#le case dei miei scrittori
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Le case dei miei scrittori di Évelyne Bloch-Dano: cercare le parole nello spazio
Il pellegrinaggio letterario nasce nel XVIII secolo con Voltaire e Rousseau; le dimore come santuari. Gli scrittori vi hanno celebrato una liturgia; e questa ha effuso su di loro la grazia della parola. Un’esperienza mistica, la visita; nell’epoca della tecnologia è diventata un circuito turistico. L’intimità si è persa; ma i letterati continuano a parlare nelle loro case, attraverso le loro…
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https://oubliettemagazine.com/2024/04/10/le-case-dei-miei-scrittori-di-evelyne-bloch-dano-cercare-le-parole-nello-spazio/
Évelyne Bloch-Dano è un’autrice di biografie e saggi; studiava Lettere Moderne, quando visitò la prima casa. Quella che Proust descrive a fondo in Dalla parte di Swann; la casa di zia Léonie. Da allora ne ha visitate oltre centocinquanta; dall’esperienza di viaggiatrice nasce Le case dei miei scrittori (ADD Editore, 2019, pp. 271, trad. di Sara Prencipe e Michela Volante).
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Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno
Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, un post letterario che riprende alcuni brani di questo testo umoristico di Giulio Cesare Croce con una piccola introduzione e una breve biografia dell'autore. Quando frequentavo le scuole medie, nel 1973, nella nostra antologia - LA LETTURA. ANTOLOGIA CON LETTURE EPICHE di Italo Calvino e Giambattista Salinari, Zanichelli Editore, un libro bello corposo per ogni annualità, oltre all'epica, alle poesie e a vari testi letterari di autori classici vi erano anche testi più umoristici, tratti da opere di scrittori di assoluta genialità. Tra questi vi erano brani tratti dal Bertoldo di Croce che, con i testi del Don Chisciotte di Cervantes, erano tra i miei preferiti; non a caso molti anni anni dopo la mia tesi di laurea si occupò proprio del fenomeno umoristico. A distanza di 50 anni, e dopo aver sofferto parecchio durante la mia complicata esistenza, a soli pochi mesi dalla morte di mia madre, dedico questo post a Bertoldo e al suo autore, memore dei miei anni più spensierati, quando dopo delle intese giornate scolastiche ritornavo a casa e potevo beneficiare della presenza dei miei genitori, di una realtà che non ritornerà mai più. Restano solo i ricordi, la nostalgia, la meloanconia, la sofferenza e la lieve funzione terapeutica della letteratura. Giulio Cesare Croce è stato uno scrittore e drammaturgo italiano del XVI secolo, noto principalmente per essere l'autore della popolare opera comica "Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno", la cui trama ruota attorno alle avventure di due contadini, Bertoldo e Bertoldino, e del loro amico Cacasenno. Figlio di fabbri e fabbro a sua volta, morto il padre, lo zio continuò a cercare di dargli una cultura. Non ebbe mai mecenati particolari, e lasciò gradualmente la professione di famiglia per fare il cantastorie. Acquisì fama raccontando le sue storie per corti, fiere, mercati e case patrizie. Si accompagnava con un violino. L'enorme sua produzione letteraria deriva da una autoproduzione delle stampe dei suoi spettacoli. Ebbe due mogli e 14 figli e morì in povertà. L'opera di Croce è caratterizzata da un umorismo vivace, un linguaggio colloquiale e una satira sociale che prende di mira le convenzioni e le ipocrisie del suo tempo. "Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno" è diventato un classico della letteratura comica italiana e ha avuto una grande influenza sulla tradizione del teatro popolare. Una forma scritta precedente come fonte fu il medievale Dialogus Salomonis et Marcolphi. Oltre a "Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno", e ad un romanzo successivo sempre dello stesso filone, Croce scrisse anche altre opere, tra cui commedie, numerosi libretti brevi in prosa e poesia, che abbracciano vari generi letterari della tradizione popolare e raccolte di novelle.
Giulio Cesare Croce L'autore riprese temi popolari del passato, come la storia di Bertoldo, ambientandola alla corte di re Alboino a Verona e a Pavia. Nella sua versione più organica, rese la storia meno licenziosa e attenuò la rivalsa popolare verso i potenti. Aggiunse un seguito riguardante il figlio di Bertoldo, chiamato Bertoldino, e successivamente un altro seguito elaborato da Adriano Banchieri, chiamato Novella di Cacasenno. Questi racconti furono poi adattati in tre film, nel 1936, nel 1954 e l'ultimo del 1984, diretto dal grande Mario Monicelli, con Ugo Tognazzi e Alberto Sordi. In Bertoldo, l'autore confessò forse le sue aspirazioni personali, rappresentando il rozzo villano come un autodidatta desideroso di fortuna e mecenati. La sua produzione letteraria contribuì significativamente allo sviluppo della commedia dell'arte italiana e alla diffusione della cultura popolare nel XVI secolo, diventando così uno dei precursori della commedia italiana, apprezzata ancora anche oggi. I suoi scritti inoltre contribuirono anche alla grande letteratura carnevalesca, un importante filone identificato per la prima volta da Michail Bachtin, che tra i suoi esponenti conta tra gli altri Luciano di Samosata, Rabelais, Miguel de Cervantes e Dostoevskij. Le sottilissime astuzie di Bertoldo. Nel tempo che il Re Alboino, Re dei Longobardi si era insignorito quasi di tutta Italia, tenendo il seggio reggale nella bella città di Verona, capitò nella sua corte un villano, chiamato per nome Bertoldo, il qual era uomo difforme e di bruttissimo aspetto; ma dove mancava la formosità della persona, suppliva la vivacità dell'ingegno: onde era molto arguto e pronto nelle risposte, e oltre l'acutezza dell'ingegno, anco era astuto, malizioso e tristo di natura. E la statura sua era tale, come qui si descrive. Fattezze di Bertoldo. Prima, era costui picciolo di persona, il suo capo era grosso e tondo come un pallone, la fronte crespa e rugosa, gli occhi rossi come di fuoco, le ciglia lunghe e aspre come setole di porco, l'orecchie asinine, la bocca grande e alquanto storta, con il labro di sotto pendente a guisa di cavallo, la barba folta sotto il mento e cadente come quella del becco, il naso adunco e righignato all'insù, con le nari larghissime; i denti in fuori come il cinghiale, con tre overo quattro gosci sotto la gola, i quali, mentre che esso parlava, parevano tanti pignattoni che bollessero; aveva le gambe caprine, a guisa di satiro, i piedi lunghi e larghi e tutto il corpo peloso; le sue calze erano di grosso bigio, e tutte rappezzate sulle ginocchia, le scarpe alte e ornate di grossi tacconi. Insomma costui era tutto il roverso di Narciso. Audacia di Bertoldo. Passò dunque Bertoldo per mezzo a tutti quei signori e baroni, ch'erano innanzi al Re, senza cavarsi il cappello né fare atto alcuno di riverenza e andò di posta a sedere appresso il Re, il quale, come quello che era benigno di natura e che ancora si dilettava di facezie, s'immaginò che costui fosse qualche stravagante umore, essendo che la natura suole spesse volte infondere in simili corpi mostruosi certe doti particolari che a tutti non è così larga donatrice; onde, senza punto alterarsi, lo cominciò piacevolmente ad interrogare, dicendo: Ragionamento fra il Re e Bertoldo. Re. Chi sei tu, quando nascesti e di che parte sei? Bertoldo. Io son uomo, nacqui quando mia madre mi fece e il mio paese è in questo mondo. Re. Chi sono gli ascendenti e descendenti tuoi? Bertoldo. I fagiuoli, i quali bollendo al fuoco vanno ascendendo e descendendo su e giù per la pignatta. Re. Hai tu padre, madre, fratelli e sorelle? Bertoldo. Ho padre, madre, fratelli e sorelle, ma sono tutti morti. Re. Come gli hai tu, se sono tutti morti? Bertoldo. Quando mi partii da casa io gli lasciai che tutti dormivano e per questo io dico a te che tutti sono morti; perché, da uno che dorme ad uno che sia morto io faccio poca differenza, essendo che il sonno si chiama fratello della morte. Re. Qual è la più veloce cosa che sia? Bertoldo. Il pensiero. Re. Qual è il miglior vino che sia? Bertoldo. Quello che si beve a casa d'altri. Re. Qual è quel mare che non s'empie mai? Bertoldo. L'ingordigia dell'uomo avaro. Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un giovane? Bertoldo. La disubbidienza. Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un vecchio? Bertoldo. La lascivia. Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un mercante? Bertoldo. La bugia. Re. Qual è quella gatta che dinanzi ti lecca e di dietro ti sgraffa? Bertoldo. La puttana. Re. Qual è il più gran fuoco che sia in casa? Bertoldo. La mala lingua del servitore. Re. Qual è il più gran pazzo che sia? Bertoldo. Colui che si tiene il più savio. Re. Quali sono le infermità incurabili? Bertoldo. La pazzia, il cancaro e i debiti. Re. Qual è quel figlio ch'abbrugia la lingua a sua madre? Bertoldo. Lo stuppino della lucerna. Re. Come faresti a portarmi dell'acqua in un crivello e non la spandere? Bertoldo. Aspettarei il tempo del ghiaccio, e poi te la porterei. Re. Quali sono quelle cose che l'uomo le cerca e non le vorria trovare? Bertoldo. I pedocchi nella camicia, i calcagni rotti e il necessario brutto. Re. Come faresti a pigliar un lepre senza cane? Bertoldo. Aspettarei che fosse cotto e poi lo pigliarei. Re. Tu hai un buon cervello, s'ei si vedesse. Bertoldo. E tu saresti un bell'umore, se non rangiasti. Re. Orsù, addimandami ciò che vuoi, ch'io son qui pronto per darti tutto quello che tu mi chiederai. Bertoldo. Chi non ha del suo non può darne ad altri. Re. Perché non ti poss'io dare tutto quello che tu brami? Bertoldo. Io vado cercando felicità, e tu non l'hai; e però non puoi darla a me. Re. Non son io dunque felice, sedendo sopra questo alto seggio, come io faccio? Bertoldo. Colui che più in alto siede, sta più in pericolo di cadere al basso e precipitarsi. Re. Mira quanti signori e baroni mi stanno attorno per ubidirmi e onorarmi. Bertoldo. Anco i formiconi stanno attorno al sorbo e gli rodono la scorza. Re. Io splendo in questa corte come propriamente splende il sole fra le minute stelle. Bertoldo. Tu dici la verità, ma io ne veggio molte oscurate dall'adulazione. Re. Orsù, vuoi tu diventare uomo di corte? Bertoldo. Non deve cercar di legarsi colui che si trova in libertà. Re. Chi t'ha mosso dunque a venir qua? Bertoldo. Il creder io che un re fosse più grande di statura degli altri uomini dieci o dodeci piedi, e che esso avanzasse sopra tutti come avanzano i campanili sopra tutte le case; ma io veggio che tu sei un uomo ordinario come gli altri, se ben sei re. Re. Son ordinario di statura sì, ma di potenza e di ricchezza avanzo sopra gli altri, non solo dieci piedi ma cento e mille braccia. Ma chi t'induce a fare questi ragionamenti? Bertoldo. L'asino del tuo fattore. Re. Che cosa ha da fare l'asino del mio fattore con la grandezza della mia corte? Bertoldo. Prima che fosti tu, né manco la tua corte, l'asino aveva raggiato quattro mill'anni innanzi. Re. Ah, ah, ah! Oh sì che questa è da ridere. Bertoldo. Le risa abbondano sempre nella bocca de' pazzi. Re. Tu sei un malizioso villano. Bertoldo. La mia natura dà così. Re. Orsù, io ti comando che or ora tu ti debbi partire dalla presenza mia, se non io ti farò cacciare via con tuo danno e vergogna. Bertoldo. Io anderò, ma avvertisci che le mosche hanno questa natura, che se bene sono cacciate via, ritornano ancora: però se tu mi farai cacciar via, io tornerò di nuovo ad insidiarti. Re. Or va'; e se non torni a me come fanno le mosche, io ti farò battere via il capo.
