le relazioni tra Marte e la Terra e innescare un conflitto interplanetario.
Perché guardarla: Perchè è uno scifi e come sapete scarseggiano e la trama è interessante, anche se un po’ troppo complicata mano a mano che le stagioni proseguono. Io on amo l’attore che interpreta Holden purtroppo.
THE MAN IN THE HIGH CASTLE (con riserve)
Serie di tratta dal romanzo di Philip K. Dick pubblicato in Italia col titolo La svastica sul sole.
Trama: Nel 1962 il mondo è molto diverso da quello che conosciamo, i nazisti da New York governano una parte degli Stati Uniti, mentre da San Francisco sono i giapponesi a guidare il resto dell'America del Nord, se si eccettua un'area neutrale. In questo mondo dove Adolf Hitler è ancora vivo e guida la Germania vincitrice della Seconda Guerra Mondiale, però c'è chi non si è ancora arreso come Joe Blake o Juliana Crain. E la resistenza ha le prove che esiste un’altra realtà dove i nazisti non hanno vinto...
Perchè guardarla: perchè è veramente intelligente e studiata benissimo con mille particolari e una trama ricca di colpi di scena, inoltre è intepretata da bravissimi attori. Ma è molto violenta e cruda, a volte troppo per me. La vedo adatta soprattutto a chi ama i film di guerra.
CARNIVAL ROW (con riserve)
Trama: Un ex militare ora investigatore e una fata affrontano pericolose avventure in un fantastico mondo vittoriano. La tranquillità della città svanisce quando una serie di omicidi rivela la presenza di un terribile mostro.
Perchè guardarla: perchè anche se è una serie di livello medio (soprattutto per colpa di recitazione e sceneggiatura mancanti su molti fronti) può vantare una gran bella ambientazione fantasy steampunk che la differenzia dalla maggioranza delle altre serie, e ricorda temi cari a tutti i lettori di romance e urban fantasy,
BUFFY THE VAMPIRE SLAYER
Trama: Buffy Summers è una liceale di Los Angeles cui è affidato il ruolo di cacciatrice di vampiri, demoni e forze del male, assistita da un gruppo di amici, la Scooby Gang che la sostiene nella lotta.
Perchè guardarla:  Perchè è una serie tv cult che ha fatto la storia. Avvicente, innovativa e con una protagonista donna forte e vulnerabile al punto giusto che non ha bisogno che gli uomini la salvino, ma non per questo li calpesta o li ritiene inutili. Lei è l’eroina di questa storia, ma come dice lei stessa, se non fosse per i suoi amici normali, sarebbe morta mille volte.
V: LA MINISERIE ORIGINALE
La serie originale dei Visitors che fu trasmessa per la prima volta nel 1983 in America come una miniserie. Questo non è un telefilm ispirato da dei libri, ma bensì uno da cui furono tratti dei libri. Per l’esattezza 6 libri editi da SIAD edizioni negli anni ‘80:
1. La crisi della costa orientale, di Howard Weinstein, A. C. Crispin
2. La Terra è salva, di Howard Weinstein, A. C. Crispin
3.  Caccia a Diana, di Allen Wold
4. Assedio a Chicago, di Geo W. Proctor
5. Progetto Florida, di Tim Sullivan
6. Prigionieri e ostaggi, di Howard Weinstein
Questi libri non sono le sceneggiature degli episodi della serie, ma dei veri e propri racconti inediti che narrano accadimenti che si svolgono in contemporanea alla serie, ma in altri luoghi e con altri protagonisti. 
Trama: Decine e decine di dischi volanti giungono sulla Terra e si fermano sopra le principali città del nostro pianeta. Gli alieni prendono contatto con i terrestri e forniscono la spiegazione circa il loro arrivo: vengono dal quarto pianeta della stella Sirio e sono venuti sulla Terra in pace, bisognosi di alcune risorse che sul loro pianeta di origine stanno esaurendosi. Non tutti però sono disposti ad accettare la storia raccontata dai Visitatori al mondo intero. Fra questi, il reporter Mike Donovan, il quale sale di nascosto a bordo dell'astronave madre e si ritrova di fronte ad una realtà agghiacciante e pericolosa: gli alieni sono in realtà dei rettili, celati da un aspetto umano, che si cibano di animali ancora vivi…
Perchè guardarla: Ancora attuale perchè ben sceneggiata e perchè il suo messaggio è ancora valido oggi. I Visitors non erano altro che metafora di una nuova specie di nazismo e la resistenza umana metafora di ciò per cui vale la pena lottare: libertà e generosità.
