#io e questo libro le vogliamo bene comunque
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iimsc · 6 months ago
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sto leggendo un libro che era di mia madre da ragazza. è pieno di errori di battitura che lei prontamente ha corretto con una cazzo di penna blu. in seguito ha fatto la stessa cosa con me e i miei errori. per questo ora leggo nuda un libro malconcio, segnato, provato, malinconico che con molta probabilità non è stato letto neanche dalla madre dell'autore. -meglio così, sennò avrebbe corretto a penna tutte le copie
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spettriedemoni · 3 years ago
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Suggerisci un libro per decadi
Il gioco che ha ideato quella mente vulcanica di @neltempodiuncaffe è il seguente: suggerisci tre libri per ogni decade, ovvero qual è, secondo te, il libro che va letto ai 20, quello ai 30 e quello a 40 anni.
Non è stato facilissimo scegliere, non tanto perché chissà quanti libri io abbia letto quanto per la difficoltà a collocarli temporalmente. Sono giunto al seguente verdetto.
A chi ha 20 anni suggerirei di leggere Molto Forte Incredibilmente Vicino di Jonathan Safran Foer. Un romanzo di sentimenti che trovo molto toccante e che arriva dritto al cuore, per quel che mi riguarda. Con l'attentato dell'11 settembre sullo sfondo, un bambino prova a mantenere un legame con il padre disperso nel crollo delle Twin Towers e questo suo pervicace tentativo di averlo vicino in qualche modo ferisce e intenerisce. Trovo appropriato leggerlo a questa età perché si è usciti ormai dall'adolescenza e si entra in un periodo in cui ci si rende conto che certe cose vanno lasciate andare, che arriva un momento in cui si deve crescere, che basta un attimo perché la vita cambi completamente e allora non resta che adattarsi. Mi piace vederla così.
A chi ha 30 anni suggerisco It di Stephen King. Un romanzo horror certo, ma che dice molto di più sull'uomo e sul suo cammino su questo "atomo opaco del male" come definì il mondo Giovanni Pascoli. Meglio leggere questo romanzo quando si è trentenni perché a 20 si rischia di apprezzarne solo il lato horror che è interessante e divertente ma è solo metà del libro. In fondo il mostro al centro della storia è solo un escamotage per parlare dei veri mostri che abbiamo dentro ognuno di noi, quegli spettri che ci portiamo dal passato e che si trasformano a volte in demoni quando raggiungiamo l'età adulta. Se una morale vogliamo trovare in questa storia magistralmente raccontata direi che è questa: prima o poi devi tornare indietro e affrontare il mostro da cui stai scappando. Potresti scoprire che basta non credere in lui per sconfiggerlo.
A chi ha 40 anni suggerisco di leggere la trilogia di Vincenzo Malinconico ossia i tre romanzi di Diego De Silva: Non Avevo Capito Niente, Mia Suocera Beve e Sono Contrario alle Emozioni. Sono tutti e tre divertenti, però io ho preferito su tutti il secondo. Il protagonista è, come suggerisce il suo cognome, una persona malinconica, un avvocato di "insuccesso", fallibile e forse pure un bel po' fallito ma che riesce a tirar fuori perle di saggezza insospettabili grazie al suo essere così disincantato e disilluso dalla vita. Il protagonista di questi libri è una persona che narra le sue vicissitudini per prendersi, come dice lui, la rivincita sulle parole perché non tutti abbiamo la risposta pronta come gli eroi positivi dei romanzi e dei fumetti. Alla maggior parte di noi la risposta giusta arriva ore o giorni dopo una discussione perché le persone normali hanno mille dubbi.
Ho dovuto tenere fuori molti altri romanzi degnissimi come Kafka sulla Spiaggia e Norwegian Wood di Murakami, oppure Survivor e Invisible Monsters di Chuck Palahniuk, oppure Qualcuno con Cui Correre e Che tu Sia Per Me il Coltello di David Grossman (quest'ultimo lo ha già messo @myorizuru e lo sapevo lo avrebbe fatto, per cui va bene così) ma le decadi erano quelle per cui ho dovuto limitarmi (magari la prossima volta facciamo lustri, ok?).
Ho tenuto fuori volutamente i fumetti perché in fondo sono altro, qualcosa di diverso dai libri ma con pari dignità spesso. Avrei suggerito comunque Maus di Spiegelman su tutti e Una Ballata del Mare Salato di Hugo Pratt.
Arrivo ai tumbleri da taggare e poiché molti sono stati già stati taggati mi auguro di non fare un secondo tag nominando @lady--vixen, @surfer-osa, @darknya, @leonoraddio, @goolden (di cui credo di indovinare almeno un titolo) e the last but not the least colei che ritengo la massima esperta di libri (rullo di tamburi, please): @morganadiavalon.
Naturalmente se vi va di farlo, siete liberi di declinare o ignorare la proposta ma sappiate che vi scateno le rappresaglie se non lo fate.
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uds · 4 years ago
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kid a e io, un post a punti.
@soggetti-smarriti mi ha chiesto, mesi fa, di scrivere qualcosa riguardo al ventesimo anniversario dell’uscita di kid a. essendo che la vita vera è un po' frenetica in questo momento, riesco a mettermici davvero soltanto adesso. spero mi perdonerete.            
(in realtà ho preso in mano il pc con l'idea di scrivere un post sulle tre fasi del mio pormi verso lebron james, però un po' il senso di colpa verso massimone che mi chiede le cose, un po' il fatto che scrivere dei radiohead mi piace sempre un sacco, un po' che non so a quanti possa interessare un post scritto da me su lebron james, o un post scritto da me in generale, o -aspetta- un post scritto da me sui radiohead mio dio cosa sto facendo? perché sto perdendo tempo e facendo perder tempo alla gent            
e insomma, kid a.            
kid a è uscito vent'anni e passa fa, ma facciamo finta che l'anniversario sia oggi, che a ottobre fa anche un bel freschetto simpatico, vuoi mettere con dicembre che ti alzi, ti lavi al gelo con la stufetta puntata in faccia, cammini fino all'auto in preda all'unione di freddo e sonno, la peggior combinazione che poss            
e insomma, dicevamo, kid a.            
questo è un post a punti, assolutamente casuali, che racconta delle cose sparse su me e quel disco:            
-kid a esce che ho 17 anni e me lo fa ascoltare per la prima volta in assoluto la mia amica milena, che è la stessa che mi ha passato the bends e ok computer. lo ascolto in corriera, andando a scuola, in mezzo alle chiacchiere dei tizi che mi circondano.            
(il dialetto veneto, in certe frazioni di campagna che attraversavamo per arrivare alla città dove frequentavamo le superiori, è fatto di zolle e nebbia; quando, come capitava secondo la moda di quei tempi, era incapsulato in giubbotti catarinfrangenti della energie, buffalo alte dieci centimetri e capelli acconciati in spuntoni ritti e lucidi, offriva un immaginario desolante di discoteche di domenica pomeriggio in mezzo al nulla come massimo della vita)            
(immaginario che, come il lettore attento capirà, non ha fatto altro che rendere ancora più efficace la creazione di un mondo estraneo e alien(at)o da parte dei cinque tizi della band + il produttore).            
è straniante, e al primo colpo ci capisco poco. a parte idioteque, idioteque è una bomba ed è immediatamente la mia preferita del disco;            
-idioteque peraltro scopro che è costruita a partire da un sample, e a 17 anni storgo un po' il naso (che è già grande di suo, per cui non è un bel vedere), perché insomma, noi non vogliamo i sample, noi vogliamo che tutto sia originale e suonato e            
poi scopro che il sample è una roba che in originale son cinque secondi su un brano sperimentale di venti minuti presi a cazzo, e allora va benissimo uguale raga;            
-kid a è uno dei due motivi per cui non presto mai cd da vent'anni (oddio, negli ultimi cinque o sei nessuno ha mai più domandato un cd in prestito, perché non usate più i cd, ma ci siamo capiti). l'altro motivo è italian rum casusu cikti.            
in entrambi i casi cd che adoro, in entrambi i casi cd che ho prestato, in entrambi i casi cd che mi sono tornati indietro con la confezione distrutta e, in un caso, col cd stesso pieno di righe sotto, che suonava uguale senza saltare, ma comunque.            
in entrambi i casi, manco mi è stato chiesto scusa per averli ridotti così. e allora andate a fanculo e i cd ve li comprate;            
(uno dei due tizi ad avermi trattato male i cd era uno scout. vedi a ritenere accettabile la prospettiva di stare per settimane senza bidet in montagna cosa si finisce a fare?)            
-in kid a thom yorke comincia a usare la voce in maniera diversa, e non tornerà mai più a farlo come nei dischi precedenti. ammettiamolo, è un po' un peccato;            
-ho sempre considerato kid a e amnesiac come lo stesso disco. fa tutto parte delle stesse sessioni in studio, è materiale inciso contemporaneamente e loro stessi all'uscita di kid a hanno sostenuto che, se alla gente fosse piaciuto il disco, avrebbero fatto uscire altro da quelle registrazioni dopo pochi mesi. come in effetti è successo. volendo quindi considerare tutto come un'opera unica, la mia canzone preferita del lotto è i might be wrong, che oltre a essere una canzone della madonna è anche, curiosamente, una delle pochissime canzoni dei radiohead ad avere un testo particolarmente ottimista.            
(poi magari invece mi sbaglio io e parla di quando di notte ti alzi per andare in bagno e ti devasti il mignolo sullo spigolo del letto. però la porta della camera è dalla tua parte del letto, quindi sarebbe impossibile devastarsi un piede per andare in bagno, dato che il letto te lo lasci semplicemente alle spalle. è un mistero, oh. però il dolore serve a questo, ad affrontare l'impossibile);            
-le ore passate a guardare il libretto nascosto sotto la plastica porta cd. che mi pare che nelle successive ristampe manco lo avessero messo dentro (fai i miliardi e vai a risparmiare su un booklet, pfffff). le pagine traslucide. le immagini cattive, che altro che le copertine dei dischi metal dei miei amici. il personaggio che pensa "amok" e chiaramente è koma al contrario dai, anche perché            
-per un bel pezzo sono stato estremamente convinto che kid a fosse un concept album sulla morte, su cosa succede all'anima dopo che si muore e sulle conseguenze della morte di una persona cara su chi resta. uno dei miei primi contributi sul forum che frequentavo all'epoca  (che belli i forum, quanto mancano i forum) fu un pezzo lunghissimo su questa cosa, analizzando canzone per canzone;            
-in una recensione del disco, segnatamente in una frase riguardante how to disappear completely, avevo letto l'espressione "chitarre sognanti", che un po' mi aveva fatto ridere perché chiaramente è la frase di chi non sa definire qualcosa e allora si butta sul poetico. tuttora quando devo parlare di una canzone e non so cosa dire lancio là un bel chitarre sognanti come inside joke. ma essendo un inside joke tra me e il me stesso 17enne lui non ride mai, con la storia che lui esiste solo nel 2000, sto stronzo. comodo così;            
-how to disappear completely prende il titolo da un libro. la mile mi aveva regalato il libro. anni dopo gliel'ho prestato perché voleva farlo leggere al suo ragazzo. poi si è lasciata col suo ragazzo è non ho più riavuto indietro il libro, che aveva lui. il libro è, quindi, scomparso completamente;            
-i radiohead in quel periodo avevano questa cosa curiosa di fare i tour dei dischi prima dell'uscita dei dischi stessi. quindi io li ho visti nel 2001, pochi mesi dopo l'uscita di kid a, ma era il tour di amnesiac. io e la mile siamo andati a mestre una mattina, saltando scuola, e abbiamo comprato i biglietti (82 mila lire, porca zozza) in un negozio di dischi in una via laterale di piazza ferretto. quel negozio di dischi non esiste più. non esistono più neanche le lire. il concerto dei radiohead del 2001 invece è inciso a fuoco nel mio cuoricino (oltretutto è stato il mio primo concerto in assoluto), e rimane probabilmente  il momento di musica dal vivo più bello della mia intera vita finora. ma ne ho parlato fin troppe volte, quindi taglio corto.            
però ecco, lasciatemi ripetere che ho messo io le batterie per fare il bootleg che trovate in internet, dato che il tizio che lo doveva fare (l'admin e creatore di un forum dell'epoca sui radiohead) era rimasto senza. quindi evviva me;            
-uno dei due tizi con cui siamo andati al concerto di verona sperava di sentire creep. pffffffffffff.            
-kid a, nel tempo, l'ho sentito un sacco.            
-con la mile adesso invece ci sentiamo poco, giusto un paio di volte l'anno. però lei sa che le voglio bene uguale.            
non rileggo. perdonate gli errori e le ripetizioni. 
spero di scrivere qui sopra più spesso.
ve vojo ben.        
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october24th · 4 years ago
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Resoconto Giorno 139
Ieri prima di andare a dormire io e Robb abbiamo parlato di ubriacature e dei vari mood che ci prendono con qualche bicchiere di troppo. Lui affronta tre fasi: può diventare affettuoso, pazzerello o triste e scoraggiato. Mi ha raccontato di un episodio al falò in estate e ho riso troppo a immaginarlo saltare attorno al fuoco. Io mi sono ubriacata seriamente solamente una volta, a capodanno da mia zia quiiindi purtroppo non ho un racconto esilarante da condividere. Quella notte parlai con Robb, ma parlai proprio tanto... sapevo ciò che stavo dicendo, ma probabilmente da lucida non avrei mai confessato determinate cose, anche se quando sono super contenta ci sono momenti in cui mi lascio andare troppo. Le mie amiche non bevono, durante le nostre uscite abbiamo sempre fatto cose normalissime come mangiare un pancake al Mid e restarci ore a parlare. Siamo state in vari localini, ma abbiamo pochi posti preferiti e quando ci entriamo non vogliamo alzarci più. Ci sentiamo proprio a casa sedute sui divanetti a parlare e a ridere mentre si mangia un boccone di torta e la si offre a tutte. Siamo fatte così, quando prendiamo una cosa non è mai di una sola ma di tutte, per poco non la offriamo anche alla gente seduta agli altri tavoli. Condividiamo più o meno gli stessi gusti e quasi tutte siamo disposte ad assaggiare cose nuove, riusciamo a coinvolgerci. Tra tutte io sono quella che cambia continuamente posto e si infila in spazi stretti per potersi sedere vicino ad ognuna. Il nostro tavolo è quello più vivace, siamo quelle che ridono e non si sanno trattenere, quelle che si abbracciano e si baciano ogni due per tre, quelle che trovano somiglianze assurde in persone sconosciute come quella volta che ero convinta di avere davanti il sosia di Sam Smith ma per le altre avevo bisogno di occhiali o quella volta in cui Antonella vide nel cameriere una somiglianza con Mecna e da quel momento ormai lui è proprio Mecna, siamo quelle che danno nomi alla gente e se ne innamorano, siamo quelle che riconoscono i ragazzi della nostra vecchia scuola ma loro non conoscono noi, siamo quelle che si riempiono di complimenti e si fanno le avances, quelle che fanno foto buffe, quelle che si conoscono da sei anni e che hanno litigato abbastanza ma che sono le stesse di sempre, siamo quelle che non si parlano quotidianamente ma quando si incontrano è come se sparisse l’assenza di quei giorni, siamo quelle che si siedono ad un tavolo nell’angolo del locale, siamo quelle che iniziano a raccontarsi le novità degli ultimi giorni per poi perdere il filo del discorso e doverlo ripetere per altre tre volte. Ho poche amiche, quelle di sempre, e abbiamo un legame così forte e particolare da non averlo con nessun’altra persona. È per questo motivo che sono così legata a Robb, in lui vedo caratteristiche affini alle mie e altre ben diverse con cui mi scontro. È raro che io trovi una certa affinità con altre persone. Se penso a noi due in futuro vedo risate, bisticci, sorrisi, abbracci, corse per strada, ubriacature, grida da film horror, sfilate in negozi, supporto, consigli, vicinanza e presenza. Abbiamo la stessa concezione dell’amicizia e ci piace far le stesse cose, si è riservato un posto speciale nel mio cuoricino.