Bertoldo e il suo asino Astuzia di Bertoldo. Partissi dunque Bertoldo, e andatosene a casa e pigliato uno asino vecchio, ch'egli aveva, tutto scorticato sulla schiena e sui fianchi e mezo mangiato dalle mosche, e montatovi sopra, tornò di nuovo alla corte del Re accompagnato da un milione di mosche e di tafani che tutti insieme facevano un nuvolo grande, sì che a pena si vedeva, e gionto avanti al Re, disse: Bertoldo. Eccomi, o Re, tornato a te. Re. Non ti diss'io che, se tu non tornavi a me come mosca, ch'io ti farei gettar via il capo dal busto? Bertoldo. Le mosche non vanno elleno sopra le carogne? Re. Sì, vanno. Bertoldo. Or eccomi tornato sopra una carogna scorticata e tutta carica di mosche, come tu vedi, che quasi l'hanno mangiata tutta e me insieme ancora: onde mi tengo aver servato quel tanto che io di far promisi. Re. Tu sei un grand'uomo. Or va, ch'io ti perdono, e voi menatelo a mangiare. Bertoldo. Non mangia colui che ancora non ha finito l'opera. Re. Perché, hai tu forse altro da dire? Bertoldo. Io non ho ancora incominciato. Re. Orsù, manda via quella carogna, e tu ritirati alquanto da banda perché io veggio venire in qua due donne che devono forse voler audienza da me; e come io le avrò ispedite, tornaremo di nuovo a ragionare insieme. Bertoldo. Io mi ritiro, ma guarda a dare la sentenza giusta. Astuzia sottilissima di Bertoldo, per non essere percosso dalle guardie. Quando Bertoldo vidde che in modo alcuno non la poteva fuggire, ricorse all'usato giudicio e, volto alla Regina disse: “Poi ch'io veggio chiaramente che pur tu vuoi ch'io sia bastonato, fammi questa grazia: ti prego in cortesia, che la domanda è onesta e la puoi fare, in ogni modo a te non importa pur ch'io sia bastonato, di' a questi tuoi che mi vengono accompagnare, che dicano alle guardie che portino rispetto al capo e che elle menino poi il resto alla peggio”. La Regina, non intendendo la metafora, comandò a coloro che dicessero alle guardie che portassero rispetto al capo e che poi menassero il resto alla peggio che sapevano; e così costoro, con Bertoldo innanzi, s'inviarono verso le guardie, le quali aveano di già i legni in mano per servirlo della buona fatta; onde Bertoldo incominciò a caminare innanzi agli altri di buon passo, sì che era discosto da loro un buon tratto di mano. Quando coloro che l'accompagnavano viddero le guardie all'ordine per far il fatto ed essendo omai Bertoldo arrivato da quelle, cominciarono da discosto a gridare che portassero rispetto al capo e che poi menassero il resto alla peggio, che così aveva ordinato la Regina. I servi sono bastonati in cambio di Bertoldo. Le guardie, vedendo Bertoldo innanzi agli altri, pensando che esso fusse il capo di tutti, lo lasciarono passare senza fargli offesa alcuna, e quando giunsero i servi gli cominciarono a tempestare di maniera con quei bastoni che gli ruppero le braccia e la testa, e in somma non vi fu membro né osso che non avesse la sua ricercata di bastone. sì tutti pesti e fracassati tornarono alla Regina, la quale, avendo udito che Bertoldo con tale astuzia s'era salvato e aveva fatto bastonare i servi in suo luoco, arse verso di lui di doppio sdegno e giurò di volersene vendicare, ma per allora celò lo sdegno che ella avea, aspettando nuova occasione; facendo in tanto medicare i servi, i quali, come vi dissi, erano stati acconci per le feste, come si suol dire. Bertoldo sta nel forno e la Regina il fa cercar per tutto. Dopo che l'infelice sbirro fu mandato a bere, si fece gran diligenza per trovar Bertoldo, ma per le pedate volte alla roversa non poteva(si) comprendere ch'ei fosse uscito fuori di corte, e la Regina lo fece cercar per tutto con animo risoluto di farlo impiccare, parendogli pur grave la beffa della veste e dello sbirro. Bertoldo viene scoperto nel forno da una vecchia, e si divulga per tutto la Regina esser nel forno. Stava dunque il misero Bertoldo in quel forno e udiva il tutto e cominciò a temere molto della morte e si pentì d'esser mai andato in quella corte e non ardiva d'uscire fuori per non essere preso, sapendo che la Regina gli aveva mal animo adosso; e ora tanto più avendogli fatto la burla dello sbirro e della veste, dubitava ch'ella non lo facesse impiccare. Ma avendo indosso quella veste, ch'era lunga, né avendola tirata ben dentro del forno tutta, essendone restata fuori un lembo, volse la sua mala sorte ch'ivi venne a passare una vecchia appresso al detto forno, e conosciuto l'orlo della veste, che pendeva fuori, che quella era una delle vesti della Regina, si pensò che la Regina fusse rinchiusa nel detto forno; onde andò in un tratto da una sua vicina e gli disse che la Regina era in quel forno. Andò colei seco e, guardando nel forno, vidde la detta veste, e, conoscendola, lo disse ad un'altra, quell'altra ad un'altra e così di mano in mano a tale che non fu meza mattina che per tutta la città andò la nuova che la Regina era in un forno dietro le mura della città. Il Re dubita che Bertoldo non abbi portato la Regina in quel forno, e va a chiarirsi del fatto. Udendo il Re simil fatto, dubitò che Bertoldo avesse portato la Regina in quel forno, perché lo conosceva tanto tristo che credeva ch'ei potesse fare ogni cosa, e le strattagemme del passato maggiormente gli crescevano il sospetto; onde subito andò alla camera della Regina e la trovò ch'ella era tutta arrabbiata; e inteso da lei la beffa della veste, si fece condurre a quel forno e guardando in esso vidde costui nel detto avviluppato nella veste della Regina, e tosto lo fece tirar fuori, minacciandolo della morte; e così fu spogliato della veste il povero villano e restò con gli suoi strazzi intorno; e tra che esso era brutto di natura e avendosi tutto tinto il mostaccio nel detto forno, pareva proprio un diavolo infernale. Bertoldo è tirato fuori del forno e il Re sdegnato dice: Re. Pur ti ci ho colto, villan ribaldo, ma a questa volta non scamperai del certo, se non sei il gran diavolo. Bertoldo. Chi non vi è non vi entri, e chi v'è non si penti. Re. Chi fa quello che non deve, gli avviene quello che non crede. Bertoldo. Chi non vi va non vi casca, e chi vi casca non si leva netto. Re. Chi ride il venere, piange la domenica. Bertoldo. Dispicca l'appiccato, egli appiccherà poi te. Re. Fra carne e unghia, nissun non vi pungia. Bertoldo. Chi è in difetto, è in sospetto. Re. La lingua non ha osso e fa rompere il dosso. Bertoldo. La verità vuol star di sopra. Re. Ancor del ver si tace qualche volta. Bertoldo. Non bisogna fare, chi non vuol che si dica. Re. Chi si veste di quel d'altri, presto si spoglia. Bertoldo. Meglio è dar la lana, che la pecora. Re. Peccato vecchio, penitenza nuova. Bertoldo. Pissa chiaro, indorme al medico. Re. Il menar delle mani dispiace fino ai pedocchi. Bertoldo. E il menar de' piedi dispiace a chi è tratto giù dalle forche. Re. Fra un poco tu sarai uno di quelli. Bertoldo. Inanzi orbo, che indovino. Re. Orsù, lasciamo andare le dispute da un lato. Olà, cavaliero di giustizia, e voi altri ministri, pigliate costui e menatelo or ora a impendere a un arbore, né si dia orecchie alle sue parole perché costui è un villano tristo e scelerato che ha il diavolo nell'ampolla e un giorno sarebbe buono per rovinare il mio stato. Su, presto, conducetelo via, né si tardi più. Bertoldo. Cosa fatta in fretta non fu mai buona. Re. Troppo grave è stato l'oltraggio che tu hai fatto alla Regina. Bertoldo. Chi ha manco ragione, grida più forte. Lasciami almeno dire il fatto mio. Re. Alle tre si fa cavallo e tu glien'hai fatte più di quattro, che gli sono state di troppo affronto. Va' pur via. Bertoldo. Per aver detto la verità ho da patir la morte? Read the full article
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Fila tutto liscio. Ho perso il filo del tuo discorso. Tutti i nodi vengono al pettine. Usiamo queste espressioni spesso però raramente facciamo caso all’argomento da cui derivano. Tessere e i tessuti sono state una delle prime attività umane sulla terra, probabilmente prima dell’agricoltura. Eppure poche volte, se non in ambiti prettamente specialistici che li riguardano, si pensa a che meraviglia sono i tessuti. Al modo da cui si ricavano. E spesso al fatto che la cultura, l’economia, la religione ruotano molto attorno ai tessuti. Basta pensare che usiamo “trama” per lo svolgimento di un racconto proprio perchè testo e tessuto hanno la stessa etimologia. Kassia St Clair ha scritto un delizioso volume che racconta 13 storie di tessuti, dai frammenti ritrovati nelle caverne della Georgia risalenti a 34500 anni fa alla lana verde della calzamaglia di Robin Hood, dal lino degli Egizi per la mummificazione al cotone dei jeans, dalla seta e i suoi misteri alle tute spaziali, fino ai costumi in poliuretano e alle nuove prospettive sull’uso della tela dei ragni. In ogni storia l’autrice sottolinea come almeno fino alla seconda rivoluzione industriale la produzione e il commercio dei tessuti sia stata di gran lunga l’attività più importante delle comunità umane (insieme alle guerra, a volte combattuta persino per il dominio delle rotte del commercio dei tessuti): basta solo pensare che la tratta degli schiavi africani nelle Americhe fu organizzata proprio per coltivare il cotone.
Questo delizioso volume chiude il mio 2019 di letture. Come sempre lascio la lista ai più curiosi e sono pronto a rispondere ad eventuali curiosità:
F. Benigno - Terrore e Terrorismo. Saggio storico sulla violenza politica;
G. Savatteri - Il delitto di Kolymbetra;
U. Eco - Baudolino;
Edward Wilson-Lee - Il catalogo dei Libri naufragati: il figlio di Colombo e la ricerca della biblioteca universale;
J. S. Mill - Saggio Sulla Libertà;
C. Soule - L’anno dell’Oracolo;
L. Penny - Case di Vetro. Le indagini del Commissario Gamache;
D. Adams - Guida Galattica per Autostoppisti: Trilogia più che completa in 5 parti;
O. Tokarczuk - I vagabondi;
C. Bordas - Come muoversi tra la folla;
D. Macculloch - Il silenzio nella storia del Cristianesimo;
A. Malraux - La condizione umana;
K. Daoud - Zabor o I Salmi;
G. Papi - Il censimento dei radical chic;
T. Bernard - Il soccombente;
M. Nousiainen - Alla radice;
P. Jaenada - Lo strano caso di Henri Girard;
V. Perrin - Cambiare l’acqua ai fiori;
G. Carofiglio - La versione di Fenoglio;
M. Malvaldi \ G. Ghammouri - Vento in scatola;
J. Cohen - Il libro dei numeri;
V. Despentes - Trilogia della città di Parigi - Vernon Subutex;
D. Buzzati - Il deserto dei Tartari;
K. St Clair - La Trama del Mondo.I tessuti che hanno fatto la storia.
Sono 24 titoli per 9380 pagine, un po’ meno dell’anno scorso, ma pensando alle cose che ho fatto quest’anno mi ritengo molto soddisfatto. Ho notato riprendendo i titoli che i migliori libri di prima pubblicazione di quest’anno sono di scrittori e scrittrici francesi e mi compiaccio che scelgo le novità, tramite le mie fonti, con ormai una certa sicurezza che siano interessanti. Il mio invito rimane continuare a divertirsi nel leggere:
Ho degli amici (i libri), la cui società è per me deliziosissima; sono uomini di tutti i paesi e di tutti i secoli; distinti in guerra, in pace e nelle lettere, facili a mantenersi, pronti sempre ai miei cenni, li chiamo e li congedo quando più mi aggrada… essi non van mai soggetti ad alcun capriccio , ma rispondono a tutte le mie domande. Francesco Petrarca
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Anncleire al Salone del Libro 2022
Sembra passato molto di più in realtà a malapena una settimana, dalla fine del Salone del Libro di Torino edizione 2022 e devo dire che non mi sarei mai immaginata che sarebbe stata così. Innanzitutto, non pensavo di essere ancora qui a scrivere sul blog e potermi ancora definire una book blogger (non che pensi davvero di esserlo a tutti gli effetti, ma dai ci provo) e poi perché insomma dopo due anni di pandemia non mi sono ancora riabituata a riprendere a pieno ritmo gli spazi un po' ristretti e sovraffollati come quelli del Lingotto in tempo di manifestazione.
Ma il Salone del Libro è sempre molto più di una fiera e riassume in pieno le mie speranze e le mie aspirazioni. Fin da ragazzina mi sono sempre circondata di libri e ho sempre visto da lontano il Salone come un evento culmine di tutto l'anno che invidiavo tantissimo. Quando ci ho messo piede per la prima volta nel 2016 non potevo credere alla mia fortuna. Da allora ho sempre fatto in modo di esserci. La meraviglia ha ceduto il passo alla consuetudine ma la magia per me non si è ancora consumata. Dal 19 al 23 maggio gli spazi del centro fiere di Lingotto a Torino si sono aperti per ospitare gli oltre 900 espositori tra Case Editrici e addetti ai lavori e hanno contato oltre 168.000 visitatori, che ha raggiunto il picco di partecipazione proprio sabato 21 maggio. La sensazione è sempre quella di ritrovare dei vecchi amici, anche quando gli spazi sono stati rivoluzionati.
Ancora memore dell'esperienza di ottobre ero piuttosto titubante. Per questo ho deciso di accompagnare la mia adorata Amaranth de La Bella e il Cavaliere in una toccata e fuga il giorno dell'apertura, alle 18, in un Salone ancora in sordina che però mi ha regalato momenti molto interessanti. Ho fatto i miei acquisti più importanti proprio il primo giorno da ABEditore che aveva delle nuove uscite veramente interessanti e ho potuto vagare indisturbata tra i veri stand respirando l'aria di gioia e carta che contraddistingue l'evento fieristico.
Ho anche potuto ammirare il Bosco degli Scrittori creato all'Oval dalla casa editrice Aboca Edizioni che conoscevo molto poco ma che offre nel suo catalogo un elenco molto lungo di saggi a tema natura, fossili, evoluzione, Terra. Ho lasciato il cuore su diversi titoli che spero di recuperare al più presto. Insomma, mi devo tenere in qualche modo.
Non contenta però sono tornata anche sabato. Purtroppo, la sensazione di annegare in mezzo alla gente è stata ahimè ancora presente, tant'è che sono uscita dagli spazi del centro fiere per ora di pranzo, ma devo ammettere che nonostante questa mia incapacità di riconciliarmi con la folla, vederci finalmente tornare a vivere eventi del genere è molto bello. Sabato però mi sono concessa il lusso di passare dagli amici di Safarà Editore, e di concedermi una lunga chiacchierata con Cristina che stimo immensamente e che è sempre così buona con me. Oltre ad aver acquistato ovviamente una delle loro ultime pubblicazioni che puntavo da un po' e che volevo assolutamente comprare direttamente da loro.
Da menzionare come sempre lo stand di Ippocampo che quest'anno si ispirava ad un padiglione giapponese, vista anche la loro collaborazione con Tenoha e tutte le loro pubblicazioni a tema e che merita sempre una puntata per lasciarsi incantare dai loro volumi.
Avevo puntato un libro molto bello da Add Editore, La Torre di Bae Myung-hoon, un libro di fantascienza di un autore coreano, dalla copertina sgargiante che mi ha subito catturata, ma sono contenta di sapere che l'autore passerà a Torino il 2 giugno in una presentazione alla Libreria Bodoni (una bellissima libreria del centro) a cui spero di riuscire a partecipare. Anche Il Saggiatore, un'altra delle case editrici di cui mi piace curiosare nel catalogo, aveva un sacco di nuovi titoli su cui avrei voluto mettere le mani sopra e che mi sono bloccata dallo svaligiare.
Interessantissima anche l'offerta de L'Orma Editore di cui volevo andare a sentire Annie Ernaux, ma che effettivamente non mi sono sentita di affrontare. Menzione anche per lo stand de 66thand2nd una casa editrice indipendente che mi piace molto e che mi ha molto incuriosito.
Come dicevo non ho partecipato a nessun evento anche se ce ne erano diversi che mi incuriosivano o mi interessavano perché effettivamente non sono stata in grado di gestire la folla e soprattutto volevo vivermi in tranquillità il weekend. Camminare tra gli stand, osservare tanti lettori uniti sotto lo stesso tetto in un costante scambio di arricchimento è forse la cosa che più mi rimarrà impressa anche di questa edizione del Salone.
Molti passi avanti sono stati fatti ma vivere il Salone è sempre una sfida, una prova di resistenza e fortitudine, soprattutto quando ci si avventura nei suoi spazi nel finesettimana. L’offerta di incontri e autori è sempre molto valida e offre la possibilità di incontrare e ascoltare panel degli argomenti più svariati appellandosi a tipi diversi di lettori. Per me resta sempre l’occasione di incontrare amici e curiosare nei cataloghi e porre domande imbarazzanti sulle prossime uscite. E incantarmi ogni volta davanti alle pagine scritte.