X-FILES
Trama: La serie vede protagonisti due agenti dell'FBI,Mulder e Scully che hanno il compito di indagare su particolari casi di natura paranormale, Mulder crede che alle teorie del complotto, alle percezioni extrasensoriali, agli UFO e agli alieni. Mentre Scully, la razionale tra i due, cerca sempre spiegazioni scientifiche per gli strani fenomeni che incontrano. Ma non sempre ci riesce.
Perchè guardarla: perchè ha fatto la storia della tv.
STREGHE
Trama: La serie segue le avventure delle sorelle Halliwell, Prue, Piper e Phoebe che scopriranno all’improvviso l’eredità magica lasciata loro dalla madre.  La loro è una famiglia di streghe da generazioni ma loro tre sono “predestinate” ad essere le tre streghe più potenti della storia. Sono meno forti se prese singolarmente, ma quando usano il "Potere del Trio" per sconfiggere il male, riescono a superare ogni ostacolo.
Perchè guardarla: Streghe, demoni, angeli, amori impossibili e incantesimi new age, devo aggiungere altro? Questo telefilm ha modernizzato le streghe una volta per tutte, e i telefilm di streghe di oggi, non esisterebbero senza di lui.
DOWNTON ABBEY
Trama: Ambientata nella fittizia Downton Abbey, tenuta di campagna nello Yorkshire del Conte e della Contessa di Grantham, la serie segue le vite dell'aristocratica famiglia Crawley e dei loro servitori a partire dal 15 aprile 1912, data di affondamento del Titanic. Alla notizia della tragedia, la famiglia Crawley è sconvolta nell'apprendere che il cugino del conte, James Crawley, e suo figlio Patrick, erede della loro proprietà, nonché della cospicua dote della Contessa Cora, sono deceduti nel naufragio. Nuovo beneficiario diventa il giovane Matthew, cugino di terzo grado della famiglia e avvocato a Manchester. I Crawley, soprattutto la Contessa Madre Violet, inorridiscono al pensiero che ad una persona "che lavora" – senza la minima intenzione di adattarsi alla vita aristocratica da loro condotta – spettino i loro interi averi. Sullo sfondo s'intrecciano le vicende della vita dei numerosi domestici.
Perchè guardarla: Perchè è stupenda, con dialoghi imbattibili e se amate le serie storiche non potete perderla. Inutile dire che ha un’aurea romantica unica.
Ma su Amazon Prime video potete trovare anche molte altre serie cult che mreiterebbero di venire viste: DESPERATE HOUSEWIVES, BIG BANG THEORY, POIROT, MISS MARPLE, MAI DIRE SI’, BATTLESTAR GALACTICA, BONES e molte altre. Purtroppo non posso citarle tutte, mi limito alle mie preferite..
Onorevole menzione:
Su Amazon Prime video sono disponibili anche molti cartoni animati cult degli anni ‘80 e ‘90, ve ne cito alcuni: OCCHI DI GATTO, LAMU’, KEN IL GUERRIERO, INUYASHA, IL MISTERO DELLA PIETRA AZZURRA, IL TULIPANO NERO ecc....
Menzione disonorevole:
Da fan di Star trek vi prego di non guardare la serie tv STAR TREK PICARD disponibile su Prime, perchè vi rovinerebbe per sempre il personaggio di Jean Luc Picard.
Amazon Prime Video Store
Amazon Prime video ha anche un suo store dove comprare o noleggiare film e serie tv non inclusi nell’abbonamento Prime, che funziona più o meno come Chili, per intenderci.