Comuuuunque mi sono dilungata troppo. Zero incubi. Mi sono svegliata con Lola sulle gambe, adorabile. In mattinata il solito. Ho parlato con Imma delle nostre ragazze e delle vecchie amicizie irrecuperabili che purtroppo abbiamo perso. Abbiamo sbloccato dei ricordi come il compleanno a casa di Teresa quando le tirammo le orecchie sedici volte e le spalmammo la torta sul viso, oppure la caccia al tesoro che organizzammo per il quindicesimo compleanno di Chiara o anche al sedicesimo compleanno di quest’ultima quando non aveva voglia di festeggiare e la portammo al McDonalds. Quella sera le prendemmo un muffin, mettemmo una candelina rosa e le cantammo la canzoncina davanti a tutti. Sempre quella sera versarono nel mio bicchiere di Fanta cose come acqua, the alla pesca e coca cola, e io inconsapevole bevvi. Entrambe però non ricordiamo il diciassettesimo compleanno di Chiara, quindi probabilmente le cose già non andavamo bene anche se io e lei abbiamo perso i contatti dopo il suo diciottesimo... c’è qualcosa che mi sfugge sicuramente. Se non fosse stato per lo smistamento dopo il secondo anno, avremmo avuto senza dubbio molti più ricordi insieme, magari avremmo litigato di meno e avremmo legato di più, tutte, anche se non c’è da lamentarsi su ciò che abbiamo ora. Alcune persone le abbiamo perse, abbiamo commesso sbagli e altre persone hanno deciso di tagliarci fuori senza darci una spiegazione logica... si, perché per certe persone “litigare con una è litigare con tutte” e da un giorno all’altro siamo state il nulla totale dopo sei anni. Maturità signori! Imma, Antonella, Alessia e io dopo aaaalti e bassi siamo ancora qua, insieme. Sento Imma ogni giorno, non saprei stare altrimenti, mentre Antonella e Alessia le sento ogni tanto sul gruppo whatsapp che abbiamo. Nonostante ciò ogni volta che ci vediamo è una festa, parliamo e ci divertiamo un sacco. Non vedo queste due dal 10 di Ottobre e non vedo Imma dal 17 dello stesso mese. Mi mancano, molto. A causa di questa situazione che stiamo vivendo da ormai quasi un anno ci siamo viste pochissimo e ho una voglia assurda di vivermele tutti i giorni quando sarà finito tutto. Voglio vedere il più possibile anche Robb poi; ogni alba ha i suoi dubbi, non si sa mai, e non voglio avere rimpianti.
A pranzo zero sgarri. Dopo pranzo ho coccolato Lola e riposato prima di prepararmi e andare a lavoro. Ho fatto un pochino tardiii, mi sono guardata troppo allo specchio prima di scendere... mi sono trovata carina e non mi sono neanche truccata! Quando sono arrivata da zia ho salutato la cagnolina Wendy e il gatto Fuffy, poi sono andata in camera da Nicola che dormiva. Mi sono seduta sul suo letto e ho iniziato ad accarezzargli la spalla piano, lui non si è accorto di nulla. Quando si è svegliato ha sorriso, si è preso dei minuti per riprendersi e poi mi ha abbracciata. Abbiamo parlato un po’ di scuola e dopo sono andata in camera da Antonio per iniziare. Oggi abbiamo fatto matematica, grammatica, due relazioni di educazione civica, musica e anche scienze. Abbiamo finito alle nove, ho voluto anticipare anche qualcosina per venerdì perché domani pomeriggio ho l’incontro con la sua professoressa di matematica e non so quanto tempo avremmo a disposizione. Sono rimasta a cena da zia, non ho mangiato tantissimo gooood. Sono tornata a casa prima delle dieci, Lola mi ha dato un sacco di bacetti. Doccia, pigiama, letto. Ora un po’ di musica prima di riuscire a dormire.
Oggi ho condiviso un bel pezzetto di me. Imma, le ragazze e Robb li sento indelebili.
Comunque sono contenta perché domani arriva il libro di poesie che ho ordinato eeee sabato finalmente vedrò Imma. 🥰
Non ci sono cose che si possono
Non dimostrare dando per scontato
Che siano ovvie di già
13 Gennaio
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giuliakmonroe · 3 years ago
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𝐁𝐞𝐧𝐯𝐞𝐧𝐮𝐭𝐢 𝐬𝐮𝐥 𝐦𝐢𝐨 𝐁𝐥𝐨𝐠 🎔
Post inaugurale di questo blog, ovviamente di domenica, perché è il giorno in cui mi dedicherò a questo sito e vi posterò un breve recap di quella che è stata la mia settimana, tra vita personale, lavorativa, sportiva e tutti i progetti con i quali mi sono oberata.
Progetti di cui trovate una panoramica completa in questo video:
youtube
Per il resto, so che come post introduttivo non è regolare, uno ci si aspetta un minimo di presentazione, ma se siete qui a leggere immagino che mi conosciate già per vie traverse, quindi sarebbe alquanto inutile ammorbarvi con una serie di informazioni sulla sottoscritta che già dovreste aver potuto reperire dagli altri Canali tramite i quali siete giunti fin qui; invece, per chi è nuovo e gli è capitato questo mio post confusionario sotto le mani, beh... seguitemi e imparerete a conoscermi. In fondo, è come quando ci si incontra per la prima volta a una festa e si comincia a parlare: non è che uno sviscera tutto e subito di sé con una bella lista di cosa ci piace o non ci piace, giusto?
Comunque, per chi proprio non lo sapesse, comunico l'unica cosa per me davvero importante: sono un'aspirante scrittrice; tra poco meno di un anno sarò una scrittrice esordiente, perché sto per pubblicare il mio primo romanzo cartaceo per la DarkZone Edizioni, e questo è uno dei motivi per cui ho deciso di aprire questo blog.
Sto cercando di migliorare la mia presenza online, perché come spiego nel video di cui sopra, internet è ormai l'unico mezzo per farsi conoscere, soprattutto in questa giungle selvaggia che è diventata l'editoria italiana, dove c'è più gente che scrive di quella che legge. É una vera e propria guerra e io sono pronta a combatterla. Sì, se vi fa piacere, potete immaginarmi con una divisa militare, una fascetta in testa e due strisce nere disegnare sulle guance. Renderebbe l'idea di quanto io sia seria in questo mio progetto supremo (che poi racchiude in sé tutti i progettini più piccoli di cui mi avete sentito blaterare su).
Ora, passando al recap: da oggi in poi, ogni domenica vi porterò tramite le mie parole dietro le quinte della mia vita, raccontandovi un po' di me attraverso ciò che mi succede durante tutta la settimana. SHOW, DON'T TELL. Chi scrive come me, sa a cosa mi riferisco.
Dato che però oggi è 30 Agosto, ultimo giorno di ferie, ho deciso di fare un recap di tutto il mese, quindi mettetevi comodi, prendete un pacco di biscotti o di patatine o di gelatine tutti i gusti più uno, insomma ciò che più aggrada le vostre papille gustative, e immergetevi in questo breve racconto del mese appena trascorso. Cercherò di non essere noiosa, lo prometto. Sto cercando anche di migliorare come scrittrice, inserendo una vena di ironia nei miei romanzi, quindi questo sarà un ottimo esercizio.
Le mie ferie sono iniziate il 31 Luglio (sì, il giorno del compleanno di Harry Potter, auguri in ritardo Harry e anche zia Jo, che nonostante tutte le mille critiche per le sue esternazioni sul web poco oculate, rimarrà per sempre la mia autrice preferita e il modello a cui ispiro. Per niente pretenziosa io, vero? PS. Non sono affatto di nuovo ossessionata da Harry Potter, è solo un'impressione. Sarà la riscrittura della mia primissima fanfiction, ovvero "Un Particolare In Più" - la trovare su Wattpad e su EFP, dove le sto dando un vero e proprio restyling!). Comunque, sono solo alla prima riga e già sono uscita dal tema, fantastico, Giulia, davvero. Ah già, per chi non mi conosce e se non fosse chiaro dal nome del blog, sono Giulia, piacere! Sopportatemi, non ho intenzione di frenare la mia mente o le mie dita, quindi scriverò qualsiasi cosa mi venga in mente senza farmi troppi problemi o senza farci troppi ricami sopra, quindi sarà sicuramente un blog confusionario, ma tant'è. In fondo, non è così che funziona un diario personale?
Ad ogni modo, cercando di tornare sulla retta via.
Quest'anno, per la prima volta da quando ho abbandonato il mondo degli studi e mi sono inoltrata nel mondo del lavoro, ormai sei anni fa, sono davvero riuscita a staccare la spina. Sì, il pensiero del mio ufficio ogni tanto si è affacciato e mi ha tormentata un pochino, caricandomi il petto di un peso che nell'ultimo periodo lavorativo ho sentito fin troppo spesso, ma sono riuscita ad allontanarlo tempestivamente e a godermi ogni giorno senza pensare a quando questo meritato riposo sarebbe giunto al termine. Non ho neanche risposto alle chiamate dei miei colleghi e probabilmente verrò additata come la solita antipatica, menefreghista e asociale, ma davvero, non mi importa. Io ne avevo bisogno. Avevo bisogno di fingere che non esistessero, almeno per questo mese. Avevo bisogno di ricaricare le batterie, pensare solo a me stessa, godermi la mia provvisoria libertà e dedicarmi a tutto ciò che nel resto dell'anno posso fare solo durante le mie brevi pause dal lavoro (che, facendo un calcolo approssimativo, si riducono davvero a due sole ore piene al giorno, il che è abbastanza deprimente).
Ho vissuto l'ultimo periodo al lavoro davvero male. Quest'anno era partito benissimo, avevo trovato la mia dimensione, mi sentivo fiera di me. Se mi seguite su Instagram (altrimenti al lato della Homepage trovate tutti i link dove venire a seguirmi) sapete che ero riuscita ad adottare uno stile di vita più "zen", se vogliamo definirlo in questo modo. Avevo capito che farmi coinvolgere dai problemi del lavoro, starci male, prendermeli a cuore o prendermene la responsabilità, anche quando non spettava a me, e starci male, con attacchi di ansia, di panico, difficoltà a respirare, come se mi si allagassero i polmoni e l'ossigeno che vi immettevo non fosse mai abbastanza... ecco, non era giusto. Dovevo riuscire a guardare tutto con più distacco, a preoccuparmi del mio lavoro e non anche di quello degli altri, perché se non se ne facevano un problema loro, perché avrei dovuto farmelo io? Eppure, per quanto ci abbia provato, gli ultimi due mesi sono stata letteralmente abbandonata a me stessa. Gestivo tutto da sola in ufficio, cercavo di risolvere ogni problema e alla fine sono annegata.
Quest'anno non può e non deve ripetersi.
Sono riuscita a rimettermi in sesto. Domani tornerò in ufficio e, a dispetto di quel che pensavo, non sono così depressa e nemmeno preoccupata. Riesco a respirare (abbastanza) bene quando ci penso, il senso di oppressione è quasi del tutto sparito, quindi penso di essere riuscita a calmarmi e sono pronta a ricominciare. Ricominciare sì, ma con uno spirito nuovo. Non mi sobbarcherò più del lavoro degli altri e penserò solo a fare il mio, al meglio delle mie capacità, com'è giusto che sia.
Non pensavo davvero che avrei parlato così tanto del mio lavoro, in questo post, ma forse sentivo la necessità di farlo. La necessità di esternare come mi sono sentita e come mi sento ancora adesso quando ci ripenso. La scrittura, in fondo, è una delle migliori terapie e per me ha sempre funzionato. Vorrei piangere, dopo aver scritto questo papiro, chissà perché. Sento anche un piccolo peso sul cuore, ma sorrido e proseguo. Non c'è alcun motivo per essere agitate.
Comunque, dicevo... anzi, in realtà "scrivevo".
In questo mese di ferie mi sono rilassata, ma sono stata anche contenta di non aver oziato tutto il giorno, ma di essere riuscita a iniziare tanti nuovi percorsi, che hanno poi dato vita ai molteplici progetti di cui al video. Ecco quindi una breve lista delle cose per cui sono grata a queste ferie:
1) Ho scritto, tanto e tutti i giorni; maggiormente mi sono dedicata alla mia FanFiction su My Hero Academia, "Distance", che trovate su Wattpad, EFP e Fanfiction.net, ma ho anche ripreso in mano, oltre ogni previsione, "Un Particolare In Più" e la sto revisionando, cambiando e decisamente migliorando. Ho lavorato tantissimo anche alla revisione di "Un Frammento Nel Cuore", romanzo in uscita (ancora non ho una data neanche indicativa) con Le Mezzelane e sono orgogliosa dei progressi che ho fatto, di come la stiamo evolvendo insieme all'editor. É stato terribile e al tempo stesso meraviglioso scoprire quanto lavoro ancora io debba fare per migliorare come scrittrice e intendo farlo, garantito.
2) Sono uscita dal blocco del lettore e ho ripreso rileggendo la Saga dell'Attraversaspecchi. Una cosa bella (e terrificante!) di me è che la mia memoria non funziona molto bene, quindi sto leggendo i libri quasi fosse la prima volta. Certo, ho un'idea generale di cosa succede, ma non ricordavo quasi nulla dei dettagli e della trama di ogni singolo libro, quindi immergermi di nuovo nel mondo di Ofelia e Thorn è fantastico e mi sta facendo sognare forse ancor di più che la prima volta.
3) Mi sto allenando giornalmente, seguendo video di esercizi su YouTube che mi stancano il giusto, appagando la mia voglia di migliorare sia dal punto di vista estetico che atletico. Da Settembre riprenderò anche il corso di JuJitsu, quindi spero di riuscire a mantenere un buon ritmo, a non farmi scoraggiare e stressare troppo dal lavoro e ad avere costanza con tutti gli allenamenti. Dall'anno scorso ho perso circa 10 Kg, ma adesso sto veramente faticando a buttare giù ogni grammo, anzi capitano giorni, come oggi, nei quali nonostante sia ligia, mi alleni e mangi intorno alle 1300 calore al giorno, la mia stupida bilancia segna grammi in più invece che in meno, ma pazienza, devo essere paziente e non arrendermi. Vedrò i risultati col tempo, se non mi lascio abbattere.
4) Ho passato un sacco di tempo con la mia famiglia e per me è una cosa super importante. Amo i miei genitori, sono la mia vita, e poter trascorrere del tempo con loro, specialmente da quando ho "lasciato il nido" e ho cominciato a costruirmi una vita tutta mia, è per me meraviglioso. Devo anche ammettere di essere stata estremamente fortunata a incontrare un ragazzo meraviglioso, che capisce le mie esigenze e non mi fa mai pesare nulla, anzi. Un vero amore e forse non lo sa, perché non lo dimostro mai abbastanza, ma gli sono grata e lo amo per tutto quello che fa per me.
5) Ho visitato un sacco di posti nuovi e ho scattato tante foto, altra cosa che mi ha reso super contenta: da una parte, non me ne sono stata sempre chiusa in casa, ma ho riscoperto la gioia di passeggiare all'aria aperta, nella natura, in luoghi nuovi e meravigliosi; dall'altra, sto cercando di imparare ad accettare me stessa e il mio fisico per come sono, quindi anche se non sono perfetta, anche se non sono una modella, mi sono atteggiata a tale e ho scattato foto stupende in posti stupendi. Ve ne lascerò una carrellata nei prossimi post.