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Intervista ad Assunta Sànzari Panza
Assunta Panza Il poeta che andiamo ad intervistare è Assunta Sànzari Panza, nata a Castelvenere (BN) e residente in provincia di Avellino. Insegnante di scuola primaria, ha pubblicato testi poetici in «Fermenti» e in diversi siti letterarî. Assunta Panza, è membro della giuria del Premio Internazionale Prata, che si tiene nella Basilica Paleocristiana di Prata Principato Ultra e si articola in varie sezioni allo scopo di esaltare il mondo culturale, della comunicazione, della ricerca scientifica e dell’impegno civile e sociale. Come si è avvicinata alla poesia? Scrivere è sempre stato per me un bisogno primario, fin da bambina. Solo scrivendo riesco a capire le cose. Ho letto da qualche parte che, da un lato va affermando che “la forma è l’unica sostanza dell’arte”; dall’altro, che bisogna “sfondare il confine del verso”. A questo punto è lecito domandarle, che considerazione ha della ricerca poetica, della sperimentazione di nuove forme poetiche? Senza ricerca e sperimentazione perpetua non esiste poesia. La cui forma è sostanza se è vero, come è vero, che la parafrasi la distrugge. Riporto ancora una sua affermazione: «L’opera d’arte (in particolare la poesia) si compie, insomma, nell’interpretazione, in assenza della quale è completamente inerte». Può darci più nozioni? Il ruolo del lettore è determinante per il compimento dell’atto estetico. Si vorrà forse negare che ogni lettura scopra nuovi sensi? Ergo, l’opera resta muta se non viene accesa, vivificata dall’interprete. Se la poesia (o l’opera d’arte) si compie nell’interpretazione, che ruolo ha la critica? Un ruolo decisivo, come ho appena detto. Il critico è un superlettore che ha la capacità di scavare nell’opera per trarne significati inopinati, inauditi sovente anche per lo stesso artista. C’è stato qualcuno che deve ringraziare per averle dato, che so, dei consigli di come muoversi nel suo percorso artistico? Insomma, c’è un modello che ha seguito o che segue? Nessun modello. Sono un’accanita consumatrice di poesia da che ho memoria di me, ma ho sempre cercato di trovare la mia strada in maniera completamente autonoma. Devo molto a Gualberto Alvino, i cui consigli sono stati per me talmente preziosi da indurmi a modificare radicalmente la mia concezione della letteratura, come si evince dalla mia silloge poetica Lux. Nova et vetera, di imminente pubblicazione e prefata dallo stesso Alvino. La maggior parte di noi ha avuto come riferimento i propri genitori (tranne per quelli, sfortunatamente, che sono nati orfani, ovviamente), figure indispensabili per la nostra crescita. Quanto hanno contato (o continuano a contare) nella sua vita? I miei genitori hanno influito molto sulla mia crescita culturale. In particolare mio padre Antonio Panza, uomo di specchiata moralità e spiccato gusto estetico, per il quale la cultura rappresentava l’unico mezzo per affrontare le avversità della vita e, soprattutto, per risolvere ogni tipo di problematica personale e sociale. Essere stata figlia di un padre dedito alla politica, addirittura investito dalla carica di sindaco di una cittadina campana, le ha reso la vita più facile o conflittuale? Perché “facile” o perché “conflittuale? Né più facile né più conflittuale. Considero l’attività pubblica di mio padre (tuttora ricordato con rispetto dai nostri concittadini) una lezione di vita e di condotta morale. A proposito: qual è il suo rapporto con la politica, con l’ambiente, con i problemi di tutti i giorni? Ho svolto un’appassionata attività politica fino a qualche anno fa, quando mi resi conto degli scenari in cui versa una politica dilaniata e ormai priva di pathos. Seguendola anche su Facebook, riporto qui un suo post: «Non ti piacerebbe tornare indietro nel tempo e fare una passeggiata con tuo padre?». Quanto è stata importante per lei la figura paterna? La figura di mio padre è stata fondamentale nella mia vita. A distanza di 12 anni dalla sua scomparsa, lo ricordo ogni giorno con affetto e straziante nostalgia. Ci sono altri desiderî inespressi nella sua vita? Riuscire a condurre in porto i miei progetti letterari. Il nostro comune amico Gualberto Alvino afferma che la cultura non la dà la scuola. Siamo noi a costruircela. Perché la scuola è così sorda, così oziosa? Concordo con Alvino: la scuola non può offrire altro che input e spunti di ricerca; il resto spetta all’individuo. Che cos’è per lei l’amicizia? L’amicizia è importante perché può spesso avere una funzione salvifica. Ma, ahimè, è una delle cose più rare. Che cosa distingue l’uomo dal poeta? La capacità di ascoltare il rumore «dell’erba che cresce», come dice Ungaretti. Torniamo alla poesia. Cosa cerca nella poesia? Quali sono gli argomenti alla base dei suoi intenti? La poesia è per me uno strumento di conoscenza. Lavoro sul confine tra arte come artificio e vita vissuta. Tutto quel che scrivo scaturisce dall’esperienza: i dati concreti e reali sono ovviamente trasfigurati. La mia poesia è sempre immagine in movimento, governata da un ritmo spezzato e mai prevedibile. La sua scrittura segue delle linee o delle correnti culturali specifiche? Non direi. Ribadisco la mia tendenza a esplorare sempre nuovi territori espressivi: solo così è possibile comprendere la realtà che ci circonda. In letteratura si può incontrare l’amicizia, cioè fidarsi dei “colleghi”, o il poeta e lo scrittore sono destinati ad affrontare le problematiche in perenne solitudine? Non posso che sottoscrivere toto corde una massima di Antonio Pizzuto: «Ci si trova soli dinanzi alla scrittura, in perpetuo rischio ottativo». Un consiglio per i giovani che si apprestano ad entrare nel tortuoso mondo della scrittura creativa? Sono restia a dispensare consigli. Ma, visto che lei mi esorta a farlo, eccone uno: evitare il già detto, sia a livello tematico sia sul piano formale. Oggi il compito della poesia sembra un’autocelebrazione. Sembra che i poeti non abbiano più nemici da contrastare. Troppi poeti della domenica, o sempre le stesse facce (poche) alle presentazioni di libri o letture poetiche; troppe poesie tutte dello stesso tono. Insomma: sembra esplosa in piccoli clan, e non sempre collegati tra loro, neanche nella stessa città. Qual è la sua opinione in merito? Concordo con lei. Siamo circondati da pletore di impostori che spesso non distinguono un’assonanza da un rinoceronte. Per costoro l’attività “letteraria” non rappresenta altro che uno status symbol. Sembra che oggi la poesia non venga presa con la dovuta serietà, finendo per essere uno “spassatiempo”. Lei quanto prende sul serio la poesia? Reputo criminoso asserire che la poesia possa essere un passatempo. Per me è sempre stata un’attività irrinunciabile. Si sa che molti premi letterari, direi il 90%, sono costituiti ad personam, per amici e con una tassa di lettura per leggere qualche testo. Ha mai partecipato ad uno di essi e che opinione si è fatta, quale beneficio può arrecare un siffatto premio? Condivido il suo pessimismo: i premi letterari seri si contano sulle dita di una mano. Oggi, con la crisi dell’editoria, pubblicare un volume non è semplice: le grandi case editrici non ti filano se non sei legato alla politica o a risorse economiche; per di più le piccole (non tutte per fortuna) ti chiedono contributi economici, spesso esosi. Ha riscontrato difficoltà editoriali durante il suo percorso poetico? Fortunatamente non ancora, ma so bene quale sia l’andazzo. Le hanno mai chiesto denaro per pubblicare? No, mai. C’è qualche editore non a pagamento che consiglierebbe a chi si appresta a pubblicare e qualcuno da tenere alla larga, specie se a pagamento? Non mi sono mai occupata della questione. È risaputo che al giorno d’oggi si legge molto poco; gli autori, che siano poeti narratori o saggisti, a giusta ragione si lamentano di questa inedia. Ha mai cercato di dare una spiegazione a questo fenomeno? Si è sempre letto molto poco, soprattutto dall’avvento della civiltà dell’immagine. Ma ho molta fiducia nei giovani, alcuni dei quali ‒ mi consta personalmente ‒ fanno della lettura un vero e proprio lavoro. Se dovesse paragonare la sua poesia a un poeta famoso, a chi la paragonerebbe e perché? Quale affinità elettive ci trova con la sua poesia? Saba, Penna e Caproni per la mia prima stagione; Sanguineti e Amelia Rosselli per la seconda. Ma, ripeto, non si tratta di modelli. Quando si è accorta che poteva fare la poeta? Non c’è un momento preciso in cui ci si accorge di poter poetare: per quanto mi concerne, si tratta di un’inclinazione naturale, che ovviamente dev’essere coltivata giorno dopo giorno. Cosa pensa dei libri digitali? Possono competere con l’editoria tradizionale, cioè con quella cartacea e perché? Tutto il male possibile. La carta ha un fascino ineguagliabile. Trova difficoltà con l’ambiente letterario in cui vive e che rapporto ha con i suoi colleghi campani? Nessuna difficoltà: i miei rapporti con gli scrittori della mia terra, l’Irpinia, sono sempre stati improntati a cordialità e stima reciproca. Quando non si occupa di poesia, di cosa si occupa? Studio e cerco di svolgere al meglio la mia professione d’insegnante. La soddisfazione maggiore – se c’è stata – che ha raccolto nel mondo letterario? Pubblicare in riviste prestigiose come «Fermenti», «Steve», «Arenaria» e «Malacoda». E quella ancora da venire? Devo essere sincera? Vedermi recensita sulla Treccani. Ha una ricetta per far uscire la poesia dallo stato comatoso in cui versa? Insegnarla come si deve fin dalla scuola primaria. In conclusione: quali programmi ha in cantiere? Per ora sono totalmente concentrata sul mio libro, che uscirà tra breve per i tipi di Robin Editore. Read the full article
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Volano così i miei pensieri nell'ora di quanto era ieri, tra le nubi bianche dei sentieri e dei miei antichi misteri. Flettono i raggi sulle cuspidi bianche ed il vento danzante, muove uccelli stranieri lontani dai pensieri prigionieri. Volando perciò per ore mi perdo ed il sole, compie l'arco antico fino a quando delle ombre non inizia il pianto. Allora scendo giù dalle nubi rosate verso le case abbandonate, lontane da dove gli uomini passano le giornate. Le nuvole si allargano, mi fanno spazio ed io continuo a fluttuare preda dei miei ricordi, non ho la forza di muovermi, non riesco davvero a trovare un briciolo di energia. Attorno a me le nubi sovente assumono la forma di immense torri o montagne di fumo e sopra uno specchio di cielo azzurro, freddo e distante come è sempre stato. Ogni tanto incrocio il volo di qualche uccello, quando scendo sotto il livello delle nuvole e mi perdo in quel volare che continua per lunghe ore senza una meta precisa. Il sole intanto compie il suo arco ed i raggi che in un primo momento illuminano tutto chiaramente, divengono prima di un giallo chiaro e poi lentamente virano al rosa, tingendo le nuvole degli stessi colori. Mille e ancor milioni Pagina 60-61, in vendita su Amazon. Daniele Scopigno Foto di: Francesca Piccardi #milleeancormilioni #poesiaitaliana #libriconsigliati #libribelli #librimania #librisulibri #libridaleggere #librichepassione #leggere #lettureconsigliate #instalibri #letteraturaitaliana #scrittori #frasilibri #letture (presso Castello Di Rocchettine) https://www.instagram.com/p/CFEsnf3q1Jg/?igshid=1gkd3bd27cmnd
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Nicolai Lilin: "Attenti, l' obiettivo della Boldrini è eliminare la nostra cultura
Chiamatela educazione boldriniana. Guai a scrivere un post polemico contro la presidenta della Camera, guai a sostenere in modo provocatorio che sarebbe amica dei jihadisti, guai a dissentire dal suo pensiero filo-immigrazione indiscriminata. Subito si abbatte su di te la scure della repressione, fatta di chiamate per invitarti a moderare i toni e a cambiare linguaggio, di pressioni sul luogo di lavoro affinché non ripeta mai più prodezze simili o di insulti per darti dell’ ignorante e comunicarti che d’ ora in poi verrai boicottato ovunque tu parlerai, sempre che ti venga lasciata ancora libertà di parola. Lo scrittore italiano, di origini russe, Nicolai Lilin, autore del bestseller Educazione siberiana, è finito sulla graticola per aver postato su Twitter, all’ indomani della strage di Barcellona, un pesante j’ accuse contro la Boldrini: «Un’ altro nostro concittadino massacrato dai terroristi islamici, amici della Boldrini, sostenuti dalla sinistra italiana». Apriti cielo: offeso sui social, invitato a rimuovere il post, ha dovuto assistere a «sollecitazioni» da parte dell’ entourage della presidenta affinché d’ ora in poi sia più cauto nelle sue esternazioni.
Con il rischio non esplicitato, in caso di perseveranza, di non poter più continuare a parlare e pubblicare sui media e con le case editrici per le quali oggi lavora. Atteggiamenti che lo scrittore, ai nostri taccuini, non esita a definire «intimidatori e fascisti».
Lilin, per cominciare, ci spieghi il senso del suo tweet. «Quella frase rientra in una strategia provocatoria che sto mettendo in atto da tempo per richiamare l’ attenzione della Boldrini sulla strage di cittadini nel Donbass da parte dei nazisti ucraini, che la sinistra boldriniana non solo omette di raccontare ma addirittura sembra sostenere. Il mio riferimento era all’ incontro dello scorso giugno tra la presidente della Camera e il presidente della Rada, il Parlamento ucraino, Andriy Parubiy: parliamo di un conclamato nazista, impegnato nella feroce repressione di chiunque si opponga al governo golpista di Kiev. Ebbene, i nazisti ucraini, come comprovato da diversi documenti, agiscono in stretta collaborazione con i miliziani dell’ Isis. Sostenere gli uomini di Parubiy, come fa la Boldrini, significa stare anche dalla parte dei terroristi islamici. E questa è la conferma della solidarietà selettiva di cui la presidente è la principale interprete, quell’ ipocrisia ideologica che la porta a indignarsi giustamente per i bambini morti nel Mediterraneo ma a ignorare deliberatamente i bambini uccisi dai nazisti nel Donbass. In tal modo, e qua è il più grande paradosso, pur di attaccare Putin, la sinistra boldriniana diventa alleata del nazismo».
Era questo l’ unico significato del suo messaggio? «No, intendevo anche dire che la Boldrini e i suoi seguaci sostengono i ribelli siriani ostili ad Assad, che si sono dimostrati essere tutt’ altro che moderati, ma veri e propri radicalisti islamici. Da ultimo, mi riferivo al fatto che le sballate politiche sull’ immigrazione di questo Paese di cui la Boldrini è uno dei massimi rappresentanti - politiche che pretendono di cancellare la nostra cultura importando modelli retrogradi e delegano alle ong quello che dovrebbe essere compito esclusivo dello Stato - favoriscono la guerra tra poveri, la marginalità di chi arriva da noi, la mancata integrazione, che poi è il presupposto per l’ integralismo».
Dopo la pubblicazione del suo tweet, quali sono state le reazioni istituzionali? «Il portavoce della Boldrini ha chiamato Tgcom, per cui conduco il programma La versione di Lilin, sollevando un polverone e chiedendo spiegazioni sul perché avessi scritto quel tweet. Chiamare il luogo dove lavoro è un metodo fascista, perché preferisce le intimidazioni al chiarimento personale. Non solo: diversi scrittori hanno contattato la Einaudi, con cui pubblico i miei libri, e manifestato il loro dissenso contro di me, inducendo la casa editrice a mettermi in guardia e a essere più prudente nelle future esternazioni. Da ultimo, molti troll boldriniani si sono scatenati contro di me, insultandomi con toni razzisti in quanto russo che offenderebbe la nostra lingua, solo perché ho scritto “un’ altro” anziché “un altro”. È così la sinistra boldriniana: più attenta a un apostrofo che alle vite umane di chi viene ammazzato in Ucraina».
Ora quali conseguenze teme? Pensa verrà denunciato dalla Boldrini? «Che faccia pure. Sono stato ferito in guerra mentre combattevo contro i terroristi ceceni, figuriamoci se posso aver paura di una denuncia. Né posso temere chi su Twitter annuncia che mi boicotterà ai festival letterari. È anche questo un sintomo della cultura ai tempi della Boldrini: incapacità di distinguere tra letteratura e pensiero politico e tentativo di mettere a tacere tutte le voci di dissenso, bruciando simbolicamente i libri proibiti. L’ ennesima manifestazione di un metodo fascista».
di Gianluca Veneziani
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Un luogo milanese scomparso è il celebre e famigerato Bottonuto, il vecchio quartiere medievale a ridosso di piazza Duomo che ospitava un’umanità variegata e molto popolare, fatta di delinquenti, gente poco raccomandabile, reietti, prostitute, ladruncoli, emarginati, artisti decaduti, curiosi e ruffiani.
La gente frequentava il Bottonuto, (in particolar modo quelli della piazzetta, del vicolo del Bottonuto, del vicolo delle Quaglie e anche quello vicino di via Poslaghetto) ,per la grande varietà di bordelli , ad onor del vero qui si trovavano le case di tolleranza più scalcinate e squallide di Milano.
Si contendevano il premio per squallore e degrado, quelli di vicolo Vetraschi in zona Vetra, del casino all’isola Garibaldi e di quelli in vicolo Calusca a Porta Cicca.
Con la demolizione in seguito del quartiere scomparve anche questa ricca e pittoresca umanità tanto amata dagli scrittori.
Ma Milano pullulava più di ogni altra città d'Italia di bordelli.
Ce n'erano di squallidi, di classe e di un certo livello e poi c'erano anche i "casini proibiti", ovvero quelli dove si entrava solo tramite raccomandazione. E che storie venivan fuori da li, signori miei...
Quanti nomi illustri e personaggi famosi hanno visto passare quelle signorine, quante storie hanno poi raccontato all'alba di domani quando queste case chiusero definitivamente. Una di queste "signorine" morta proprio pochi anni fa, ha rivelato cose molto interessanti, fra cui addirittura una marchetta con Mussolini.
Il vero rimpianto urbanistico di Milano è il Bottonuto, l'antico quartiere medievale collocato tra piazza Duomo e via Larga, nella zona attuale di piazza Diaz e vie attigue. La zona, fino agli anni Trenta era occupata da strette vie, antiche botteghe e alberghi, alcune chiese e antichi resti. Certo, il luogo era descritto da tutti come malsano e mal frequentato – avevano sede i bordelli popolari della città –, ma si svolgeva la vera vita di Milano. Oggi, riqualificato, sarebbe con ogni probabilità uno dei quartieri più ricercati e suggestivi d'Europa. Una nota interessante: nel Bottonuto, in via Paolo da Canobbio, aveva sede "Il Popolo d'Italia", quotidiano fondato da Benito Mussolini. La sede divenne meta di pellegrinaggio delle scolaresche italiane nel corso del Ventennio.
La distruzione del quartiere – pittoresco e malfamato - prese il via all'inizio degli anni Trenta con il progetto che avrebbe poi portato a piazza Diaz e a una strada a scorrimento veloce, per realizzare la quale fu smantellata l'antica chiesa di San Giovanni in Conca. Le opere, lasciate a metà per decenni, vennero completate solo alla fine degli anni Cinquanta, modificando il progetto. Ma cosa resta del Bottonuto? Oltre al ricordo dei pochissimi bambini dell'epoca ancora in vita, una piccola porzione di case in via Paolo da Canobbio, il retro del grande albergo in piazza Diaz e, soprattutto, l'obelisco di San Glicerio. Il monumento votivo in granito era infatti posizionato all'interno dell'antico quartiere a ricordo di pestilenze. E' stato ricollocato in via della Marina, dove ora si trova.