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leggereromanticamente · 7 years ago
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Nuova uscita di oggi: #IlRitorno di #JenniferLArmentrout Io l’ho letto in anteprima in eBook e sul blog è online la recensione! (Link in bio) Se amate il fantasy e il paranormal romance new adult non perdetevi l’inizio della serie #Titan ( spin/off della serie #Covenant ) . . . #leggereromanticamente #harpercollinsitalia #recensione #nuoveuscite #libridaleggere #ticonsigliounlibro #libri #romanzi #romanzifantasy #ioamoilibri #bookstagram #instabooks #lettura #leggere #paranormalromance #novità #bookoftheday #picoftheday #reading #booklover #booknerd #reader #lettrice #leggereèsempreunabuonaidea
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occhiaie-da-lettore · 7 years ago
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Guardando queste cassete mi vengono in menta tante domande : chissa com’era vivere ai loro tempi : Erano gli anni del walkman riavvolto con la Bic e del floppy disk, del bungee jumping,deglizaini Invicta ; gli anni degli Stati Uniti di Clinton e del Sud Africa di Nelson Mandela, degli autoscontri , quelli del Furby e del Tamagotchi, delle rotelle allineate sui pattini e arrovellate nei pacchetti di liquirizie. Anni in cui Maria Montessori scalzò per sempre Giuseppe Verdi sulle banconote da mille lire (già, le Lire), la mucca Fruttolo rimpiazzò l’ippopotamo della Lines,la comparsa dei compact disc segnava la «fine primo tempo» degli album in vinile. Okay Anni in cui si calzavano con fierezza i Dr. Martens e noncuranti le scarpe con le luci; si ascoltavano Oasis e Take That, Spice Girls e Backstreet Boys; si giocava col Crystal Ball e le carte Uno, la manina appiccicosa delle patatine e il barattolo che, rovesciato, muggiva lungamente. Anni bui e belligeranti – la Guerra del Golfo, la Strage di Capaci, lo scandalo Mani Pulite –, inaspriti dalle morti di molti miti, da De Andrè a Lucio Battisti, da Sinatra a Kurt Cobain, così come Freddie Mercury e Lady D. Gli anni in cui Forrest Gump cominciava la sua corsa, Titanic il suo naufragio, il cast di Full Monty il suo show a petto nudo e il picchetto di Trainspotting a sbricconeggiare per Edimburgo. Chi è stato dodici-diciottenne in quegli anni, ha vissuto un’adolescenza diversa. Né migliore né peggiore degli altri – troppo svelte, altrimenti, le operazioni nostalgiche –, ma differente nei modi e nei mezzi. Senza scomodare il trattato di Maastricht, i ragazzi dei ’90, figli dell’Europa, hanno accarezzato per primi l’opportunità di studiare all’estero, con tutta l’esuberanza (e la titubanza) sui nuovi progetti Erasmus. Tardivi digitali, hanno surfato sul web prima per piacere e poi per dovere, passando dai cataloghi delle biblioteche al click sul Search dei motori di ricerca, dai vecchi libri-game ai giochi on line, dagli approcci immediati in discoteca alla mediazione incontrollata sulle chat. Hanno tenuto diari segreti, buffamente sigillati dai lucchetti non ancora scardinati da Facebook, maneggiato il Game Boy molto prima dei tablet e compilato test assurdi su riviste col nome di avverbi. Estranei al concetto di «aperitivi», hanno pasteggiato a Tegolini e polpette della nonna, posseduto Nokia antidiluviani e Motorola acquistati al chilo, giocato alla bottiglia e a 1,2,3 stella con la stessa scioltezza con cui oggi, su Twitter, si cinguetta. Figli meno controllabili, poco contenibili, sono stati i primi a spalancare – sul mondo, virtualmente – le finestre che i genitori hanno chiuso loro in casa. -internet
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pangeanews · 5 years ago
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L’estate violenta degli Stones: droga, gelosia, caldo ipnotico, donne stregate (e la chitarra di Eric Clapton) a Villa Nellcôte, Costa Azzurra
“Chi è che sa come procurarsi un po’ di m*rda, da queste parti?”: siamo nel 1971, è estate, e m*rda sta per eroina, e queste parti per Villefranche-sur-Mer, in Costa Azzurra. Sono giorni di sole perenne, implacabile. Di caldo atroce. Insopportabile. Ipnotico. I Rolling Stones stanno, sudati e bestemmianti, in autoesilio in Francia, scappati da quell’Inghilterra che li vuole in galera per evasione fiscale se non sganciano in tasse il 93 per cento dei loro guadagni. Fuggono, gli Stones, anche da Allen Klein, il manager che gli ha fregato soldi e i diritti delle loro canzoni: Mick gliel’ha giurata, non gliene darà altri, men che mai quelli dei nuovi brani che si porta appresso, su demo, nella fuga nel sud della Francia.