Bene, direi che per oggi è tutto (non lo so, ho scritto un romanzo, ma cosa vi aspettavate da una scrittrice?)
Spero abbiate voglia di seguirmi qui (come su tutti gli altri social, che vi ricordo trovate nella mia Homepage).
Alla prossima domenica, un bacio enorme.
Vostra Giulia K. Monroe
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rideretremando · 4 years ago
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ELENA PULCINI,
LA FILOSOFIA CHE SALVA
Che cos’è la passione?
La passione è l’energia affettiva che ci motiva all’azione, è la sorgente profonda delle nostre scelte, preferenze, credenze. Non ha niente a che fare con l’ “irrazionale”, cioè con l’altro dalla ragione, a cui ha per lo più cercato di ridurla il pensiero occidentale e moderno. Attraverso le passioni (preferisco parlarne al plurale) noi conosciamo, comunichiamo, entriamo in relazione con il mondo, ci mettiamo in gioco. Certo, si tratta di energie intense, durature che pervadono l’intera personalità del soggetto; non vanno infatti confuse con le emozioni o gli stati d’animo, come la paura che insorge se un’auto sfreccia veloce mentre attraverso la strada, o come la gioia che mi investe se incontro inaspettatamente un amico che credevo perduto per sempre. Le passioni sono quelle che ci infondono una particolare tonalità emotiva e che presiedono di volta in volta alla relazione con l’altro, attraverso una dinamica aperta di reciproca trasformazione. Ovviamente questo non vuol dire che non ci siano passioni negative, persino capaci di distruggerci. Il punto è proprio questo: la qualità prismatica, ambivalente, imprevedibile delle passioni; che non solo ci impone di distinguere tra negative e positive, ma anche di capire che ci sono passioni positive, come l’amore, le quali possono annientarci e passioni negative, come la vergogna, che ci inducono a preoccuparci del giudizio dell’altro e a riaccedere a una dimensione etica. Etica è infatti la proprietà di tutte le passioni che ci spingono a tener conto dell’altro, a mettersi nei suoi panni, ad esercitare la nostra capacità di empatia. Ed è proprio l’empatia -attualmente oggetto di una importante riscoperta scientifica, ma già valorizzata dalla filosofia di Hume, Smith, o Scheler- la radice comune di quelle che propongo appunto di chiamare passioni empatiche, in quanto sono ispirate dalla capacità di mettersi nei panni dell’altro e di partecipare al suo vissuto. Una qualità emotiva che il pensiero moderno ha prevalentemente ignorato, finendo per identificare le passioni unicamente con quelle egoistiche.
Perché l’invidia è una passione triste?
Passioni tristi, che non vuol dire malinconiche, è una definizione che possiamo trarre da Spinoza, che le associa ad una condizione di depotenziamento del Sé e le oppone alle passioni “gioiose”: nelle quali al contrario egli vede l’espressione della “vis existendi”, della potenza di esistere. L’invidia è a mio avviso l’esempio più significativo delle passioni tristi, in quanto scaturisce da un senso di inferiorità che rende il soggetto incapace di tollerare il bene dell’altro (il suo talento, successo, bellezza) che viene vissuto come una sconfitta, una ferita narcisistica del Sé. Perché lei/lui sì e io no? È la domanda silenziosa e inconfessata che avvelena l’anima, e corrode la relazione, fino a pervertirsi nella nietzscheana Schadenfreude, cioè nel piacere che si prova di fronte al male e alle disgrazie dell’altro. L’invidia è una passione universale, persino i greci la conoscevano bene, ma prospera paradossalmente nelle società democratiche, in quanto è alimentata da quella che Tocqueville chiamava “l’uguaglianza delle condizioni”. È qui che essa mostra tutta la sua peculiare ambivalenza: si manifesta infatti allo stesso tempo come volontà di eccellere e intolleranza verso la sia pur minima differenza, desiderio di autoaffermazione e tendenza al conformismo, onnipotenza dell’Io e trionfo del desiderio mimetico di essere come l’altro. Non è difficile riconoscere in questi fenomeni le patologie più evidenti della nostra società narcisistica: patologie difficili da combattere perché l’invidia non si confessa mai come tale, lasciando tutt’al più trapelare quello “evil eye”, quello sguardo maligno che ci colpisce senza che ce ne accorgiamo…
Che cosa ha determinato la perdita del legame sociale?
L’assoluta egemonia di una prospettiva economicistica. Il soggetto moderno trova la sua raffigurazione nell’homo oeconomicus: motivato, come accennavo sopra, da quella che già Thomas Hobbes chiamava la “passione dell’utile”, vale a dire da passioni egoistiche, dalla realizzazione dei propri interessi, da quella brama di guadagno e di profitto che ha prodotto la progressiva atrofizzazione, o comunque rimozione, delle passioni empatiche. L’abbaglio della ricchezza e del benessere, la fantasmagoria della merce, come la chiamava Walter Benjamin, è così potente da oscurare altri moventi e obiettivi. Ed è la miccia che fa esplodere la logica seduttiva e incontrastata del capitalismo, di cui si è vista ancora troppo poco la molla emotiva: che non è solo il desiderio di beni materiali e di una vita prospera, ma anche quel desiderio di prestigio e di status che, a partire dalla modernità, viene conferito dalla ricchezza. Un desiderio che è poi a sua volta figlio dell’invidia: in una sorta di corto circuito tra passioni dell’utile e passioni dell’Io del quale, nella nostra effimera società dello spettacolo, siamo sempre più prigionieri, e al quale abbiamo sacrificato la relazione, il legame sociale, il bene comune.
“La cura del mondo” è uno dei suoi libri più significativi. La ritiene ancora possibile?
Penso che sia più che mai necessaria e urgente. Sembra incredibile ma dal 2009, l’anno in cui il mio libro è stato pubblicato, il mondo ha subito trasformazioni radicali, per non dire sconvolgenti, sintomo del fatto che velocizzazione e accelerazione non sono più parole che individuano una tendenza, ma una realtà che constatiamo ad un ritmo quasi quotidiano. E’ come se una serie di fenomeni finora ipotizzati, ma rimasti ancora in nuce, stessero esplodendo. Penso al fenomeno migratorio, certo, che assume proporzioni sempre più estese e preoccupanti, ma soprattutto al cambiamento climatico dei cui effetti siamo ormai ogni giorno testimoni. Ne è esempio inquietante questa torrida estate del 2019: il mondo sta bruciando, non solo per incendi devastanti in Siberia, Canarie, foresta amazzonica, ma per temperature così alte da sciogliere i ghiacciai della Groenlandia e mettere a repentaglio l’equilibrio ecologico del pianeta. Impossibile ovviamente fare previsioni precise, ma è certo che siamo entrati nell’era dell’Anthropocene: quella in cui tutto è prodotto dall’azione umana, e la natura, come realtà a noi esterna e autonoma, rischia di scomparire insieme alle risorse indispensabili alla vita. Abbiamo creato le condizioni per la nostra autodistruzione. Eppure non c’è ancora sufficiente consapevolezza di questo. Il genere umano è di fronte ad una sfida epocale che non sembra in grado di affrontare anche perché mette in atto meccanismi di diniego e illusorie strategie di indifferenza. La responsabilità e la cura non sono più un’opzione né solo un dovere etico, ma un meta-imperativo, un impegno concreto e ineludibile se vogliamo salvare il pianeta, le generazioni future, il mondo vivente.
Qual è la trasformazione più eclatante che ha modificato il soggetto occidentale?
È quella che ho appena evocato e che stiamo attualmente vivendo, il mistero della tendenza dell’umanità all’autodistruzione. Tendenza paradossale che sfida i paradigmi fin qui conosciuti: da quello, peculiare della modernità, di un soggetto prometeico, di un homo oeconomicus razionale e progettuale capace di foresight e proiettato nel futuro, a quello, esaltato dal pensiero postmoderno, di un soggetto edonista che si oppone all’etica del sacrificio per godere della felicità del presente. Oggi assistiamo, come direbbe Günther Anders, alla perversione di entrambi, a causa della scissione tra fare e immaginare, tra conoscere e sentire. Abbiamo un Prometeo senza foresight e un Narciso senza piacere: il primo sembra aver perso il senso e lo scopo dell’agire e procede ciecamente senza più chiedersi le conseguenze future del suo agire. Il secondo appare schiacciato sulla futilità della ricerca di un illusorio e autarchico benessere, ormai incapace di anelare alla felicità. Le sfide epocali della contemporaneità esigono perciò un nuovo tipo di soggettività, che deve ancora nascere, che si assuma la responsabilità del futuro e del destino del mondo e metta in atto strategie di cura per la ricostruzione di un mondo comune e per la difesa del mondo vivente. Ne cogliamo tracce nelle forme di solidarietà col diverso, nella lotta per la giustizia e per i diritti delle minoranze, e soprattutto nelle lotte per la difesa del pianeta che testimoniano auspicabilmente il farsi strada di una nuova consapevolezza dei rischi a cui siamo esposti e della necessità di nuove strategie.
La filosofia può limitarsi soltanto alla riflessione o può incidere in un contesto così complicato?
Oggi non abbiamo più bisogno di quella che chiamo una filosofia senza mondo, arroccata nella cittadella delle sue sofisticate riflessioni astratte, ma di una filosofia per il mondo; che in primo luogo recuperi l’originaria alleanza con la politica, intesa come preoccupazione per il destino della polis, come nella Repubblica di Platone; e che in secondo luogo sia disposta a riflettere in presa diretta con l’attualità. Insomma una “filosofia d’occasione”, per riprendere l’espressione di Anders, che sappia non solo continuare tenacemente a porre domande in un mondo che sembra annegare in una oppiacea indifferenza e nella banalità dell’ovvio, ma anche porre le domande giuste: quelle cioè che sanno opporsi alla manipolazione della verità, sempre più diffusa, per cogliere le trasformazioni in atto, individuare di volta in volta i veri pericoli, interpretare e dare la priorità agli eventi simbolicamente rappresentativi.
Che cos’è l’identità?
Non mi è mai piaciuta molto questa parola, perché contiene in sé il rischio di una fissità, compattezza, definitività, egemonia, che limita se non addirittura preclude, l’apertura, l’inclusione, il cambiamento; che non contempla in altre parole, l’idea di differenza. Basti pensare all’identità maschile che ha imposto il suo modello a livello universale relegando, nel migliore dei casi, l’identità femminile nel ruolo di un “altro” inevitabilmente subalterno. Una dicotomia che possiamo ulteriormente declinare in etero/omosessuale, bianco/nero, nord/sud ecc. L’identità è insomma facilmente esposta alla sua assolutizzazione, con effetti di dominio e di violenza. Lo vediamo oggi in particolare nello scontro, anche planetario, tra identità collettive, soprattutto quelle fondate su radici etniche e/o religiose, tese alla difesa di un Noi totalitario ed endogamico che si (ri)costituisce attraverso l’esclusione violenta dell’altro, del diverso; e sulla costruzione di capri espiatori su cui proiettare l’immagine stessa del male, sia che si tratti della contrapposizione planetaria occidente/islam, sia che si tratti di conflitti locali (come gli innumerevoli conflitti dei paesi dell’Africa, dal Ruanda al Mali ecc.). Indubbiamente i conflitti identitari sono oggi acuiti dai processi di globalizzazione, come ritorno regressivo del “locale” dentro il “globale”; fenomeno nel quale emerge comunque un bisogno di riconfinamento che fin qui è stato sottovalutato dalle forze progressiste e a cui è invece necessario - se non si vuole cadere nella trappola mortifera dei razzismi e dei populismi- dare una risposta, ripartendo da una diversa idea di comunità, compatibile con la libertà.
Di cosa è figlia la paura che attanaglia l’umano?
La paura non deve essere identificata tout court con una dimensione negativa. E’ infatti la passione primordiale, quella che, come ci insegna Blumenberg, ci spinge a costruire una familiarità con il mondo che ci circonda, cominciando con l’evitare i pericoli e sfuggire alle insidie. E’ dunque figlia della nostra ontologica vulnerabilità, che è ciò che definisce l’umano. E riconoscere la vulnerabilità è oggi più che mai salutare per un genere umano caratterizzato dalla perdita del limite e da una hybris narcisistica accecante. La vulnerabilità è insomma una risorsa, anche in quanto ci spinge ad interrompere la spirale di illimitatezza della quale siamo diventati inconsapevolmente prigionieri. La paura è infatti la passione del limite, il semaforo rosso, il campanello d’allarme che ci apre gli occhi di fronte al pericolo. Bisogna però reimparare ad avere paura. Oggi ne siamo evidentemente pervasi, ma di quale paura si tratta? Da un lato l’angoscia paralizzante, di cui ci parla Freud e che ritroviamo in una edizione attuale nella “paura liquida” di Bauman, che ci corrode internamente ma non sa individuare un bersaglio, scivolando da un oggetto all’altro in una sorta di perenne indeterminatezza; dall’altro, la paura persecutoria di cui parlavo prima, che proiettiamo sull’altro come nemico e origine di tutti i mali: una paura che si traduce in sentimenti violenti e distruttivi -come odio, rabbia, risentimento-, terreno di coltura di razzismi, nazionalismi, guerre religiose, atroci rivalità etniche. Presi tra questa forbice tra angoscia e paura persecutoria, finiamo per non vedere i veri pericoli, come quello che pende sul futuro del pianeta e delle prossime generazioni e ci trinceriamo dietro meccanismi di difesa (come il diniego e l’autoinganno) che ci esonerano dall’obbligo di una risposta. Reimparare ad avere paura significa dunque ritrovare la capacità di distinguere tra ciò che dobbiamo o non dobbiamo temere, tra paure giuste e paure sbagliate.
L’Altro è fuori o dentro di noi?
C’è evidentemente un altro fuori di noi: il prossimo, il diverso, l’amato, l’amico, il collega, lo sconosciuto che incontriamo nella sua concreta e tangibile corporeità. A cui si aggiunge l’altro virtuale, l’ “amico” dei social con cui chattiamo condividendo pensieri (fb) o immagini (instagram). E poi ancora c’è l’altro distante: distante nello spazio (il migrante) o nel tempo (le generazioni future). La nostra epoca produce una proliferazione delle figure dell’alterità in quanto moltiplica i luoghi –reali, virtuali o immaginari- della relazione, dell’incontro. Ma la nostra capacità di rapportarci a questa molteplicità di figure dipende molto dalla relazione che abbiamo con la nostra alterità interna: quanto più mi lascio contestare dall’altro che mi abita, dalla differenza che mi impedisce di chiudermi nella mia identità, tanto più saprò confrontarmi con l’altro esterno. Se sono in grado di riconoscere che il Sé contiene sempre un altro o meglio molti altri, sarò in grado di accettare l’altro concreto nella sua differenza, provare empatia per lo sconosciuto e persino per chi vive in territori lontani, nonché distinguere tra un’esperienza reale di relazione con l’altro da una relazione puramente virtuale, incorporea: senza tuttavia a priori negare la possibilità che persino una relazione virtuale possa diventare fonte di coinvolgimento emotivo…
Quando espelliamo l’Altro, in realtà che cosa espelliamo?