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Nel centro di Stoccolma c’è una Casa della Cultura. All’ultimo piano della Casa della Cultura c’è un bar. Davanti al bar c’è un palco e proprio stasera su quel palco ci sono degli scrittori. Scrittori molto nervosi. Tutti hanno pubblicato quest’anno il loro primo libro e adesso è il momento del DEBUT BAR, il che significa che dovranno leggere ad alta voce dei brani tratti dalle loro opere. Incontrare il loro pubblico. Lettori tridimensionali, in carne e ossa, che possono ridere, sbadigliare, entusiasmarsi, fischiare, tirare uova o forse la cosa peggiore di tutte: mostrarsi francamente indifferenti alle parole che in qualche momento hanno significato così tanto per lo scrittore. Tutti i posti a sedere sono occupati, fa così caldo che si può disegnare sulla condensa alle finestre. In prima fila ci sono le mamme orgogliose, i fidanzati con costose macchine fotografiche, gli editori già ubriachi. In mezzo i comuni lettori. In fondo gli invidiosi pieni d’odio. Quelli che pensano che i veri scrittori dovrebbero starsene a casa a scrivere, invece di salire su un palco e crogiolarsi nell’ammirazione dei lettori. Io non sono uno degli scrittori sul palco. Non sono una delle mamme orgogliose. Sono uno degli invidiosi pieni d’odio. Alzo gli occhi al cielo alle metafore trite, ostento sbadigli alle lunghe descrizioni dei boschi. Odio quando qualcosa è brutto, ma odio ancora di più quando qualcosa è bello. Sono il lettore che più temo. Ho diciotto anni e scrivo da quando ho memoria. Ciò non significa che abbia imparato a scrivere particolarmente presto, ma soltanto che per tutta la vita ho avuto la sensazione di poter fissare davvero i miei ricordi solo quando li mettevo per iscritto. Ho cominciato a tenere un diario che avevo sette anni. Da allora non ho più potuto smettere. Ho scritto racconti d’amore, canzoni hip-hop, filastrocche natalizie, necrologi per supereroi e negli ultimi anni ho impiegato tutto il mio tempo a cercare di scrivere un romanzo. Un romanzo vero. Un romanzo che vorrei avesse su un potenziale lettore lo stesso effetto che Lindgren e Hinton, Faulkner e Duras, Kanafani e Cortazar, Nabokov e Nas hanno avuto su di me. Mi hanno allargato gli orizzonti. Mi hanno fatto capire che non sono solo, non sono rotto. O meglio, ovvio che sono rotto, ma un sacco di altre persone prima di me hanno provato qualcosa di simile o esattamente identico. L’unico problema è che nessuno sa che scrivo. Non i miei genitori, né i miei fratelli, né i miei amici. Sono terrorizzato all’idea di dirlo a qualcuno. Invece di mostrare i miei scritti a qualche editore vado al Debut Bar, mi siedo in fondo e borbotto qualcosa su quelli che osano. Perché non dico a nessuno che scrivo? Forse perché vengo da una famiglia in cui i libri avevano un’importanza vitale ma si riteneva un po’ presuntuoso credere di essere capaci di scrivere. Leggere libri andava da sé, ma scriverli? E poi cosa farai? Inventerai la macchina del tempo? Ti teletrasporterai in una nuova galassia? Cercherai di trasferire i pensieri da un cervello all’altro al di là del tempo e dello spazio con il solo aiuto di qualche scarabocchio nero su sfondo bianco? Ma fammi il piacere. È impossibile. Smettila di sognare. O forse non ho mai detto a nessuno che scrivevo perché frequentavo un liceo dove parlare di scrivere era considerato il massimo. Ragazzi che andavano in giro con baschi per niente ironici parlavano delle loro poesie ancora non scritte. Ragazze in sciarpe frangiate parlavano del loro progetto di scrivere un romanzo generazionale. Il professore di filosofia parlava del libro di testo che avrebbe presto scritto, in primavera, o magari in estate, o al più tardi il prossimo autunno. Tutti parlavano, parlavano e parlavano, ma sembrava che non scrivessero mai. Adesso ho quasi quarant’anni e comincio a sospettare che il vero motivo per cui non dicevo a nessuno che scrivevo era la preoccupazione di come lo sguardo degli altri avrebbe cambiato il mio rapporto con le parole. Perché quando scrivevo non c’era nessun occhio esterno a osservarmi. Nessun orecchio a sentire se sbagliavo a pronunciare il nome di un autore che avevo visto solo scritto. Nessuna bocca a sciorinare tutte le ragioni per cui avrei fallito. Nessun cervello a pensare che facevo per finta. Nessun indice puntato a prendermi in giro. O meglio. A pensarci bene, c’erano tutte queste cose. Sia nella scrittura che nella cosiddetta vita reale. Ma quando scrivevo avevo la capacità di influenzarle. C’era una libertà che la vita non mi dava. Quando la scrittura funzionava, mi trasformavo nelle parole. Il mio corpo diventava testo, le mie esperienze diventavano eterne e il vuoto che sentivo perché la vita era solo vita, un interminabile martedì con una pioggerellina incessante, la fila al bancomat, gli auricolari che ballano, la metro in ritardo, veniva sostituito dalla sensazione vertiginosa che la vita contenesse davvero qualcosa, che non fosse soltanto un guscio presto morto. Era una specie di magia. E la cosa folle era che fosse sempre a mia disposizione. Il testo non tradiva. Amici si trasferivano all’estero, famigliari sparivano, parenti morivano. Ma il testo rimaneva. Non aveva altre priorità. Non incolpava la politica o l’economia o le malattie per la sua assenza. E ogni volta che qualcuno se ne andava, potevo ricorrere ai miei ricordi e metterli per iscritto. Le parole mi davano un senso di stabilità in un mondo dove tutto scorreva via. Ero convinto che la libertà che provavo con la scrittura dipendesse dal fatto che nessuno mi vedeva. Per questo scrivevo in segreto. Per questo mi ripetevo che non avevo nessun bisogno di lettori. Per questo me ne stavo seduto in fondo al Debut Bar a odiare tutti quelli che avevano più coraggio di me. Poi incontrai una lettrice. Mi penetrò con lo sguardo. Non mi chiese se scrivevo. Mi chiese cosa scrivevo. Come fai a sapere che scrivo? le domandai. Lo so e basta, mi rispose. Ok, ammisi. Scrivo. Ma solo per me. Per il cassetto della scrivania. Chiese di potermi leggere. Dissi di no. Me lo chiese di nuovo. Dissi di no, ma stavolta esitai un attimo. La terza volta che me lo chiese mi arresi. Ed ebbi fortuna. Lei non era piena d’odio. Era un lettrice fantastica. Era paziente e benevola. Era tutto quello che io non ero quando mi sedevo nei posti in fondo al Debut Bar. Si immerse nei miei manoscritti mettendo una stellina dorata su quello che le piaceva e inventandosi una sua categoria per quello che le piaceva meno. La chiamò “TS”. Stava per “Troppo scrittore”. Cosa significa? le domandai. Quando trovi TS a margine, significa semplicemente che stai cercando un po’ troppo di fare lo scrittore, mi spiegò. Un modo gentile per dire: Questo è ridondante. Questo paragrafo non ha niente a che fare con la storia. Questo personaggio risulta piatto come una sagoma di cartone. E questa metafora, quando paragoni un personaggio piatto a una sagoma di cartone, è un po’ troppo scontata. E la cosa strana era che il testo non moriva per il fatto di avere un lettore. Scrivere non diventava noioso. Al contrario, la mia prima lettrice mi mostrò che sono i testi conservati sotto vuoto a morire. Mi fece capire che le parole hanno bisogno di altri occhi per crescere e diventare forti. Cinque anni dopo pubblicai il mio primo romanzo. Fui invitato al Debut Bar alla Casa della Cultura. Devo proprio? chiesi al mio editore di allora. Sarà divertente, disse lui. Ci sarò anch’io. In prima fila. Poi ci facciamo un bicchiere di vino. Salii sul palco e cominciai a leggere. Incespicavo. Mi sentivo a disagio. Ma non aveva importanza. Perché le parole lette ad alta voce sono per finta. Tutto ciò che filtra attraverso di noi è transitorio. Le Case della Cultura verranno demolite, gli autori moriranno. Ma il testo rimane.
Jonas Hassen Khemiri
Inedito letto nel corso della serata di premiazione del Premio Strega Europeo 2017 alla Basilica di Massenzio, in cui l'autore svedese racconta l'incontro con la sua prima casuale lettrice.
thanks to Iperborea Editore
http://iperborea.com/news/401/
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Conversazione con Gemma Carbone
Durante la sua residenza creativa al Teatro Dimora di Mondaino ho incontrato Gemma Carbone che - insieme al fotografo Samirluca Mostafa Aly che ci ha concesso le due immagini all’interno dell’intervista - mi ha raccontato l’ultimo progetto artistico della compagnia @naprawski Gul - uno sparo nel buio.
[Un-retouched preview by Samirluca Mostafa Aly]
Mi parli di Gul – uno sparo nel buio?
Il progetto è nato la scorsa estate e coniuga due elementi che a prima vista possono sembrare molto contrastanti ma credo che nello scontro di forme possa esserci qualcosa di interessante. Il primo elemento è il giallo, il poliziesco. Il secondo elemento è un dramma, un fatto reale, l’omicidio del premier svedese Olof Palme nel 1986. Questo omicidio è a tutti gli effetti un cold case: un assassinio violento avvenuto in centro a Stoccolma, un venerdì sera dopo il cinema, di cui non sappiamo niente; sappiamo tutto in realtà, abbiamo tutti i moventi, nessun alibi, però non siamo mai arrivati a una condanna o a una soluzione. È un enigma scandinavo, un thriller politico che rimane quasi cristallizzato in questo mistero che in Svezia è doloroso. Se chiedi a chiunque dove fosse e cosa facesse il 28 febbraio del 1986 quando sono iniziate a uscire le prime notizie dell’assassinio, tutti ricordano esattamente. È una specie di 11 settembre per il popolo svedese. Una frase che ricorre spesso in relazione a questo evento è che “in quel giorno abbiamo perso la nostra innocenza”. È detta da tutti, è stata scritta sui giornali, è una frase caratterizzante. In una società utopica perfetta come può essere quella svedese questo evento è un neo, un cancro, un rimorso, un rancore che non dovrebbe esserci stato. Invece c’è, c’è stato e ha avuto degli effetti non solo politici, non solo sociali ma risvolti storici incredibili di cui poche persone sanno.
Come è nato lo scontro con il genere?
Il fatto che ci sia una storia così tragicamente presente nella nostra contemporaneità, nella formazione dell’Europa, nella formazione di noi come cittadini, nell’idea che noi abbiamo della socialdemocrazia che è stata radicalmente condizionata dalla vita e dalla morte di Olof Palme ma nessuno di noi sappia niente, è strano. Quando sento parlare dell’omicidio di Palme mi sembra di sentire una di quelle saghe nordiche, una leggenda, qualcosa di “brutto”, non risolto e misterioso: un labirinto di buio. La domanda che mi sono posta è stata come fare entrare il pubblico in questo evento e come far passare attraverso questa la forma del giallo, del thriller scandinavo, qualcosa che veramente è successo. Viaggiare attraverso il giallo, il poliziesco, il gioco del genere, il gioco di una storia inventata, e a un certo punto svelare che questa non è una storia qualsiasi ma la Storia con la S maiuscola, la realtà. Questo contrasto mi ha accesa. Il giallo è un genere che se usato bene espone degli elementi sociali forti. Il modo in cui la vittima è uccisa, l’efferatezza del delitto, la colpevolezza, la condanna dell’assassino, il tipo di fobia che si crea intorno a questa cosa, ci parlano, se il giallo è scritto bene, del tipo di paura sociale che esiste nella realtà.
Come avete scelto la forma monologo?
Il giallo svedese è quasi sempre un esterno, la persona piccola immersa in un panorama immenso. È azione, sparatoria, è qualcuno che sta nell’ombra, è suspense, colpo di scena. Il monologo è stato da un punto di vista attorale e registico una sfida che ci siamo voluti prendere, un paletto che abbiamo scelto con la produzione. A un certo punto è stato chiaro che questa figura solitaria in scena traslasse dall’estetica del noir a un thriller più psicologico assolutamente compatibile con la poetica del giallo scandinavo. C’è questa figura solitaria che si barcamena in questo immenso paesaggio di personaggi e complotti, di passioni e politica, di spazi e paesi – si parla di Svezia ma in questo omicidio sono coinvolti tutti, dall’Iran al Sud Africa, dalla CIA all’Italia, etc. Questa diversa focale, questa lente che va al contrario, può dare una prospettiva scenica diversa. Nel monologo è una persona sola a essere la chiave dello svelamento e della memoria.
[Un-retouched preview by Samirluca Mostafa Aly]
Come compagnia avete prodotto un altro spettacolo, You Are Here (so don’t take things so seriously), dove lavoravate confrontandovi con un altro genere letterario, la fantascienza, Isaac Asimov. Dalla fantascienza passate ora al giallo due generi letterari considerati minori ma che riletti attraverso il teatro possono illuminare la grande Storia. Come avviene il cortocircuito?
Questa fa parte di uno degli indirizzi della mia ricerca artistica. Sono cresciuta con i romanzi di fantascienza. Asimov è stato uno dei miei autori di riferimento fin dagli anni della pubertà. Credo che in questi generi considerati minori si possa ritrovare una connessione più semplice e più immediata con il pubblico. Ognuno di noi ha letto un giallo, un romanzo di fantascienza, questi generi fanno parte della nostra vita, del tempo libero, dello svago. Sono generi riconoscibili e questo mi piace molto. Tirare fuori la nostra Storia è il lavoro che abbiamo fatto sul ciclo di sette romanzi di Asimov che parlano di una psicostoria umana del futuro. È una storiografia precisa di quello che avverrà tra ventimila anni ma tra le righe si parla chiaramente di quello che stava succedendo negli anni in cui Asimov scriveva – il mondo diviso tra mondo sovietico e occidentale, c’è Reagan e altri - e i lettori, il pubblico, lo riconoscono come parte della loro vita, della loro quotidianità. Ma con una maschera. Vale a dire: la realtà è mascherata attraverso un altro tipo di tempo, spazio e atmosfera, e così la prospettiva su quella storia, la tua, si sposta. Gli strumenti quotidiani che normalmente sei abituato a usare per osservare e giudicare non valgono più ma vale un’altra posizione, una posizione cosmica, più umana, più sana forse, perché pone una distanza. Oggi si ha la tendenza a perdere questo tipo di prospettiva, di visione, siamo sempre immersi nell’azione, nel fatto, nell’informazione, nell’identità. L’astrazione che danno questi due generi è interessante perché traslano la prospettiva in maniera ironica e, credo, diano strumenti più ricchi, divertiti, per poter essere consapevoli. Lavorando con le tragedie greche, il ruolo del coro - in qualche maniera – torna anche qui. Certo, anche se molto trasformato. Ci sono dei momenti di confronto diretto tra quello che avviene in scena e te che stai a guardare, c’è la parabasi. Insomma, il teatro avviene anche nella fantascienza o nel giallo perché colui (o colei) che sta in scena ha il “ruolo” e la responsabilità di comunicarti una data cosa. L’ascolto che si innesca non è passivo ma è creativo.
Come avete scelto Giancarlo de Cataldo per la scrittura del giallo?
È una storia di incastri felici. Ero ad Atene dove stavo lavorando e nel ragionare anzitempo a Gul e a questo mondo del giallo ho iniziato a pensare a chi proporne la scrittura. Ho scartato il mondo svedese e, confrontandomi anche con Cantieri Teatrali Koreja che produce il lavoro, ho deciso che fosse più interessante capire come un non svedese potesse trattare il fatto. Ho contattato Marina Fabbri, presidentessa del Premio Raymond Chandler e co-direttore del Festival Noir a Milano, le ho confusamente raccontato quello che avevo in testa. Mi ha suggerito tre scrittori italiani. Il primo nome è stato Giancarlo de Cataldo. Lui aveva già collaborato con Cantieri Teatrali Koreja per Acido Fenico qualche anno fa. L’ho contattato, ci siano incontrati e nell’incontro sono già fiorite idee per il testo, per il personaggio.
Come avete lavorato alla scrittura del personaggio?
