#letteratura nordamericana
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" Vivevamo di abitudini. Come tutti, la più parte del tempo. Qualsiasi cosa accade rientra sempre nelle abitudini. Anche questo, ora, è un vivere di abitudini. Vivevamo, come al solito, ignorando. Ignorare non è come non sapere, ti ci devi mettere di buona volontà. Nulla muta istantaneamente: in una vasca da bagno che si riscaldi gradatamente moriresti bollito senza nemmeno accorgertene. C'erano notizie sui giornali, certi giornali, cadaveri dentro rogge o nei boschi, percossi a morte o mutilati, manomessi, così si diceva, ma si trattava di altre donne, e gli uomini che commettevano simili cose erano altri uomini. Non erano gli uomini che conoscevamo. Le storie dei giornali erano come sogni per noi, brutti sogni sognati da altri. Che cose orribili, dicevamo, e lo erano, ma erano orribili senza essere credibili. Erano troppo melodrammatiche, avevamo una dimensione che non era la dimensione della nostra vita. Noi eravamo la gente di cui non si parlava sui giornali. Vivevamo nei vuoti spazi bianchi ai margini dei fogli e questo ci dava più libertà. Vivevamo negli interstizi tra le storie altrui. "
Margaret Atwood, Il racconto dell'ancella, traduzione di Camillo Pennati, Ponte alle Grazie, 2019², pp. 80-81.
[Edizione originale: The Handmaid's Tale, McClelland and Stewart, 1985]
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#blackcoffeeedizioni cura la letteratura nordamericana, pubblica racconti di autori esordienti. I volumi che vedete sono presenti in edicola, ma possiamo recuperare tutti i libri che volete purché siano in catalogo. #edicolaaldini #quartierenavilebologna #viadicorticella #bolognina #bologna (presso Edicola Aldini) https://www.instagram.com/p/CG4hEtpHqYE/?igshid=he0h7ymr9i5z
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Le famose sconosciute: Sylvia Beach, una libraia coraggiosa
Sylvia Beach [email protected] Beach – il cognome sognante Spiaggia. Doveva piacerle, il suo cognome, alla signorina Beach, quando era solo un’adolescente che fantasticava sul proprio futuro e, magari, riempiva di firme diari e quaderni. Come se il semplice atto di reiterare il proprio nome potesse donargli lustro. Forse le evocava ricordi di vacanze al mare e di tuffi liberatori nell’oceano atlantico. Anche se, data l’epoca nella quale è vissuta, l’avranno certamente costretta ad andare in spiaggia alquanto vestita. Se solo avesse osato indossare un costume vero e proprio, cioè smanicato, scollato e scosciato, allora qualche integerrimo agente yankee della buoncostume l’avrebbe prontamente multata: “Signorina Beach, in spiaggia non ci si può presentare seminude. È una mancanza di decoro. Deve seguirmi in centrale!” Invece, il nome che i genitori le avevano dato, Nancy, non le piaceva affatto. Per questo motivo, decise presto di cambiarselo in Sylvia, ma non ci è dato di sapere il perché. Quello che sappiamo, invece, è che nacque nel 1887 a Baltimora, New Jersey. Fu partorita in una casa parrocchiale. No, non si tratta di una storia scabrosa, dovuta alle licenze di lussuria di qualche incauto prelato. E la suddetta nascita non turbò in alcun modo le coscienze puritane della tarda epoca vittoriana. È solo che Sylvia Beach era figlia di un pastore presbiteriano e di una povera disgraziatacostretta al beghinaggio per il solo fatto di discendere da un’intera generazione di chierici. Il suo retaggio culturale era, pertanto, molto limitato, oltremodo bigotto, e piuttosto opprimente. C’erano tutti gli elementi affinché lei stessa diventasse una monachella, ma un avvenimento cruciale e provvidenziale la salvò da tale mesto destino. Tutta la famiglia dovette, nel 1901, trasferirsi a Parigi perché il padre era stato nominato assistente presso la Chiesa Americana in Parigi. A soli 14 anni, Sylvia venne catapultata dalla provincia nordamericana, culturalmente piuttosto acerba, nella fervente e illuminata capitale francese. Ne subì inevitabilmente il fascino e l’influsso culturale. Anche se, dopo soli cinque anni, dovette tornarsene in America, a causa di un nuovo incarico del padre presso Princeton, il suo legame con la Francia era ormai diventato indissolubile. La vitalità dell’ambiente parigino l’aveva segnata per sempre e il suo orizzonte culturale si andava progressivamente allargando, emancipandola dalla propria famiglia. Divenuta una donna adulta, invece di consacrare la propria vita a Dio, come forse i genitori avrebbero gradito, Sylvia la consacrò ai libri e alla letteratura. Lesse molto, intensamente, famelicamente, febbrilmente e si appassionò allo studio. Parigi – fascino senza tempo Nel 1916, all’età di 29 anni, il richiamo della douce France si fece talmente forte da costringerla al ritorno. Intendeva studiare letteratura francese. Era ormai una donna adulta, che aveva abbondantemente superato la cosiddetta “età da matrimonio” e, sebbene disponesse già di una dote di 3000 dollari, fornitale dalla previgente madre, non aveva alcuna intenzione di usarla per mercantteggiare con qualche pretendente e poi contrattualizzare la più classica delle unioni coniugali. Non ci pensava proprio a soffocare tutte le sue aspirazioni per dedicarsi ai ruoli di moglie e madre. La sua famiglia sarebbero state le pagine dei suoi adorati libri. Se, negli anni ’20 del secolo scorso, aveste potuto passeggiare lungo la rive gauche parigina, avreste certamente incontrato una ragazzona mora americana, piuttosto alta ma non procace, castigata in abiti austeri, intenta ad aggirarsi per le librerie del posto. Avreste notato il suo volto spigoloso, ma non per questo sgradevole, la sua pettinatura corta e moderna, in relazione ai tempi, i suoi occhi scuri, infossati dietro gli zigomi prorompenti. Occhi severi e profondi, ma anche appassionati e determinati.
Paul Emile Becat Ritratto di Sylvia Beach Chissà se, vedendola, avreste potuto immaginare che, in capo a pochi anni, sarebbe diventata non solo un’imprenditrice di successo, ma una tra le più nobili mecenati, e una stimata intellettuale. Una donna fuori dal suo tempo, libera, visionaria, illuminata. Una donna – permettetemelo – “eterna”, in quanto capace di comprendere e diffondere il valore eterno della letteratura e di impegnarsi nell’eternare le opere letterarie di cui divenne promotrice. Forse oggi il suo ruolo è stato dimenticato ma, negli anni ’30, Sylvia Beach era un punto di riferimento per un gran numero di personaggi senza tempo. Ve ne cito solo alcuni: André Gide, Ezra Pound, Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Gertrude Stein, Man Ray e James Joyce. Quest’ultimo le doveva molto, perché fu lei a pubblicare in Francia il suo “Ulysses” in lingua originale e tradotto in francese, quando era assolutamente bandito negli USA e nel Regno Unito.
Sylvia Beach e James Joyce Photo@NewYorker A quanto pare, però, il bizzarro autore irlandese disdegnava sia la punteggiatura che la riconoscenza perché, dopo poco tempo, firmò un contratto con un altro editore e lasciò la Beach in pessime ambasce finanziarie. Un percorso costruttivo Le superò e proseguì decisa nel suo intento. Non si era accontentata di diventare una semplice libraia, volle essere la protettrice della letteratura di inizio ‘900, volle essere un’editrice e un’autrice lei stessa. C’è da dire che tutto questo sarebbe dovuto accadere a New York, secondo i suoi piani originari. Ma i costi della metropoli americana erano davvero proibitivi per lei. Pertanto, dovette ripiegare su Parigi e, mi sento di dire, che questa scelta fu la sua fortuna. Perché, probabilmente, la ferocia del nascente capitalismo liberista americano, certamente non priva di una buona dose di misoginia, avrebbe potuto schiacciare, a forza di cinismo e aridità, la sua idea imprenditoriale e condannarla all’insuccesso. La mite atmosfera parigina e la maggiore apertura intellettuale furono il contesto ideale per la realizzazione dei suoi scopi. Non ci fu mai alcun matrimonio per lei e la dote venne investita nella fondazione della libreria “Shakespeare and company”. Una libreria americana nel cuore di Parigi, ornata da una coloratissima insegna e arricchita dalla passione e dalla dedizione della fondatrice. Vi si poteva comprare i testi o prenderli in prestito, dietro pagamento di un modesto nolo. Questa formula fu vincente, dato che erano pochi coloro che potevano permettersi l’acquisto di un volume. Nella libreria di Sylvia trovarono un punto d’approdo tutti i pellegrini della letteratura americana che sbarcavano a Parigi e, più in generale, un gran numero di intellettuali di lingua anglosassone. La loro assidua frequentazione arricchiva di idee e sogni quel posto di ritrovo, rendendolo un prezioso rifugio.
La libreria “Shakespeare and Company” Photo@Princeton Tutto questo poté realizzarsi solo dopo che Sylvia fece l’incontro più significativo della sua vita. Appena arrivata per la seconda volta a Parigi, con ancora addosso l’uniforme da studentessa, entrò nella libreria di Adrienne Monnier. Conobbe la proprietaria, una ragazza grassoccia e bionda, di quattro anni più giovane di lei, e con gli stessi interessi letterari. Iniziò a frequentare sempre più spesso il “negozietto grigio” della Monnier e lì fece amicizia con André Gide e tanti altri autori. Si rese conto che in città vi era una vera e propria colonia di intellettuali americani “fuoriusciti” e decise di sfruttare l’occasione. Negli anni ’20, gli stessi Stati Uniti che oggi gonfiano il petto quando si pronuncia il termine “libertà”, adottavano una politica di ferma censura contro la libertà d’espressione, vietavano la pubblicazione di molte opere e, in tal modo, costringevano i giovani autori a espatriare per trovare un ambiente consono alle loro aspirazioni. La libreria “Shakespeare and Company” ebbe molta fortuna nei primi anni della sua fondazione ma, dopo lo scoppio della Grande Depressione, iniziarono i problemi. Sylvia Beach si trovò sul punto di chiudere l’attività. Furono i suoi più affezionati clienti a salvarla. André Gide si fece promotore di un’iniziativa di soccorso e fondò un club di lettori. I membri del circolo pagavano una quota fissa di 200 franchi all’anno per poter frequentare la libreria e usufruire del servizio di noleggio dei libri. Dopo soli due anni, la situazione era migliorata e l’attività era salva. Epilogo Poi però arrivarono i nazisti e non ci fu nulla da fare. Nel 1941, l’occupazione tedesca della Francia, fu oltremodo repressiva verso gli ambienti culturali, per motivi assolutamente intuibili. Sylvia subì numerose intimidazioni, fu minacciata dal fuococol quale i nazisti avevano sempre combattuto i libri. Si vide costretta a chiudere la libreria e, per salvarne i tesori, li nascose in un appartamento disabitato, lì vicino. Chiuse la porta a doppia mandata, lasciando i volumi silenziosi a prendere polvere e se ne separò con dolore, mentre veniva condotta in un campo di concentramento tedesco. Per fortuna, essendo una prigioniera politica, fu sottoposta a un trattamento meno oltraggioso di quello che era riservato a giudei e zingari, e non incontrò la morte. Quando venne liberata, tornò a Parigi, ma non ebbe più la forza di riaprire la libreria. Si dedicò alla scrittura di un memoriale, nel quale si trattano gli aspetti più interessanti della vita culturale parigina fra le due guerre. Rimase a Parigi fino alla sua morte, avvenuta nel 1962, non prima di aver subito un tremendo dolore. C’è infatti un altro aspetto della sua vita che è essenziale trattare per comprendere appieno il carattere anticonformista e disallineato del personaggio. Sylvia Beach era omosessuale. Per oltre trent’anni intrattenne una relazione con la persona che influenzò maggiormente la sua esistenza, quell’Adrienne Monnier che le aveva aperto le porte della rive gauche e ispirato l’idea della promozione culturale. La loro relazione si concluse tragicamente nel 1955, a seguito del suicidio della Monnier.