Espelliamo quella parte di noi che ci contesta dall’interno e che ci impedisce, come dicevo, di rinchiuderci nei confini asfittici di un’identità compatta che non lascia spazio alla differenza. Essere in contatto con l’alterità vuol dire mantenere viva la consapevolezza del fatto che l’identità è una struttura contingente, dovuta all’intreccio casuale di fattori che potevano anche comporsi in modo diverso, e che sono sempre passibili di cambiamento, dato l’incessante divenire dell’umano nella precarietà e nella vulnerabilità. Ed è questa consapevolezza che ci permette di riconoscere l’altro concreto nella sua stessa differenza; perché il bagaglio che egli porta con sé (di storia, cultura, suoni, colori e sapori) può diventare oggetto di curiosità, e persino di arricchimento, piuttosto che di diffidenza e di paura, come purtroppo accade sempre più spesso nelle nostre società, che chiamiamo multiculturali, ma che sono ben lungi dall’esserlo davvero. Noi, cittadini del mondo globale, siamo tutti esposti, inevitabilmente, alla reciproca contaminazione: possiamo scegliere di accettarla governando la paura e disponendoci alla reciproca solidarietà, o possiamo trincerarci nell’illusione immunitaria di chi pensa ancora di poter erigere muri.
“Essere singolare plurale” è possibile o è solo il titolo di un libro di Jean-Luc Nancy?
Temo il giorno in cui non lo considereremo più possibile. Ma indubbiamente non è un obiettivo facile anche se, come ci suggerisce Nancy, possiamo appellarci alla verità ontologica dell’essere-in- comune. Perché se è vero che l’essere è essere-con, è vero anche che la storia ci mostra un’infinita serie di tradimenti di questa nostra condizione. E allora bisogna interrogarsi sul perché: sul perché almeno in Occidente, l’individualismo ha nettamente prevalso sulla comunità e l’identità sulla pluralità. Quali motivazioni, passioni, interessi abbiano fatto sì che l’essere si mostrasse in un’unica, o prevalente prospettiva assumendo una connotazione unilaterale, impoverita se non addirittura patologica. Insomma, come sostengo da tempo, l’ontologia non basta; bisogna mobilitare interrogativi antropologici ed etici per spiegare luci ed ombre della condizione umana e individuare strategie per correggerne le patologie (tra cui, la più paradossale come abbiamo visto è la tendenza all’autodistruzione). La formula di Nancy, che ha peraltro una chiara radice arendtiana, è concettualmente efficace in quanto ci invita a valorizzare il singolo senza cadere nell’individualismo e a ripensare la comunità al di fuori di ogni organicismo, cioè all’insegna della differenza e della pluralità. Per raggiungere questo obiettivo, dobbiamo agire non solo “come se” fosse possibile, ma creare nuove congiunture, nuovi paradigmi che siano all’altezza di questo compito.
Come si passa dall’uomo economico all’uomo reciproco?
L’homo reciprocus, la figura in positivo che ho proposto nel mio L’individuo senza passioni, è appunto uno dei possibili, nuovi paradigmi sui quali possiamo scommettere per rispondere alle patologie del sociale e alle sfide del mondo globale. E’ la risposta alla prospettiva puramente utilitaristica e strumentale dell’homo oeconomicus, che ha privilegiato la logica dell’interesse, dell’acquisizione e del profitto sacrificando o marginalizzando tutto ciò che esula da questa logica -la relazione, la comunità, le passioni empatiche, la gratuità-; provocando non solo l’erosione del legame sociale, ma precludendo uno sviluppo più pieno e più ricco dell’individuo stesso. L’homo reciprocus è colui che integra l’unilateralità del paradigma economicistico (dell’utile e dello scambio) con la dimensione del dono, inteso nel senso proposto da Marcel Mauss, di struttura della reciprocità. Ben lungi dall’essere un modello di buonismo, egli non fa altro che attingere a moventi altri i quali, come ci ricorda per esempio Amartya Sen, sono intrinseci all’essere umano tanto quanto la ricerca dell’utile. Lo mostra il fatto che il dono non è il frutto di un dover essere, ma un evento che agisce già, spontaneamente, nel sociale; e che aspetta solo di essere valorizzato e praticato, al fine non solo di ricostruire il legame sociale, ma di riaprire l’accesso ad una felicità che rischia di inaridirsi totalmente nella ricerca egoistica del benessere materiale.
Responsabilità, uguaglianza e sostenibilità sono tre parole-chiave per interpretare il futuro. Quale delle tre fa più fatica a essere coniugata?
Si potrebbe pensare che fra le tre l’uguaglianza, godendo di una lunga tradizione nel pensiero moderno, sia quella più consolidata e meno attaccabile. Ma in realtà non è così perché va ripensata e riconfermata a fronte delle inedite minacce cui la espongono fenomeni complessi come la crisi della democrazia, il populismo, l’irruzione dell’altro come diverso. Indubbiamente però le altre due sono più direttamente connesse a fenomeni inediti e al tema del futuro. E’ infatti nel contesto di un’etica del futuro resa urgente dal primo manifestarsi delle sfide globali (nucleare, ecologica) che, con Hans Jonas nella seconda metà del ‘900, emerge l’importanza del concetto di responsabilità, intesa come responsabilità per: per il mondo, la natura, le generazioni future, in una parola per l’intero mondo vivente. E ciò vuol dire che c’è un nesso intrinseco tra responsabilità e sostenibilità. Abbiamo reso il mondo insostenibile, come già accennavo sopra, a causa della nostra hybris, della nostra avidità e della nostra cecità; abbiamo saccheggiato la terra in tutti modi possibili, la crisi ecologica sta esplodendo attraverso fenomeni sempre più accelerati. Dunque, siamo noi che l’abbiamo prodotta e siamo noi che dobbiamo farcene carico, assumendo, qui ed ora, la responsabilità per uno sviluppo sostenibile. Siamo di fronte ad una scommessa senza compromessi: dall’assunzione di responsabilità dipende la possibilità di prefigurare un mondo sostenibile e dalla sostenibilità dipende il futuro della vita, o meglio di una vita degna di essere vissuta.
La differenza emotiva del femminile è una risorsa potenziale ancora inespressa pienamente?
Qui bisogna fare una premessa. Il femminismo ha molti volti perché sfaccettato e complesso è il pensiero delle donne. Penso che non tutte si riconoscerebbero tout court in questo presupposto della differenza emotiva, che io condivido senz’altro insieme ad alcune voci del femminismo (come l’etica della cura): purché però venga sottoposto ad uno sguardo critico-decostruttivo. In altre parole, è vero che le donne sono state tradizionalmente identificate con l’amore, la cura, i sentimenti, ma questo patrimonio ereditario le ha anche fortemente penalizzate: non solo confinandole nel privato e nella pura gestione dei rapporti familiari, ma anche privandole di quello che chiamo il diritto alla passione. Oggi uno dei concetti preziosi del pensiero delle donne è quello di un soggetto in relazione, che va a contestare l’idea egemone (e patriarcale) di un Sé del tutto autonomo e autosufficiente (basti richiamare l’homo oeconomicus o il soggetto cartesiano). Tuttavia, è importante addentrarsi meglio nell’idea di relazione: che non vuol dire oblatività, cura sacrificale, dedizione -le qualità su cui a partire da Rousseau è stata costruita l’immagine moderna della donna che ancora conosciamo bene- quanto piuttosto attenzione, empatia, desiderio e passione per l’altro. Se la integriamo con la potenza del pathos, la differenza emotiva delle donne può essere non solo una risorsa ma una risorsa rivoluzionaria, capace di sovvertire l’idea consolidata (maschile) di soggetto, astratta e atomistica, e di valorizzare quella capacità di relazione che può (e deve) investire non solo l’altro come prossimo, ma la comunità, la città, la natura, il mondo vivente.
A quale autore e a quali testi deve di più la sua formazione filosofica?
In generale, il mio percorso è stato scandito dal pensiero critico: da Rousseau, che (nonostante le sue “colpe” relative alla visione delle donne!) ha di fatto inaugurato la filosofia critica, alla Scuola di Francoforte, da Marx a Tocqueville, da Anders ad Arendt. E poi il pensiero francese del 900: dal decostruttivismo di Derrida al Collège de sociologie (Bataille), da Michel Foucault alla filosofia dell’alterità (Lévinas). E last but not least, al femminismo. Tra i testi a cui sono particolarmente grata: La democrazia in America di Tocqueville, Eros e civiltà di Marcuse, L’uomo è antiquato di Anders; senza dimenticare il Simposio di Platone, Il disagio della civiltà di Freud…
Che cos’è la politica?
La politica è la cura della polis attraverso la capacità di prendere decisioni, rispettando quella funzione di rappresentanza dei cittadini che richiede un grande senso di responsabilità. A partire dalla modernità, la politica è per così dire inscindibile dalla democrazia come forma di governo, vale a dire dalla attiva partecipazione di tutti alla cosa pubblica (res publica). E’ ciò che Hannah Arendt chiamava un “agire di concerto”, nel quale essa vedeva un vero e proprio “miracolo”; anche perché presuppone un agire insieme nel rispetto della pluralità. Ma questo miracolo -che non pare proprio esistere in nessun luogo del mondo- richiede comunque la vigile e attenta consapevolezza critica di quelle che con Tocqueville possiamo chiamare le patologie della democrazia: individualismo, indifferenza e delega, torsione autoritaria, esplodere delle passioni tristi come l’invidia o la paura del diverso, erosione del legame sociale. Non abbiamo ancora ben compreso che la politica (e la democrazia) non sono qualcosa fuori di noi, ma siamo noi: dobbiamo quindi costantemente educarci alla democrazia -come sosteneva anche un autore illuminato come John Dewey- per correggere le degenerazioni sempre possibili ed agire per il bene comune, valorizzando le risorse positive intrinseche sia ai soggetti che al sociale.
Che cosa diventa la politica se perde l’aggancio al perseguimento del bene comune?
Diventa pura gestione degli interessi egoistici dei gruppi in conflitto, lotta per la conservazione del potere, tradimento della rappresentanza, visione shortsighted, capace solo di policies, per lo più inefficaci, per affrontare la contingenza e incapace di abbracciare più ampi ideali. E’ questa purtroppo l’immagine prevalente della politica oggi in diverse parti del mondo: aggravata da forme estreme e stupefacenti di avidità e di corruzione, da manipolazioni senza scrupoli di passioni e opinioni che tendono a trasformare il conflitto in violenza, dal ritorno del carisma e del potere carismatico, riproposto in forme caricaturali e pericolose ad un tempo, e sostenuto da involuzioni populistiche spacciate per legittimità democratica. Inoltre, ignorare il bene comune oggi vuol dire rendersi colpevoli dell’indifferenza verso il futuro e i destini di un mondo che, come ho detto, è percorso da sfide inedite, ed avrebbe perciò estremo bisogno di nuove parole d’ordine e nuove pratiche.
La globalizzazione è vista come nemica da alcuni popoli perché non governata?
In realtà la globalizzazione è molto “governata”: non dallo Stato e dalla politica, certo, che mostrano sempre di più la loro debolezza di fronte alle accelerate trasformazioni globali, ma dai poteri forti -economico, tecnologico, mediatico/informatico- pilastri del capitalismo neoliberista, capaci di varcare ogni confine, ispirati solo dalla logica del profitto e pronti allo sfruttamento senza scrupoli delle risorse planetarie, naturali ed umane. Gli Stati a loro volta tendono a rispondere per lo più arroccandosi difensivamente su posizioni cosiddette sovraniste, nell’illusione di poter difendere i propri confini con politiche “illiberali” che fanno appello con tutti i mezzi possibili, inclusa la menzogna legittimata da media e social networks, all’identità nazionale. Un processo bifronte ben sintetizzato dalla formula global/local, che si adatta anche alla dimensione antropologico/culturale: da un lato omologazione, indifferenziazione, pensiero unico, dall’altro emergere (dentro e fuori dell’Occidente) di comunità regressive sempre più alimentate da logiche immunitarie e dalla costruzione di un Noi esclusivo e ostile. Basti pensare, in Occidente, all’espulsione del diverso che trova il suo culmine nella sciagurata gestione del fenomeno migratorio, o, fuori dall’Occidente, all’escalation del fondamentalismo (soprattutto) islamico, fino ai suoi estremi terroristi. Eppure, in questo scenario desolante, c’è chi avanza l’ipotesi di un’ “altra” globalizzazione: non più del mercato ma del senso, per dirla con Nancy o Edgar Morin. Una globalizzazione come processo emancipativo, nella quale cogliere la chance di pensarsi come un’unica umanità: stretta intorno alla necessità di affrontare le patologie sociali e le sfide ecologiche, determinata a combattere le disuguaglianze senza negare le differenze, capace, come propongono Jeremy Rifkin e Peter Singer, di estendere i cerchi dell’empatia fino ad includere i poveri della terra e le generazioni future. Le condizioni oggettive di questa possibilità ci sono e sono date in primo luogo da quell’interdipendenza degli eventi che ci unisce di fatto in un legame planetario. Non ci resta quindi che mettere alla prova la nostra capacità soggettiva di cogliere la chance: quella di costruire, per usare il lessico di Alain Caillé e del Manifesto convivialista che ho attivamente condiviso, una società conviviale globale.
Siamo ancora nella società liquida di Bauman o la intende superata?
Con il concetto di società liquida, Bauman coglie senza dubbio una trasformazione importante del nostro tempo, ancora decisamente attuale, che pone l’accento su una diffusa condizione di incertezza e di fragilità dovuta al franare di regole e valori consolidati, all’assenza di punti di riferimento e alla frammentazione del legame sociale. Liquida, per darne solo qualche pennellata, è la società nella quale, a differenza della prima modernità, “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria” (come recita la metafora di Marx), lasciando gli individui in balia di un cambiamento permanente che rende endemica la vertigine del disorientamento. E’ la società caratterizzata dall’individualismo illimitato di cui parlavo sopra, che alla perdita del legame e del progetto, dei valori e della stabilità delle relazioni e del lavoro, risponde con la precarietà e la futilità del consumismo, del successo, dell’apparire ad ogni costo, dal teatrino dei talk shows alla ricerca dei like come conferma della propria fragile identità. E’ la società che esalta l’immediatezza e l’accelerazione a scapito dei contenuti. Tuttavia, in questo scenario ancora attuale che consacra il trionfo della precarietà e dell’effimero, vediamo rinascere forme che possiamo definire solide, sia pure in un senso nuovo, le quali affiorano inevitabilmente dal rimosso: forme regressive, come il revival di ideologie razziste, xenofobe e totalitarie a fondamento di comunità immunitarie e pateticamente esclusive (quello che ho chiamato comunitarismo endogamico); ma fortunatamente anche forme emancipative, come la rinascita di movimenti collettivi tesi alla ricostituzione del legame sociale, all’affermazione del valore della comunità e dei legami affettivi, all’assunzione della responsabilità collettiva (verso il pianeta, la natura) e della solidarietà (verso l’altro, il diverso). Non possiamo che scommettere, nel senso pascaliano, su quale di queste due forme avrà la meglio, puntando ovviamente sulla seconda.
Ormai solo un Dio o solo la filosofia può salvarci?
Se mi lasciassi sopraffare dal pessimismo, sarei tentata di aderire all’ammonimento heideggeriano. Ma se vogliamo darci una speranza, la filosofia può effettivamente venire in nostro soccorso: continuando in primo luogo a porre domande radicali e coraggiose che scuotano le coscienze in un mondo percorso da un lato da un oppiaceo individualismo e da una colpevole indifferenza, e dall’altro da ottuse regressioni verso miti identitari. Come ho già detto, abbiamo bisogno di una filosofia vitale che non tema di contaminarsi anche con altri linguaggi (letteratura, psicoanalisi, cinema) laddove il concetto e l’argomentazione non sono (più) sufficienti. Ma, come mi ha insegnato soprattutto il pensiero delle donne, la filosofia deve anche fornire risposte, prospettive, sentieri inediti, che siano all’altezza delle sfide della contemporaneità. È quello che chiamo un normativismo er-etico, che non proponga schemi astratti o retorici imperativi, ma tenda a valorizzare le risorse intrinseche sia al soggetto che al sociale; e che abbia il coraggio di lanciare nuove e rivoluzionarie parole d’ordine.