*
Villa Nellcôte la trova Anita Pallenberg, la donna di Keith. Una dimora immensa, maestosa, soffitti alti 6 metri, specchi, colonne di marmo, scaloni imponenti. È passata dalle mani di un riccone sopravvissuto al Titanic, a quelle di un armatore, con intermezzo di occupazione nazista, che ha lasciato svastiche indelebili sulle pareti. Un’aria di morte, di tomba, aleggia in quella casa buia, umida, ferma in un gravoso silenzio. In verità è dalla morte che fuggono gli Stones, dai cadaveri di Brian Jones e di Altamont, dall’overdose quasi letale di Marianne Faithfull. Fuggono dalla morte per rifugiarsi in una catacomba, ovvero un seminterrato, quello di Villa Nellcôte, che sembra l’interno di una piramide egizia, stanze dentro stanze, corridoi, e luce e aria che entrano da una sola piccola finestra.
*
Una prigione sotterranea. Qui gli Stones decidono di registrare Exile on Main St., ogni giorno, da mezzanotte alle prime luci dell’alba. Ma tra i membri del gruppo gira un’aria brutta, tesa. Gli Stones sono nervosi, incaz*ati tra loro e per motivi loro, e tutti insieme con l’Inghilterra e col mondo intero. Una paranoia che li fa sentire sotto assedio. A Nellcôte, con Anita e Keith, si vive in bilico, da fuorilegge, ma nessuno Stones ‘regge’ Richards, che va a dormire alle 10 del mattino (quando non si fa di amfe e allora sta sveglio, a suonare, per giorni interi) e si alza nel tardo pomeriggio: così si stabiliscono lontano da Nellcôte, a ore di macchina, da cui non si muovono nei weekend. E Mick Jagger? Meglio lasciarlo stare, sta sul nevrastenico, ha appena sposato Bianca, che è incinta, e per lei fa la spola tra Nellcôte e Parigi. Mick si droga, si fa di tutto e parecchio, ma Mick è snervato perché è geloso. Di Keith. Che a Nellcôte sta sempre con Gram Parsons, che forse con Gram vuole incidere un disco, vuol fare il solista, si tormenta Mick, cioè vuole lasciare lui e gli Stones. In questa atmosfera agitata, elettrica, in quella tomba sottoterra si scrive, si suona, si urla, si litiga, ci si riconcilia. Si sta allucinati, pazzi dal caldo che un unico ventilatore non placa di nulla, e la sua inutilità finisce nel disco (Ventilator Blues). Si sta col cuoco Jacques che fa saltare in aria la cucina e li lascia affamati, e però, mica si può licenziare, è lui che procura la ‘roba’. È lui che ha i contatti con quelli di Marsiglia, è lui che porta l’eroina pura. A Nellcôte, nel gabinetto, Keith ha scritto questa formula, 97 a 3, e sono i grammi, questi ultimi, della polvere della prima busta che vanno mischiati ai 97 di lattosio della seconda. Roba da tagliare con precisione, come fa Keith, ogni volta che sparisce per quasi un’ora. È la vena che reclama.
*
A Villa Nellcôte passano artisti, scrittori, colleghi, perdigiorno. Passa ogni tipo di droga, sui tavoli la si smercia, la si consuma, gli stessi tavoli aree da gioco d’azzardo per uomini che di giorno dormono, di notte suonano, la mattina salgono sul Mandrax, il motoscafo di Keith, che lo guida senza patente, e vanno a far colazione in Italia, e a fumar erba coi marines pazzi di felicità perché per loro star di stanza in Francia significa saltare il Vietnam. E coi marines si va a prostitute! (Tumbling Dice).
*
A Nellcôte ci sta 6 mesi Dominique Tarlé, il fotografo che cattura visioni, spettri di quell’inferno dantesco, regalandolo alla storia. Ci sta il giornalista Robert Greenfield, che su Nellcôte, e su Exile, vi scrive un libro sput*anante. I piani superiori di Nellcôte divengono bivacchi, accampamenti beduini, e Anita Pallenberg, accaldata, coi vestiti appiccicati addosso, si ritrova nell’ingrato compito di buttafuori. Un carattere niente facile, quello di Anita: forte ma suscettibile, e manesco con gli uomini. E Keith non sale di sopra, trema quando la sente parlare in tedesco, perché è in quella sua seconda lingua madre che Anita si infuria. Un giorno a Nellcôte arriva Eric Clapton, con 7 chitarre, e una la dona a Keith ed è quella di Muddy Waters, e io non ho mai saputo se è tra quelle che un pomeriggio i ladri razziano mentre a Nellcôte si guarda, ‘fatti’ e beati, la tv. Un altro giorno arriva William Burroughs, ed è il suo ‘cut-up’ che salva Mick e Keith dalla paralisi compositiva. È col cut-up che si crea Casino Boogie, è dai giornali che riportano Angela Davis ricercata per terrorismo, che nasce Sweet Black Angel. In Exile entrano suoni duri, e testi violenti, si cerca Dio e si vuole vederlo in faccia. I brani di Exile riflettono e rimandano il clima ‘flippato’ di quel tempo, di quella estate. A settembre il disco è finito: gli Stones si separano, ospiti graditi e no se ne vanno, a Nellcôte rimangono Keith, Anita, il loro piccolo Marlon, i domestici. E arriva la polizia. Keith e Anita sono accusati di uso e spaccio di droga, sui media sono descritti come due delinquenti, Anita come una meretrice, una strega, una donna dalla bellezza che sgomenta e inquieta. Si scopre che tra gli inquilini di Nellcôte c’era qualche infiltrato della polizia evidentemente ignorante perché le accuse a Anita di stregoneria vengono fuori dai libri che lei aveva disseminati per la casa: insieme a Kafka, Artaud, Rilke, Hofmannsthal, svettano testi di teosofia, magia nera, esoterismo. Lei ci andava matta.