Sylvia Beach e Adrienne Monnier [email protected] Oggi a Parigi si trova una libreria dal nome “Shakespeare and company”. Si tratta di un’attività diversa, aperta negli anni ’60 da un imprenditore americano e dedicata proprio alla memoria della Beach. Proprio in questi giorni, inoltre, ricorre il centesimo anniversario della fondazione della celebre libreria.
La libreria “Shakespeare and Company” oggi [email protected] Rosso Groviglio Read the full article
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Il primo colloquio telefonico, quello di Pelletier, ebbe un inizio difficile, anche se Espinoza si aspettava una chiamata, come se per entrambi fosse duro dirsi quello che prima o poi dovevano dirsi. I venti minuti iniziali ebbero un tono tragico in cui la parola destino fu usata dieci volte e la parola amicizia ventiquattro. Il nome Liz Norton venne pronunciato cinquanta volte, nove delle quali invano. La parola Parigi risuonò in sette occasioni. Madrid, in otto. La parola amore fu pronunciata due volte, una ciascuno. La parola orrore venne pronunciata in sei occasioni e la parola felicità in una (la usò Espinoza). La parola decisione risuonò in dodici occasioni. La parola solipsismo in sette. La parola eufemismo in dieci. La parola categoria, al singolare e al plurale, in nove. La parola strutturalismo in una (Pelletier). Il termine letteratura nordamericana in tre. Le parole cena e cenare e colazione e sandwich in diciannove. Le parole occhi e mani e capelli in quattordici. Poi la conversazione si fece più fluida. Pelletier raccontò una barzelletta in tedesco a Espinoza e lui rise. Espinoza raccontò una barzelletta in tedesco a Pelletier e anche lui rise. Di fatto, entrambi ridevano avvolti nelle onde o qualunque cosa fosse a unire le loro voci e le loro orecchie attraverso i campi scuri e il vento e le nevi pirenaiche e fiumi e strade solitarie e le rispettive interminabili periferie tutt'intorno a Parigi e Madrid. 2666, Roberto Bolaño - (sentirsi al contempo Liz Norton, Pelletier ed Espinoza. E, ahimè, anche Morini). https://www.instagram.com/p/Br5pRSwHVjEI4iMuopS0THvtt1RUjbPYsEdQow0/?utm_medium=tumblr
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La Cadillac del cliente
La Cadillac del cliente
Oggi voglio parlare con voi di un film che è diventato un classico degli Anni ’90, ossia “Il cliente” ‒ tratto dall’omonimo romanzo di John Grisham. La Cadillac come incipit Se qualcuno (o qualcuna) non si ricorda la trama, non voglio togliergli (o toglierle) il piacere di rileggere (o rivedere) questo capolavoro della letteratura nordamericana e del cinema dell’ultimo decennio del Secolo…
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“La lettera scarlatta”: il vero problema sociale è il puritanesimo
“La lettera scarlatta”: il vero problema sociale è il puritanesimo
Cosa collega un classico della letteratura nordamericana, come La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne, dell’epoca puritana all’attualità italiana? Consideriamo la sessuofobia e l’omofobia cattoliche, l’ingerenza della chiesa nella vita sociale e politica del Paese, il fatto che il sesso venga utilizzato a tutti i livelli per vendere prodotti, per favorire le carriere, che la prostituzione…
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Jack Kerouac e la prosa spontanea: scrivere senza inibizioni
I consigli di scrittura di un giovane genio letterario, a cinquant'anni dalla sua scomparsa.
Ricorrono oggi i cinquant’anni dalla morte di Jack Kerouac, autore simbolo della generazione beat e della grande letteratura nordamericana del secondo Novecento: nato il 19 marzo 1922 da una famiglia di origini franco-canadesi, lo scrittore scomparse a soli 46 anni di età, il 21 ottobre 1969, stroncato dalle conseguenze del suo grave alcolismo. Il suo capolavoro On the road, diario di viaggio e…
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#americana#anniversario#beat#consigli#Joyce#kerouac#letteratura#narrazione#Proust#romanzo#scrittori#scrittura#Sulla strada#viaggio
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Strade Blu. Un viaggio nell'America rurale tra Old Time Music e Letteratura
Strade Blu. Un viaggio nell’America rurale tra Old Time Music e Letteratura
L’America rurale tra fine ‘800 e primi del ‘900, un viaggio nella memoria sugli aspetti che hanno contribuito a forgiare il pensiero americano. La letteratura che i grandi scrittori hanno saputo produrre nel Nuovo Mondo si intreccia con la musica Old Time (la musica popolare tradizionale bianca nordamericana frutto delle immigrazioni dall’Europa che si incontra con la musica nera) suonata dal vivo.
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[Introducing: Cerebus the Aardvark di Dave Sim](http://blog.becomix.me/cerebus-the-aardvark-di-dave-sim/ "http://blog.becomix.me/cerebus-the-aardvark-di-dave-sim/")
Il fumetto che mi ha aperto più orizzonti nella mente: Cerebus the Aardvark, opera enorme e inclassibicabile, un fumetto sul fumetto, scritta e disegnata dal geniale (e controverso) canadese Dave Sim. Ho perso dietro questa serie ben due anni della mia vita e appena il tempo me lo concederà mi ritufferò nello studio di questa epica.
> Cerebus che riflette sulla propria vita in Like A Looks, Cerebus #137
Nel lontano dicembre 1977 compare nel panorama del fumetto nordamericano un albo insolito destinato a sconvolgere radicalmente i canoni classici di questo mezzo espressivo. Dave Sim, seguendo il proprio comandamento “Thou shall break every law in the book”, inizia a pubblicare in maniera indipendete Cerebus the Aardvark, una parodia del genere fantasy à la Conan il Barbaro, con protagonista un oritteropo (da “aardvard” in afrikaans, che si traduce con “maiale di terra”). La casa editrice Aardvark-Vanaheim fu fondata dall’autore e da Deni Loubert (all’epoca findanzata di Sim, in seguito moglie e successivamente ex-moglie). L’opera sarà conclusa nel marzo 2004, con il numero 300. Con le sue 6000 tavole circa, è considerata la serie a fumetti nordamericana creata da un solo autore più longeva. Tutto solo Sim non è stato: dal numero 65 gli sfondi sono stati curati dal virtuoso Gerhald.
> Copertina di High Society
La serie è stata ristampata in sedici raccolte definite “phonebooks“, data la somiglianza alle guide telefoniche (tante pagine e carta di bassa qualità). In Italia sono stati tradotti esclusivamente il secondo volume Alta società ed il terzo Chiesa e Stato (Vol.1) dalla Black Velvet. Può sembrare strano che si sia partito dal secondo numero, ma questo perchè High Society (le issue originali dal 26 al 50) formano un ciclo narrativo compiuto, mentre i primi numeri (raccolti nel phonebook Cerebus) sono formati da storie autoconclusive o cicli brevi, in cui il tratto è ancora acerbo e non ci sono ancora le grandi tematiche e sperimentazioni a cui Sim ci abituerà in seguito.
> Wolveroach, una delle mille trasformazioni dello scarafaggio
Alta Società è godibile anche senza aver letto il primo volumone, ma il lettore rimane un po’ spiazzato quando compaiono personaggi come The Roach (un completo imbecille dalle personalità multiple che Sim utilizza per deridere le icone del fumetto come Batman, Capitan America, Wolverine, the Punisher e Dream di Sandman), Elrod l’albino (caricatura di Erlic of Melnibone di Michael Moorcoc), Red Sophia ma sopratutto Jaka, l’unico drammatico amore del nostro maiale di terra.
> Quando una ragazza chiese a Cerebus “Cosa stai pensando”?
Se nel primo phonebook Cerebus è presentato come un barbaro iniziato alla magia, o come mercenario senza scrupoli che sperpera i suoi bottini in luride taverne, in seguito diventerà primo ministro di una città stato chiamata Iest (in High Society, satira dei meccanismi della politica e ai giochi di potere), poi papa alcolizzato (in Church and State I & II), e ancora rinnegato, barista e molto altro ancora cose nelle ultime storie. L’intera serie ci racconta la vita (discutibile) del protagonista, con le sue vittorie, sconfitte, sbronze, ma ci racconta anche la vita dell’autore: Sim infatti, oltre a comparire più volte, ci esporrà le sue idee politiche e sociali, spesso controverse (come, ad esempio, le sue posizioni antifemministe).
Parliamoci chiaro: le posizioni politico e sociali della seconda metà sono insostenibili. Sim è un genio egomaniaco, che ha abusato per buona parte della vita di alcool e droghe. L’idea di fare una serie in 300 albi gli è venuta mentre era internato per overdose di LSD. Prima donna, si arrocca sempre più nelle sue posizioni, riversando km di inchiostro contro i critici. Dal divorzio con Deni, circa a metà serie, inizia a scaricare le frustrazioni sentimentali dentro l’opera, fino a diventare un patetico paranoico, che crede di essere vittima di complotto marxista-femminista. Sim da irriverente iconoclasta figlio della cultura hippy, militante per i diritti degli autori, diventa un polemico reazionario, fino ad una clamorosa conversione religiosa. Chiaramente qualcosa è andato storto nel cervello dell’artista, ma nell’opera più Sim approfondisce le sue posizioni controverse, maggior virtuosismo riversa nel fumetto. Provare per credere.
> Jaka, Issue #129
La prima metà è sicuramente quella più godibile, molti critici sono d’accordo nel giudicare il quinto volume, il celebre Jaka’s Story, come suo picco narrativo. Scritto in parte in prosa e in parte a fumetto, la tragica storia è uno studio sul personaggio femminile più importante della saga, sulla relazione dei generi e sulla repressione da parte della politica dell’arte. La parte in prosa racconta l’infanzia di Jaka, ed è scritta camuffando lo stile di Oscar Wilde, personaggio molto importante nella serie, di cui ne viene raccontata la morte, ampiamene documentata, nel sesto phonebook Melmoth. Non è l’unico cameo di personaggi reali nel opera: possiamo citare le comparse anche di Scott Fitz Gerald, Hemingway e sua moglie, la Tatcher, Woddy Allen, Mike Jagger e Keith Richard.
> Mica male Gerhald negli sfondi.
Sim è uno sregolato sperimentatore: dalla impostazione delle tavole, al lettering, per non parlare della lingua e dei linguaggi. Indaga la psiche dei personaggi e la propria senza alcun freno, è un fine parodista della politica e della società, della letteratura e del cinema. Protagonista delle riflessioni rimarrà però sempre il fumetto di per sè, di cui Sim si erge come paladino. Ricordiamo che Sim, alfiere dell’autoproduzione, si spese sempre per difesa dei diritti d’autore, fu una delle figure centrali nella creazione del Creator’s Bill of Right, documento a difesa dei diritti dei fumettisti. Influenzò inoltre generazioni di autori, come Kevin Eastman e Peter Laid, creatori delle Tartarughe Ninja, Todd McFarlan (esiste perfino un cross-over Cerebus/Spawn), Jeff Smith e Neil Gaiman.
Cosa aspettate? Cercatevi i volumi in italiano, e se siete dei coraggiosi masticatori d’inglese completate la collezione. Consigliato a chi, stanco dalla monotona realtà delle graphic novel, è alla ricerca di un fumetto che sia un grande prodotto artistico e non mero intrattenimento. Non ve ne pentirete!