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lafotografaindie · 4 years ago
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RACCONTI PER RITROVARMI - 19 - ALICE
Questa è solo una lettera ad un’amica. Io senza di lei non sarei chi sono, però lei non c’è più. 
Ci sono parti del nostro passato che non vogliamo mai lasciare andare, ed io questa parte l’ho sempre voluta tenere stretta e nascosta. 
“Ti prego non andare via!”, “Torna nei miei sogni la notte, più che puoi, ti prego vediamoci ancora!!”. 
Non lasciare andare, significa solo negare e soffrire e non amare abbastanza. 
Ciò che meritiamo davvero, io e lei, è che i nostri ricordi vengano vissuti e celebrati.
“Quante volte abbiamo varcato quel cancello.  
Quante volte correndo in ritardo? Quasi sempre.
Abbiamo fumato un sacco di sigarette nel giardino, nel parcheggio. 
In questo parcheggio mi ricordo la mattina che m’hai insegnato a girare i drummini e mi prendevi in giro perché ero una pippa. 
Mi ricordo il motorino tuo parcheggiato davanti a quel cancello verde e i passaggi verso casa, che mi cagavo sotto perché correvi. 
Mi ricordi le litigate, gli sbrocchi per i voti bassi, le feste per quelli alti.
Mi ricordo le telefonate fino a sera tardi e i milioni di messaggi a tutte le ore.
Le dediche sul diario, gli aperitivi, le feste e le sorprese sotto casa.
Io e te eravamo uguali, per questo ci volevamo così bene, però non lo sapeva nessuno. La nostra confidenza e i nostri segreti, rimanevano solo nostri. E così ci raccontavamo tutte le paure, gli errori e i pensieri che non condividevamo neanche con le nostre rispettive migliori amiche. 
Mi ricordo l’ultimo ciao che t’ho detto, oltrepassando quel cazzo di cancello. 
Quella volta che t’ho detto pure “ti voglio bene!”, che non lo dico mai ma quella volta per fortuna si, perchè tu me lo avevi scritto di nascosto su una pagina del libro di Italiano che stavamo studiando qual giorno, sullo stesso banco verde che avevamo diviso per tanto tempo. 
Era l’ultimo giorno prima delle vacanze di pasqua.
Mi dispiace non essere venuta a trovarti. Avrei dovuto. Avrei voluto, ma era tutto così difficile, ed ero così sola.
Questo pensiero mi tortura costantemente, io non c’ero.
Una volta in un sogno mi hai detto che andava bene così, e io ho deciso di crederci, che mi vuoi bene comunque, anche se non c’ero vicino a quel letto di ospedale. 
Quanto è assurda la vita. Era l’anno della maturità. Era l’anno che ci portava al futuro. Il futuro che ci faceva tanta paura.  
Sai una cosa Ali? 
Il futuro fa ancora paura, pure oggi che so passati 6 anni e io sono grande.
E poi, sinceramente, sto futuro non me lo immaginavo senza de te. 
Sappi comunque, che ti penso sempre. Faccio tutto, anche per te.
Ti voglio bene. Sei un pezzo di me e lo sarai sempre.”
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paoloxl · 5 years ago
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(via Trieste 9 marzo 1985 - Pedro Greco "giustiziato" dalla Stato - Osservatorio Repressione)
Nel corso dell’operazione di polizia, viene ucciso,  benché disarmato e senza abbia opposto resistenza, il militante di autonomia operaia Pietro Maria Greco. Il Questore della città è Antonino Allegra, già capo dell’ufficio politico milanese al tempo del ‘suicidio’ di Giuseppe Pinelli.
– Pietro Maria Walter Greco nasce a Mileto Porto (RC) il 4 marzo 1947 – si trasferisce in Veneto alla fine degli anni sessanta – nel ’79 si trasferisce a Padova e si iscrive a statistica, dove si laurea – lavora come insegnante di matematica in una scuola media di Padova – viene inquisito e prosciolto per i Collettivi Politici Veneti nell’inchiesta contro l’autonomia veneta nella primavera ’80 – nel 1982 viene nuovamente inquisito – va in esilio a Parigi – viene ucciso dalla polizia a Trieste il 9 marzo 1985
[Pedro esce di casa, dall’appartamento al terzo piano; una volta giù decide di rientrare. Appostati all’esterno ci sono 4 sicari dello Stato italiano. Sono Nunzio Maurizio Romano, agente del Sisde (che ha il compito di riconoscerlo); Giuseppe Guidi, viceispettore della Digos; Maurizio Bensa e Mario Passanisi, agenti della Digos di Trieste. Il Romano, il Guidi e il Passanisi entrano nello stabile e si mettono in agguato nel sottoscala. Quando Pedro discende le scale il Romano gli si para davanti e spara due colpi calibro 38 a meno di mezzo metro di distanza che lo colpiscono ai polmoni. Immediato il fuoco incrociato degli altri due poliziotti killer che colpiscono Pedro con pallottole calibro 9 alla spalla e alla gamba. Nel piccolo atrio si conteranno successivamente i segni di almeno una dozzina di colpi. Pedro fa appello per l’ultima volta alla sua straordinaria forza di volontà, uscendo in strada e impedendo così che tutto si svolga senza testimoni. Esce, ferito mortalmente, parecchi passanti lo sentono gridare “mi vogliono ammazzare mi vogliono ammazzare”. Il Bensa, rimasto all’esterno dello stabile, appena vede Pedro gli spara, alle spalle. Pedro si accascia sanguinante dopo pochi metri. Il Passanisi lo ammanetta. Trasportato in ospedale con notevole ritardo, muore verso le 11.50] *non è tratta dal libro
Documenti prodotti da organizzazioni armate per la persone o per l’evento in cui ha incontrato la morte – Franco Fortini, “A Mino Martinazzoli”, in Lettere da Lontano, L’Espresso 16 novembre 1986 “L’assoluzione -tale è la sentenza di Trieste- di chi ha ucciso Greco non è sorprendente; né l’indifferenza dei partiti politici, da quelli che difendono “la vita” a quelli non contrari al terrorismo in uniforme (tornava in Francia, emigrato politico; agenti in borghese vanno a prelevarlo; fugge, sparano, lo ammazzano. “Sembrava avere un’arma” dicono. Era disarmato. Due condanne a 8 mesi, condizionale e non iscrizione). Quando leggo di sentenze come quelle non penso ai criteri dei giudici ( lei, ex ministro di giustizia ne sa più di me). Prima di tutto perché dei fatti so solo quel che se ne lesse. E poi perché ho paura e sto molto attento a non violare il Codice penale. (Quello della calunnia, non ho più l’età per temerlo). Purtroppo o fortunatamente è vero però che i responsabili dei quali mi interesso – e dunque non delle uccisioni né della sentenza ma del loro significato – non sono coloro che hanno sparato né coloro che 2ne hanno benedette le mani con un sorriso”, come tanti anni fa ebbi a scrivere per l’uccisione di Serantini; sono i politici e i loro portavoce ossia i giornalisti e gli operatori della comunicazione che quei significati conferiscono o lasciano conferire. Lei, caro Martinazzoli, è di buone letture. Mi permetta di rammentarle due versi di Baudelaire. Il “tu” invocato è Satana ma, per un cristiano, potrebbe essere il Sommo Bene: “Tu che al proscritto dai lo sguardo calmo e nobile / che intorno a un patibolo danna un popolo intero”. Non so se l’ucciso fosse colpevole alcunché; proscritto senza dubbia, se tornava da una sua emigrazione politica. Condannato a morte da alcuni specialisti fra dipendenti di due o tre ministri con i quali, fino a poco tempo fa, lei sedeva per il bene della Repubblica, Greco non era su un palco in attesa della lama o della corda. Non aveva “le regarde calm et haut”. Gridava: “mi vogliono ammazzare, aiuto!” Ma il popolo intero che la sua morte condanna e danna, quello sì, c’era. Mi basta scendere per la via per incontrarlo. E’ il nostro popolo, la gente che amiamo e stimiamo apparentemente inseparabile da quella che, forse insieme ai più, detesto, e , debbo pur dirlo, odio e vorrei veder ridotta non alla ragione (che è impossibile ormai) né al pentimento (che non è in mio potere) ma all’impotenza almeno. E’ il popolo che ascolta distratto o ignora cronache come quella di Trieste; e si danna così. Non credo alla giustizia della storia, che è di invendicati. Né che l’accumulo di sopraffazioni, latrocini, corruttele, oppressioni dei deboli e beffe della giustizia, debba finire, prima o poi, col muovere le pietre e la gente. Tutt’altro. Chi non guarda più i telegiornali, se proprio non si trova sulla traiettoria dei proiettili della Digos, avrà altre cose cui pensare invece della intenzionale o preterintenzionale trasformazione, grazie a quei piombi, di un giovanotto in un fantoccio da obitorio. Oggi, voglio dire, Nemesi sceglie vie invisibili, come nelle viscere del fall-out atomico. Il giusto ne è punito quanto il peccatore, a riprova che in ognuno dei due c’è una quota dell’altro. Lentamente, giorno dopo giorno, una impercettibile diminuzione dell’ossigeno morale annichilisce cellule, rabbercia circuiti vivari e precari. Come certe specie di anfibi adatti alle spelonche, che hanno ancora occhi ma senza uso o bisogno di vista, così intere generazioni possono convivere con una crescita di tossico storico negli alveoli. E’ quel che chiamiamo decadenza; di popolo o di continente: solo vera punizione attribuibile al Tribunale della Storia di cui parlò Hegel. Grazie a quest’ultimo, non dimentico che essa va di pari passo col suo contrario. Scopro, pieno di ammirazione, prove di vitalità, qualità, coraggio, severità di cui questa nazione è ricca e capace; e poi, quando tali forze positive siano, come oggi, offese e sprezzate, se ne cerchi allora al di là dei confini la amicizia vittoriosa… La “denuncia” di quella cosa che non oso neanche definire, dico la sentenza di Trieste, mi parrebbe stolta eloquenza senza seguito di azioni, foss’anche minime, com’è di scriverle questa lettera. Perché leri, caro Martinazzoli, ha poteri che io non ho. Mi creda, con ogni rispetto, suo Franco Fortini”.
(…) Cosa dire di un compagno per noi indispensabile? Pedro lo ricordiamo sempre accanto a noi  dalle lotte degli universitari, a partire dal ’68, alle lotte in mensa come lavoratore dell’Opera, a quelle dei precari della scuola. Per questo, per la sua internità alle istituzioni di movimento, a quelle stesse lotte che ci hanno unito e che tuttora ci uniscono, Pedro ha subito varie inquisizioni da parte di Kaloegero (inquisizioni suffragate solo dalle parole dei pentiti, puntualmente crollate). Ancora una volta in prima fila, al primo posto, pronto a pagare di persona, duramente, con ulteriori anni di latitanza, sospensione dal lavoro, riduzione del proprio reddito strappato con le unghie a questa società di merda, per creare migliore qualità della vita. Pedro, 38 anni, Pedro accanto ai giovani del centro sociale “Nuvola rossa”, accanto a quella che era la sua classe di appartenenza, quella degli sfruttati, dei senza-casa, dei senza reddito, di chi non si lascia sconfiggere, di chi continua comunque a lottare. Lo ricordiamo durante le lotte del censimento con noi proletari disoccupati, con noi per la solidarietà, per internità, perché Pedro era così. E così lo vogliamo vivere, nelle nostre lotte, non come un ricordo ma come una presenza sempre viva, in mezzo a noi, indispensabile fino in fondo, ricordando anche il suo sforzo estremo. Ci piace immaginarlo così: che corre fuori dall’atrio di quel condominio-tomba di via Giulia a denunciare con voce forte, ancora una volta, purtroppo l’ultima per lui, che lo Stato uccide ma che questa volta non sarà possibile mistificare, non sarà possibile creare la montatura, il “mostro” (…) Grazie compagno Pedro per quello che ci hai saputo dare, grazie compagno per la forza che ancora ci tiene vivi, incazzati e mai arresi, insieme a te e adesso anche per te. A pugno chiuso compagno nostro, col sangue agli occhi, tu ci mancherai molto perchè tu sei per noi tutti uno degli indispensabili”.
-Claudio Latino, carcere Due Palazzi, 13 marzo 1985 “Parlare di Pedro, della sua vita, della sua figura di compagno a questo punto è struggente. Molti lo hanno conosciuto e ancora di più ne avranno sentito parlare. Senza retorica si può dire che pochi hanno la sua capacità di comunicare e socializzare, la sua carica e la sua determinazione, la sua intelligenza e la sua coerenza”.
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amabilii-restii · 5 years ago
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2.4
Dopo ogni discussione inizio sempre a pensare a cosa abbiamo sbagliato, a cosa ho sbagliato, a cosa si poteva evitare di dire.
E questa volta, queste sono le mie conclusioni.
Non è sempre facile dire la cosa giusta, fare la cosa giusta. Non è sempre fare dare il 100% di noi stessi all'altro, soprattutto quando siamo immersi da pensieri.
Ti chiedo scusa, voglio che tu sappia che quando l'ansia prende il sopravvento su Eleonora fino ad annientarla a volte vorrei solo qualcuno che mi prendesse per i capelli e mi tirasse su. Vorrei fosse più facile spiegarti anche il più strano dei pensiri che ho in testa in quel momento, ma non ce la faccio, non ci riesco, inizio a piangere.
Vorrei fosse più facile liberarmene e stare tranquilla, ed invece per qualche strano e stronzo motivo se ne accumulano sempre di più. Vorrei saperti descrivere come non mi senta “io” in quei momenti e come io cerchi dolcezza e rassicurazioni.
Ti chiedo scusa per la pesantezza, perché solo dopo, quando acquisisco lucidità mi rendo conto di quanto sia difficile starmi accanto, di quanto sia difficile capire, ed allo stesso tempo non posso che dirti GRAZIE per starmi accanto sempre, anche quando i miei pensieri sono talmente fitti che io non riesco a vederti.
GRAZIE perché ci sei anche quando non sembra, ci sei anche quando io ti sento lontano. Ci sei anche quando tu pensi che io non ti veda, ma credimi, ti sento sempre. Io ti ho dentro.
Ti chiedo la pazienza, la dolcezza, anche quando vorresti staccarmi la testa e chiudermi la bocca per non farmi più parlare. E’ proprio in quei momenti che ne ho più bisogno. Ti prometto che saprò ripagarti con tutto l’amore e la dolcezza del mondo, il minuto dopo. 
Ti chiedo scusa se qualche volta sembra io non veda ciò che fai, i grandi passi che stiamo facendo e voglio farti sapere che non è così. E' solo che ogni volta che facciamo un passo di quelli belli, allora io vorrei subito farne altri 100 ancora più belli, finendo a volte per non godermi il momento.
Ogni singolo minuto con te, per me, equivale ad un “per sempre”. Ed è vero come dici tu, che nel mondo ci saranno mille persone migliori di noi, ma non posso farci niente se penso che NOI, IO e TE, siamo destinati ad essere.
Non posso farci niente se penso con tutta me stessa che TU sia il mio LUI, perché il sole è uno solo, il resto sono solo luci.
Vorrei poterti dire di più, vorrei farti capire tutto ciò che ho dentro, inondarti di emozioni, quelle emozioni che cerco sempre di farti provare. Emozioni nuove, emozioni mai viste, ma anche emozioni che già conosci e che possono avere un sapore tutto nuovo.
Vorrei semplicemente scriverti una dichiarazione d'amore. Una lettera d'amore, di quelle che ti lasciano un po' senza fiato, un po' senza parole. Una di quelle che non ti aspetti, perché pensi di aver provato già tutte le emozioni possibili e sia impossibile provarne di nuove.