*
Keith e Anita filano a Los Angeles. Qui arrivano anche gli altri Stones per completare Exile che esce nella primavera successiva, e non se lo compra nessuno. Inizialmente. Poi va al numero uno. Si parte in tour, quello dei record, quello così eccessivo che Keith se lo ricorda a lampi. In tour con gli Stones, ci sono Truman Capote per Life, e Annie Leibovitz per Rolling Stone. Pacchi di soldi agli avvocati, e le accuse a Keith e Anita decadono. Altre arriveranno. E Anita è di nuovo incinta. Nasce Angie.
Barbara Costa
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levysoft · 4 years ago
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Nel 1924 l’Enciclopedia britannica pubblicò una storia in due volumi della parte del XX secolo trascorsa fino a quel momento. Più di 80 autori – professori e politici, militari e scienziati - contribuirono scrivendo i vari capitoli dell’opera, intitolata These Eventful Years: The Twentieth Century in the Making as Told by Many of Its Makers. In tutte le sue 1300 pagine, però, l’opera non citava neppure una volta la catastrofica ...
Nel 1924 l’Enciclopedia britannica pubblicò una storia in due volumi della parte del XX secolo trascorsa fino a quel momento. Più di 80 autori – professori e politici, militari e scienziati - contribuirono scrivendo i vari capitoli dell’opera, intitolata These Eventful Years: The Twentieth Century in the Making as Told by Many of Its Makers.
In tutte le sue 1300 pagine, però, l’opera non citava neppure una volta la catastrofica pandemia influenzale che aveva ucciso tra 50 e 100 milioni di persone in tutto il mondo appena cinque anni prima. E molti dei testi di storia dei successivi decenni si limitano ad accennare di passata alla pandemia del 1918-19, quando pure lo fanno, come nota al discorso sulla Prima guerra mondiale.
Rispetto ad altri grandi eventi del XX secolo, la pandemia è rimasta stranamente sbiadita nella sfera pubblica fino a tempi molto recenti. Monumenti e festività nazionali commemorano le vittime delle due guerre mondiali. Musei molto frequentati e film di grande successo raccontano il naufragio del Titanic e le missioni lunari del progetto Apollo. Ma non si può dire lo stesso dell’influenza del 1918 (“la Spagnola", come fu chiamata a causa di convinzioni sbagliate sulla sua origine). Certo, la pandemia non è stata dimenticata del tutto: molti sanno ancor oggi che è avvenuta, o persino che qualche lontano parente ne rimase vittima. Ma l'evento occupa un posto sproporzionatamente ridotto nella narrazione con cui la nostra società ricorda a se stessa il proprio passato.
Che una pandemia tanto devastante possa diventare così latente nella nostra memoria collettiva ha sconcertato Guy Beiner, storico dell’Università del Negev “Ben Gurion”, in Israele, spingendolo a dedicare decenni di studio alla sua eredità. "Siamo vittime di un'illusione: crediamo che se un avvenimento è storicamente significativo – se colpisce davvero tante persone, se cambia il destino di interi paesi del mondo, se fa morire molta gente – allora è inevitabile che ne resti il ricordo", dice. "Ma non è affatto così che vanno le cose. E il caso della Spagnola dovrebbe appunto metterci in guardia."
Beiner ha cominciato a collezionare libri sulla pandemia del 1918 vent’anni fa. Per un bel po' ne ha visto uscire pochi, e a rilento. Ma adesso che il mondo fa i conti con COVID-19, fatica a stare al passo con il flusso delle nuove uscite, sia di narrativa che d’altro genere. "In ufficio ho tre pile [di romanzi] che mi aspettano, pile enormi", puntualizza.