Per ora non abbiamo caricato tutti i volumi di Cerebus sul database, ma ecco:
Cerebus (Book 1)
Jaka’s Story
A breve avremo un sistema di caricamento nuovo! Provare per credere!
#becomix #black-velvet #canada #cerebus #comics #dave-sim #gerald #gerhald #graphic-novel #jaka #jakas-story #risograph #spawn #wolverine L'originale è stato pubblicato su [http://blog.becomix.me/cerebus-the-aardvark-di-dave-sim/](http://blog.becomix.me/cerebus-the-aardvark-di-dave-sim/ "Permalink")
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...ma nicchie, nicchiette, il ritorno dell’ombelico sotto il vello dell’autofiction e tanta, tanta metanarrazione. Male? Per niente. Una gita ragionata nella letteratura nordamericana che si ripiega in se stessa, ma lo fa con classe e cognizione di causa, potrebbe allora cominciare con La breve favolosa vita di Oscar Wao di Junot Díaz (Mondadori 2009), continuare col Progetto Lazarus di Aleksandar Hemon (Einaudi 2011) e Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan (minimum fax 2011), e culminare con Nel mondo a venire di Ben Lerner (Sellerio 2015).
Vanni Santoni
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" Serena ci lascia sempre guardare il notiziario. Dobbiamo prenderlo per quello che vale, chissà se è vero in ogni sua parte? Potrebbe trattarsi di vecchio materiale di repertorio, potrebbe essere falso. Ma lo guardo comunque, sperando di essere in grado di leggere tra le righe. Qualsiasi notizia, ora, è meglio di niente. Notizie dalla prima linea. In realtà non c'è una prima linea, pare che la guerra divampi in molti punti contemporaneamente. Colli coperti di boschi, visti dall'alto, alberi di un orribile giallo. Almeno sistemasse il colore. I monti Appalachi, dice la voce del commentatore dove gli Angeli dell'Apocalisse, Quarta Divisione, stanno snidando col fumo una sacca di guerriglieri battisti, con il sostegno aereo del Ventunesimo Battaglione degli Angeli della Luce. Ci vengono mostrati due elicotteri, neri con ali argentee dipinte sui fianchi. Sotto di questi, esplode un gruppo di alberi. Appare il primo piano di un prigioniero, la faccia sporca e ispida, tra due Angeli, nelle loro perfette uniformi nere. Il prigioniero accetta una sigaretta da uno degli Angeli, se la porta impacciato alle labbra con le mani incatenate. Fa un sorriso sbilenco. L'annunciatore dice qualcosa, ma non riesco a sentirlo: guardo gli occhi di quest'uomo, tentando di capire che cosa stia pensando. Lui sa che la macchina da presa è su di lui: quel sorriso è un atto di sfida, di sottomissione o esprime solo il disagio di chi non sa che atteggiamento prendere? Ci mostrano solo vittorie, mai sconfitte. Chi vuole cattive notizie? Forse è un attore.
Adesso compare sul video il commentatore. I suoi modi sono garbati, paterni; ci fissa dallo schermo con la sua carnagione abbronzata, i capelli bianchi, lo sguardo candido, sagge rughe qua e là, come il nonno ideale di tutti noi. Quanto ci sta dicendo, implica il suo sorriso sereno, è per il nostro bene. Presto tutto andrà a posto. Lo prometto. Ci sarà la pace. Dovete aver fiducia. Dovete andare a dormire, come bravi bambini. Ci dice ciò cui vogliamo credere. È molto convincente. Cerco di resistergli. È come una vecchia star del cinema, mi dico, coi denti falsi e una faccia stereotipata. Nello stesso tempo mi sento attratta da lui, come ipnotizzata. Se solo fosse vero. Se solo potessi credere. "
Margaret Atwood, Il racconto dell'ancella, traduzione di Camillo Pennati, Ponte alle Grazie, 2019², pp. 112-113.
[Edizione originale: The Handmaid's Tale, McClelland and Stewart, 1985]
#Margaret Atwood#Il racconto dell'ancella#Camillo Pennati#distopia#romanzi#condizione femminile#letteratura nordamericana#oscurantismo#narrativa#teocrazia#totalitarismo#Stati Uniti d'America#biopolitica#libertà#Canada#letteratura anglosassone#fanatismo religioso#fondamentalismo#letteralismo#libri#letture#leggere#Letteratura del '900#XX secolo#scrittrici#diritti delle donne#emancipazione#segregazionismo#apartheid#fanatismo
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Storicizzare lo Sprawl?
di Agostino Petrillo
“Le idee inadeguate e confuse si concatenano con la medesima necessità delle idee adeguate”…
Spinoza, Ethica, proposizione XXXVI
Introduzione
L’idea che anima questa sezione del convegno, quella di provare ad addentrarsi nel complesso dibattito su suburbanizzazione e città compatta è da salutarsi con estremo interesse, vista l’evoluzione delle dinamiche spaziali negli ultimi decenni. Non si tratta solo di valutare quanto progredisca o meno il processo di dispersione insediativa, e di determinare quali ne siano eventualmente le cause, quanto piuttosto di cercare di comprendere una dialettica, che appare oggi estremamente articolata, tra spazi urbani di tipo più tradizionale e realtà del “diffuso”. Tanto più ci sembra importante una riflessione di questo genere in un contesto come quello europeo in cui il fenomeno della suburbanizzazione è relativamente nuovo e, pur destando qualche preoccupazione, sembra assumere caratteristiche differenti da quelle eclatanti che da tempo sono tipiche degli Stati Uniti (Agenzia Europea dell’Ambiente 2006). L’ambito di discussione è ovviamente gigantesco, a tratti confuso e generatore di confusione, tanti sono gli aspetti che coinvolge, ed è ulteriormente complessificato dal fatto di assumere tratti distinti nei differenti contesti storici e spaziali locali. Il contributo che qui si propone è un tentativo di fornire una panoramica sintetica, e forzatamente parziale, della letteratura più recente, in cui si cerca di orientarsi con l’obiettivo di evidenziare alcuni nodi problematici essenziali.
Ripensare lo sprawl
Che cosa è veramente lo sprawl? E’ un fenomeno peculiarmente americano, o si tratta di un modello insediativo generalizzabile, legato strettamente agli aspetti assunti dall’economia, dalle tecnologie e dal lavoro, e destinato a caratterizzare buona parte dei paesi che hanno raggiunto un livello avanzato di sviluppo e si sono orientati verso forme di produzione post-industriale? Sono queste solo alcune delle domande che gli studiosi da anni si vanno ponendo alla luce della peculiare evoluzione dell’urbanesimo statunitense. In un suo recente volume Robert Beauregard ha sottolineato la necessità di contestualizzare riflessioni che altrimenti tendono inevitabilmente a trasformarsi in un dibattito sui massimi sistemi (risolvibile spesso nell’antitesi aprioristica città-si/ città-no). In maniera estremamente persuasiva egli sostiene che sia possibile (e ormai necessario) pensare lo sprawl in una prospettiva storica, al di là delle polemiche tra studiosi filo- urbani e anti-urbani per partito preso (Beauregard 2006). Per comprendere lo sprawl bisogna quindi mettere da parte antiche querelles che hanno a lungo dominato la scena, e qui inevitabilmente il riferimento è a due posizioni antitetiche come quella di Jean Gottmann, che è rimasto fedele ad una prospettiva di acceso filourbanesimo (Gottmann 1983), e quella di Lewis Mumford, orientata invece ad un superamento della forma-città (Mumford 1977, pp. 694 ss.). Questo perché solo analizzando determinate caratteristiche storico- culturali, riflettendo sulle trasformazioni geopolitiche, tecnologiche e del lavoro, che è possibile cominciare a
tentare di comprendere il fenomeno della diffusione urbana1. Tanto più che il fenomeno è stato a lungo visto
con perplessità, e che ha a più riprese suscitato inquietudine, non solo tra gli studiosi e i tecnici del territorio,
1 Prima di Beauregard su questa via si era già mossa la ricerca più impegnata (Ashton, 1984), in lavori cui viene in buona parte anticipata la periodizzazione da lui utilizzata; ma esistono anche interpretazioni alternative meno schematiche, ancora interessanti,
pur essendo impregnate dello struttural-marxismo d’epoca (Walker, 1981).
ma anche tra gli amministratori pubblici e gli uomini di governo: vale forse la pena di ricordare che fino dagli albori della sua storia al termine sprawl è stata attribuita una connotazione marcatamente negativa2.
Per questo forse torna in molti interpreti una valutazione fortemente critica: vedremo poi in dettaglio come lo stesso Beauregard ne parli addirittura in termini di “urbanesimo parassita”. Ma, al di là dell’importante contributo di Beauregard, è vivo negli studi degli ultimi due decenni il bisogno di ripercorrere la storia culturale, le grandi ideologie che hanno attraversato la vicenda della formazione degli Stati Uniti, ed emerge sempre più fortemente anche la necessità di ricostruire quelle che sono state le scelte politiche ed economiche, le modalità con cui sono state pensate e realizzate le infrastrutture, la viabilità, insomma tutto il complesso delle “politiche” che hanno condotto alla situazione attuale (Gutfreund 2004). Naturalmente l’affermarsi di un simile orientamento è legato anche al ripensamento di alcuni paradigmi: gli ultimi anni hanno portato ad una revisione di alcuni facili entusiasmi sul potenziale innovatore della “città diffusa” e al ridimensionamento dell’ideologia postmodernista sul fondersi “atopico” di centri e periferie in un continuum urbano pressoché equivalente. Non si tratta solo di una riflessione critica tesa a mettere in luce (a volte in maniera un po’ generica) i pericoli connessi all’espandersi della “periferia dappertutto”, come sintetizzava sul finire degli anni Novanta Walter Prigge (Prigge 1998, pp.6-12). Da più parti emergono segni di un ritorno alla centralità, soprattutto in Europa, ma anche a livello sovranazionale (basti pensare al consolidarsi del discorso teorico sulle “città globali”), il che spinge in direzione di una ulteriore riconsiderazione della peculiare “american way to the city”. Nel quadro di quella che Dieter Laepple ha chiamato la “rinascita della fenice dalle sue ceneri” (Laepple 2005, pp. 397-413), i centri urbani, di cui alcuni interpreti avevano già da tempo decretato l’obsolescenza se non addirittura la possibile scomparsa sono tornati a giocare un ruolo rilevante sotto il profilo della economia e della cultura. Anzi con la consueta ironia Peter Hall ha sottolineato che il necrologio della città è stato pronunciato prima che ne avvenisse il decesso…(Hall 2003, pp.141-152).
Alla luce di queste forme di riscoperta della centralità urbana, che ha assunto aspetti rilevanti anche sotto il profilo demografico-quantitativo, e di cui si è parlato come di una svolta importante, di un vero e proprio urban turnaround (Katz e Lang 2003), allora forse non vi è alcuna “destinalità” nella vicenda della suburbanizzazione nordamericana, e la diffusione del modello dell’urbanesimo diffuso al di fuori degli Usa potrebbe dipendere da altri fattori, forse passeggeri.
Naturalmente il “ritorno della densità”, che da più parti si segnala, il nuovo appeal di cui sembra godere il modello di città compatta, non è detto sia forzatamente la modalità di insediamento urbano che potrebbe prevalere in futuro, e la questione rimane nel complesso aperta, anche se, per dirla con i teorici tedeschi della frammentazione (Scholz 2004; Bronger 2004), e con le interessanti analisi di Jenö Bango sulla nuova organizzazione dei territori che si comincia a profilare “dopo la globalizzazione”, il destino del pianeta si giocherà sulla maggiore o minore validità di una serie di modelli territoriali e sociali in accesa competizione tra loro (Bango 1998; 2003).