Una di quelle lettere che ti facciano innamorare ancora di più di ciò che sono, di ciò che siamo. Perché ogni passo, da quando ho preso la mia decisione, mi ha portato a te. A noi.
Mi ha portato a lottare, nella speranza di vedere un giorno, la persona di cui mi sono innamorata. E che continuo a vedere, anche sotto mille scudi, anche se tu non ti piaci. Sappi che sono innamorata anche della parte di te che proprio non ti piace e che in questo momento non riesci a cambiare.
Vorrei scriverti qualcosa che non immagini, qualcosa che sia in grado di dirti che sei stato nei pensieri di una persona tutto il giorno, una di quelle lettere che fanno un po' l'effetto dei libri dove mentre leggi la tua immaginazione vola e le parole si trasformano in immagini. Volevo scriverti semplicemente qualcosa in grado di toglierti il fiato come tu lo togli a me ogni volta che ti guardo.
Alla fine non è importante come te lo dico, l'importante è che ti ricordi il mio amore per te cercando di trovare sempre parole nuove per te e per questo sentimento che mi stupisce ogni giorno di più. Mai avrei creduto all'esistenza di questo sentimento, mai avrei creduto di poterlo provare con una persona come te ma forse il bello dell'amore è proprio questo: succede con chi non ti saresti mai aspettato e ti travolge come un uragano.
Da quando ti ho conosciuto il mondo è diverso, so che è sempre lo stesso ma è diverso il modo in cui lo guardo io; il tramonto non è solo un tramonto ma uno spettacolo che vorrei condividere con te, la pioggia non è solo pioggia ma una melodia che vorrei ascoltare insieme a te, ci sei nelle piccole cose ed anche in quelle grandi. Sei in ogni mio gesto, in ogni mio pensiero, in ogni mio battito.
A volte non so sempre riconoscere i tuoi malumori, e mi faccio subito prendere da mille pensieri. Ti chiedo scusa, ma allo stesso tempo ti chiedo di accettarmi così come sono, sto combattendo contro tanti mostri, e nonostante tu mi stia vicino, nel combatterli sono da sola.
A volte non so riconoscere i tuoi silenzi, ma voglio amare le tue lune storte, amare i tuoi difetti e amare così come sei incondizionatamente.
Mi hai insegnato e mi stai insegnando ogni giorno ad amare, amare senza condizioni, amare anche le cose che di solito farebbero uscire pazzo chiunque, amare i tuoi dettagli quelli che nessuno nota se non passa del tempo con te o se non ti sa osservare bene, perché nella tua felicità, io fiorisco. Perché amo quel sorriso che mi manca già non appena lo saluto.
C'è qualcosa nella tua voce, nei tuoi occhi, nel tuo sorriso, nel tuo modo di guardarmi mentre parliamo che non ho mai trovato in nessun altro. Mi piace tanto quando mi guardi di nascosto cercando di non farti vedere, alla fine la maggior parte delle volte riesco comunque a notarlo anche se poi ti dico che non mi guardi mai.
Amo il fatto che tieni tutto per te, che non dimostri mai niente, anche se a volte vorrei essere tua amica, confidente, amante, il tuo tutto. Amo quando non vuoi dirmi una cosa, ma basta uno sguardo per farti parlare. Amo il fatto che, prima di te, non avevo mai notato queste piccole cose in nessun altro e, sopratutto, che non le avevo mai amate.
Mi piace guardare i tuoi occhi e attraverso quelli, guardare la vita. Mi piace stringere le tue mani ed incastrarle con le mie. Mi piacciono le tue labbra che mi riempiono di baci, ogni tanto! E mi piacciono quei baci che sanno di felicità. Stavo aspettando l'amore, senza nemmeno cercarlo. Io stavo aspettando te. Tu non eri da immaginare. Sei così bello e tanta bellezza non esisteva nella mia mente. Tu eri solo da incontrare, qualsiasi luogo o tempo non avevano importanza.
Ed in tutto questo tempo una cosa l'ho imparata: con te anche condividere il silenzio sa diventare qualcosa di speciale. Io che le parole le amo tanto, io che forse potrei anche scrivere un libro sulla nostra storia se solo mi impegnassi.
Vuoi sapere se mi sono mai chiesta se fossi quella giusta per te? Sì, tante volte, da quando me lo hai detto per la prima volta di sfuggita. Ma restando al tuo fianco, ho capito che non esiste la persona giusta, esisti tu e tu sei la persona che io amo, che io voglio nonostante tutti i miei errori, e che solo noi possiamo scegliere con chi vogliamo stare.
Io ho scelto te, ti ho scelto senza rendermene conto, quando per la prima volta ho visto i tuoi occhi avevo già scelto ogni tuo sguardo. Mi appartenevi ancora prima di entrarmi dentro.
Ti ho scelto inconsapevolmente e consapevolmente nonostante i mille errori che, come dico sempre, spero con tutto il cuore che un giorno tu potrai perdonare.
Ti ho scelto e forse non c'è nemmeno un perché cosi razionale, da poterti dire il perché io ti abbia scelto. E forse non è nemmeno uno scegliersi, ma semplicemente un appartenersi.
E sento di appartenerti anche quando i pensieri, le litigate, le incomprensioni sembrano dividerci. Anche quando fa male, anche quando non ci capiamo o non vogliamo capirci. Anche quando la rabbia, le paura e l'orgoglio sembrano avere la meglio.
Ti chiedo scusa per quei momenti che non riesco a controllare, ma quando tu sei accanto a me anche nel più semplice dei gesti o con la più semplice delle parole, allora io mi sento a casa. Allora io mi sento al sicuro e quei pensieri anche se non spariscono, si fanno un po' più piccoli.
Me lo sono chiesta tante volte, magari io non sono affatto la donna della tua vita e non ci sarò nel tuo futuro, e va bene ci può stare. Ma sono nel tuo presente e finché potrò ti ricorderò sempre ciò che tu sei per me.  
Lo so, non sono la donna perfetta, sono piena di difetti, piena di paranoie e di insicurezze che a volte non sopporti, ma nonostante questo provo a darti il meglio di me, cerco di renderti felice, provo ogni giorno a donarti tutto l'amore che ho dentro e riempirti di sguardi, di abbracci, di baci e, in generale, di affetto. Nel mio piccolo per quanto possibile sto provando a trasformare le piccole cose in grandi cose perché l'unica cosa che desidero è vederti felice.
L'unica cosa che desidero da questa nostra relazione è farti ridere perché mi piace il suono della tua risata quando scherziamo. L'unica cosa che vorrei da questa relazione è vederti sorridere e prenderti la mano e portarti a ballare con me, anche se non sappiamo ballare. Farti sorridere e sentire i tuoi sussurri perché è bello quando sei tu a dedicare a me dolci parole, come sabato, anche se sai che non mi servono mille parole per farmi sentire bene ma mi basta semplicemente il tuo sguardo.
Voglio dedicare a te tutto il tempo di questo mondo, anche se non basterebbe mai, e di inventarmene di più se necessario.  
Non possiamo costringere le persone ad amare o ad amarci, o ad amarci come vorremmo noi ma ho sempre sperato tu potessi farlo, che tu potessi arrivare al punto di innamorarti di nuovo e perché no, amarmi ed immaginarmi con te in un futuro.
Perché come dico sempre le cose non piovono dal cielo, ma dobbiamo prendercele in un qualche modo. Non credo che riuscirei ad immaginare il mio futuro senza te, perché ormai io immagino te in ogni cosa che faccio. Anche se a volte non è facile, e credimi lo so, tienimi! Non ti dico che sarà facile, ma può valerne davvero la pena.
Perché anche se non sappiamo ciò che sarà il futuro il solo pensarci e volere una persona rende questo futuro meno immaginario e più reale, rende questo futuro un po' più certo, quasi da poterne sentire gli odori, i colori e le sensazioni. Non so se capisci cosa intendo. Ecco, questo è ciò che provo quando dico di volerti nel mio futuro e quando ti chiedo se io ho un piccolo spazio nel tuo: trasformare come per magia quell'incertezza in una piccola certezza.
E sabato, con quelle tue parole, quel futuro così tanto utopistico, di colpo non lo è stato più. Il tono della tua voce, la dolcezza dei tuoi respiri, dei tuoi “bibba”; ed è per questo che sono crollata davanti alla paura che sia cambiato tutto, quasi come se mi fossi immaginata tutto ciò che c'era stato.
Che poi alla fine fattelo dire non immagino nemmeno chissà cosa o chissà quali situazioni, mi immagino le cose semplici con te. Non immagino grandi gesti, grandi viaggi o grandi situazioni, immagino la semplicità di averti al mio fianco ogni giorno. La voglia che ho di andare al mare con te.
Tu guarderai il mare ed io guarderò te con il vento che mi scompiglierà i capelli troppo ricci e tu che delicatamente me li sposterai per poi baciarmi, in uno di quei baci con una dolcezza infinita e quel tuo sguardo che ogni volta mi scioglie; quegli occhi di cui mi sono innamorata quando questi ancora non mi conoscevano.
Immagino il nostro futuro ma non immagino grandi cose, immagino la semplicità che potrebbe essere e tutto questo è bello anche solo da pensare, perché ti voglio e lasciarti andare sarebbe l'errore ed il rimpianto più grande della mia vita. Saresti quella persona che continuerei a cercare ovunque, anche nei posti dove so di non poterti trovare. Ma mi piace di gran lunga pensare che in quei posti posso in un futuro averti con me. Ed è per questo che ti voglio e voglio provarci, ogni giorno.
Ti voglio con me, in un modo impertinente, non perché penso che tu sia perfetto anzi forse potrei e potresti trovare di meglio, ti voglio non perché credo di essere perfetta per te o perché credo di poterti migliorare o cambiare perché a me piaci così come sei. Ti voglio e ti ho scelto non perché mi stanca l'idea di poter “cercare altro” come ogni tanto dici tu, io ti voglio per quello che sei, per i difetti che hai, per come mi guardi, per come a volte non mi ascolti e mi interrompi e poi non mi lasci più parlare, per come mi fai arrabbiare e ogni tanto pure piangere, ti voglio per come riesco magicamente a farti arrabbiare o per come riesco a rovinare tutto in un secondo per poi andare in panico, ti voglio per come mi stringi quando facciamo l'amore e perché fare l'amore con te mi piace in un modo illegale ma ti voglio anche per come mi fai sorridere, per il modo in cui mi ami e per come ti fai amare.
Io voglio infilarmi in questo caos con te, di non aspettarti chissà quali cose perché l'amore è fatto di cose semplici e di tenere a mente che non mollerò e che finché ci sarò, ci sarò con tutto l'amore che posso darti.
Ho scelto con cura la persona che doveva incasinarmi la vita, e sono felice della mia scelta , perché in questa scelta ho scoperto l'amore. L'amore che tutti cercano e che pochi scoprono.
Quando ti dico che ti voglio, che ti vedo nel mio futuro e che ti amo ti sto dicendo che voglio fare del mio meglio per riuscirci, solo che lo riassumo in poche frasi; ti sto dicendo che so di non essere perfetta o forse la ragazza giusta per te ma voglio che tu mi veda così come sono: piena di difetti ma innamorata. Perché tu ti meriti un amore inedito, un amore al quale nessuno prima aveva mai pensato ed io vorrei tanto dartelo.
So che non posso costringerti o importi di crederci e dar peso a queste parole, ma posso dirtelo. Credici.  Ti voglio con me, e non voglio perdere l'occasione, incerta ma possibile, di essere felice finalmente con te.
Credo proprio di amarti, in un modo che ancora devo capire ma che mi sembra totalmente incredibile.
Adesso per tutto quello che abbiamo già condiviso e, in anticipo per tutto quello che verrà.
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fedtothenight · 5 years ago
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oddio ti prego sfogati se te la senti, sono stra curiosa
Dille in italiano allora perché sto morendo dalla curiosità ahahah
in realtà sono passata dell’essere incazzata per l’articolo all’essere incazzata con la gente. l’articolo è rimpinzato di minchiate e vabbe’, lo sappiamo, finché è dentro l’armadio gli articoli lo saranno sempre, però uno avrà anche il sacrosanto diritto di lamentarsi di suddette minchiate o no? se qualcuno vuole concentrarsi sul positivo, gli altri saranno anche liberi di concentrarsi sul negativo? no, perché, se vogliamo fare una divisione ‘ciò che ha detto harry’ vs ‘il messaging e il branding che è stato infilato dentro questo poema epico come lo stuffing di un tacchino alla cena del ringraziamento’, allora: harry ha detto un sacco di cose interessantissime e sacrosante sull’appoggiare le minoranze, etniche e sessuali, sul non voler passare come l’uomo bianco che parla al posto tuo, sul femminismo, sui suoi gusti musicali, ma poi tah, sono come gli americani che piazzano l’ananas su una pizza, eccallà: le donne con cui è uscito, casamigos, la fan di manson, un sacco di roba che lo fa sembrare pretenzioso, l’intera scena di lui che non ha mai letto un libro in un colpo solo prima di uscire con una che leggeva CIOEEEEEEEE’ CIOEEEEEEEEE’ MA PERCHE’ ME LO FATE PASSARE PER CRETINO PERCHEEEEEEEEEEEE’. una scena presa da una fanfiction su wattpad in cui destiny hope è una awkward girl che legge e poi incontra harry e si fa trapanare come i cantieri della salerno reggio calabria e nel frattempo gli insegna l’alfabeto. cioè poi uno non si deve incazzare capito? messaging: funghi, sesso (con donne), casamigos, cose da hipster, los angeles di qua los angeles di là, il bachelor pad, tutto ciò è l’ananas sulla perfetta pizza che è la personalità di harry. e lo sappiamo, lo SAPPIAMO, che è così, è il suo branding, GIURO LO SO, ma CHIEDETEGLI QUALCOSA CHE LO RENDEREBBE UN 25ENNE, cazzo, non lo so, chiedigli perché minchia si è tatuato sì e no sulle ginocchia, il telefilm preferito, una minchiata qualunque. E PORCO*IO la gente può lamentarsi? la gente può leggere tutto ciò, essere cosciente che purtroppo questo è, e comunque lamentarsi? E INVECE NO NON PUOI. COME OSI LAMENTARTI. C O ME OSI P R O V A RE EMOZIONI, devi concentrarti solo SU QUELLO CHE VOGLIONO LORO. l’attitudine di questo fandom è sempre che, se la pensi diversamente, stai sbagliando, devi lavorare su come ti senti, eh, no, non ha detto quello, eh, no, non puoi interpretarlo così. come ti senti non è giusto. le emozioni che provi non vanno bene. ‘lista di cose che harry ha detto’ DIO BON LE HO LETTE ANCHE IO MA POTRO’ ANCHE LAMENTARMI DEL RESTO SI’? tipo la parte delle ciabatte che mi ha fatto venir voglia d’essere cerebralmente morta. ‘tira uno shot ogni volta che la gente dice x’ no, io tiro uno shot per dimenticare il post tuo. non voglio chiamarlo gaslighting perché quello è una cosa seria, ma se non è gaslighting è una almeno un certo giramento di coglioni. e sai cosa? lo faccio anche io. sono parte di questa macchina marcia e mo’ mi vado a fare una doccia e sotto la doccia mi schiaffeggio da sola. PORCODDEMONIO A ME SERVONO I FUNGHI PSICHEDELICI. A ME, A MEEEEEEEE. PASSATEMELI VI PREGO
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elisa16421 · 5 years ago
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Siamo tutti sotto lo stesso cielo
“…Mi ripetevo ciò che Cesare diceva spesso sotto il leccio, per consolarci: l’umanità intera ha attraversato tutto questo, gli stessi identici passi, ed è ancora lì, perciò anche tu sarai capace di superare questa notte difficile.”