Con Giancarlo de Cataldo abbiamo instaurato una collaborazione di scrittura forte: è stato un processo aperto e ci siamo scambiati i testi tra me, De Cataldo e i miei assistenti - Giulia Maria Falzea e Riccardo Festa - e insieme abbiamo composto questo testo. I vari personaggi sono stati caratterizzati seguendo un processo aperto. Per esempio ad un certo punto, mentre lavoravo sul personaggio principale ho detto a Giancarlo che non riuscivo a trovare più il giallo e se c’è un personaggio che deve portare questo è proprio lei, la poliziotta. Come la stavo costruendo non funzionava forse mancavano termini tecnici. Lui mi rimanda una scrittura perfetta di quello che avevo cercato di proporre: c’è un paragrafo in cui lei spiega precisamente come funziona il colpo della pistola che cambia tutta la scena. Era perfetto. Giancarlo respira il genere e ha un modo di far venire fuori l’atmosfera che è eccezionale. Davvero esaltante poter imparare da lui.
Che tipo di lavoro si è sviluppato durante questa residenza a Mondaino?
Questa seconda tappa di residenza è molto importante. È il primo confronto vero e proprio con la stesura definitiva del testo. Ora iniziano le difficoltà. Se con Asimov c’erano sette testi pronti e fatti qui c’è stata anche la testimonianza partecipata a un processo di scrittura, cosa che non avevo mai fatto. All’inizio del percorso mi sono resa conto di avere una posizione schizofrenica: quando ci mettevamo a scrivere io già pensavo a una visione registica ed era totalmente confusionario. In seguito ho dovuto abbandonare quel tipo di sguardo per scrivere. L’Arboreto è stato l’incontro con questo testo e quindi abbiamo fatto un lavoro di analisi, di destrutturazione e ristrutturazione per capire come rendere in teatro quel tipo di suspense e di atmosfera tipica del giallo. Stiamo esplorando il testo, stiamo giocando con gli elementi del giallo svedese e stiamo immaginando lo spazio scenico e gli strumenti che userà il personaggio in scena. Siamo in filo diretto con la musicista Harriett Ohlsson, un’artista svedese che sta curando l’impianto sonoro e musicale.
Tu lavori molto all’estero. Ci sono molte differenze tra la scena estera e quella italiana?
Si.
*Nella residenza #Gul - uno sparo nel buio
#residenza creativa#gemma carbone#gul - uno sparo nel buio#giallo#olof palme#teatro dimora l'arboreto#residenza idra#svezia#giancarlo de cataldo#armunia
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Ciao, sono una ragazza di sedici anni innamorata della lettura e della scrittura. Ho scritto un libro (che ho perso perché mi si è rotto il computer) e ne sto scrivendo un altro, purtroppo in pausa da troppo tempo. Sono molto inesperta però riguardo questo mondo e quindi volevo farti una domanda: come avviene tutto il processo di pubblicazione di un romanzo? Sia che si decida di affidarsi ad una casa editrice, sia che lo si faccia da soli, come funziona? (Continua...)
Ciao! Mi dispiace moltissimo per il libro che hai perso!Anch’io ho rischiato che mi accadesse un paio di volte, perciò capiscoperfettamente come ti senti. (A questo proposito ti consiglio di provareDropbox: è un programma che scarichi sul computer dopo esserti registrata sulsito. Questo programma crea una cartella in cui puoi mettere tutti i tuoi file.La cartella salva automaticamente e in modo sicuro tutte le modifiche apportatea quei file su internet così che, se dovesse rompersi il computer, ti basteràscaricare Dropbox sul tuo computer nuovo per riavere i file. Io lo faccio contutti i miei libri.)
Ma veniamo a noi… La pubblicazione di un libro ha più o menoqueste fasi:
1) Scrivi un libro
2) Editi il libro, il che non significa soltantocorreggere gli errori ortografici e grammaticali, ma aggiustare la trama dovenon funziona, rafforzare i personaggi, migliorare lo stile, possibilmente farloleggere ad altre persone, i cosiddetti beta reader (meglio se non sono amici ofamiliari) e apportare le opportune modifiche sulla base dei loro commenti… Sipotrebbe scrivere un’enciclopedia al riguardo, ma forse è meglio parlarne un’altravolta, dato che non credo che la tua domanda fosse questa. In ogni caso sitratta di un processo molto lungo e impegnativo, potresti anche ritrovarti ariscrivere il libro per intero, ma è fondamentale per le fasi successive
3) Decidi se pubblicare con una casa editrice (vedilettera A), se cercare un agente letterario (vedi lettera B) o autopubblicarecome un’autrice indipendente (vedi lettera C)
A: Pubblicare con una casa editrice
4a) Una volta che avrai reso il tuo libro il più pulito e ilpiù bello possibile (vedi fase 2), puoi cominciare a fare una ricerca perindividuare le case editrici che possono interessarti. In questa fase ticonsiglio di pensare al genere del tuo libro (non ha senso proporre un fantasya una casa editrice che pubblica solo saggi o poesia, ti fa solo perdere tempoe fare una brutta figura). Per capire di cosa si occupa una casa editrice, tibasta dare una rapida occhiata al suo sito. Se ti serve aiuto, puoi consultarequesto sito, che offre un elenco di tutte le case editrici italiane filtrabileper genere: http://www.danaelibri.it/rifugio/agenda/caseeditrici.asp
5a) Dopo aver fatto una rosa delle case editrici da prenderein considerazione, ti consiglio di fare un salto in libreria, tanto perverificare se i loro libri raggiungano effettivamente le librerie. Alcune caseeditrici infatti vendono soltanto attraverso il proprio sito, perciò si trattadi un aspetto da tenere in considerazione. Inoltre fai anche attenzione perchéalcune case editrici pubblicano solo ebook: se vuoi che il tuo libro siadisponibile anche in formato cartaceo, non prenderle in considerazione.
6a) A questo punto è arrivato il momento di inviare il tuolibro alle case editrici che hai selezionato. La prima cosa da verificare è sein quel momento accettano o meno materiale non richiesto. Se non lo accettano,non perdere tempo ad inviarlo lo stesso. Valuta se è il caso di aspettare o diprovare con un’altra casa editrice (oppure considera la possibilità di cercareun agente (vedi lettera B). Se lo accettano, controlla attentamente sui lorositi le modalità in cui richiedono l’invio (di solito lo trovi nella sezione “Inviomanoscritti” oppure nella pagina dei contatti). Infatti potrebbero volere illibro per intero o soltanto una parte, potrebbero volerlo ricevere via email ovia posta, oppure potrebbero volere anche altri materiali tipo curriculum osinossi. In ogni caso, rispetta alla lettera queste istruzioni: non farlopotrebbe compromettere l’intero processo e il tuo libro potrebbe esserescartato prima ancora di essere letto.
7a) Invia il tuo libro nelle modalità richieste e assicuratidi allegare anche i tuoi recapiti. Non dare l’indirizzo email sfigato che usiper iscriverti ai social network che ti bombardano di notifiche. Dai un’indirizzoemail che sei sicura di controllare con regolarità. Tieni comunque presente chedi solito i tempi di lettura vanno dai tre ai sei mesi (puoi controllare questodato sempre sul sito della casa editrice). Alcune case editrici non risponderannomai, ma sei hai seguito bene le loro istruzioni non dovrai temere che il tuolibro non venga letto.
8a) Se una casa editrice è interessata a pubblicare il tuolibro, ti contatterà e ti farà una proposta editoriale. A questo puntodiffiderei di case editrici che ti chiedono dei soldi o di acquistare unaquantità spropositata di copie: di solito non dimostra serietà. Leggi bene ilcontratto e assicurati che la casa editrice ti offra dei lavori di editing,promozione e distribuzione. Se una casa editrice non ti offre questo genere diservizi, tanto vale pubblicare da sola.
9a) A questo punto la casa editrice dovrebbe affidarti uneditor. Il compito dell’editor è quello di rendere il tuo libro ancoramigliore. Non temere che possa rovinare il tuo libro, perché ricorda che l’editor,lavorando per la casa editrice, ha tutto l’interesse che il tuo libro abbiasuccesso e mantenga alto il livello di qualità del loro catalogo. Resta ilfatto che il dialogo tra editor e autore dovrebbe essere rispettoso e costante.
10a) Questo potrebbe richiedere molto tempo (anche anni!) maalla fine la casa editrice fisserà una data di uscita, darà al tuo libro unacopertina e gli farà vedere la luce.
B: Cercare un agente letterario (purtroppo su questoargomento sono ancora poco ferrata: ecco comunque un po’ di consigli)
4b) Potresti sentire il bisogno di affidare il tuo libro auna persona che faccia il lavoro di cui sopra al posto tuo. È qui che entra ingioco l’agente letterario. L’agente ti aiuterebbe a trovare una casa editriceadatta per il tuo libro, aprendoti anche alcune porte che altrimentiresterebbero chiuse (vedi le case editrici che non accettano materiale nonrichiesto di cui parlavo prima). Il processo è simile a quello di ricerca diuna casa editrice, soltanto che invece di cercare case editrici che facciano alcaso tuo, cercherai agenzie letterarie.
5b) Prima di scegliere un’agenzia letteraria, dai un’occhiataagli autori che già rappresenta, alle case editrici che di solito li pubblicanoe così via… Potrai avere un’idea del tipo di sbocchi che potrebbe offrirti.
6b) Anche qui è di fondamentale importanza rispettare allalettera le modalità di invio richieste, altrimenti il tuo libro potrebbe nonessere letto.
7b) Le agenzie letterarie spesso si fanno pagare per effetturareuna valutazione del manoscritto: considera se si tratta di un servizio che puòinteressarti. Altrimenti, se possibile, cerca di puntare soltanto allarappresentanza.
8b) Se riuscirai ad avere un agente, sarà lui a cercare unacasa editrice per te, ad occuparsi della contrattualistica e di tutti gliaspetti tecnici. Di questo non sono certa, ma credo che non saresti tu apagarlo direttamente, ma invece otterrebbe una percentuale sul tuo eventuale compensoda parte della casa editrice. Per questo motivo dovresti fidarti del fatto checercherà di farti avere il miglior trattamento possibile.
C: Autopubblicare come autrice indipendente
4c) Per quanto tu possa aver migliorato il tuo libro durantela fase di editing, è il caso di prendere seriamente in considerazione l’ideadi un editor professionista. Dovrai pagare un po’, ma credo che ne valga lapena per dare al tuo libro l’aspetto più professionale possibile. Cerca suinternet editor freelance e selezionane uno che faccia al caso tuo.
5c) Allo stesso modo ti suggerirei di ingaggiare un grafico professionistaper creare una bella copertina per il tuo libro. Si dice che un libro non sigiudica dalla copertina, ma probabilmente neanche tu compreresti un libro dicui non hai mai sentito parlare se ha una copertina di pessima qualità. Il tuoobiettivo è quello di far sembrare il tuo libro come quello di una casaeditrice, perché in questo caso tu sei la tua casa editrice, quindi investiresu una bella copertina è un’ottima idea. Non sottovalutare nemmeno laformattazione dell’interno del tuo libro, che dovrebbe apparire il piùprofessionale possibile (eventualmente affida anche questo lavoro a ungrafico).
6c) Una volta che avrai un libro impeccabile, è il momentodi selezionare la piattaforma a cui vorrai affidarti. Io ti consiglio Amazonsia per il cartaceo che per l’ebook. Vai sul sito di Amazon: in fondo, nella partecon lo sfondo grigio, sotto la scritta “Guadagna con Amazon” trovi la voce “Pubblicacon noi da indipendente”. Cliccandoci sopra ti porterà su un altro sito su cui,seguendo le istruzioni, potrai registrarti, caricare il tuo libro e venderlosia in formato ebook che in cartaceo direttamente su Amazon, scegliendo ilprezzo di copertina, la data di uscita e tutto il resto.
7c) Non dovrai preoccuparti che in questo modo qualcunopossa “rubare il tuo libro”. Il diritto d’autore copre un’opera nel momentostesso in cui viene creata. Attraverso la pubblicazione su Amazon, avrai laprova tangibile che il libro che hai scritto è tuo ed esiste a una certa data,mettendoti al riparo da qualsiasi possibile tentativo di plagio.
Questo è più o meno tutto. Per quest’ultima opzione è moltoimportante che tu porti avanti come autrice un piano di marketing (anche seresta un aspetto fondamentale anche per gli scrittori pubblicati con una casaeditrice) non solo per far sapere alle persone che hai scritto un libro, maanche per far sì che alle persone interessi leggere il tuo libro, ma questo èun altro discorso che se vorrai potremo affrontare in un altro momento. Credodi essermi dilungata anche troppo! ^.^”
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Raccontare della Normandia non è facile e non perché ci sia poco da dire anzi è esattamente il contrario.
“La culla dell’impressionismo, con affaccio sulla Manica, è un luogo bellissimo già al primo approccio. La Normandia, sconosciuta a molti, in realtà è un luogo per tutti! Per gli intellettuali e amanti dell’arte in quanto patria e buen retiro di un numero indefinito di pittori impressionisti e di scrittori, mi vengono in mente Proust, Guy de Moupassant, Gustave Flaubert, Dumas. Per i buongustai è terra di perdizione tra calvados, ostriche e strepitosi formaggi. Per gli appassionati di storia è il luogo dello sbarco più famoso della storia ma è anche la terra che ha portato al rogo Giovanna d’Arco. Per i romantici è il posto ideale grazie al meraviglioso paesaggio tra mare, natura e borghi caratteristici, con una costa ricca di località balneari e paesaggi bucolici che ti resteranno nello sguardo molto a lungo.”
Già da un po’ volevo raccontare del viaggio in Normandia, una vacanza di dieci giorni che mi ha fatto scoprire una regione davvero fantastica, della quale mi sono perdutamente innamorata al primo sguardo. Attraverso quest’articolo non voglio raccontarvi cosa vedere in Normandia, per quello esistono le guide e, appunto, non basterebbe un libro, ma voglio raccontarvi la mia esperienza, il mio tragitto, i miei luoghi, qualche aneddoto e qualche dettaglio senza scendere troppo nella descrizione con il fine di incuriosirvi e di trasmettervi la voglia di acquistare un biglietto aereo, noleggiare un’auto e di farvi andare alla scoperta di un luogo meraviglioso. La Normandia. E quindi cominciamo!
GIORNO UNO
Partiamo da Treviso attorno alle 10.45 e arriviamo all’aeroporto di Beauvais, ottanta chilometri a nord di Parigi, verso mezzogiorno. Sicuramente l’aeroporto d’atterraggio delle compagnie low cost migliore per arrivare in Normandia. Volo A/R per due, dal 18 al 28 agosto, 140,00 euro. Per prima cosa andiamo a ritirare la vettura al noleggio Thrifty, che fa parte del gruppo Hertz, dove ci consegnano una bellissima Fiat 500 rosso fiammante. Costo del noleggio con polizza assicurativa e doppio conducente euro 240,00.
E via destinazione Dieppe (Regione Senna Marittima) per la prima notte, lungo il tragitto ci fermiamo in una boulangerie per la prima baguette farcita della vacanza. Ci fermiamo a mangiare seduti in una panchina della piazzetta del paesino. Arriviamo a Dieppe (Alta Normandia) verso le 15.00 e ci rechiamo subito in albergo, prenotato da casa, come tutti gli alberghi di questa vacanza, anche se in corso d’opera ne ho cambiato qualcuno. Dopo qualche indecisione ho prenotato un Kyriad, una catena che non conoscevo, com’è ovvio si trova ai margini della cittadina di Dieppe e dispone di parcheggio, le foto mostravano camere nuove e di design, il giudizio “ottimo” degli utenti di Booking.com e il prezzo contenuto ed è fatta… Peccato per la pulizia, davvero carente, anche per la Francia. Costo del pernottamento meno di 60,00 euro… Ho voluto risparmiare troppo!? Ben mi sta? No! Sulla base degli altri alberghi prenotati in questa vacanza. Leggete e capirete cosa intendo.
Dieppe
Direi che Dieppe forse si può pure saltare, dato che c’è tanto da vedere in Normandia, ma in realtà Dieppe è la partenza ideale per vedere meravigliosi villaggi marinari della Costa d’Alabastro, il tratto di litorale con affaccio sulla Manica che si estende per 130 chilometri, da Le Tréport a Le Havre e che segna uno lo spettacolare confine tra il mare e la terra. Dopo la doccia, di nuovo a bordo della Fiat 500 e via alla volta di Eu e Le Trèport, una trentina di chilometri a nord di Dieppe, l’inizio della Casta d’Alabastro.