Cenni storico-interpretativi
Quando è veramente cominciato lo sprawl? E’ realmente possibile sostenere che sia vecchio quanto l’America, come continua ad affermare tutta un tradizione interpretativa in chiave culturalista (Stilgoe 1988; Fishman 1987), che insiste in un processo di analisi retrospettiva? Letture affascinanti e documentate, come quella proposta da Dolores Hayden, guardano molto indietro, ricostruendo ab origine l’evoluzione di differenti patterns storici del suburban dream, e insistono sulla storica diffidenza della cultura americana nei confronti della grande città, finendo in sostanza per dirci che in fondo lo sprawl, inteso come avversione per la densità urbana, per le grandi concentrazioni di umanità, è profondamente radicato nella mentalità statunitense, ed è forse nato con l’America stessa, e forse ancora prima, nei sogni dei migranti che abbandonavano le congestionate città industriali europee (Hayden 2003, pp.16-17). Certo non è facile per un simile approccio “culturalista” spiegare come mai il modello di dispersione urbana statunitense si sia poi esteso anche altrove, a meno di non presupporre analogie sotto il profilo culturale che sembrano lasciare il tempo che trovano. Insomma , pur essendo indubbiamente radicato l’antiurbanesimo nella cultura americana, l’idea di una origine “remota” dello sprawl, riconducibile alle ambivalenze di una ”mentalità collettiva” fin
2 Come segnalano i dizionari il verbo “to sprawl” ha la valenza di allungarsi disordinatamente, sdraiarsi in modo scomposto, svaccarsi.
dal principio poco incline alla grande città, mal si concilia con la diffusione del modello anche fuori dagli Stati Uniti (sempre che questo sia un fatto realmente assodato).
Come si anticipava, una interpretazione originale è quella proposta da Robert Beauregard, che segue una cronologia ben diversa e molto più precisamente circostanziata: sulla base di una serie di dati difficilmente oppugnabili egli ricostruisce diverse epoche dello sviluppo urbano statunitense (Beauregard 2006 pp.56 ss.) e ne deriva la conclusione che il vero sprawl è cominciato subito dopo la seconda guerra mondiale e che la sua massima espansione ha coinciso con lo “short american century”, con il frammento di secolo tra il 1945 e il 1975 (Beauregard 2006 pp. 2-10). Si tratta non solo del periodo di maggior crescita della potenza e dell’influenza internazionale degli Stati Uniti, ma sono questi anche gli anni decisivi per il cambiamento della distribuzione della popolazione: avviene la white flight, la grande fuga dei bianchi dalle grandi concentrazioni urbane, un processo che subisce una ulteriore accelerazione dopo la rivolta di Watts nel 1965. Attesta questa tendenza il classico suburb descritto da Herbert Gans in un memorabile studio di comunità (Gans 1967), Levittown, che era una curiosa cittadina “monocolore”, popolata unicamente da
82.000 bianchi. Si tratta di uno studio largamente anticipatore, che illustra molto bene come la “linea del colore” si avvii a dividere i vecchi centri invasi dalla underclass black-latino dai suburbs in cui si spostano i ceti medi bianchi (Petrillo 2000). Ma la fuga è resa possibile e agevolata da altri fattori esterni: il ruolo giocato dall’automobile e dalla sua diffusione di massa, dalla creazione di infrastrutture, dall’azione di speculatori e amministrazioni locali che premono per la realizzazione di grandi opere e nuovi insediamenti. Esistono inoltre anche importanti componenti ideologiche che spingono verso la scelta della suburban way of life: si tratta di un modello che diventa importantissimo per l’immagine esterna e per l’autorappresentazione della prosperità americana postbellica, e che simboleggia, oltre al rafforzamento su scala mondiale del predominio americano, anche la realizzazione di una utopia abitativa. Il trionfo del suburb rappresenta l’epitome della ricchezza e della libertà dei consumatori americani. Infine esso sarebbe figlio anche delle tensioni e delle ansie del dopoguerra, dato che negli anni più difficili della guerra fredda il sobborgo dei ceti medi è un luogo in cui è possibile temere meno la minaccia della guerra atomica, in cui allontanare ed esorcizzare il fantasma del comunismo e la spiacevole realtà delle minoranze (Beauregard 2006, pp.144 ss.).
In questo quadro complessivo la svolta produttiva dei Settanta con la deindustrializzazione e il passaggio ad economie di terziario costituisce un ulteriore elemento di specificità. Si comincia a delineare una sorta di “eccezionalismo americano” (Beauregard 2006, p.10) nel senso che negli USA prendono forma per la prima volta processi altrove ancora sconosciuti, e che questa capacità di distaccarsi dai modelli storici di insediamento dei paesi avanzati finisce per condurre ad un utilizzo dello spazio impregnato di ideologie della separatezza e del dominio simbolico. Beauregard insiste in ogni caso sul fatto che sono esistite tutta una serie di concause operanti nel momento decisivo in cui il “vero sprawl” ha preso le mosse, e ne trae la conclusione che tutto è avvenuto a causa di una fase espansiva che ha deviato dai sentieri normali della urbanizzazione. Una discontinuità che sarebbe nata, come avviene per molti fenomeni complessi, in maniera assolutamente congiunturale (Beauregard 2006, p.60). Una congiuntura a ben vedere gravida di conseguenze, con una portata che non è unicamente nazionale, dato che l’evento si verifica nel pieno del “secolo breve americano”, e finisce perciò per coinvolgere il riassetto dei rapporti di potere e la riallocazione della produzione su scala mondiale. In questo senso viene introdotta dall’autore l’etichetta di “urbanesimo parassita”, intendendo con essa una forma generale degli insediamenti che solo gli Stati Uniti possono permettersi, in virtù della loro peculiare posizione a livello planetario. Dopo i Settanta il tramonto di megalopoli, l’affermarsi del postfordismo non fanno che condurre all’estremo quanto si era già chiaramente
delineato nel trentennio precedente, schiudendo la porta all’avvento delle edge cities3. Con l’imporsi
definitivo di un nuovo modello produttivo si delinea una vera e propria nuova configurazione degli insediamenti caratterizzata da una “perdita del centro” che non ha precedenti nei paesi sviluppati. Si assiste alla nascita di un tessuto nuovo, né urbano, né rurale, né periurbano, ma che possiede simultaneamente tutte queste caratteristiche e che sfugge alle definizioni consuete. L’analisi di Beauregard è tutta mirata a cogliere gli anni decisivi di questo passaggio, più che ad azzardare profezie sul futuro. D’altra parte , sia pure da una diversa prospettiva, decisamente più “culturalista” e meno critica nei confronti dello sprawl, anche Robert Fishman aveva a suo tempo segnalato che nella fase iniziale del fenomeno era mancata la capacità di distaccarsi da un’idea consolidata di città e di comprendere che la città industriale poteva rappresentare un
3 Il fortunato e discusso termine, che indica la nuova ondata di suburbanizzazione della seconda metà degli anni Ottanta, è stato introdotto da un testo celebre (Garreau 1991); le polemiche sul contenuto troppo “giornalistico” del libro di Garreau sono state molte (cfr. Lang 2003).
fenomeno transitorio (Fishman 1990 e 1995). Proprio Fishman ha descritto benissimo l’evoluzione della vicenda: col crescere e svilupparsi di nuovi networks di traffico e comunicazione e il mutare degli assetti della produzione la logica che aveva condotto alla formazione dei grandi complessi metropolitani viene spezzata alla radice, e smembrata in una serie di componenti che non dipendono più dalle centralità tradizionali. Alle nuove forze centrifughe non sembra più in grado di opporsi nessuna forza centripeta in funzione riequilibrante. Nonostante i tentativi messi in atto nelle diverse campagne anti-sprawl che pure hanno luogo negli Stati Uniti (Bruegmann 2005, pp.115 ss.) nei primi Novanta può addirittura parlare di “morte delle città”, segnalando come le reti autostradali vadano sostituendosi allo skyline (Fishman 1990, Glaeser 1998). L’ urbanesimo “parassita”, che continua a tutti gli effetti a costituire un’anomalia, pare così consolidarsi come il principale modello di insediamento urbano statunitense. Eppure già qualche anno dopo lo sprawl pare comparire anche fuori dagli Stati Uniti: se ne segnalano esempi non solo in paesi sotto diversi profili legati agli Stati Uniti, come Canada e Australia, ma anche in Europa, in Cina, in America Latina. In particolare lo si è letto quale effetto della comparsa di livelli inediti di benessere nelle mega-città terzomondiali, in cui si andrebbero innescando meccanismi di fuga dei ceti medi analoghi a quelli americani, tali da far parlare lo stesso Fishman di una tendenza alla formazione di global suburbs (Fishman 2003), e Anthony King di tendenze alla villafication (King 2004, pp.117-126).
Sprawl in Europa?
I fenomeni di diffusione urbana in Europa sono in particolare piuttosto rilevanti e sorprendono non solo per la forza di una tradizione urbana europea diversamente orientata, ma anche perché avvengono in una area del mondo in cui la disponibilità di spazio è piuttosto ridotta, dato che la densità abitativa è parecchie volte superiore a quella americana. Eppure abbiamo in Germania segnalati i fenomeni di Zwischenstadt di cui ha efficacemente parlato Thomas Sieverts (Sieverts 1997), con la dissoluzione della città europea compatta e la nascita di un tessuto ambiguo che non è né campagna urbanizzata e neppure città ruralizzata. In Gran Bretagna le conseguenze ultime di politiche mirate alla realizzazione di una great car owning democracy, come quelle tathceriane, hanno portato in al raddoppio del sistema autostradale inglese, favorendo la dispersione urbana (Association of Metropolitan Authorities 1990). Si sono moltiplicate infatti le urbanizzazioni al di là delle tradizionali green belts, con un caotico consumo di territorio per leapfrogging, termine che indica un procedere per salti come quello della rana. Anche la vicenda francese, proprio come conseguenza del fallimento del tentativo dei grands ensembles, già a partire dalla legge del 1977 sulla facilitazione dei mutui, guarda al periurbano e allo sviluppo della piccola proprietà incentivata dallo stato. Nel ventennio successivo si è in effetti assistito alla diffusione di stili di vita basati sulla mobilità e sull’abitazione individuale (Fouchier 1997). E’ anche vero che in Francia, dopo una stagione di facili entusiasmi nei confronti del periurbano, ultimamente si guarda con qualche perplessità alla ville émergente (Dubois-Taine e Chalas 1997).
In Italia i riferimenti d’obbligo sono alle analisi orami vecchie di quasi due decenni sulla città diffusa veneta (Indovina 1990; Indovina e Savino 1999) e quelle più recenti sulla megalopoli padana, (Turri 2000) che prendono atto di un mutamento complessivo intervenuto nella distribuzione degli insediamenti, che ha preso le mosse a partire dalla metà degli anni Settanta ed è divenuto evidente nel corso degli anni Ottanta e Novanta (Ercole 1999). Si tratta di un processo con tratti al contempo di “irradiazione” e di “diffusione insediativa”, legato alla deindustrializzazione e alla fuoriuscita verso l’esterno dei ceti medi dalle aree metropolitane a maggiore densità.