- Divorare il cielo di Paolo Giordano
Questo passaggio è tratto da un libro bellissimo che ho letto l’autunno scorso e che mi ha lasciato veramente tanto.
Tutti abbiamo avuto giornate giornate “no”, specialmente a questa età. Per chi non sapesse chi sono, mi presento: mi chiamo Elisa ed ho 18 anni, ma non credo vi serva sapere altro per il momento e poi sono abbastanza convinta che vi basterà leggere ciò che scrivo per conoscermi. Il punto è: come reagiamo a queste giornate dove ci sentiamo tristi? La tristezza è una cosa buona e bisogna lasciarla passare dentro di noi, fidatevi. Quindi se volete rimanere a casa e riposarvi fatelo, se volete piangere fatelo, se tutto quello che concludete in un giorno è alzarvi dal letto è okay. Poi, invece, se vogliamo mettere tutto su una scala, abbiamo il dolore ed a quello non ci si abitua mai, o almeno io non ci sono ancora riuscita. Si impara a sopportarlo, più o meno bene, ma fa sempre male. Per chi ha sperimentato questo tipo di sensazionima (anche se, diciamoci le verità, ci siamo passati un po' tutti) a volte magari vi è capitato di esservi sentiti “in colpa” o che la vostra tristezza fosse immotivata perché si sa, ci sono cose peggiori nella vita e che quindi non avete il diritto di lamentarvi se il parrucchiere vi sbaglia il colore, ma non è così. Il vostro dolore non ha meno valore di quello di chiunque altro, ognuno ha la sue ragioni, ognuno è diverso ed è giusto così. E cosa più importante, ognuno soffre a modo suo, non ci è stato dato un libretto di istruzioni alla nascita quindi se per dar sfogo al mio dolore posto 30 mila post su instagram nessuno ha il diritto di criticarmi.
Cosa ci accumuna allora? E’ questa la domanda che mi interessa.
Quest’anno volevo avere uno zaino nuovo ma personalizzandolo un po', così ho deciso di farci dipingere sopra da una ragazza, che realizza questi tipi di oggetti, un quadro. Inizialmente ero indecisa su delle opere di Magritte e cercando mi sono imbattuta nel “La Reconnaissance Infinie”, un suo dipinto che oserei dire non sia abbastanza celebre, perché non mi era mai capitato di vederlo prima, ma non saprei dirlo effettivamente con sicurezza. Allora mia zia, mia sorella ed io abbiamo giocato un po' cercando di dare una nostra personale interpretazione prima ancora di conoscerne il titolo ( se non vi va di cercare la traduzione significa: “L’infinito Riconoscimento”).
La mia prima interpretazione è stata un po’ diversa dalle altre. Io vi ho visto (e ci vedo tutt’ora) due persone simili, due anime affini per così dire, intente a discutere in mezzo alla vastità di un cielo macchiato solo da qualche nuvola. Il tutto penso possa combaciare anche con il titolo del quadro; riconoscimento come l’essersi trovati tra tanti e al tempo stesso essersi elevati tra tutti, indisturbati, per questo il cielo.
Mi sono commossa quando ho riascoltato e capito con una consapevolezza diversa e nuova allo stesso tempo il brano “Simili” di Laura Pausini (vi invito ad ascoltarlo se non lo avete mai fatto). Vi auguro di trovare questa persona, ma senza fretta, c’è tutto il tempo del mondo.
Comunque sia, siamo tutti strettamente collegati tra di noi. Noi essere umani siamo profondamente ed umanamente uniti. Nella prima definizione di umanità su Treccani troviamo scritto: “L’essere uomo, condizione umana, sopratutto con riferimento ai caratteri, alle qualità, ai vantaggi e ai limiti in eventi a tale condizione” e tra questi, mettetela dove volete, tra i caratteri, tra le qualità, tra i vantaggi, tra i limiti, c'è la sofferenza, oppure se preferite non mettetela da nessuna parte. E per chi in questo momento ha bisogno di sentirselo dire o ha bisogno semplicemente di un promemoria: noi non siamo soli. Altri ci sono già passati ed altri ne sono già usciti, dobbiamo trovare la nostra forza gli uni negli altri. L’empatia è una cosa difficile, lo so, bisogna imparare a coltivarla e dove c’è solo deserto proprio a piantarla ma ce la faremo, un passo alla volta. Vi lascio con questa storia che racconto spesso e che mi ha fatto crescere e maturare, uno dei punti che ho scritto tra le “orientativamente 18 cose che ho imparato in orientativamente 18 anni della mia vita”.
Ero, se non sbaglio, al primo anno delle superiori e mi ero beccata un impreparato in geostoria che avrei potuto perfettamente evitare, ma non fu così per il semplice fatto che non mi aspettavo di essere chiamata in quanto prima di me ci dovevano essere altri da interrogare, ma ecco che improvvisamente il ragazzo d’avanti a me si giustifica perché non aveva potuto studiare poiché era stato male e si era assentato una settimana da scuola cosa che, tra le altre cose, sensibile com’ero, non avevo neanche notato. Sono tornata a casa arrabbiatissima e ho raccontato l’accaduto ai miei genitori sottolineando il fatto che si era giustificato proprio quello che era rimasto una settimana a casa e che dunque, secondo me, poteva benissimo studiare e mio padre mi ha rimproverata. Non l’ha fatto perché avessi preso l’impreparato, ma l'ha fatto perché non mi dovevo permettere di dire quelle cose, perché non sapevo effettivamente che problemi avesse avuto quel ragazzo e che, comunque sia, non era necessario saperlo ma bisognava a prescindere essere compresivi e rispettosi perché io avrei voluto la stessa cosa se mi fossi trovata nella sua stessa situazione. Lì ho capito e spero lo abbiate fatto anche voi.
Ci dobbiamo solo volere più bene perché, in fondo, siamo tutti guerrieri.
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pangeanews · 6 years ago
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“Ho vissuto innumerevoli epoche, forse è la fine dei tempi. Nell’attesa, faccio esercizi di flessione”: per i 25 anni dalla morte di Eugène Ionesco (e chi se lo fila più?)
Non se ne parla, il suo nome sigilla con catena doppia ciò che è passato. Nonostante la doppia ricorrenza rotonda – 110 anni dalla nascita e 25 dalla morte – non sento risuonare ovunque il nome di Eugène Ionesco. Forse non va più neanche in scena. Eppure, se vogliamo stare in tema, quest’anno sono anche i 60 anni da Il rinoceronte, che è, insomma, l’opera emblematica, insieme al ‘Godot’ di Beckett, del secondo Novecento. Devo dire che neppure editorialmente di Ionesco c’è più molto, in Italia: i volumi Einaudi del Teatro completo risalgono al 1997, poi chi si è visto si è visto, anzi, chi l’ha più visto? Come se ci fossimo stancati di pensare.
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Ionesco, infatti, quando la Romania era il cuore dell’inquietudine, il diamante nero dell’Europa, un cristallo, è uno che pensa, che solleva l’ultima scaglia di contraddizione che sta nell’uomo, è uno che va a fondo, per questo è insopportabile. Certo, è strano. L’uomo ustionato dalla sorda assurdità dell’esistere, avo al vigore del nulla – negli anni della Seconda guerra lavorò all’ambasciata rumena sotto Vichy – divenne accademico di Francia e osannato da mezzo mondo. Ora è roba assurda, nell’assuefazione al noto, pure lui.
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In una intervista televisiva del 20 luglio 1990, rilasciata a Gabriel Liiceanu, Ionesco spiega molto di sé parlando di Cioran. Dopo aver rodato i suoi rovelli biblici (“Nasciamo, cresciamo in forza, in bellezza, e a poco a poco arriva il crollo ed eccoci tutti zoppi, brutti, fragili… come è possibile questo, come è permesso e perché?”), medita sull’amico. “Cioran ha la fortuna di avere qualcosa che lo tranquillizza, lo rappacifica, ed è la bellezza del suo stile. Il mio stile non è bello e non mi è di alcun aiuto. Mi ripeto con orrore che morirò. Mi ripeto, con infinita angoscia, che mia figlia, mia moglie moriranno, e senza scampo: si può fare qualsiasi cosa, ma non c’è scampo. Allora mi rivolgo non certo a Dio, ma a Gesù Cristo che è mio fratello e, quindi, più vicino a me. È Lui che invoco, è Lui che interrogo, però nemmeno Lui mi risponde”. Dopo una corretta osservazione stilistica sull’opera di Cioran – “ha letto molto più di me… in tutti i libri di Cioran si ritrova qualcosa dei testi gnostici del III secolo dopo Cristo” – Ionesco mette in dubbio la sincerità dell’amico: “Non credo che Cioran sia sincero del tutto… è mio amico, parliamo spesso, ma non credo nella sua totale sincerità”. L’intervistatore arguisce, “Sembrerebbe un’angoscia più artificiale, più finta”. Ionesco ammette, “Sì, grazie alla pratica stilistica”. Eppure, l’angoscia ‘con stile’ fanno di Cioran il più presente, urtante, abbagliante dei filosofi oggi.
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Dalla discarica dell’oblio c’è un libro fondamentale di Ionesco. Un libro in cui la tensione di Cioran, in qualche modo, trapassa nel verbo più docile, meno caustico, di Ionesco. Il libro s’intitola L’assurdo e la speranza, è pubblicato nel 1994 da Guaraldi, raccoglie le testimonianze ultime del grande drammaturgo rumeno: frammenti, aforismi, confessioni, dal 1987, non intese alla pubblicazione, dunque, pezzi di palpebra, archi di muscolo, ginocchia; poi l’ultima intervista e gli ultimi articoli, pubblicati su Le Figaro. Negli articoli, con disarmata lucidità, Ionesco parla della vecchiaia. “Sono infuriato. Me l’aspettavo. O forse non me l’aspettavo nemmeno. Mi aspettavo di avere i capelli bianchi, un bastone che mi aiutasse a camminare, ma non mi aspettavo e non mi aspetto tuttora un possibile cedimento intellettuale”. Parla, con spregiudicato candore dell’unica cosa di cui occorre parlare, della vita, della morte. “Si nasce per morire, si muore per essere. Il paradiso, il luogo in cui non esiste la morte: il luogo in cui tutto è essere, vita eterna in cui tutto è. Qui, per andare verso la fine. Si nasce, si cresce, si vive, tutta la natura vive e precipita incredibilmente verso la morte, verso ciò che non esiste più… Si dice, d’altronde, che tutto ha una fine. È il contrario, si muore per nascere… L’agonia: dolore della nascita?”.
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“Ecco la cosa più importante che ho fatto nella vita: invecchiare”, questa è l’ultima parola pubblica di Ionesco, in un articolo dal titolo emblematico, Il mio passato si è allontanato da me. Che maestria nel niente, che sfoggio di sfoghi. Apparsa su un quotidiano – sotto gli occhi di decine di migliaia di francesi. Nei bar, in coda, per strada, nel salotto.
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Ecco un florilegio di pensieri di Ionesco, a cui ogni tanto mi riparo, li trovo corroboranti:
“Ma non è di questo che si tratta, è l’esistenza, tutto ciò che è, che esiste, che è esistito (da così tanto tempo esistito): è inaudito, inaudito, inaudito. Il mondo, il non mondo, l’altro mondo immenso, enrome stranezza, calamità!”
“La strada verso Dio è sicuramente semplice e diritta. Bisogna saperlo. Bisogna saper dimenticare le parole. Io, però, volto le spalle a Dio, lo cerco nei miei smarrimenti, attraverso le parole, attraverso un guazzabuglio di… È nel mio cuore, ho scordato perfino la strada del cuore. Per arrivare a Dio, bisogna dimenticare tutto, dimenticare anche che lo si sta cercando? Non si deve parlare, non si deve parlarne e io non faccio altro che questo. Bisogna parlare di traverso”
“Dico a mia moglie: Non poter camminare, avere il male addosso, mi rende la vita ripugnante. Non ne capisco più il senso né la necessità. Per quale ragione posso vivere? Rodica mi risponde: Ma per amarmi. Una parola sola e tutto nel mio animo cambia, vado a riscoprire il senso della vita: l’amore. All’improvviso capisco ciò che avevo dimenticato: la vita è fatta per amare, ecco il suo vero significato”
“Non so né come né perché, ma mi sento prendere da una specie di folle gioia. Attraverso la tristezza, questa gioia luminosa… Ma di notte queste gioie non ci sono. Dopo aver recitato la mia preghiera a un probabile Dio ricado nell’angoscia, nella paura della fine, i dolori e l’angoscia, ancora l’angoscia. Le mie notti sono atroci… Le mie notti sono interminabili e spaventose”
“Non so dire se siamo o meno alla fine dei tempi. Il fatto è che tutta la storia è apocalittica… A me pare proprio di essere alla fine dei tempi. Secondo San Giovanni, l’Apocalisse può arrivare anche oggi o domani, molto presto insomma. Nell’attesa faccio esercizi di flessione e cammino con il mio fisioterapista. Oggi è andata abbastanza bene”
“Mi ero ripromesso di scrivere alcune cose, ma ho già dimenticato quel che avrei voluto dire”
“Come è sempre stato, anche se ora mi sembra un po’ di più, questo sguardo su di me, sugli altri, sul mondo, sul cielo, stellato, per miliardi e miliardi di volte: ‘cos’è, cos’è, cos’è questo?’. Il mondo mi appare ancora irreale, tranne quando soffro… Da ogni parte la domanda, la domanda, l’interrogativo senza possibile risposta mi assilla da ogni parte… La gente si abitua all’incomprensibile, io non riesco ad abituarmi da anni e anni, dai lunghi, numerosi secoli che ho vissuto”
“Sono nato da tanto, tanto tempo. Sono nato da così poco, così poco tempo. Come ho detto, ho vissuto innumerevoli epoche e non le ho vissute. E ho dimenticato tante cose. C’è un significato?, si domandano i filosofi. C’è un significato?, mi chiedo, a mia volta. Soffro per essere stato punito? Comunque sia, niente, niente di buono nella mia vita”
“Il leone o la tigre che saltano nel cerchio di fuoco, si chiedono qual è il significato della vita?”
*
Mi guardo il viso, per capire se ho nitore di tigre, ma forse è la Romania, il cerchio di fuoco, l’accerchiamento. (d.b.)
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sophiaepsiche · 4 years ago
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Nāṉ Ār?
Paragrafo 1. Spiegazione di Michael James del primo paragrafo del ‘Chi sono io?’ di Ramana Maharshi.
‘Dato che tutti gli esseri viventi desiderano sempre essere felici e liberi dalla sofferenza, dato che per ognuno il più grande amore è solo per se stessi, e dato che solo la felicità è la causa dell’amore, al fine di conseguire quella felicità, che è la propria vera natura, sperimentata quotidianamente nel sonno senza sogni, che è privo della mente, è necessario conoscere se stessi. Per questo jñāna-vicāra [l’indagine] ‘chi sono io’ soltanto è il mezzo principale.’
(Nan ar - paragrafo 1)
(Nota del traduttore: ho omesso le domande e risposte a Michael e così farò anche per le seguenti trascrizioni della serie ‘Nāṉ Ār?’, la versione completa col q&a la trovate nel video)
Trascrizione della traduzione dei sottotitoli:
MICHAEL: Solitamente mi davano un argomento di cui parlare ogni mese ma ora Alan e Alistar mi hanno chiesto di scegliere l’argomento così ho pensato che per i prossimi 20 mesi approfondiremo un paragrafo del நானார்? (Nāṉ Ār?), ‘Chi sono io?’ di volta in volta. Oggi cominciamo dal primo paragrafo di Nāṉ Ār?. Prima di leggerlo, vi do qualche informazione generale.