Eu e Le Trèport
Sono situate sulla Valle della Bresle, sono le tappe finali della Côte d’Alabâtre arrivando da Ovest, due luoghi dove il profumo della terra abbraccia quello del mare. Eu si trova a ridosso di un magnifico bosco teatro di luci e leggende. Seconda solo a Rouen quanto a patrimonio immobiliare in Normandia, è una città gallo-romana che assunse importanza grazie all’abbazia benedettina e perché fu la frontiera settentrionale dell’antico ducato di Normandia. Tralasciamo Eu quasi subito perché a incuriosirci è Le Tréport, luogo di villeggiatura, particolarmente in voga durante il XIX secolo con la moda dei bagni di mare della Belle-Epoque, costellata da ville multicolore e animata dal porto. Le Tréport deve la sua fama alle sorprendenti falesie e alla funicolare… Già perché l’ingresso in città grazie alla funicolare gratuita è qualcosa di spettacolare. Quindi lasciata l’auto nel parcheggio in cima alla falesia non ci resta che salire a bordo della cabina azzurra e premere discesa. Partire dal culmine della falesia, attraversare la roccia e ritrovarsi sopra i tetti in ardesia è veramente un’esperienza particolare. La vista del caratteristico e suggestivo porto incastonato sulla punta settentrionale della Normandia lascia a bocca aperta. Dal quartiere dei Cordiers – deve il suo nome ai pescatori che abitavano originariamente questo villaggio i quali, troppo poveri per acquistare delle reti da pesca, pescavano con corde munite di amo – incominciamo la nostra visita…
Ceniamo a Dieppe, nella zona centrale che è poi quella del porto, c’è bassa marea e le imbarcazioni ormeggiate sono sprofondate, sono sempre a galla ma si sono abbassate di molto rispetto le mura di cinta del porto, porto commerciale e punto strategico sulla Manica. Dieppe vanta un aspetto abbastanza moderno, anche perché durante la seconda guerra mondiale fu bombardata per ben 48 volte e quasi interamente distrutta.
GIORNO DUE
Prima di ripartire in direzione Deauville, facciamo un giro nella zona del lungo mare dove sono esposti, veicoli, cimeli e reperti vari risalenti alla seconda guerra mondiale. Proseguiamo poi verso il castello di Miromesnil si trova a Tourville-sur-Arques, a 8 km da Dieppe. Il castello oltre a custodire al suo interno boiseries e mobili dei se-coli XVI e XVIII, custodisce cimeli e ricordi delle famiglie che lo abitarono, tra le quali quelli della famiglia dello scrittore Guy de Maupassant, che vi nacque il 5 agosto 1850 nel periodo in cui i suoi genitori lo ebbero in affitto (dal 1849 al 1853). Sono, tra l’altro, conservate alcune edizioni originali dei suoi romanzi. Proseguiamo. Le tappe che ci aspettano prima di arrivare a Deauville, dove ho prenotato per la notte, sono molte. Percorriamo una strada fiancheggiata a tratti da fitta vegetazione, a tratti da campi con mucche al pascolo o cavalli, tanti cavalli. I continui crocevia che incontriamo lungo il percorso conducono a paesini caratteristici, c’è l’imbarazzo della scelta su quale strada decidere di imboccare. Sarebbe bello avere molto tempo a disposizione e visitare ogni singola località perché, per un motivo o per l’altro, tutte meritano una visita. E allora imbocchiamole queste stradine, e arriviamo a:
Varengeville-sur-Mer
Un luogo tra i più seducenti della Costa d’Alabastro. Il villaggio colpisce perché ricco di curatissimi giardini che contornano le meravigliose abitazioni ai margini della stradina che conduce alla chiesa. Arrivati alla fine della pittoresca stradina, troviamo la bellissima chiesetta di Saint-Valéry che, con il suo cimitero marino, sono sospesi sul pendio della falesia, ottanta metri sopra il livello del mare. Uno spettacolo! All’interno della chiesa, alla destra dell’altare, c’è la vetrata realizzata da Georges Braque, la cui luce illumina il coro. Varengeville è il luogo che ha ispirato l’artista espressionista e cubista, e dove riposa; rimase stregato da questo villaggio tanto da costruirci casa e venire a passarci sei mesi l’anno per ben 35 anni.
Veules-les-Roses
Pittoresco borgo da sempre abitato da pescatori e tessitori, adagiato nell’incavo della scogliera è uno dei più antichi villaggi del Pays de Caux nonché uno dei “più bei villaggi di Francia” e, in effetti, ha un fascino particolare! Molto apprezzato come luogo di villeggiatura nel XIX secolo, anche da artisti come Victor Hugo. Un angolo di Francia che trasuda di romanticismo. La zona nei dintorni del fiume, il più piccolo di Francia, merita una passeggiata mano nella mano e tanti scatti. L’acqua blu cangiante e la sabbia finissima rendono il suo lungo mare un altro luogo ideale dove fare passeggiate romantiche.
Saint-Valley-en-Caux
La fame ci ha condotto a Saint-Valley-en-Caux, un luogo dove tutto ruota attorno all’incantevole porticciolo e che conserva in pieno il fascino ruvido dei posti di mare. Ed è proprio nei pressi del porto che ci rechiamo, dopo aver acquistato in un banchetto due birre medie e due porzioni di Moules frites, le cozze alla marinara con patate fritte, un altro piatto tipico della Normandia, ci accomodiamo in un tavolo comune posto nel molo da dove possiamo ammirare un vecchio veliero.
Saint-Pierre-En-Port
Un minuscolo villaggio di nemmeno mille anime dal fascino inestimabile. La spiaggia è deserta, siamo i soli a calpestare il suolo di ciotoli bianchi e anche qui il nostro contorno è natura e vertiginose scogliere.
Fécamp
Cominciamo attraversando il lungo pontile che conduce al faro, dove la vista sulle falesie, tra le più alte della Normandia, è fantastica e privilegiata. Continuiamo con una visita alle case dei pescatori lungo il porto, Fécamp è il primo porto francese per la pesca del merluzzo. Quella che fino al 1204 è stata la residenza dei Duchi di Normandia, oggi è una città d’Arte e di Storia. Concludiamo con una visita al Palais Bénédictine, dove viene prodotto l’omonimo liquore, il profumo di piante e spezie che servono per il famoso liquore si respira nell’aria.
Yport
Non possiamo non dedicare una mezz’oretta a questo minuscolo villaggio di pescatori che ha accolto numerosi personaggi celebri come Dieterle, Maupassant, Gide, Laurens o Boudin. Nota località di villeggiatura in passato grazie all’architettura balneare eclettica che strizza l’occhio all’Art nouveau e allo stile neo-normanno.
Étretat
La nostra ultima tappa nella Costa d’Alabasto è la celeberrima e magnifica Étretat, ora luogo turistico a tutti gli effetti sempre molto suggestivo, un tempo meraviglioso villaggio di pescatori, incastonato fra le due falesie più note della costa, alle quali deve la propria fama: la Falaise d’Aval e la Falaise d’Amont. Ci dirigiamo verso la spiaggia. Sul posto scopro che non sempre è possibile visitare la base delle falesie, lo decide la marea, consultiamo l’apposita tabella che ci rivela che la marea è favorevole, si è ritirata da un po’ e prima di qualche ora non dovrebbe risalire. Ci incamminiamo lungo il sentiero escursionistico che conduce alla Falesia d’Aval.
“Da questo punto posiamo ammirare l’Arco della Manneporte. La gigantesca volta naturale creatasi da una propaggine della scogliera, che Guy de Maupassant descrisse come un elefante che beve nel mare, fa restare a bocca aperta. Qualche anno fa, al Musée d’Orsay di Parigi, ho potuto ammirare il quadro, ora che lo vedo dal vivo mi è più facile capire perché Monet trascorse un intero inverno a immortalarlo in ogni condizione atmosferica. Prendiamo una scalinata che parte dalla battigia. Duecentocinquanta scalini più tardi, raggiungiamo la cima della Falaise d’Amont e da alcune sporgenze rocciose riusciamo ad ammirare il panorama dall’alto e, a parte la sensazione di vertigine, la vista è mozzafiato! La costa, le dune, le distese verdeggianti, lo splendido mare che sfuma in un cielo ammantato di soffici nuvole bianche e queste opere naturali di calcare e gesso, in alcuni punti rossastre in altri bianche o addirittura dorate che viste da vicino esprimono tutta la loro fragilità, sono una dimostrazione di quanto straordinaria sia la natura.”
Tra gli altri personaggi che furono ospiti di Étretat: gli scrittori Hugo e Flaubert, il compositore Offenbach e i pittori Coubert e Boudin. Anche Maurice Leblanc, l’inventore del famoso ladro gentiluomo Arsène (Arsenio) Lupin, giornalista normanno, nato a Rouen, fece soggiornare il protagonista dei suoi romanzi qui, a Étretat. La nipote dello scrittore ha allestito nella casa di famiglia: le Clos Arsène Lupin, dedicato all’universo enigmatico del nonno.
D’obbligo la visita a Les Jardins d’Étretat che si affacciano sulla Falaise d’Aval, voluti da Madame Thébault, attrice degli inizi del XX secolo, amica di Monet e, appunto, iniziatrice del giardino. Il giardino è stato disegnato da Alexandre Grivko che vanta un primato da record per la progettazione di oltre 500 giardini e lo sviluppo di 100 progetti pubblici e privati su larga scala.
Non ci fermiamo a Le Havre perché è già tardi, dobbiamo arrivare a Deauville, dove ci fermeremo per le prossime due notti, ho prenotato una Chambre d’hôte. La zona è la più cara di tutte quelle che visiteremo e spuntare un prezzo decente in agosto non è stato facile.
Dopo aver fatto check in e doccia, dato che oramai è sera ci rechiamo nella zona centrale di Deauville a fare due passi e cercare un posto per cenare, io sono partita da casa con l’idea, tra le altre, di mangiare la sole meuniere e stasera potrei riuscirci. Come spesso accade in Francia, a pranzo ci siamo sfamati con la baguette farcita e la sera ci concediamo un bel ristorante dove abbiamo mangiato antipasto e secondo di pesce e un’ottima bottiglia di vino. E poi a letto, presto.
GIORNO TRE
Lascio Alan a letto, a sfebbrare con due tachipirina, e vado alla scoperta della zona, siamo io e la Fivehundred. Parto verso Honfleur, che muoio dalla voglia di vedere. Dista 13 chilometri da Deauville. Scelgo casualmente un percorso bellissimo per andare a Honfleur, Route de la Corniche, la strada panoramica che costeggia la collina e si affaccia sul mare, dall’alto vedo il mare e le bellissime ed eleganti ville che vi si affacciano, proseguendo il paesaggio cambia, la strada è costeggiata dalla vegetazione e oltre le siepi di recinzione il mio sguardo è attirato dalle famose tipiche abitazioni con la chioma, le chaumerie, un tempo modeste dimore di contadini, oggi abitazioni ricercate. Ce ne sono di stupende, con giardini fioriti, tante ortensie a recintare le proprietà e in molti casi cavalli allo stato brado.
Honfleur
Arrivo nella zona centrale, lascio l’auto in un parcheggio nelle vicinanze del porto e faccio due passi a piedi, tra le stradine puntellate di porfido dei pittoreschi vicoletti con le tipiche case a graticcio, le caratteristiche botteghe e tanti bistro. Ed è già amore! Baudelaire era molto legato a questo luogo dall’aria antica e autentica e basta un attimo per capirne le ragioni. Dopo una veloce colazione, café au lait e croissant, attraverso la piazza lastricata e raggiungo il vecchio porto. È uno spettacolo!
“I velieri ancorati alle banchine e i vecchi palazzi che lo circondano, che sembra si reggano in piedi perché poggiano uno sull’altro, creano un’atmosfera rarefatta, sembra di tornare indietro nel tempo. Pochi sono i luoghi che, come questo, hanno fatto da sfondo a tanti personaggi dell’arte, alcuni vi sono nati e altri ancora hanno trovato in queste terre un rifugio sicuro. Ogni angolo trasuda di fascino e arte. È di certo un posto prezioso per l’ispirazione. Anche la mia immaginazione è a briglie sciolte e non mi riesce difficile immaginare carrozze e cavalli sfilare per queste vie e donne che, abbandonate crinoline e corpetti del secolo precedente, indossano lunghe gonne morbide, si coprono il capo con un ombrellino mentre si radunano ai tavolini dei Café.”
La cittadina è stata immortalata dai più grandi pittori e, ancora oggi, esercita un incredibile fascino, su artisti che continuano a venire a Honfleur per dipingere i paesaggi e i luoghi del suo prestigioso passato storico e marittimo. Sull’estuario della Senna, le luci cangianti del cielo hanno ispirato Courbet, Monet, Boudin e molti altri e ancora oggi sono numerose le gallerie che espongono opere di pittori del passato e contemporanei. Il mio occhio è rapito da questo luogo incredibilmente affascinante.
Esaurita la batteria della mia Nikon a forza di scatti torno dal mio malato augurandomi che si sia ripreso, ma non prima di aver fatto una capatina nella celeberrima spiaggia di:
Deauville
Deauville è raffinata, certamente più pretenziosa rispetto a Trouville, due località gemelle, divise da un ponte, ma con caratteri diversi. Deauville ha boutique esclusive, un casinò frequentato da personaggi in vista, della moda e dello spettacolo. Ci ha vissuto, tra gli altri, anche Wiston Churchill. Il tratto di spiaggia, ordinato ed elegante, con ombrelloni colorati, davanti il mio sguardo è il lungomare di Deauville, la celeberrima località di villeggiatura, meta preferita dai parigini e per questo definita il 21 Arrondisement nonché città dove visse e operò la mademoiselle per antonomasia: Gabrielle Bonheur Chanel. In spiaggia c’è pochissima gente, il tempo non è dei migliori, ma l’atmosfera è incredibile, sembra di essere in un film. Altro luogo da visitare è la splendida Villa Strassburger, in stile alsaziano con dettagli normanni, fu dimora di Gustave Flaubert; una passeggiata nel suo parco infonde pace e serenità; nelle vicinanze della villa ci sono molti hotel dove soggiornare. Altro edificio caratteristico è il Municipio, una bellissima costruzione al centro del paese con caratteristiche tipiche alsaziane e anglo-normanne, come tutte le case della piccola cittadina francese. Qui i cavalli sono un’istituzione e non è raro vedere cavallerizzi in groppa cavalcare in riva al mare all’alba come al tramonto, per gli appassionati di corse di cavalli consiglio l’Hippodrome Deauville La Tou-ques; un impianto moderno e molto curato nei dettagli. Il giro turistico di Deauville e dei suoi dintorni si può fare anche con le Petit Train de Deauville che arriva fino in spiaggia. Acquisto il biglietto!
Recupero il mio malato che ne frattempo si è ripreso e partiamo per il nostro giro nei dintorni e la prima tappa è la celeberrima
Cabourg
Dista da Deauville 18 chilometri ed è situata sull’estuario della Dives, l’itinerario che scegliamo è la strada che costeggia il mare passando per Benerville-sur-Mer, Blonville-sur-Mer, Villers-sur-Mer, Auberville, Houlgate e Dives-sur-Mer. Cabourg è una tappa da non perdere, in quanto località balneare famosa per l’atmosfera belle epoque e ne sono tangibile dimostrazione le ville dell’alta borghesia e dell’aristocrazia parigina di inizio novecento disposte attorno al Casinò e al Grand Hotel.
Arriviamo alla spiaggia da un vicolo a lato del Grand Hotel. Anche la spiaggia si presenta di un’eleganza straordinaria.
“Oltre una fila ordinata di pittoreschi ombrelloni con tendine paravento a righe bianche e beige, i bambini giocano. Rincorrono palloncini colorati sulla battigia e le loro madri non li perdono di vista un attimo. Al di là della distesa di sabbia svetta maestoso, con affaccio in riva al mare, il Grand Hotel, che ospitò in molte occasioni lo scrittore Marcel Proust. A separare l’hotel dalla spiaggia la Promenade che prende il nome dallo scrittore, oggi semi deserta. La percorriamo per un paio di chilometri immersi in un’atmosfera leggera a raffinata. Il mare e il cielo si fondono in un’unica sfumatura di colore. L’occhio non è in grado di coglierne la linea d’orizzonte, il confine. Del resto l’infinito non ha confine.”
Dopo la passeggiata sulla Promenade risaliamo in auto e ci spostiamo, verso l’interno di una trentina di chilometri, in pieno Calvados e arriviamo a:
Pont-l’Évêque
Il villaggio che ha dato il nome a un meraviglioso formaggio, è stato completamente ricostruito dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Con grande maestria hanno saputo ricostruire le splendide case a graticcio che si affacciano sui pittoreschi vicoli che si snodano lungo il canale e che danno luogo a scorci bucolici di pura magia. Un bellissimo angolo di pace che ha saputo conservare tutto il fascino delle antiche terre del Calvados. Da vedere Église Saint-Michel e le sue splendide navate inondate di luce. Il secondo fine settimana di maggio, si tiene la Festa del Formaggio una vera goduria per chi si trova da quelle parti, dato che siamo nella patria del formaggio.