Per contro altri paesi in Europa, e in particolare l’Olanda hanno promosso politiche di contenimento dello sprawl. Per quanto il fenomeno in Europa sia più contenuto di quanto avvenuto negli Stati Uniti, lo sprawl pare diffondersi perciò negli ultimi decenni anche in una terra che ne era un tempo immune, e costituisce un sottile veleno per il futuro della città europea, in quanto ne mette in discussione il “tipo ideale” che era il tipo della città densa, pianificata, con una centralità ben individuata, la presenza di emergenze storico- monumentali, e sotto il profilo politico-amministrativo caratterizzata da uno sviluppato sistema di welfare e di sostegno ai ceti più deboli (Le Galès 2006). E’ anche vero che ogni ipotesi comparativistica tra Europa e Stati Uniti sotto il profilo dello sviluppo urbano rimane problematica, sia per quanto concerne le enormi differenze che sussistono sotto il profilo della disponibilità di spazi e delle forme dello sprawl, sia per quanto riguarda storie urbane radicalmente divergenti. Il processo di suburbanizzazione in Europa, come hanno sottolineato energicamente Friedrich Lenger e Klaus Tenfelde, è rimasto molto più fortemente orientato alle vecchie centralità. In contrasto con i suburbs, le edge cities e i technoburbs non si è mai data in
Europa una fine definitiva della centralità urbana (Lenger e Tenfelde 2006). Anche il declino dello spazio pubblico non si è per ora connotato con quelle caratteristiche di commercializzazione, privatizzazione e militarizzazione che hanno caratterizzato gli USA. Per esempio gli shopping malls non sono blindati e sono aperti a tutti in vicinanza dei centri urbani. Anche la polarizzazione e la segregazione sociale si sono espresse per ora nelle città europee in altre forme, meno evidentemente spazializzate di quelle statunitensi, e in esse, proprio per la diversa densità è più difficile rintracciare la tendenza al flight from blight, alla fuga dal degrado urbano che comporta una redistribuzione della popolazione per zone omogenee che hanno la tendenza a tenersi a distanza le une dalle altre (Pouyanne 2007; Mantovani 2005).
Critici ed apologeti
In realtà in tutta la vicenda della controversia sullo sprawl e sulla sua interpretazione pesano vincoli di tipo ideologico, non sempre dichiarati. Un combattivo approccio iper-liberista, che si rifà a Friedrich von Hayek e alla scuola di Vienna, e che negli Stati Uniti ha avuto discreta fortuna, vede nello sprawl un destino comune a tutte le società avanzate, una sorta di portato inevitabile delle trasformazioni economico- tecnologiche. Secondo autori quali Peter Gordon e Harry Richardson Il futuro apparterrebbe a piccole comunità altamente interconnesse, caratterizzate da una forte autonomia politico-amministrativa. Il declino delle grandi organizzazioni statuali o semplicemente regionali sarebbe già iscritto nel codice delle nuove relazioni produttive e delle nuove tecnologie della comunicazione, che sono per definizione legate a sistemi a rete e fondamentalmente policentriche (Gordon e Richardson 1997). Nella dispersed metropolis declina l’importanza decisionale e organizzativa dei centri e vi è una ridistribuzione relativamente equilibrata delle funzioni urbane da questi tradizionalmente svolte su di un territorio molto più ampio (Gordon e Richardson 1996). Se a questo si somma una tendenza spiccata degli americani a preferire suburbs a bassa densità abitativa come luoghi in cui vivere, e se non si vuole violare la libertà di scegliere gli stili di vita e di consumo, il processo si tinge di ineluttabile, e a poco valgono politiche e spinte dall’alto in direzione di una ricentralizzazione, di fronte al dilagare dei technoburbs (Gordon e Richardson, 2000). Questi insediamenti ad alta componente tecnologica rappresenterebbero qualcosa di diverso rispetto alla forme di sprawl precedentemente conosciute, costituirebbero un passo verso una dimensione ormai post-suburbana (Fishman, 1987), di fronte a cui la terminologia tradizionale appare ampiamente inadeguata (Pahlen, 1995). E’ una prospettiva per cui in fondo anche le grandi città starebbero progressivamente perdendo la loro ragione di esistere, e lo sprawl si tinge di “naturalità”, dato che anche interventi di pianificazione territoriale volti a riequilibrare la situazione non sarebbero altro che “forzature autoritarie”, frutto di atteggiamenti “statalisti” o perlomeno “paternalistici”. Sui tempi lunghi saranno sufficienti i meccanismi di mercato ad eliminare le componenti ancora disfunzionali quali il problema dei trasporti e il persistere di vecchie strutture urbane .
Un approccio neo-riformista sottolinea invece il ruolo dei governi locali nel contenimento del fenomeno, e mette in luce i rischi e le problematiche che alla estensione incontrollata dei fenomeni di sprawl sono legati. Prima di tutto si evidenziano le difficoltà derivanti da un consumo del suolo e da un uso del territorio così intensivi, dato che il consumo di suolo eccede di molto l'aumento di popolazione, poi vengono presi in
considerazione i costi sociali complessivi che un simile modello insediativo comporta4. Basti solo pensare al
tempo da utilizzare per gli spostamenti lavorativi, dato che i posti di lavoro raramente sono vicini all’insediamento in cui si vive (Glaeser e Shapiro 2003), e riflettere sul fatto che le nuove tecnologie ed il
telelavoro non sono in grado di sostituire completamente le vecchie attività. In ufficio si va ancora! E lo spreco del tempo trascorso guidando appare difficilmente giustificabile5.
Vi è poi una terza posizione, che ha uno spettro ampio di sostenitori, e che per comodità espositiva chiameremo “riduzionista”, che non esclude la possibilità della suburbanizzazione, ma la riconsidera in un più ampio ambito di sostenibilità ambientale e de ecologica. Il discorso sullo sprawl in questo senso assume i contorni di una riflessione sul consumo di risorse, sulla dimensione di vita, sulla percezione del paesaggio (Ingersoll 2004). In particolare viene messo in rilievo in maniera estremamente concreta il problema dell’uso intensivo dell’automobile che questo modello insediativo finisce per contemplare, con un carico ulteriore di traffico sulle infrastrutture viarie attualmente esistenti e conseguente aumento dell’inquinamento dell’aria
4 Non sono mancate critiche radicali ( Rusk 1995), presenti anche in Italia (Gibelli e Salzano 2006); per la questione dei costi vi sono trattazioni classiche ( Burchell 1998); su questo tema esistono lavori di rilievo anche nel nostro paese ( Zamagni Gibelli e Rigamonti 2002). Altri ridimensionano il problema dei “costi” ( Cox e Utt 2004).
5 Una posizione interessante è quella di chi pensa comunque al governo di “regioni vaste” (Fregolent 2005).
(Wolf 1999, pp.119 ss.). Tanto più gravido di ulteriore sviluppi appare questo approccio “pragmatico” viste le difficoltà cui pare inevitabilmente andare incontro un modello di vita basato sull’automobile nell’epoca dell’esplosione dei prezzi del petrolio…
Va comunque rilevato che da tutte queste letture dello sprawl rimane fuori l’aspetto socio-politico in senso stretto, nel senso che non viene pienamente valutata la scomparsa delle dimensioni della varietà e dell’incontro e l’importanza della nascita delle gated communities e del loro contraltare nella progressiva “carcerizzazione” dei vecchi centri urbani (Le Goix 2005). Dietro le barriere delle gated cities sono nate società così profondamente divise che Kenneth Jackson ha potuto definirle “castali” (Jackson 1985). Una delle conseguenze del trasferimento dei ceti medio-alti nei suburbs è proprio che in questo modo sono stati resi particolarmente acuti i problemi dei vecchi centri, originando una drammatica contrapposizione tra i livelli di vita nelle esclusive aree privilegiate e quelli nei centri urbani degradati (Marcuse 1997). Si tratta di questioni ampiamente esplorate, che vanno dall’incremento della criminalità alla fiscalità insufficiente, alla presenza di scuole di basso livello e servizi pubblici scadenti e a tensioni sociali di vario genere. La differente capacità di mobilità spaziale tra le classi sociali intensifica ulteriormente i conflitti sociali ed etnici, creando situazioni di confinamento in zone in cui sono accessibili solo lavori scadenti e mal pagati (Wilson 1987, 1993, 1996). Lo sprawl diviene così l’altra faccia del ghetto urbano, è un fatto sociologico che assume configurazione spaziale avrebbe detto Georg Simmel, contribuisce a alimentare una realtà dell’esclusione estrema che appare in continua crescita (Wacquant 2006; Petrillo 2006).
Ma anche l’interpretazione delle trasformazioni territoriali in chiave di valorizzazione della rendita fondiaria su cui si è soffermata a lungo una filone di geografi di ascendenza marxista potrebbero a ben vedere fornire un’ulteriore lettura interpretativa, tanto più interessante alla luce della crisi immobiliare legata ai mutui subprime. La rendita, nei suoi aspetti più innovatori, che si sono sempre più andati intrecciando alla finanziarizzazione dell’economia sarebbe stata uno dei propellenti della grande spinta alla suburbanizzazione degli anni Ottanta (Scott 1980; Kraetke 1995).
Il ritorno della centralità?
A ben vedere i discorsi sul declino e sulla crisi della città che si sono succeduti negli ultimi anni hanno un fondamento che non è stato ancora studiato a sufficienza: le trasformazioni nella divisione internazionale del lavoro. Quanto è avvenuto nei paesi sviluppati è stato possibile anche perché buona parte della produzione di oggetti materiali è stata allocata altrove. La nascita di forme di produzione “leggera” e per i servizi , di modalità della produzione che sono tipiche del modello economico-produttivo legato allo sprawl sono state possibili anche perché la produzione “pesante” veniva realizzata in altre parti del mondo. E questo riguarda anche il mercato alimentare e dei generi di prima necessità. Intere città nuove sono state realizzate negli USA su terreni un tempo destinati ad attività agricole, divenute non più necessarie per l’importazione di derrate agricole a prezzi ridotti dai paesi confinanti (Davis 1999). In virtù di accordi commerciali e con la creazione di zone di libero scambio si sono liberati per la speculazione immobiliare spazi precedentemente adibiti alle coltivazioni. Anche le nuove tecnologie hanno dischiuso la possibilità di annullare la storica divisione tra le diverse funzioni urbane: lavoro, consumi e tempo libero.
Bisogna allora pensare di essere veramente giunti al capolinea della storia urbana conosciuta? Per i centri urbani , tramontata la loro centralità industriale-fordista si prospetta un futuro da shrinking cities? In realtà secondo molti studiosi per le città si prospettano tutta una serie di opportunità nuove. Tutto un filone di studi converge sul fatto che le nuove forme di economia basate sul sapere e sulle capacità creative hanno come retroterra indispensabile una fitta interazione sociale e attività che si svolgono a partire da reti territoriali ben individuate. Il lavoro intellettuale richiede determinate contiguità e scambi che non possono essere solo virtuali. L’astrattizzazione del lavoro conduce ad una rivalorizzazione della vita urbana e della centralità urbana. Di questi processi è forse cifra anche la gentrification, che è difficile ricondurre unicamente a questioni di tipo speculativo o identitario, come si è fatto spesso semplificando la questione. Se è vero, come ha scritto Neil Smith, che il “ritorno alla città” dei Novanta è stato fatto prima dalla speculazione poi dalla gente, è anche vero che col passare degli anni si va percependo sempre più chiaramente che le forme più importanti del “lavoro nuovo” si possono comprendere solo se inquadrate in un contesto urbano e di relazioni sociali fitte quali solo i vecchi centri rendono possibili (Smith 1996).
La caduta della separazione tra lavoro e vita non comporta la definitiva dissoluzione dei legami spaziali, ma anzi sottintende un’accresciuta dipendenza da contesti spaziali specifici, come hanno mostrato i lavori sulla
cultura delle città di una Sharon Zukin (Zukin 1995) o le celebratissime riflessioni di Richard Florida (Florida 2003)6. La città ridiviene attraente per la forza-lavoro altamente qualificata, e solo in città si può dare, e a certe condizioni, la realizzazione di quel mix relazionale che diviene elemento decisivo per la
formazione dei saperi che confluiscono nella “produzione nuova”.