Rimasta fin qui un argomento di nicchia anche per gli storici, la pandemia del 1918 è stata messa a confronto con quella attuale per i tassi di mortalità, i dati sull’efficacia di mascherine e sul distanziamento sociale, e per il possibile impatto economico. Nel solo mese di marzo del 2020, la pagina di Wikipedia in lingua inglese dedicata alla Spagnola è stata vista più di 8,2 milioni di volte, polverizzando il precedente record di 144.000 volte stabilito nel 2018, centenario della pandemia.
La "dimenticanza" mondiale e l’attuale riscoperta dell’influenza del 1918 aprono una finestra sullo studio scientifico della memoria collettiva. E offrono indicazioni di grande interesse su come le generazioni future potranno forse guardare all’attuale epidemia di coronavirus.
Che cos’è la memoria collettiva? Avviato agli inizi del XX secolo dal pionieristico lavoro del sociologo Maurice Halbwachs, negli ultimi anni lo studio della memoria collettiva ha riscosso grande interesse in tutti i settori delle scienze sociali. Henry Roediger III, psicologo alla Washington University di St. Louis, definisce la memoria collettiva come "il modo in cui ricordiamo noi stessi come parte di un gruppo […] costitutivo della nostra identità". Gruppi come le nazioni, i partiti politici, le comunità religiose e le tifoserie sportive, spiega, inseriscono gli avvenimenti del proprio passato collettivo in una narrazione che rafforza il senso di sé condiviso dai singoli membri del gruppo.
Per studiare la memoria collettiva dei gruppi rispetto a famosi avvenimenti storici, i ricercatori adottano spesso metodi di sollecitazione dei ricordi con domande aperte. Per esempio, Roediger, insieme al suo collega James Wertsch, anch’egli alla Washington University di St. Louis, ha chiesto a soggetti statunitensi e russi di indicare i dieci eventi più importanti della Seconda guerra mondiale.
Gli statunitensi hanno citato soprattutto l’attacco a Pearl Harbor, le bombe atomiche sul Giappone e l’Olocausto. La maggior parte dei russi ha messo invece in primo piano la battaglia di Stalingrado, la battaglia di Kursk e l’assedio di Leningrado. L’unico evento che appariva in tutte e due le liste era lo sbarco in Normandia, che negli Stati Uniti era il “D-day" e in Russia "l’apertura del secondo fronte". Gli avvenimenti ricordati con maggior forza dalle persone di ciascuno dei due paesi, dicono i ricercatori, riflettono la cornice narrativa, lo schema, entro cui quel paese ricorda il passato.
Uno studio analogo potrebbe indicare quali elementi specifici della pandemia del 1918 siano presenti alle persone. Ma "a quanto ne so, non l’ha fatto nessuno", dice Wertsch. "Se qualcuno facesse un’indagine si ritroverebbe a mani vuote." Anche mettendola a confronto con COVID-19, sottolinea, ben pochi sono in grado di citare qualche dettaglio sulla pandemia del secolo scorso.
L'importanza di una storia chiara Wertsch osserva che la memoria collettiva sembra dipendere in larga misura da narrazioni con un inizio, una parte centrale e una fine ben chiari. "Se c’è uno strumento cognitivo più ubiquitario, più naturale […] di tutti gli altri, è la narrazione", osserva. "Non tutte le culture umane hanno sistemi di numerazione aritmetica, e non parliamo del calcolo differenziale. Ma in tutte le culture umane si raccontano storie."
Ai paesi coinvolti nella Prima guerra mondiale il conflitto propone un chiaro arco narrativo, con tanto di buoni e cattivi, vittorie e sconfitte. Da questo punto di vista, un nemico invisibile come l’influenza del 1918 si prestava pochissimo a entrare in un racconto. Non è chiaro da dove sia venuta, ha ucciso persone per il resto in buona salute in più ondate successive, e se n’è andata di soppiatto, senza che nessuno l’avesse capita. Gli scienziati dell’epoca non sapevano neppure che l’influenza è causata da un virus e non da un batterio. "I medici provavano vergogna", dice Beiner. "Fu un’enorme sconfitta per la medicina moderna." Senza uno schema narrativo in cui inquadrarla, la pandemia di fatto svanì dal discorso pubblico poco dopo la sua fine.