Lisieux
Dopo Lourdes è considerata la seconda meta di pellegrinaggio in Francia, grazie al milione di visitatori l’anno. La maggiore attrazione della cittadina è senza dubbio la Basilica di Santa Teresa di Lisieux, costruita in suo onore, custodisce le reliquie della santa e dei suoi genitori, il centro è molto carino, attraversato da un fiume. A me è piaciuta particolarmente la zona del mulino. Grazie alla sua ricca storia, Lisieux conserva numerose testimonianze dei fasti del passato, dalla nascita della Normandia fino alla Rivoluzione Francese. Lisieux che è stata sede del vescovato, ha un quartiere chiamato “Quartier Canonal”, nel quale ancora oggi si trova la Cattedrale (tra le prime in stile gotico normanno), il Palazzo Episcopale, l’Hotel du Haut Doyenné, le canoniche e il Giardino del Vescovo.
Dopo una doccia e un po’ di relax nella chambre ci vestiamo e torniamo verso Honfleur, mi è piaciuta così tanto che voglio passarci la serata e farla vedere anche ad Alan. Honfleur la sera è ancor più bella che di giorno, suggestiva e il suo fascino corsaro emerge tutto.
Per cena abbiamo un suggerimento, da parte di mio zio Roberto che è stato qui qualche mese fa ci ha suggerito un ristorante sul porto La Grenouille. Ordiniamo il Plateau de fruits de mer e nell’attesa delle immancabili ostriche, come vino di accompagnamento Alan decide per una bottiglia di Muscadet, un bianco secco, semplice ma in grado di stupire, è il compagno ideale per le ostriche. Fresco con quella punta di mineralità salmastra sul finale, richiama proprio il gusto del mollusco. Il piatto principale è una spettacolare e pantagruelica porzione di capesante, scampi, astice, granchi, cozze, vongole, gamberi e gamberetti. Concludiamo la serata con due meravigliose pozioni di Calvados nel dehors di uno dei tanti localini sul porto.
GIORNO QUATTRO
Carichiamo i bagagli in auto e andiamo a fare colazione con croissant e cafè au lait in una boulangerie in centro a Trouville, un modo economico per fare una colazione di qualità quando non è compresa nel pernottamento, tanto difficilmente berremo un buon caffè o cappuccino in Francia, loro sono bravi a fare i croissant non il caffè, alla fine io preferisco quelli dei distributori automatici che hanno nelle boulangerie, in qualche caso ci sono pure le macchine professionali. Prima di ripartire e uscire dalla città non ci perdiamo una passeggiata a:
Trouville-sur-Mer
Il centro storico che si inerpica sulla collina, ha degli scorci davvero interessanti (nell’ufficio del turismo si trovano i depliant relativi a due possibili itinerari a piedi) come la carinissima Rue des Rosiers con le case di pescatori dai colori pastello o le ripide scalinate de l’escalier du serpent che, fatti i suoi 100 gradini, vi regalerà bellissimi panorami o gli antichi quartieri operai di Rue Berthier e Rue Mogador. Come dicevo Trouville, che io preferisco, ha sempre avuto un carattere molto meno pretenzioso rispetto a Deauville, ha infatti attratto persone e personaggi di nicchia, artisti e scrittori come Dumas e Flaubert, quella sua natura più malinconica ma decisamente carica di fascino ed eleganza ne fa la meta per coloro che vogliono sfuggire la mondanità.
Oggi dobbiamo percorrere 170 chilometri, la tappa per la notte sarà Cherbourg-Octeville (Penisola del Cotentin). Lungo il tragitto ci aspettano i luoghi dello sbarco. La prima tappa è:
Caen
Ha 1000 anni di storia e si vedono tutti, in particolare, nei quartieri antichi del centro. Guglielmo il Conquistatore, che la elesse sua città preferita, vi fece costruire un castello e due abbazie: l’Abbaye aux Hommes e l’Abbaye aux Dames. Storia, abbastanza recente, racconta che la città durante la seconda guerra mondiale è stata pesantemente distrutta, fu poi ricostruita intorno ad alcuni monumenti superstiti restaurati. Io non sono rimasta così entusiasmata da questa ricostruzione, a dire il vero ma lo shopping a Caen è garantito!
Bayeux
La carinissima Bayeux, vanta un ricco e importante passato e possiede un cospicuo patrimonio culturale e artistico, molto ben conservato, in quanto miracolosamente risparmiata dalla distruzione dei bombardamenti della seconda guerra mondiale. Questo fa sì che conservi intatto tutto il suo fascino medievale, ne sono dimostrazione le sue caratteristiche stradine, i suoi canali con i mulini, le chiese, la totale assenza di modernità, nonché la mancanza di industrie nell’imminente periferia.
Bayeux deve la sua fama internazionale al famosissimo arazzo medievale, Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco. 68 metri di tela di lino dipinta, scampata miracolosamente alle razzie naziste in quanto nascosta in uno scantinato del Louvre. La Tapisserie de Bayeux è, senza dubbio, una delle più importanti testimonianze del Medioevo: narra i principali episodi che hanno permesso al duca di Normandia, Guglielmo detto il Bastardo (in quanto figlio naturale del duca Roberto e della figlia di un conciatore di pelli) di conquistare il trono d’Inghilterra e di diventare Guglielmo il Conquistatore. Racconta gli eventi dal 1064 al 1066, anno della decisiva battaglia di Hastings, e per farlo mette in scena 623 persone, 505 animali di specie differenti, 202 tra cavalli e bestie da soma, 55 cani, 41 imbarcazioni e 49 alberi è composto da otto elementi cuciti tra loro, con fili di lana di otto colori diversi, fino a formare una specie di fumetto del Medioevo, scritto nella stoffa, anziché su carta. L’arazzo, che dovrebbe essere stato prodotto a Canterbury, fu tessuto tra il 1070 e il 1077 per volere del vescovo Odone, il fratellastro di Guglielmo il Conquistatore. Fu esposto, a partire dal 1476, nella cattedrale di Bayeux. Dal 1724 che l’arazzo iniziò a interessare gli studiosi e che venne prima compresa la sua importanza.
Le spiagge dello sbarco
“Il mare blue cobalto, le distese smeraldo, i tratti di spiaggia finissima rendono il paesaggio quasi onirico e rievocano gli sfondi dei quadri impressionisti. Se non fosse per i monumenti e i residui bellici apposti su quella spiagge, mai potrei pensare che su quelle coste, all’alba del 6 giugno 1944, un numero imprecisato di volenterosi militari inglesi, americani e canadesi andavano incontro alla morte, in nome della libertà. Questo mare oggi azzurro e brillante era tinto di rosso sangue, queste spiagge di sabbia chiara una distesa di corpi mutilati, trucidati, assassinati. Su quelle spiagge, del Calvados e della Manica, avvenne la più grande invasione anfibia della storia: Lo Sbarco in Normandia. Quell’operazione militare e lo scempio di corpi che ne segui dava inizio alla liberazione dell’Europa, dalla Germania Nazista. Quell’Europa che tanto amo.”
Arromanches-les-Bains
Qui sbarcarono 2 milioni e mezzo di soldati, 4 milioni di tonnellate di equipaggiamento e 500.000 veicoli. Stazione balneare, incastonata tra le falesie è una delle spiagge più importanti per la liberazione dell’Europa dalla gogna nazista. Musei, cimiteri, musei e vedute panoramiche sono stati creati per far capire al visitatore che cosa ha rappresentato lo Sbarco in Normandia. La visita al Musée du Débarquement fa conoscere tutti i dettagli dell’operazione. Presso Arromanches 360, in una sala circolare viene proiettato il filmato The Price of Freedom, un’emozionante resoconto della battaglia. Nei mesi estivi c’è da fare la coda.
Omaha Beach Lungo questi 7 chilometri di costa si è combattuta la battaglia più drammatica e cruenta dell’operazione. Il momento dello sbarco, fu un vero massacro di americani che tentavano di raggiungere la spiaggia mentre i tedeschi, dall’alto delle dune di sabbia, sparavano senza sosta.
Juno Beach Presso la spiaggia di Berniéres-sur-mer sbarcarono le forze militari canadesi. Presso Juno Beach Centre è possibile capire quale ruolo ha avuto il Canada nell’offensiva militare in cui persero la vita oltre 45.000 canadesi.
Utah Beach Su questa spiaggia, all’alba del 6 giugno 1944, toccarono per primi il suolo francese i soldati dell’ottavo reggimento di fanteria americani portati vicino alla riva da 20 chiatte da sbarco. In parecchi persero la vita sia a causa del fuoco nemico ma anche per annegamento a causa dell’eccessivo peso dell’equipaggiamento e delle armi in dotazione. Al Musée du Débarquement potrete conoscere tutti i dettagli di quella giornata storica attraverso fotografie e reperti autentici.
Ci sono altri luoghi da visitare dedicati allo sbarco ma per noi questi sono più che sufficienti. Abbiamo un bel po’ di chilometri prima di arrivare a Cherbourg-Octeville dove abbiamo prenotato per la notte. Riprendiamo il nostro viaggio dopo una pausa spuntino-pranzo nella vicina
Port-En-Bessin
Una pittoresca cittadina marinara dove tutto gira attorno al porto che ha un passato storico e prestigioso, attualmente porto di pesca dove i pescherecci vanno e vengono dal porto. La zona del porto è animata da negozi e locali, in uno dei quali noi abbiamo mangiamo una buonissima baguette farcita.
Arriviamo a destinazione il tardo pomeriggio. Ho prenotato Ambassadeur Hotel – Cherbourg Port de Plaisance, affacciato sul bacino con un parcheggio pubblico sul retro ed è comodissimo a la Cité de la Mer, il complesso scientifico, turistico e culturale dedicato al mondo marino, in particolare all’oceano e all’ambiente sottomarino.
Cherbourg-Octeville
Affacciata sul mare si trova nel nord della Penisola del Cotentin, la contraddistingue il suo ricco patrimonio marittimo. Cherbourg-Octeville è la rada artificiale più grande del mondo. La città è inoltre dotata di diversi porti: di pesca, turistico, commerciale e militare. In realtà, per quanto mi riguarda, Cherbuorg non ha molte attrattive ma era una soluzione comoda per visitare la Penisola de la Hague, che visiteremo domani.
Dopo un giro della zona nei pressi del bacino, ci fermiamo per una birra in uno storico pub frequentato da locali, qui non sembra ci siano molti turisti. Per cena decidiamo per un ristorante vicino all’albergo, ce ne sono molti, noi ci affidiamo a Le Regence, degna di nota la crème brûlée.
Il racconto del viaggio CONTINUA in un altro post, questo è già troppo lungo. ECCOLO!
Le parti virgolettate sono tratte dal mio romanzo “L’Amore a colpi di Champagne”.
Il 18 agosto di quattro anni fa "sbarcavamo" in Normandia per un on the road che ci ha fatto scoprire una splendida regione della Francia. Ve lo racconto in questo articolo Raccontare della Normandia non è facile e non perché ci sia poco da dire anzi è esattamente il contrario.
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“Dovresti scrivere, a letto, sfruttando la tua infelicità”: le lettere d’amore tra Saul Bellow e la fantomatica Bette Howland, il genio dimenticato
In alcune fotografie è decisamente interessante. Si erano conosciuti nel 1961, entrambi di Chicago. Lei aveva 24 anni, si era sposata troppo presto, con un biologo, aveva due figli, si era già separata, un talento le dava tormento. Il marpione di genio era più grande di 22 anni, aveva già pubblicato un libro di culto – Le avventure di Augie March –, un libro meraviglioso – Henderson the Rain King. Stava scrivendo il più celebre, Herzog. Quindici anni dopo, avrebbe accolto con il consueto sorriso sornione il Nobel per la letteratura. All’epoca aveva divorziato dalla seconda moglie, stava sposando la terza – ne avrebbe collezionate cinque. Incalcolabili le amanti.
*
Bette Howland all’epoca del suo incontro con Saul Bellow. Si frequentano come amanti dal 1961 al 1968, per il resto della vita come amici
Il 17 dicembre del 2017 Neil Genzlinger firma sul “New York Times” il ‘coccodrillo’ della donna che negli anni Sessanta era decisamente interessante – perfino bella, di quel fascino oscuro che è il marchio di una intelligenza anomala. L’incipit è da scuola di giornalismo. “Scrisse tre libri, piuttosto apprezzati negli anni Settanta e nei primi Ottanta, salvo svanire dalla scena letteraria ed essere riscoperta di recente – è morta a Tulsa, Okla. Aveva 80 anni. Il figlio Jacob, che ne ha confermato il decesso, ha raccontato della sua sclerosi multipla e della demenza senile. Nel 2014 aveva avuto un grave incidente: un camion l’aveva investita mentre tornava a casa, dopo aver fatto la spesa”. Piuttosto, è il titolo a essere malizia e ghigliottina. “Bette Howland, scrittrice e ‘protetta’ di Saul Bellow, è morta a 80 anni”. Il fatto di essere una ‘protetta’, in qualche modo, ne squalifica il talento, lo pone sotto i tacchi del mentore. Ma non è così.
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In effetti: tra il 1967 e il 1983 Bette Howland, carattere estremo, intricato nel pudore, pubblica quattro libri. L’ultimo, Things to Come and Go, edito da Knopf. Poi scompare. Volutamente. Nel 1978 ottiene un Guggenheim Fellow, nel 1984 un McArthur Fellows. Si dice, per intercessione di Bellow. Come scrive Rachel Shteir su “Tablet”, la Howland voleva “uscire dall’ombra di Saul Bellow”. Ora è in atto un recupero della sua opera, celata troppo a lungo: A Public Space pubblica, postumo, Calm Sea and Prosperous Voyage, “torna nel canone una scrittrice straordinaria, che fu riconosciuta come uno dei grandi talenti degli anni Ottanta, prima di sparire dalla scena letteraria per decenni”. La storia della Howland è diventata un ‘caso’, di cui oltreoceano stanno scrivendo tutti.
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Il 30 marzo 1990 Saul Bellow invia una cartolina a Bette. “Sappiamo seguirci, l’un l’altro, perfettamente, con le parole. Penso che sia questo l’amore tra gli scrittori. Piuttosto, è l’amore – punto”. La ‘storia’ non tanto letteraria ma letterale tra i due si consuma in un grumo d’anni: nel 1968 il Grande Scrittore molla la Protetta. E lei va fuori di testa, tentando il suicidio. Con ironia cabbalistica, nel luglio di quel ’68, Bellow le scrive: “Riguardo alla scrittura (la tua scrittura!) penso che dovresti scrivere, a letto, sfruttando la tua infelicità. Lo faccio anche io. Lo fanno in molti. Uno dovrebbe cucinare e divorare la propria miseria. Incatenarla come fosse un cane. Sfruttarla come le cascate del Niagara per generare luce e dare tensione alle sedie elettriche”.
*
Finita la storia, lei pretese l’amicizia: “Non sai chi sono se pensi che mi attenda da te il ‘ti amo’… Non sono solo ferita come donna, ma come collega, come alleata. Questa è la particolare qualità dello smarrimento e dell’indignazione in cui ti chiedo di relegarmi mentre mi archivi. Avevo sperato in una reale amicizia, un’amicizia per tutta la vita”. Se la concessero, l’amicizia. L’11 settembre del 1978 lei gli confessa la propria estraneità al tempo, al mondo: “Come diceva mia nonna – usando un’espressione yiddish – non so dove mettermi. Penso sia una vecchia storia: uno scrittore non ha mai un posto dove stare, dove mettersi”. L’11 luglio del 1984, mentre il matrimonio con la quarta moglie, la matematica rumena Alexandra Ionescu Tulcea, sta andando al macero – la tipa, per altro, vent’anni più giovane di Saul, patriarca del romanzo americano, aveva un divorzio alle spalle e dopo Bellow impalmò un collega argentino di chiara fama, Alberto Calderón – Bellow frigna scrivendo all’amica. “Vorrei sentirti. Sono giorni difficili e intricati. Mi sento come un telescopio situato al circolo polare artico. Posso vedere i fuochi celesti, ma non c’è alcun conforto, almeno immediato. Perché non mi scrivi una lettera, qualcosa di umano?”.