In un siffatto contesto gli Stati Uniti potrebbero venire a trovarsi nella curiosa e per certi versi paradossale situazione di essere un paese relativamente “senza città” in un pianeta in cui la dimensione urbana sta ridiventando centrale (Katz e Altman 2005). In prospettiva, se fossero confermate queste analisi, si potrebbe perciò un giorno giungere al rovesciamento pressoché completo del quadro tracciato da Beauregard, con l’affermarsi di una dimensione in cui lo sprawl diviene segno di arretratezza piuttosto che di progresso.
Conclusione
Naturalmente è difficile allo stato attuale dei nostri saperi tracciare delle conclusioni su di una questione così controversa. La realtà urbana che ci circonda è presa nel vortice di una transizione di cui non intravvediamo ancora i punti di approdo ultimi. Proprio questo continuo mutare ci rende consapevoli dei limiti di un concetto usato in maniera pervasiva come quello di “postfordismo”. Difficile non concordare con Dieter Laepple quando ci suggerisce che il postfordismo non è modello definito e conchiuso, ma indica piuttosto una transizione che si gioca attraverso una serie di passaggi, molti dei quali devono ancora probabilmente avvenire e in cui in ogni caso saranno decisive le trasformazioni dei mondi del lavoro (Laepple 2006). Certo è che per molti versi nella fase attuale la “destinalità” dello sprawl sembra quanto meno dubbia, ed è possibile quantomeno cercare di operarne una lettura storico-critica. Va inoltre rilevato che il discorso di Beauregard sulla congiunturalità dello sviluppo americano pare dotato di una rilevante capacità esplicativa e indubbiamente schiude orizzonti nuovi alla ricerca, anche perché Il ritorno della centralità urbana da più parti segnalato a partire dalla metà dei Novanta sembra far segnare una inversione di tendenza, con il passaggio, almeno in Europa, ad una dimensione post-suburbana. Una dimensione cui contribuirebbero sia la riscoperta della centralità di relazioni “faccia a faccia” nella nuova dimensione creativo-produttiva (Hall 2004), sia la ripresa dei vecchi centri. In fin dei conti come ha segnalato uno studio sulla S. Fernando Valley (Hogen-Esch, 2001), la stessa regione urbana di Los Angeles, luogo simbolico della via americana alla dispersione, attraversata per decenni da tentazioni secessioniste e centrifughe, sembra mostrare segni di ridensificazione e di ricentralizzazione amministrativa (Fulton,
1997)7. Anche alcune grandi città americane mostrano un netto aumento della popolazione, soprattutto come
conseguenza dei flussi migratori (Katz e Altman, 2005, p.4).
Sembrerebbe perciò prender forma un’ipotesi molto vicina a quella avanzata da Leo van den Berg (sulla scorta di vecchie intuizioni di Peter Hall), sulla ciclica oscillazione tra modelli diversi di concentrazione urbana (van den Berg, Burns e Klaassen 1987). Il modello individuava quattro fasi dello sviluppo urbano che si sarebbero succedute a partire dalla prima età industriale, con un’alternanza di tendenze tra concentrazione e diffusione ed è stato recentemente rivisitato e attualizzato (Champion 2001).
Rispetto alle riflessioni di van den Berg, la novità della situazione attuale consiste nel fatto che i modelli coesistono nello stesso tempo, non si affermano e predominano in successioni temporali diverse, come veniva tratteggiato nell’ipotesi originaria. Per questo insieme di motivi forse oggi più che del trionfo di un modello univoco di dispersione urbana nei paesi avanzati o di un ritorno della centralità tout-court, si può parlare di una articolata coesistenza di forze che spingono in direzione alla decentralizzazione spaziale e di forze che invece ricentralizzano, disegnando una molteplicità di tensioni e di tendenze nello spazio attuale.
6 Per una lettura problematizzante dell’intera questione delle città creative il rimando è ad un articolo di grande interesse (Scott 2006).
7 Cfr.in particolare le notazioni raccolte nella postfazione di Fulton alla seconda edizione del suo testo (Fulton 2001, pp.349 ss.).
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“Voglio la poesia che va dritta all’osso”: dialogo con Juan Arabia, che traduce Pound e canta l’anarchica raffinatezza
Eroe della new wave della poesia argentina, Juan Arabia, 35 anni quest’anno, ha una voracità rimbaudiana negli occhi e sembra un personaggio uscito da un film di Martin Scorsese. Lo abbiamo interpellato recentemente, perché Samuele Editore ha pubblicato il suo primo libro compiuto, Il nemico dei Thirties. Poi, un precipizio nell’amicizia. Arabia, tramite la sua rivista, Buenos Aires Poetry, porta in Argentina testi inediti di Ezra Pound e dalla letteratura nordamericana, ama una poesia diretta come un pugno (recentemente, sta riscoprendo la poesia di Charles Bukowski). Animatore culturale inafferrabile, Arabia è un po’ l’anima poetica di Buenos Aires. Ha la stessa aggressiva potenza della città argentina, l’indole anarchica, la raffinatezza – nelle sue poesie si mescolano suggestioni poundiane, gli spettri di Rimbaud e di Hart Crane, di Gautier e di Paul Verlaine. Un paio di settimane, a Buenos Aires, Arabia ha pubblicato Desalojo de la naturaleza, una ventina di poesie di nitida forza. Passando per BA, abbiamo avuto modo di pigliare il plico e di leggerlo. Segue dialogo.
Partiamo dal titolo. Cosa significa questa “espulsione”, questo “sfratto” (desalojo) della natura, de la naturaleza.
“Il titolo viene dalla poesia B.A. (Buenos Aires), che in seguito ha dato il titolo a un altro poema (Desalojo de la naturaleza), e infine al libro. Ho scritto questo libro di poesia a partire da una esperienza specifica. Ho lasciato Buenos Aires per otto mesi, muovendomi vicino alla campagna (a circa 200 chilometri), poi sono tornato in città. Niente è stato premeditato, né il titolo né il finale del poema. L’ho terminato a Puerto Madero, un barrio moderno, isolato e borghese della città di Buenos Aires”.
Nel libro tornano i tuoi ‘miti’ poetici: Rimbaud, Hart Crane, Verlaine, T. S. Eliot. Perché queste ossessioni? Forse rifiuti la letteratura ispanoamericana?
“Certo, alcuni autori sono ricorrenti. Sebbene, ci siano esplicite allusioni a César Vallejo, e impliciti riconoscimenti a poeti come Vicente Huidobro e Omar Cáceres. Nelle poesie a cui sto lavorando attualmente, sono presenti, tuttavia, autori come Julio Flórez (Colombia) o Pablo de Rokha. La tradizione latinoamericana, per la sua innata complessità e congiuntura, richiede molto più sforzo artistico e intellettuale di qualsiasi altra forma di letteratura. Perfino Borges è molto presente, ma nel mio primo libro, El Enemigo de los Thirties”.
Nell’introduzione al tuo libro, Victor Nunez parla di poesia ‘anti-moderna’ ma anche di “poesia dell’esperienza e del neobarocco”. Cosa significa? Ti riconosci in queste categorie?
“Penso che Victor si riferisca a due correnti dominanti della letteratura spagnola. La cosa curiosa di un paese come la Spagna è che ha spadroneggiato e dettato una lingua su un continente così vasto. Nel mio caso specifico, questa tradizione significa poco, anche perché in Argentina ci sono molti più discendenti italiani che in altri paesi. La nostra cultura, in tutta la sua estensione, non ha nulla a che fare con la Spagna. Borges stesso, ne Gli scrittori argentini e Buenos Aires, diceva, ‘mi manca solo il sangue italiano per essere un porteño tipico’”.
Cosa stai studiando attualmente, quali autori leggi e scopri?
“Sto studiando e rileggendo in profondità molti poeti che sono andati direttamente all’osso: Hemingway, Bukowski. Inoltre, sto preparando una nuova traduzione di Ezra Pound (Exultations, nella sua totalità) e una vasta antologia della poesia nordamericana del XX secolo”.
Dunque: cosa leggiamo nel prossimo numero di ‘Buenos Aires Poetry’?
“Nel numero 7 di BAP c’è una intervista al critico J. H. Miller, saggi di Kenneth Rexroth, Raymond Williams, e poesie di Cavalcanti, Cocteau, Chatterton, Mallarmé, Vernon Watkins, Luis Cernuda, Kingsley Amis e i poeti della meat school, tra gli altri”.
B.A.
Città dove sono nato sporca come una schiava, ascolta:
mi sono allontanato dalle tue strade come i miei antenati si sono allontanati dall’Europa;
stordito dai tuoi depositi e dai tuoi nuovi quartieri…
Ma non sembro un contadino: ora so che voglio distruggere tutto.
L’animo si alimenta della tua barca ubriaca. Un unico proposito, una sola determinazione:
recuperare ogni sfratto dalla natura. Il bene e il male, dalle sue radici.
B.A.
Ciudad donde nací, sucia como una esclava, escucha:
me alejé de tus calles como mis ancestros se alejaron de Europa;
aturdido por tus depósitos y por tus nuevos barrios…
Pero no parezco un campesino: ahora entiendo que quiero destruir todo.
El interior se alimenta de tu barco ebrio. Un solo propósito, una sola determinación:
recuperar cada desalojo de la naturaleza. El bien y el mal, desde sus raíces.
Juan Arabia
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Questo è un racconto per gli anormali, per chi crede nella letteratura, per chi vuole farsi ingannare dalle parole. Dialogo con Carlo Avolio, traduttore di Henry James
Conosco Carlo Avolio da molti anni. Non avevo ancora mai letto Ulisse di Joyce, ricordo, e ne parlavo molto male. Carlo mi convinse a leggerlo, dopo averlo letto decisi l’Ulisse fosse un capolavoro superiore a La ricerca del tempo perduto di Proust, che non avevo ancora mai letto. Avevo letto L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, però, e ne dicevo il peggio possibile, fino a quando non lessi gli studi di Carlo su Pynchon, e anche lì ho dovuto fare un passo indietro. Con Henry James si è posta una situazione anomala: è uno scrittore che è sempre piaciuto molto a entrambi fin dal primo istante. Allora la traduzione di La figura nel tappeto per Editrice Clinamen diventa l’innesco per una conversazione inedita che comincia con un punto in comune, per darci l’occasione di scoprirlo solo alla fine dei pensieri dove saremo andati a finire. (a.c)
Carlo Avolio, studioso di Joyce come di Pynchon, appassionato di letteratura nordamericana, come si posiziona la traduzione del racconto La figura nel tappeto di Henry James, nel tuo percorso personale e professionale?
Due risposte. Una ufficiale, più superficiale, quindi in parte menzognera, e la seconda più profonda, per questo più difficile da indagare. La prima: non esiste una traduzione recente del testo; l’ultima, uscita per Sellerio, non è più disponibile. La seconda: quello di James è un testo a cui sono legato per motivi biografici, mi ci sono confrontato fin da quando ero studente di filosofia a Napoli. Assieme ad altri testi brevi jamesiani, come Daisy Miller e La lezione del maestro, ne La figura nel tappeto James affronta il problema del rapporto tra la verità e la scrittura romanzesca, tra la dicibilità e la non dicibilità. Un tema direi wittgensteiniano: c’è qualcosa di sensato che se ne possa dire? Ancora di più la mia ragione è biografica perché il corso durante il quale ho letto per la prima volta il racconto era tenuto da Bruno Coppola, mio maestro, ora deceduto. Ricordo che quel corso era pensato per indagare la questione della verità romanzesca: questa traduzione così come la postfazione sono il mio modo per chiudere il cerchio. Il lavoro di traduzione è stato quindi anche un lavoro di lutto: Bruno Coppola è stato un outsider, l’ideale lettore jamesiano, e fondamentali per me sono stati i suoi studi sul rapporto tra bellezza e verità in letteratura.
Nella postfazione ti riferisci alla “urgenza, per così dire biografica, della produzione jamesiana durante l’ultima decade del XIX secolo”.