A differenza dell’influenza del 1918, COVID-19 non ha una grande guerra con cui competere nella memoria collettiva. E nel secolo trascorso da allora la scienza ha progredito in modo impressionante nella comprensione dei virus (anche se su COVID-19 restano molti misteri). Per certi aspetti, però, non è cambiato molto rispetto alla pandemia che colpì i nostri predecessori.
"Anche se i nostri esperimenti di lockdown, già solo perché su larga scala e molto rigidi, non hanno veri e propri precedenti, stiamo ragionando sulla stessa falsariga" su cui si erano orientati i nostri antenati più di cent’anni fa, nota Laura Spinney, autrice di 1918. L'influenza spagnola: la pandemia che cambiò il mondo [Venezia, Marsilio, 2018]. "Fino a che non c’è un vaccino, il nostro principale mezzo di protezione è il distanziamento sociale, che era anche il principale mezzo con cui potevano proteggersi allora." Anche le attuali controversie sulle mascherine hanno un precedente in quei tempi: nel 1919, per esempio, 2000 persone parteciparono a un raduno della “Lega contro le mascherine” di San Francisco.
Le ricerche sul modo in cui la polarizzazione degli schieramenti politici influenza la formazione dei ricordi collettivi sono scarse. Roediger e Wertsch sospettano che un evento che provoca forti divisioni rafforzi la rilevanza del relativo ricordo nei singoli. Ma Wertsch dubita dell’importanza che potrà avere questo effetto nel dar luogo a una coesiva memoria collettiva della pandemia in corso: "Il fatto è che il virus non è il personaggio ideale per una narrazione ideale".
Anche la corsa a sviluppare e distribuire un vaccino non ha grandi probabilità di dar luogo a una narrazione forte, secondo Wertsch. "Si può pensare che possa emergere una figura eroica di scienziato, come quella di Louis Pasteur nel XIX secolo", dice. "Ma vale la pena di notare che nella nostra memoria è rimasto appunto Pasteur e non una qualche specifica […] epidemia." Comunque, con o senza una buona storia, COVID-19 sarà documentato assai meglio dell’epidemia di cent’anni fa. È possibile che un’esauriente copertura da parte dei media rafforzi la memoria collettiva?
I media e la memoria visiva Mentre infuriava l’influenza del 1918, giornali e riviste in realtà ne parlarono ampiamente. Meg Spratt, docente di comunicazione alla University of Washington, nota che nel modo in cui fu trattata la pandemia dalla stampa statunitense figurò in modo preponderante un linguaggio "bio-militaresco". In molti articoli la situazione fu inquadrata come una battaglia tra gli esseri umani (e soprattutto i funzionari governativi) e la malattia.
Ma la stampa dell'epoca pubblicò "molto poco sulle effettive esperienze delle vittime e dei sopravvissuti", rileva Spratt. Gli articoli davano invece grande rilievo agli esperti e ai rappresentanti dell’autorità: quasi sempre bianchi e maschi. Spratt ha trovato anche alcune indicazioni di come la Prima guerra mondiale avesse messo in ombra la malattia. "Nell’autunno del 1918, quando le morti per influenza [negli Stati Uniti] superarono quelle dovute alla guerra, il ‘New York Times’ relegò la notizia in un breve articolo di una pagina interna”, ha scritto Spratt in un suo lavoro del 2001 sull’argomento.
Spratt trova un parallelo tra il modo in cui fu trattata l’influenza del 1918 e quello in cui oggi si parla di COVID-19. "Si dà di nuovo grande risalto agli esperti di sanità pubblica che cercano di tirar fuori qualche tipo di norma o raccomandazione per proteggere la gente", dice. "Ma oggi è tutto amplificato. Penso che derivi anche dalla diversa tecnologia dei media."
Poiché Internet e i social media hanno messo in grado i cittadini comuni di documentare pubblicamente la propria vita durante la pandemia, prosegue Spratt, "ci sarà molto più materiale su ciò che la gente ha effettivamente vissuto". In questo modo, dai racconti di prima mano degli operatori sanitari ai rapporti sulle disparità razziali e socioeconomiche dell’impatto di COVID-19, il complesso dei media del 2020 sta dando un’immagine più completa della pandemia attuale.
Anche le fotografie potrebbero contribuire a costruire una memoria collettiva di COVID-19. Le ricerche degli psicologi mostrano che negli esseri umani la memoria visiva è molto più forte del ricordo delle parole o delle idee astratte. E dunque la maggior diffusione delle immagini può costituire la spina dorsale di una memoria collettiva, dice Roediger.