*
La storia nella storia è quella di Jacob Howland, professore di filosofia alla University of Tulsa, autore, per la Cambridge University Press, di libri di peso (Plato and the Talmud e Kierkegaard and Socrates: A Study in Philosophy and Faith), che scava nella storia della madre, Bette. “Mia madre aveva le ali – ma non era leggera. Ha creato nidi accoglienti in luoghi isolati. Ha riempito le nostre case di pane fatto in casa, yogurt, zuppa di barbabietole e quaderni, innumerevoli quaderni… ardore e vocazione erano le parole predilette da mia madre”. Nell’articolo pubblicato sulla “Jewish Review of Books”, Love Between Writers: Saul Bellow and Bette Howland, torna al legame – evidentemente ineludibile – tra la Howland e Bellow, rivelando altri fogli rispetto a quelli denunciati cinque anni fa, su “Commentary” (Chicago Love Letters: Bellow and Bette). Da un lato, il desiderio di scindere la madre da un maestro così ingombrante; dall’altro, la necessità di ancorare l’opera di lei a una ‘tradizione’.
*
Saul Bellow divorava la vita – scopandola, eventualmente. La Howland preferiva ritrarsi. Attorno a questi due atteggiamenti – mordere o tagliarsi la lingua – oscilla il genio della letteratura americana, tra la totale esposizione e l’assoluta, assurda sparizione. Già il 4 dicembre 2015, A.N. Devers, su “Literary Hub”, firmava un articolo a suon di pugni, Bette Howland: The Tale of a Forgotten Genius. Lei lo soffriva, è ovvio. Il 17 aprile 1978 lui le scrive: “il tuo sarà un successo a crescita lenta, come il mio. Per 15 anni nessuno mi ha dato attenzione… Per un po’ sarai sul lato polveroso della strada”. Il 26 giugno lei gli risponde. “Molti muoiono nel lato polveroso della strada. Io ho avuto la tua amicizia costante, ho il tuo incoraggiamento e il tuo esempio. Credimi, non ho paura di niente. Non mi perderò. Non hai scommesso su un cavallo perdente”. L’anno dopo, 2 agosto 1979, “Se non ce la fai come scrittore sei niente. Niente vita. Neanche una personalità”. L’amico amato, amante, aveva conquistato il Nobel nel 1976, sta lavorando a The Dean’s December.
*
A volta l’ombra non è un giogo ma un riparo, ed è un privilegio spezzare l’amore con un genio. Gli scrittori non sono fedeli soltanto alla propria voce – falda che si dissecca dopo il primo libro, quello che raccoglie ‘ciò che avevo da dire’. Soprattutto, sono fedeli alla voce dei maestri, al loro incubo. Per quanto la parola ‘protetto’ ci schifi, cerchiamo la protezione: una protezione che addestri all’incanto, allo scatenato. Il ‘protetto’ è il prescelto, l’addestramento non è insopportabile, la libertà si misura in aquile. (d.b.)
**
28 ottobre 1982
Cara Bette,
non voglio dirti di no. D’altronde sei uno di miei protégés, il più strano, a conti fatti, e l’ufficio del protettore, non puoi negarlo, lo ho sempre assolto piuttosto bene. Ai miei tempi, ero un protégé anche io, so quanto sia amaro il ruolo. Ma abbandoniamo le parole astratte e veniamo ai fatti. Ci sono protégés e protégés. Faccio un esempio recente: farti entrare al Ragdale Residence (o come si chiama) mi ha arrecato dei problemi. Sei stata in periferia per diversi mesi, mentre io ero in città. Mi hai telefonato una volta per dirmi che eri nei dintorni e che mi avresti dato notizie. Che tu fossi in giro è certo, perché ho incontrato la tizia della Fondazione (come si chiama?) e mi ha detto che stavi lavorando. Perché non mi hai permesso di offrirti un hamburger o una pizza al ‘Medici’? E perché mi invii il commento di Frank su Il dicembre del professor Corde ma ti astieni dal dirmi qualcosa intorno a quel libro? Mi sembra che tu stia giocando con la corda che tiene la lama della ghigliottina. Non sono preoccupato per il mio collo, ovvio, è pesantemente corazzato, ma penso che se tu riesci a muoverti in modo così disinteressato, puoi capire il modo in cui giudico il tuo comportamento. Ho letto il tuo pezzo su Commentary, ovviamente mi è piaciuto, ma non trovo il motivo per cui dovrei dirtelo. Sapevi bene che mi sarebbe piaciuto, mi hai chiesto un commento per avere la tua bella ciliegia nel maraschino.
Ma forse è solo il tuo particolare senso del tempo. Ogni tanto, fai apparire Proust come un bastone nella melma. Dimori in una specie di sfera immaginaria, dove io e te non subiamo cambiamenti, e hai la perfetta sicurezza che quando ci incontreremo (tra dieci anni, magari) saremo esattamente come l’ultima volta. Non accadrà, te lo assicuro.
Bene, all’inferno le tue irritanti idiosincrasie. Se mi invii il tuo manoscritto, lo leggerò. Non titolarlo The Life You Gave Me né Things to Come and Go. Sono titoli schifosi entrambi.
Distintamente,
Saul
*Nota: per dire dell’adorabile, inafferrabile Bette Howland. Nel 1983 Knopf pubblica il suo libro. titolo: “Things to Come and Go”. Nonostante il distinto, ‘annobeliato’ Saul.
L'articolo “Dovresti scrivere, a letto, sfruttando la tua infelicità”: le lettere d’amore tra Saul Bellow e la fantomatica Bette Howland, il genio dimenticato proviene da Pangea.
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Le case dei miei scrittori di Évelyne Bloch-Dano
Le case dei miei scrittori di Évelyne Bloch-Dano
Ho scovato questo libro in una domenica noiosa ad una Feltrinelli in cui sono capitato per caso. Le mie mani sfioravano volumi in cerca della quarta di copertina per trovare uno stimolo per leggerli. Una copertina rosa, un disegno di una finestra attraverso la quale s’intravede l’arredamento di una casa. Chi l’abiterà? Quante volte mi faccio questa domande scorgendo gli ambienti domestici dalla…
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Raccolte di racconti ne abbiamo? 1° parte
Gennaio è iniziato e sembra durare da un’infinità, giorni e giorni e giorni, e le prossime “vacanze” sembrano ancora lontanissime. Il freddo pungente, l’incertezza di trovare pioggia o sole, la voglia di cioccolata calda accoccolati sotto il piumone non rendono facile l’imperativo categorico di essere attivi. Io per la prima volta dopo anni sto affrontando questo gennaio con molta grinta e pace e non lo avrei mai creduto possibile. I sorrisi che spargo in giro sono proporzionali al sonno che mi trascino dietro e alla mia voglia di letargo.
Ma negli ultimi mesi il tempo per leggere è sempre stato molto risicato e a volte ho preferito leggere volumi più brevi che mi dessero la sensazione di leggere come prima anche se di fatto il numero delle pagine macinate si è notevolmente ridotto. Ecco allora che in mio aiuto è venuta una serie di raccolte di racconti che ho accumulato nell’ultimo anno e che di fatti ho preso in mano solo recentemente, a parte uno dei miei amori grandi Bernard Quiriny (spero venga in Italia presto, L’Orma editore fallo venire al Salone del Libro, se viene svengo). E dal momento che stava diventando un post chilometrico ho deciso di dividerlo a metà. Nella prima parte troverete un breve commento a questi volumi:
Racconti di bestie sagge e animali impertinenti – Jean-Jacques Fdida edito da Ippocampo
Lingua nera – Rita Bullwinkel edito da Edizioni Black Coffee
Le novelle dei morti – Jennifer Radulović edito da Abeditore
Vite coniugali – Bernard Quiriny edito da L’Orma Editore
Enjoy!
Racconti di bestie sagge e animali impertinenti – Jean-Jacques Fdida
Storie del tempo in cui gli animali avevano la loro da dire, per farci ridere o per lasciarci a bocca aperta. Asino, leone, iena, capra, lumaca, volpe o farfalla… ognuno con il suo cruccio da bestia. Ma le loro avventure si prendono gioco della nostra visione del mondo con una crudezza, un’efficacia e una profondità che gli uomini faticano talvolta a esprimere.
Di questo volumetto dell’Ippocampo mi sono innamorata in una esplorazione fortuita allo stand dell’editore durante il Salone del Libro dello scorso anno. Si tratta di un insieme di racconti brevissimi che hanno per protagonisti animali, parlanti, saggi, inquietanti, ironici, saccenti, ingenui. È un bestiario illustrato che mostra leggente e fiabe, con immagini strepitose e oniriche che riesce a catturare anche il lettore più distratto. Le atmosfere sono quelle classiche, ma le interpretazioni si modificano di volta in volta per rivoluzionare le scene e le azioni. Il leone che da una lezione di umiltà, la iena che non si accontenta, ogni animale incarna difetti e predilezioni dell’uomo per scardinare le convenzioni. Gli animali antropomorfi d’altronde colpiscono sempre l’immaginario collettivo, basti pensare anche al live action de Il Re Leone. A volte riusciamo a capirci meglio, guardandoci attraverso una lente diversa.
Lingua nera – Rita Bullwinkel
Nei racconti strani e a tratti inquietanti di questa giovane scrittrice al suo esordio letterario i corpi si trasformano in oggetti e gli oggetti in corpi, dando vita a qualcosa di affascinante e inspiegabile, sempre in bilico tra reale e surreale. Un’impiegata sviluppa una profonda fascinazione per la musica d’arpa, una giovane venditrice di mobili trasforma in oggetto d’arredamento il colpevole di un reato indicibile, i prigionieri di un gulag superano in astuzia il loro malvagio carceriere. Scene di vita quotidiana si popolano di spettri, medium e chiese carnivore rievocando umanità e calore attraverso il grottesco. Tra bambine che si procurano terribili ferite e vedove oppresse dai fantasmi dei propri mariti, tutti i personaggi di Lingua nera sono alla ricerca di un modo per scendere a patti con il corpo che hanno e imparare a interagire con quello degli altri nello spazio, per non correre il rischio di precipitare negli abissi della mente. Le voci dialogano oltrepassando i confini dei singoli racconti, si interrogano sull’importanza del contatto fisico laddove il linguaggio non è sufficiente. L’attenzione di Bullwinkel per le potenzialità dell’interazione umana trasforma la raccolta in una lunga catena di storie d’amore (o del loro opposto).
Anche questo volume arriva direttamente dal Salone del Libro, e ha tutto il fascino di racconti esagerati e inquietanti, che non si lasciano indietro nessuna meraviglia. Ogni racconto è uno spaccato a tratti spietato a tratti definitivo, che lascia cadere i fantasmi che popolano la fantasia della Bullwinkel, che rievoca immagini spietate delle sue convinzioni. Ogni racconta ti lascia il dubbio sulla vera natura di ciò che stai leggendo, il confine tra ciò che è vero e ciò che è solo immaginato è difficile da trovare. È più facile buttare all’aria ogni convinzione. Uno dei racconti più impressionanti è proprio quello che dà il titolo alla raccolta, che descrive le vicende di questa donna che da ragazzina ha toccato una presa elettrica con la lingua, rendendola nera. La costruzione della storia, l’incalzare delle vicende, l’orrore che si nasconde tra la corsa verso l’ospedale e la vita dopo che si dipana senza drammi. La Bullwinkel investiga lo spazio che intercorre la nostra intimità e quella degli altri, i limiti da valicare per comprendersi al meglio, il contrapporsi continuo della nostra volontà e quella degli altri e le pulsioni che ci attraversano, inconcepibili, giganti, amare, imprescindibili. La sua scrittura potente rende questo volume un’esposizione affascinante e pericolosa da attraversare con gli occhi spalancati.
Le novelle dei morti – Jennifer Radulović
"I racconti di Jennifer Radulovic risentono - e non possono non risentirne - di una certa 'musica che gira intorno', e di un ritorno prepotente del gotico ottocentesco nel gusto del pubblico contemporaneo: pellicole come The Woman in Black di James Watkins (2012) o Crimson Peak di Guillermo Del Toro (2015), romanzi come Drood di Dan Simmons (2009) o La casa dei fantasmi di John Boyne (2013), o serie tv come Penny Dreadful (2014) sono tutti esperimenti di annullamento pressoché totale della distanza storica, che di certo esprime un desiderio generalizzato. Ma desiderio di cosa? Confesso - come altre volte nella mia vita - di non poterlo esprimere con parole migliori di quelle di Jack Finney: 'Non avete notato anche voi, praticamente in tutte le persone che conoscete, una ribellione montante contro il presente? E un desiderio crescente per il passato? Io sì. Mai prima di adesso, nella mia lunga vita, ho udito così tante persone desiderare di aver vissuto 'a inizio secolo' o 'quando la vita era più semplice' e 'ne valeva la pena', 'quando potevi mettere al mondo dei bambini e fare affidamento nel futuro' o, più semplicemente, 'ai bei vecchi tempi'. La gente non parlava così quando ero giovane! Era il presente il momento di gloria! Ma parlano così adesso'. L'Ottocento ci manca, c'è poco da fare. Certo, che la vita - allora - fosse più facile è quantomeno opinabile: ma non c'è dubbio che le storie di fantasmi lo fossero, e che fosse più facile spaventarsi (e divertirsi), leggendo di orrori che - di lì a pochi anni - la battaglia della Somme avrebbe mostrato essere fin troppo ingenui."
Quando ho letto “Le novelle dei morti” nel titolo ho capito che questo volume doveva entrare senza dubbio nella mia collezione. Il fascino del gotico di fattura ottocentesca, dalle vaghe atmosfere vittoriane che si respiravano nelle strade londinesi è sempre potente e mi irretisce anche quando è costruito a posteriori. Jennifer Radulovic infatti è una donna della nostra contemporaneità che si è cimentata nella sfida di ricostruire dei racconti insoliti, ricchi e inquietanti come possono solo esserlo quelli dell’orrore e quelli che hanno per protagonista la morte. Il gioco è semplice in effetti, e il paranormale la fa da padrona. Uno strano ottico che costruisce occhiali speciali, una fioraia che nasconde un segreto inconfessabile, la casa infestata da presenze che si riconoscono quando è oramai troppo tardi, in un vortice di angoscia e terrore che non sempre lascia il lieto fine. Si soffre, si tentenna, si conquista la propria paura investigando. Una raccolta mirabile per chi non ne ha mai abbastanza.
Vite coniugali – Bernard Quiriny
Vivere insieme è un mestiere difficile. Bisogna farci il callo, relegare in un cantuccio le proprie nevrosi e poi, di tanto in tanto, escogitare un diversivo. C’è chi prende di petto la questione e, fatte le valigie, parte alla volta di un arcipelago lontano per svernare con l’amato all’ombra dei banani e chi, come gli idiosincrasici sedentari di Parigi, si limita a peripli di pochi giorni nei dintorni della città. Altri si rifugiano nei libri e consacrano un’intera esistenza a un grande autore, salvo poi accorgersi che era un emerito imbecille. Ma, in fondo, poteva andare peggio: qualcuno, vittima di un fato bizzoso, si ritrova a sposare più e più volte la stessa donna, o a nascere nell’inaccessibile Pomenia, dove due popoli secessionisti, pur di non incontrarsi mai, si riducono a vivere a orari alterni nella capitale contesa. In queste Vite coniugali Bernard Quiriny affonda la penna nell’inchiostro dell’assurdo e traccia un esilarante bestiario borghese, nel quale le contraddizioni di una contemporaneità spesso inospitale si mescolano ai sempiterni paradossi dell’amore e della convivenza.
Bernard Quiriny è diventato rapidamente uno dei miei scrittori preferiti e sono molto contenta di averlo scoperto tra i volumi del catalogo de L’Orma editore, che guarda caso è una delle mie case editrici preferite. La sua potenza sta proprio nel creare ritratti che si discostano completamente dalla logica e che si incastrano in ambientazioni impossibili, città che sorgono dalla pagina e che si conficcano nella mente del lettore. Quiriny in questo volume si interroga sulle relazioni umane, non solo vita matrimoniale ma anche interazioni tra intere comunità, gruppi di persone con interessi comuni, con caratteristiche strane, abitudini impossibili, incertezze e dubbi. Il centro di ogni vicenda quindi diventa l’esistenza umana e la comunità solo un pretesto per interrogarsi più a fondo nelle paure dell’uomo, della solitudine, della sedentarietà dell’amore. Ogni racconto è uno spaccato di vita e di interazioni, di amore e di incertezza che supera ogni definizione e impone una riflessione sul nostro presente, senza mai dimenticare l’ironia che sempre caratterizza la penna di Quiriny.
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