È possibile rintracciare a posteriori diversi momenti della produzione di James. A un certo punto pare che inizi a riflettere sul rapporto tra letteratura e verità. Con La figura del tappeto preannuncia certe dinamiche del tardo modernismo. Si rende conto che può giocare il gioco della letteratura. Attenzione, James non tematizza il problema in questione, piuttosto – per usare una espressione di Merleau-Ponty – questo viene reso-presente: la letteratura non spiega, mostra. Prima del postmodernismo James mette in scena il perfetto cortocircuito tra ciò che può essere detto dalla letteratura attraverso la letteratura e ciò che non può essere detto. Leggere uno dei suoi romanzi può essere difficile, oggi, le novelle invece assecondano il ritmo accelerato dei nostri tempi. James utilizza parole antiche per parlare del nuovo. Questo ha avuto un impatto anche sulla traduzione: inizialmente volevo dare una freschezza maggiore al testo in termini di scelte lessicali e sintattiche, poi però mi sono imbattuto in quel dilemma meraviglioso di cui parla anche Umberto Eco: il lettore deve sentire oppure no sulla propria pelle che esiste una distanza temporale, e culturale, dal James autore? Se non si vuole effettuare una operazione di riscrittura totale, come per esempio quella che Busi ha fatto del Decameron, tradurre significa saper passare la carta vetrata sul linguaggio contemporaneo nei punti giusti, per dargli la patina del tempo passato, ma: via i trattini e tanti punti e virgola, del tutto ottocenteschi.
La figura nel tappeto è un racconto paranoico, e la paranoia è un altro argomento al centro dei tuoi studi. Tradurre non è già un cercare la figura nel tappeto, per riformularla da una lingua all’altra?
Il lavoro di traduzione è un lavoro di proiezione, certo. Oggi che siamo alle prese con la post-verità la paranoia viene intesa come ciò che fonda il cospirazionismo. Mi preme sottolineare che questa è una considerazione fuorviante della sua natura: la paranoia si situa all’interno di tutti i percorsi di conoscenza. Ne L’incanto del lotto 49 di Pynchon c’è un passaggio bellissimo in cui il narratore svela il fatto che la questione della verità si gioca sul dover decidere tra lo stare dentro o fuori dalla metafora. La paranoia pone in gioco il problema della verità. Qual è il regime della verità? Con James che anticipa il Wittgenstein del Tractatus prima, e delle Ricerche filosofiche poi, dico che al di fuori del gioco della narrazione non ha senso porsi il problema della verità. La verità è una figura del discorso.
“Per quelle poche persone, comunque, anormali o meno, alle quali il mio racconto è rivolto, la letteratura era un gioco di abilità, e abilità significava coraggio, e coraggio significava onore, e onore significava passione, vita”. La letteratura è una cosa seria?
Dipende a chi lo chiedi. Devi chiederlo a un uomo fuori dalla norma come lo è stato James. James vive attraverso la letteratura, con Borges forse è l’ultimo grande scrittore che ha avuto una visione totalizzante della sua opera, identificandosi con essa. La figura nel tappeto è un racconto per lettori, per persone che leggono e che credono alla serietà della letteratura. È un racconto per gli anormali, disposti a farsi arricchire e ingannare dalle parole.
La modernità sfacciata di James si mostra fin dal protagonista che sceglie per il racconto: un critico letterario, come se ne rivedranno in 2666 di Roberto Bolaño.
Altra sfida aperta in questa traduzione è stato rendere l’altalenare di sensazioni che il critico accumula, come un generatore di ostilità e di odio, nei confronti della verità, una verità che gli sfugge sempre e che l’autore ripetutamente gli sottrae: al punto che non si può non immaginare James lavorare alla storia con un ghigno sadico sul volto: La figura nel tappeto oltre a essere straordinariamente interessante è allora un racconto perversamente divertente. Come James insegna in La lezione del maestro non dovremmo mai fidarci dei romanzieri: né di James stesso, dunque, né del Vereker del racconto. Non sappiamo se Vereker ha scherzato, possibile non ci sia nessun segreto estetico da rivelare, nessuna verità. Possiamo scegliere da che parte stare: con il romanziere che si prende gioco del critico oppure con il critico che è arrivato al cuore del romanziere. Due visioni opposte della letteratura. La bellezza del racconto è nella scelta che lascia al lettore.
Il racconto finisce con le parole: my revenge, la mia vendetta. Quale vendetta consuma James con la sua opera letteraria?
Difficile a dirsi. Sono possibili diverse ipotesi: forse con sé stesso? James è uno scrittore alla Hugh Vereker, autore di grandi opere, ma possiamo rintracciarlo allo stesso modo nel critico affermato Corvick e nel critico esordiente, protagonista del racconto. Il James de La figura nel tappeto è trino. Siamo nel 1896. Mancano tre anni prima che venga pubblicata L’interpretazione dei sogni, aprendo la strada verso la scoperta, o l’invenzione, della macchina dell’inconscio freudiano. La politesse del dettato jamesiano è il velo della finzione sociale che sta per essere strappato. James in questo racconto mostra anche la tensione pulsante al di sotto delle parole e dei gesti sei suoi personaggi. La stessa idea della verità conquistabile attraverso il rapporto intimo e interpersonale con la donna, penso alla storia tra Corvick e Erma, è un segnale quasi da manuale della forza erotica che non ne vuole più sapere di essere subliminata.
“Non esiste infatti per ogni scrittore una qualche cosa speciale di questo genere, la cosa che più di ogni altra lo incita nell’adoperarsi, senza lo sforzo per realizzare la quale egli non avrebbe mai scritto?”. Ti ci soffermi nella postfazione: l’indicibilità dell’essenza della grande arte. Esiste poi per davvero l’essenza dell’arte?
La domanda di James è evidentemente retorica, e come tutte le domande retoriche nasconde una risposta negativa, seppure di solito si pensa il contrario. Le domande retoriche danno risposte esposte e in questo caso James sta giocando, affermando che potrebbe non esistere affatto questa essenza, all’interno di quel gioco pieno di senso e privo di verità assoluta che è la letteratura. Pensiamo adesso a come James propina la morte ai suoi personaggi: lo fa con una leggerezza sospetta. La morte diventa l’accessorio fondamentale per allungare il tragitto verso il possesso della verità e il narratore la rappresenta a sua volta in modo sbrigativo, quasi superficiale. Mi vengono in mente alcuni racconti, certo più complessi, di John Barth, dei grandi postmoderni per i quali la finzione della letteratura serve a ragionare sulla funzione più generale della letteratura stessa. Ricordo ancora una volta che questa traduzione l’ho dedicata a Bruno Coppola: per me è stata l’ultima conversazione con il maestro, e con l’amico. Non è un caso, forse, che abbia scelto un racconto al cui interno è così importante la funzione della morte.
James più che moderno, ma al centro di La figura nel tappeto c’è un tema che sembra figlio di un altro secolo, di un’altra civiltà: la verità dell’arte. Oggi per quale verità riusciamo ancora a ossessionarci?
Vero, non ci poniamo più, in termini assoluti, il problema della verità nell’arte: eppure viviamo in un’epoca di avvenuta estetizzazione del mondo, di artificazione del mondo. Significa che la verità non è più concentrata all’interno delle performance artistiche intanto perché il rapporto stesso di ognuno con il mondo è diventato una forma di performance. La domanda sulla verità dell’arte si è travasata ed è diventata una domanda di verità sul mondo. Se qualcuno è ancora alla ricerca di verità “dure”, probabilmente queste domande si sono spostate nelle scienze e anche queste, mi pare, non sono immuni da forme di produttiva estetizzazione. La domanda delle domande è certamente quella che riguarda la teoria che unificherà, trasformandole, la relatività generale con la meccanica quantistica, anche in questo caso però le strade da percorrere sono molteplici e talvolta in conflitto tra loro, un conflitto tra costruzioni e grammatiche concettuali che l’arte dal canto suo esibisce da sempre. In altre parole, i migliori testi di letteratura – e di filosofia – che ho letto nell’ultimo periodo sono sicuramente testi scientifici. Stiamo sperimentando l’onda lunga di molteplici crisi, di spaccature; è insomma un buon momento: durante queste fasi le verità tornano a casa.
Antonio Coda
*In copertina: particolare del ritratto di Henry James ad opera di John Singer Sargent, danneggiato nel 1914 da una suffragetta (la fotografia è tratta da qui)
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Istruzioni su come leggere “La vita istruzioni per l’uso” di Georges Perec. In due giorni di quarantena, posizione Bobi Bazlen, supini sul letto…
A chiusura di libro, riprenderlo in mano, girarlo in senso orario di 180 gradi e poi in senso antiorario di 360 gradi. Risollevare il libro, sfogliarlo e intercettare i punti esclamativi segnati a margine, poi ricavarne delle immagini discontinue, come in un sogno. Dopodiché, vedere l’appartamento descritto nel libro: una ventina di inquilini in questo stabile parigino altoborghese, elegantino, che l’autore ci descrive passo passo, camera per camera, riacciuffando le storie di chi ci ha abitato, e poi rifigurarsi mentalmente i segreti, le mezze verità e gli enigmi di quelle esistenze: dietro a ogni stanza una storia e ancora dietro di lei, una leggenda.
*
Succede questo dopo aver letto La vita istruzioni per l’uso di Georges Perec, opera concepita a cavallo dei suoi quarant’anni da un geniale ebreo-polacco nato in Francia, adottato da Raymod Queneau e adorato da Italo Calvino. Il libro uscì nel 1978 e gli prese almeno nove anni per la stesura ma come se non bastasse, oltre a questa opera-vita se ne adunano altre intorno al suo nome: Le cose (ora nel catalogo snob novecentesco Letture di mamma Einaudi) e soprattutto i gioielli di famiglia stampati da Quodlibet, sia reso omaggio a quei geni di Macerata. Dimenticavo: un paio di anni fa è stato stampato finalmente il suo primo romanzo, inedito anche in Francia sino al 2016.
*
Per tornare a La vita istruzioni per l’uso: leggetelo in due giorni di quarantena, posizione Bobi Bazlen cioè supini sul letto con almeno un pacchetto da sfumazzare e possibilmente chiudetevi in Perec così da non accorgevi che la cenere è caduta almeno un paio di volte sulla tuta creandovi dei buchi da tarme.
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Altra sensazione gradevole leggendo Perec: vi compaiono autori e personaggi storici affastellati in un gioco di rimandi senza fine ed eventualmente senza senso. Se lo leggete a 18 anni ve lo godete come un parco giochi, se vi capita tra le mani a 30 anni e dietro avete qualche studio vi stupirete di ritrovarci quei personaggi che fino a un momento prima avevate lasciato nella teca del sacro graal universitario: ritrovarli così vitali, rimessi a nuovo da Perec fino a uscire dalla pagina. Tra gli altri, farete amicizia con Seneca Otto Raskenkjold, comandante di truppa danese distintosi nelle guerre contro i turchi e poi contro Napoleone che morì nel 1820 (non nel 1803 come segna l’indice dei personaggi). L’effetto è quello di leggere finalmente un libro serio dopo le pretese seriosità dei manuali di liceo e università: come scoprire L’autunno del Medioevo dello storico Huizinga dopo il beverone Il nome della rosa. E capire che Eco lo adorava, mentre lo scopiazzava…
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Altro divertimento. Studiare la planimetria dell’appartamento parigino descritto da Perec. Andare a fondo libro e scrutare quella planimetria come se si fosse architetti. Poi scorrere l’elenco dei personaggi e delle opere citati, capire cosa è reale e cosa fittizio, dopodiché spulciare l’indice delle storie e incasellarle nei 99 capitoli.