La storia è piena di immagini ormai iconiche: le truppe statunitensi che innalzano la bandiera a Iwo Jima, il collasso delle Torri gemelle l’11 settembre, Colin Kaepernick inginocchiato sul campo di gioco durante l’esecuzione dell’inno nazionale. Ma "le fotografie si fermano per lo più alla porta della camera del malato, o dell’ospedale", osserva Spinney. "È uno spazio in cui tendiamo a non entrare."
Poche immagini mostrano i drammatici sintomi – la faccia blu, il sangue che cola dalle orecchie – di cui soffrirono molti di coloro che contrassero l’influenza del 1918. Allo stesso modo, sono poche le immagini forti che potrebbero rafforzare la memoria collettiva delle notizie odierne, che pure parlano di ricoverati in soprannumero negli ospedali, carenze di dispositivi di protezione personale ed elevate perdite di vite umane nelle case di riposo.
Anche se non emergeranno immagini memorabili, però, le persone ricorderanno di sicuro l’effetto di COVID-19 su di sé e sulle proprie famiglie. È accaduto anche per l’influenza del 1918: nel 1974 lo storico Richard Collier ha pubblicato un libro che raccoglie i ricordi personali di 1700 persone di tutte le parti del mondo. Ma, come hanno scoperto gli storici, la memoria collettiva conosce alti e bassi, che dipendono dal contesto sociale del tempo.
I cicli del ricordo e dell’oblio Non è la prima volta che una nuova pandemia innesca un riesame di quella del 1918. Il XX secolo ha conosciuto altre due pandemie influenzali, nel 1957 e nel 1968. In entrambi i casi, "improvvisamente si ripresenta il ricordo della grande epidemia", dice Beiner. "La gente inizia a cercare precedenti, e a cercare una cura risolutiva."
Anche durante la grande paura per l’influenza aviaria e quella per l’influenza suina del 2009, le ricerche su Google dedicate alla "influenza spagnola" ebbero dei picchi in tutto il mondo (anche se neppure paragonabili, in entrambi i casi, a quello dello scorso marzo). E in tutto questo tempo una crescente massa di ricerche storiche ha dato via via corpo alla storia dell’influenza del 1918, ponendo le basi per una significativa ripresa del suo ricordo nella sfera pubblica.
Beiner vede nella crisi attuale un punto di svolta per il ricordo della pandemia del 1918 che resterà nella società. Nella sua collezione di libri che ne parlano, dice "nessuno è mai diventato un grande successo, il romanzo che tutti stanno leggendo. Credo che adesso qualcosa potrebbe cambiare." Beiner prevede che COVID-19 ispirerà un best seller o un grande film centrato sull’epidemia del 1918, un tipo di caso culturale potrebbe dare un fulcro al discorso pubblico su questo avvenimento, rinforzando l’attuale ondata di crescita del ricordo nella società.
Per COVID-19, Beiner si aspetta un andamento analogo, "con successivi alti e bassi del ricordo", nei decenni venturi: "Sarà una storia complicata. E ci sarà sempre una dialettica, con dinamiche di dimenticanza e recupero del ricordo che lavorano in contemporanea, con differenze tra ciò che accade nella sfera pubblica e ciò che resta relegato in quella privata".
Una memoria collettiva più forte dell’influenza del 1918 potrebbe anche contribuire a creare lo schema narrativo necessario a mantenere alto il profilo pubblico di COVID-19 dopo la fine dell’attuale pandemia. Se si faranno monumenti, musei e commemorazioni, anch’essi potrebbero dar luogo a una cornice sociale per continuare a parlare sulla crisi in corso. In effetti, la New York Historical Society sta già raccogliendo materiale legato a COVID-19 per una futura mostra. "Io penso che stavolta l’impatto sarà molto più forte perché ci siamo resi conto che non ci ricordavamo, a livello pubblico, dell’influenza spagnola del 1918", dice José Sobral, antropologo sociale dell’Università di Lisbona.
Wertsch ne è meno sicuro: "Nel giro di qualche anno potremmo dimenticarcene." Sospetta che il modo in cui finirà la pandemia – e se a questa ne seguiranno altre – sarà determinante nel consentire di costruire una narrazione su COVID-19 come parte di una memoria collettiva. "Solo quando sappiamo come va a finire - conclude Wertsch - comprendiamo davvero l’inizio e la parte centrale."
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