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A proposito di storie: era Italo Calvino che, tra il serio e lo snob, vedeva ne La vita una sorta di romanzo di romanzi sul genere delle Mille e una notte. Il richiamo funziona benissimo anche se purtroppo il romanzo è invaso al 60% da francesismi la metà dei quali sono grezzi e risultano indigesti a chi non sia appassionato di autoreferenzialità francese (per dire, io ho sgraffignato la copia della Vita dalla casa di un analista bolognese, ex lotta continua e devoto lettore di Repubblica e di Heidegger, ciononostante sposato in cachemire con una produttrice di champagne – ma non ero in casa sua per una cura analitica… insomma un appartamentino degno di figurare in un romanzo alla Perec).
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Già, Calvino. Perec fu masticato per anni dagli analisti del linguaggio fino a farlo scoppiare per le sue potenzialità. Immaginatevi uno scrittore che studia enigmistica, ci fa un libro sopra (La vita è un puzzle di un puzzle cui manca un tassello) e poi arriva la truppa degli esegeti: Perec ne esce distrutto. Diventa lo spaventapasseri sul campo arato fuori stagione da gente che oggi ha settant’anni e, diciamolo tondo, ci ha un po’ rotto la fava con le sue mode generazionali. Riprendiamoci Perec!
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Quando dico mode generazionali intendo questo: facciamo un giochetto degno de La vita. Vediamo come una ventina d’anni fa Repubblica parlava delle novissime edizioni del suo santino. Dalla rubrica Sette giorni in libreria: vi compaiono nell’ordine (senza senso) un libro sul diavolo di scoliasta nordamericana, un volume inevitabile del solito accademico sulla nascita della critica d’arte, un altro epistolario tra matematici italiani di primo Novecento, poi ancora un nuovo dizionario critico e finalmente il nostro eroe, Perec, con l’opera finale e incompiuta 53 giorni. In chiusa di articolo c’è l’immancabile Manganelli postumo de La notte portato sugli scudi da Adelphi (e a quanto ne so lo stamparono in fretta nella collana Biblioteca, numero 326, ed. 1996, mancando di inserire in fase di assemblaggio sedicesimi le pagine 103-118; al loro posto compaiono due volte quelle da 119 a 134 e io da un paio d’anni mi mangio le mani a non sapere cosa scrisse il divino calamo di Manganelli…)
*
Io ne ho le balle piene delle mode editoriali. Andiamo a vederci Perec dal vivo e immaginiamolo che parla con Queneau e Calvino di letteratura potenziale, mentre Queneau come vecchio del gruppo racconta ai suoi sodali che negli anni Trenta seguiva le lezioni del mitico Kojeve, nipote di Kandinskj e fisico in potenza, poi staliniano per qualche anno e infine eminenza grigia di de Gaulle. Solo così potremmo capire, di là dalle chiacchiere in chicchere di Eco e compagnia bella, che Perec esce dal tronco di una certa zona grigia della Francia. La zona che ho in mente è quella di Kojeve: oggi si parla poco di lui nonostante le opere ‘filosofiche’ e di ‘mistero statale’ a catalogo Adelphi, ma in realtà è una bestia sacra.
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Una volta un istruttore mi voleva dare una tesi su Kojeve e gli influssi orientali che esercitò su Parigi e su certi surrealisti che gli ronzavano intorno: non ne facemmo niente anche perché ormai i ludi universitari erano finiti. Bisognerebbe farci un’intervista su Kojeve maestro di Queneau e Queneau maestro di Perec (che gli dedica La vita).
*
Ritratto al volo di Kojeve. Nel secondo dopoguerra è consigliere di due ministri francesi. I due si siedono al tavolo con Kissinger e il saggio statista chiede al cerimoniere: ma chi sono questi due? Gli dicono Bouvard e Pecuchet. Non contento, Kissinger chiede chi sia l’uomo in piedi dietro i due. Lui? Lui è Flaubert…
Andrea Bianchi
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“Solo vive chi vede l’Angelo”. Giuseppe Ungaretti, scrittore dello straordinario. (Intorno a un libro magnifico e perduto)
Dal 1931 Giuseppe Ungaretti è inviato speciale della “Gazzetta del Popolo” di Torino, viaggia molto, scrive. Sono anni importanti: nel 1933, per Vallecchi, esce Sentimento del Tempo, con quell’inno franto, già beckettiano, meteora che fende i deserti, La pietà. “L’uomo, monotono universo,/ Crede allargarsi i beni/ E dalle sue mani febbrili/ Non escono senza fine che limiti”.
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Le prose di Ungaretti sono lampeggianti, meravigliose. Vi si legge l’antica sapienza egizia – per orientarsi, leggere il discorso di Plutarco Su Iside e Osiride – e l’arte del poème en prose francese. Alessandria e Parigi, insomma, convergono sempre nel verbo di Ungaretti. “Appoggiate a muri crollanti, intumescenze d’ombra per terra erano appollaiate in fila cieca e Baal Zabu, dio delle mosche, aveva spedito, a mantenerle deste, una turba di così alacri e minuti vassalli, e venuti in tanti – rimasti nel vicolo come fumo… Si fece, raspando adagio dentro scacchiere di sabbia, presente un rizoma; storti dal reuma, artigli balzarono incespicando, a scovare da un otro le conchiglie; falangi furono rilevate, di diti melomani, pratichi nella scelta d’un’erba villosa, calcati, in un continuo tremito, contro un occhio gessoso che non finiva più, provandosi a vedere, d’essere schizzato fuori d’una pelle adesiva, albina, analoga a quelle palpebre dell’arara che si stava, sopra il trespolo, spollinando – ma vizza, quella pelle”. Questo è l’incipit di Giornata di fantasmi, prosa sonnambula del 1931, che narra di gite labirintiche nei cimiteri d’Egitto. Alcuni paragrafi s’incagliano sul volto: la prosa di Ungaretti non va capita perché prevalente è l’odore, la geologia verbale, l’estasi di grammatica presa a morsi. “I corvi attaccavano plumbei, e i nibbi, divaganti, si sarebbero detti d’una pomice rovente e, a poterli toccare, forse avrebbero fatto anche alle dita quell’effetto che producevano agli occhi, di oggetti incandescenti, di dubbio peso”.
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Ungaretti teneva alle sue prose. Nel 1949 le raccoglie per le Edizioni della Meridiana come Il povero nella città. A Giuseppe De Robertis scrive una frase inequivocabile: “Vi troverai alcuni poemetti in prosa che sono, senza dubbio, i più belli scritti in lingua italiana”. Ungaretti aveva ragione – il clima culturale, per così dire, era mutato, senza revoca. L’anno dopo, nel 1950, per Mondadori, esce la sua traduzione dalla Fedra di Racine e soprattutto La terra promessa. Le prose del viaggiatore veggente, del giornalista lirico furono per lo più snobbate, “non riuscirono ad avere territorialità nella letteratura italiana del dopoguerra che cercava nuovi spazi per un’‘epica popolare’ – fosse questa la letteratura nordamericana rivisitata da Pavese o quella delle ‘remote origini’ (Bacchelli) e di presente rinascita cercata da Vittorini o da Silone, o quella ancora del ‘disincanto’ dei quartieri di Pratolini”, scrive Carlo Ossola. In effetti, quel libro perfetto, di parola che non resta sulla carta ma vola con incanto e ferocia di falco, è scomparso dal turbinio editoriale, la ristampa SE de Il povero nella città (1993; con il saggio di Ossola in appendice) si trova per mercatini.
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Eppure, quei brani pieni di bagliori bianchi, scanditi di sciacalli verbali, sono superbi. Questo è Il demonio meridiano: “Il sole già cade a piombo; tutto ora è sospeso e turbato, ogni moto coperto, ogni rumore soffocato. Non è un’ora d’ombra, né un’ora di luce. È l’ora della monotonia estrema. Questa è l’ora cieca; questa è l’ora di notte del deserto. Non si distinguono più le rocce tarlate, tigna biancastra fra la sabbia… Non c’è più né cielo né terra”. Lo leggo alternando squarci dai Cori descrittivi di stati d���animo di Didone:
Solo ho nell’anima coperti schianti,
Equatori selvosi, su paduli
Brumali grumi di vapori dove
Delira il desiderio,
Nel sonno, di non essere mai nati.
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Ossola avvicina i ‘poemi in prosa’ di Ungaretti al prometeico poema di Saint-John Perse: “sin dal 1931 era apparsa su ‘Fronte’ la versione ungarettiana di Anabase (1924)… poème en prose dalle grandi campiture oniriche”. Nelle note che precedono la traduzione di Anabase, Ungaretti scrive che “è uno dei rari esempi recenti di poesia epica”, dove “vale la sete, vale la sollecitazione dei sogni”. Nel 1960 il poeta francese, ornato con il Nobel per la letteratura, sceglie il sodalizio con Ungaretti, omaggiandolo: “Onore a voi, purissimo poeta, di cui l’atto poetico fu innanzitutto testimonianza d’essere umano. Dalla vostra voce propria, ardentemente italiana, voi avete saputo portare all’universalità il grido dell’uomo europeo”.
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In Italia favolosa – uscito sulla “Gazzetta del Popolo” nel 1934 – Ungaretti, vignaiolo dello splendore, intuisce il carisma carnale del nostro Paese rispetto al mistero delle civiltà di sabbia. “Un Italiano nella sua arte, anche parlando di morte, celebrerà sempre la vita. Se sono occhi, saranno immortali perché ridenti e fuggitivi. Noi non abbiamo mai pensato d’abolire il tempo immaginando, come fecero gli Egiziani, un lungo dito d’ombra che ne avrebbe segnato senza fine il vano ripetersi. È un’idea di gente che il deserto circonda. Non mi sono mai meravigliato vivendo laggiù, che quegli Antichi pensassero che il tempo sia vinto dal tempo stesso, e cioè, il tempo essendo una misura, sia vinto dalla sua misura. Meridiane colossali, piramidi, una saetta d’ombra che i secoli non denaturino. E l’eterno? Morte! Mummie nelle fosse orrende di quelle piramidi…”.
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Il ‘pezzo’ più importante di questa raccolta di prose memorabili, Il povero nella città, appunto, è la riscrittura di un articolo del 1931 per un Don Chisciotte pubblicato nel 1947 dalle Edizioni della Conchiglia, con i disegni di Carlo Carrà. Il fulcro del saggio è la figura del faqir, specie di asceta, di mendicante tra i mondi, “non è colui che fachiro s’usa abitualmente chiamare… è semplicemente un povero”. Giunto dalle origini della civiltà dei deserti, che dalla Bibbia sfoga in Arabia, il faqir è “il matto e il povero… l’uomo che non fa conti e non ha vincoli, che è armato d’una forza occulta; l’uomo che governano una debolezza e una forza smisurate; l’uomo che è debole come è uno all’inizio e al termine dell’avventura terrena… ma è anche l’uomo che è forte, l’uomo che testimonia che solo vive chi vede l’Angelo: non si sa che cosa vogliano significare i suoi gesti e le sue parole, e potrebbe darsi che siano semplicemente manie”. Il faqir, “segno vivente del sacro, uno che è libero perché è protetto da gesti e da parole strani, incomprensibili; di più: uno che è sorto a simbolo di libertà”, è forse Cervantes, forse Chisciotte, di certo è emblema del poeta, l’uomo che richiama alla ferocia del vagabondaggio, che tiene dialoghi coi morti, che con una parola potrebbe disintegrare una città, ma desiste, la inghiotte in un riso, preferisce tenere tutti sotto incanto, s’incarica dei desideri e delle agonie di tutti. (d.b.)
L'articolo “Solo vive chi vede l’Angelo”. Giuseppe Ungaretti, scrittore dello straordinario. (Intorno a un libro magnifico e perduto) proviene da Pangea.
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