Nāṉ Ār? è uno dei più importanti lavori di Bhagavan. È notevole in molti sensi e contiene insegnamenti molto importanti.
Molti dei più importanti principi dell’insegnamento di Bhagavan sono nel Nāṉ Ār?. Fu composto da Sivaprakasam Pillai, quando Bhagavan era molto giovane, aveva 20/21 anni, agli inizi dello scorso secolo, circa nel 1900, 1901 o 1902. Sivaprakasam Pillai andò da Bhagavan, Bhagavan non parlava molto all’epoca, così quando Sivaprakasam Pillai gli pose le domande, Bhagavan scrisse sulla sabbia per rispondere, altre volte Sivaprakasam Pillai gli dava una lavagna oppure un pezzo di carta e alcune risposte le potrebbe aver date verbalmente perché Bhagavan non stava osservando un voto di silenzio, semplicemente parlava poco. E la prima domanda che Sivaprakasam Pillai fece a Bhagavan fu ‘நானார்?’ (Nāṉ Ār?)‘Chi sono io?’ ed è questo che rende quest’opera così notevole.
Se guardiamo alla vita di Bhagavan, capiamo che la sua missione, per così dire, non che Bhagavan avesse una missione in mente, ma… Era d’insegnare la via dell’auto-indagine (l’investigazione: chi sono io?). E la domanda di Sivaprakasam Pillai dimostra che era sulla stessa frequenza del suo guru, sin dal primo incontro. La qualità, il valore dell’insegnamento che Bhagavan dava dipendeva molto dalle domande che gli ponevano. Bhagavan non dava insegnamenti di suo ma se la gente gli chiedeva: ‘Bhagavan, faccio japa (o gayatri o altro) va bene?’ Bhagavan rispondeva: ‘sì, va bene’. Se le persone cercavano l’approvazione di Bhagavan per la loro pratica, lui l’approvava. Ma se andavano a chiedere: ‘Bhagavan, ho provato molte pratiche ho fatto japa, tanto pūjā, dhyāna, ho fatto molte cose ma ancora non mi è chiara la strada, qual è? Qual è il sentiero? Come posso riuscirci?’ o anche: ‘qual è lo scopo da perseguire?’ che è un punto assai importante, dato che molti andavano da Bhagavan a chiedere ma il loro scopo non era di annientare l’ego, che, per Bhagavan, è l’unico scopo sensato della vita. Quindi a seconda dei loro credo, dei loro scopi, desideri e aspirazioni Bhagavan rispondeva. Il che spiega perché, se leggiamo libri come ‘Discorsi’ troviamo tanta varietà di domande e di risposte.
Alcune risposte sono utilissime perché lo era la domanda ma molti quesiti non lo erano, a volte chiedevano: ‘Perché nel testo tale è detta quella cosa?’ Bhagavan spiegava dalla prospettiva del testo e del perché era scritto così ma questo non prova necessariamente che fosse un suo insegnamento. Sivaprakasam Pillai era invece totalmente in sintonia con Bhagavan. Aveva studiato al college filosofia indiana e aveva capito che la domanda fondamentale era: ‘chi sono?’ Prima di conoscere il resto, dobbiamo capire chi o cosa siamo. Se non sappiamo la verità su noi stessi, come possiamo capire la verità su qualsiasi cosa? La domanda che ardeva nel suo cuore era: ‘chi sono?’ E fu la prima che fece a Bhagavan.
Poi nei giorni, nelle settimane e nei mesi successivi andò da Bhagavan spesso a fargli domande e appuntava le risposte, soprattutto quelle che Bhagavan aveva scritto sulla sabbia o la lavagna, le riportava su un quaderno e, nei vent’anni successivi, le rielaborò in forma diversa sul suo quaderno, senza cambiare ciò che Bhagavan disse, ma cercando di stabilire connessioni tra le varie risposte di Bhagavan. Lo faceva per se stesso, non aveva nessuna idea di pubblicarlo. Ma era anche un poeta e, per amore di Bhagavan, scrisse una biografia di Bhagavan in versi Tamil, intitolata ‘Ramaṇa Carita Ahaval’. Prima che chiunque altro avesse scritto una sua biografia. Quando i suoi amici lo seppero, gli chiesero di pubblicarla.
Nel ‘Ramaṇa Carita Ahaval’ aveva già riassunto le risposte di Bhagavan ma in appendice mise 13 delle risposte di Bhagavan alle sue domande, pubblicò il libro e inserì le domande in appendice. Questa fu la prima volta che le persone entrarono in contatto con questo tesoro. Molti non sapevano che tale tesoro fosse disponibile. Così quando il libro fu pubblicato tanti gli chiesero subito: ‘oh, hai avuto altre risposte da Bhagavan?´ Così dopo (un anno circa) fu pubblicata la versione con le 30 domande e risposte.
Poi, nel 1926, Bhagavan stesso lo riscrisse in forma di saggio per rendere tutte le connessioni più chiare. E quando scrisse il saggio aggiunse un paragrafo iniziale, che è quello di cui parleremo oggi. Non era nelle risposte date a Sivaprakasam Pillai, ma è un’introduzione perfetta all’intero testo perché dice molto chiaramente qual è lo scopo e il mezzo primario per raggiungerlo. Ciò che scrisse in questo paragrafo, soprattutto nella prima frase, è molto simile a quello che aveva scritto 10 o 12 anni prima quando gli fu chiesta una traduzione in Tamil del Vivēkacūḍāmaṇi, di Adi Sankara. Ne fece una traduzione in prosa Tamil, e scrisse un’avatārikai (un’introduzione). La prima frase di quell’introduzione la riadattò per scrivere questo paragrafo. Ci torneremo più tardi. Quindi questo paragrafo che Bhagavan aggiunse, precede la domanda ‘chi sono?’ e consiste di due frasi. La prima è lunga, ed è composta da 3 proposizioni che esprimono i motivi di ciò che dice nella frase principale e un’altra proposizione che esprime lo scopo, dopodiché c’è la frase principale. Iniziamo dalla frase principale così è chiaro dove vuole arrivare. È molto semplice:
‘தன்னைத் தானறிதல் வேண்டும்’
(taṉṉai-t tāṉ aṟidal vēṇḍum),
‘è necessario conoscere se stessi’,
questa è la conclusione della frase e i motivi sono nelle proposizioni precedenti. La prima dice:
‘சகல ஜீவர்களும் துக்கமென்ப தின்றி எப்போதும் சுகமாயிருக்க விரும்புவதாலும்’
(sakala jīvargaḷum duḥkham eṉbadu iṉḏṟi eppōdum sukham-āy irukka virumbuvadālum)
‘Dato che tutti gli esseri viventi desiderano essere sempre felici senza ciò che viene chiamata tristezza’
Questo può essere notato in tutti, tutti vogliono essere felici. Chi non desidera essere felice? Si può cercare la felicità in posti strani. Anche assurdi, pensate, per fare un esempio estremo, ai masochisti che si impartiscono dolore… Lo fanno comunque per propria soddisfazione. Qualsiasi cosa facciamo, anche se siamo caritatevoli e aiutiamo gli altri, in fin dei conti, il motivo è che non ci piace vederli soffrire e proviamo soddisfazione nell’alleviare la sofferenza altrui.
Fondamentalmente cerchiamo sempre la nostra felicità e la troviamo in molteplici cose. Se i nostri cari sono felici, siamo felici, e ci prendiamo cura di loro per questo. Per renderli più felici possibile facciamo tante cose. Oppure se siamo avidi e pensiamo d’ottenere la felicità col denaro, tentiamo di accumularlo. Tutti gli esseri viventi, non solo gli uomini, dice Bhagavan:
‘சகல ஜீவர்களும்’ (sakala jīvargaḷum),
jīva vuol dire ‘tutti gli esseri viventi’.
Tutti gli esseri senzienti stanno cercando la felicità, non solo gli uomini. Dalla formica al più potente Dio nel paradiso, tutti cercano la felicità. Dunque la frase principale dice che cerchiamo la felicità e non solo felicità ma una felicità libera da ogni tristezza… La parola ‘duḥkham’, dal sanscrito ‘duḥkham’ è spesso tradotta con tristezza e sofferenza ma ha un significato un po’ più ampio, indica ogni tipo d’insoddisfazione. Tutti assaporiamo la felicità in diverse forme nella vita, ma non siamo mai pienamente soddisfatti. Anche se la nostra vita è piacevole, confortevole e le circostanze favorevoli, non importa quanto riusciamo a soddisfare i nostri piccoli desideri, nessuno di noi è mai soddisfatto pienamente. L’insoddisfazione è connaturata. Perché siamo insoddisfatti?
Come disse Ramakrishna Paramahamsa: ‘L’insoddisfazione è di per sé una prova che siamo brahman, che siamo il supremo sat-cit-ānanda.’
Niente può soddisfarci se non la felicità assoluta. Qualsiasi piacere o bella esperienza possiamo avere, non siamo mai pienamente soddisfatti. Cerchiamo sempre qualcosa di più. Se puntiamo al denaro e vogliamo un milione di sterline, lavoriamo duro e le guadagnamo ma poi non è abbastanza, vogliamo 10 milioni e poi 100, per fare un esempio col denaro. Ma è lo stesso per tutto…
Bhagavan dice nel Guru Vāchaka Kōvai:
‘La natura del desiderio è tale che, prima che venga soddisfatto, trasforma una manciata di terra nel Monte Meru’ ingigantisce oltremisura una piccola cosa, prima che la otteniamo ma… ‘dopo averla ottenuta, anche il Monte Meru sembrerà solo un cumulo di terra’.
Cioè cerchiamo la felicità nelle cose esterne, pensiamo: ‘se avessi una macchina più bella’ o ‘se avessi casa più grande’, ‘più di questo’ o ‘se studio di più’, ‘se trovo un lavoro migliore’… sviluppiamo grandi aspettative in queste mete, prima di raggiungerle, ma dopo averle raggiunte, non ci soddisfano e cerchiamo altro, cerchiamo oltre. Questa è la natura del desiderio. Noi vogliamo una felicità senza questa insoddisfazione, delusione, questo è il significato della prima proposizione. Nella seconda dice:
‘யாவருக்கும் தன்னிடத்திலேயே
(yāvarukkum taṉ-ṉ-iḍattil-ē-y-ē
பரம பிரிய மிருப்பதாலும்’
parama piriyam iruppadālum),
‘Dato che tutti provano l’amore più grande per se stessi’
Cioè, amiamo i genitori, i nostri figli, marito o moglie, parenti e amici, amiamo tante cose… Ma più di tutte queste cose, anche se proviamo grande amore per Dio, sopra a tutto e più di tutti amiamo noi stessi… è inevitabile, secondo Bhagavan, l’amore per se stessi è naturale, non possiamo evitare di amarci. Qui Bhagavan stabilisce due cose: vogliamo tutti la felicità e il più grande amore di tutti noi è per noi stessi.
Bhagavan usa la parola ‘தன்னிடத்திலேயே’ (taṉ-ṉ-iḍattil-ē-y-ē),
Bhagavan mette un doppio rafforzativo: ‘taṉ-ṉ-idattil’ vuol dire ‘in sé’ o ‘per sé’ ‘idattil-ē’, enfatizza e ‘idattil-ē-y-ē’ è una doppia enfasi. Dunque Bhagavan lo enfatizza due volte:
‘È solo per noi stessi che proviamo parama piriyam: il più grande, il supremo amore è per noi stessi’.
Ma in Tamil è tutto espresso in modo più impersonale. Al posto di ‘noi proviamo’ dice:
‘In ognuno il più grande amore esiste solo per sé o verso di sé’. E nella terza proposizione dice:
‘பிரியத்திற்கு சுகமே காரண மாதலாலும்’ (piriyattiṟku sukham-ē kāraṇam ādalālum),
‘dato che solo la felicità causa l’amore’.
Ossia, amiamo solo ciò che ci rende felici. Se una persona fa sempre cose che ci rendono felici, la amiamo. Ma se comincia a causarci problemi, il nostro amore diminuisce ed è una cosa del tutto naturale. Amiamo ciò che ci rende felici, e non ci piace ciò che ci rende infelici. È così. Da queste tre frasi, Bhagavan ci fa arrivare ad una conclusione espressa nella frase successiva, di cui la parte principale è:
‘தன் சுபாவமான’
(taṉ subhāvam āṉa a-c-sukhattai y-aḍaiya-t).
‘Per ottenere quella felicità taṉ subhāvam: che è la nostra vera natura’.
Tutte le frasi portano a questo, legittimano che: ‘taṉ subhāvam āṉa a-c-sukhattai’: ‘La felicità è la nostra vera natura’. Perché è la nostra natura? Primo: perché si cerca sempre la felicità. Secondo: perché il più grande amore si nutre per se stessi. Terzo: perché la felicità è la causa dell’amore. Allora, se la nostra natura è cercare felicità, se la nostra natura è provare supremo amore per noi stessi e se ciò che causa amore è felicità; ne consegue, come dice Bhagavan, che la nostra vera natura è felicità, la nostra natura essenziale è felicità. Questa è la conclusione di Bhagavan. E in questa frase ci sono due proposizioni relative a taṉ subhāvam (la propria reale natura), aggiunge due cose, una è:
‘நித்திரையில் தின மனுபவிக்கும்’
(niddiraiyil diṉam aṉubhavikkum), ossia:
‘La propria natura reale che si sperimenta ogni giorno (diṉam: ‘ogni giorno’) niddiraiyil: ‘nel sonno’.
Quando dormiamo siamo separati da tutto. L’ego cessa e con lui tutto il resto cessa. Non siamo più consapevoli delle cose che ci danno piacere nella veglia, né delle cose che ci danno dolore nella veglia. Non ne siamo consci, ci separiamo da tutto nel sonno, eppure proviamo felicità. Cosa possiamo dedurne? Nel sonno esistiamo solo noi, separati dal resto, eppure siamo felici. Questa è un’ulteriore prova che Bhagavan adduce, ci dà una prova esperienziale che la felicità è realmente la nostra natura. Se la felicità non fosse la nostra vera natura, quando tutto scompare nel sonno, saremmo infelici. Se la nostra natura fosse la tristezza saremmo tristi nel sonno, quando siamo staccati da ogni altra cosa. Ma la nostra esperienza reale è che, nel separarci da tutto, siamo felici. Ogni giorno nel sonno proviamo quella felicità che è la nostra vera natura. Poi aggiunge un'altra frase relativa per il sonno:
‘மனமற்ற நித்திரையில்’
(maṉam aṯṟa niddiraiyil),
‘il sonno privo della mente: in cui la mente non esiste’
Dunque quando la mente esiste tutto il resto esiste, in assenza della mente non c'è nulla ma ciò che rimane è l'esperienza della felicità perfetta, quindi la perfetta felicità è la nostra vera natura. Dato che ciò che noi cerchiamo è la felicità Bhagavan dice: ‘per ottenere quella felicità’… e arriva alla frase principale:
‘தன்னைத் தானறிதல் வேண்டும்’
(tannai-t tan aridal vendum),
‘Per ottenere quella felicità è necessario conoscere il proprio sé’
Il che significa: è necessario conoscere noi stessi, ‘conoscere’ qui non vuol dire ‘conoscere teoricamente’ ma vuol dire, அறிதல் (aṟidal) ‘conoscere’ in ogni senso della parola, è usata nel senso di fare reale esperienza (o essere consapevoli) di noi stessi. Se siamo consapevoli di noi stessi per quello che siamo davvero, se siamo consapevoli della nostra vera natura, che è felicità, otteniamo la felicità che vogliamo. Non possiamo ottenere la felicità in nessun altro modo che conoscendoci per quello che siamo davvero, perché solo noi siamo felicità, come dice più tardi nel Nāṉ Ār?.
Bhagavan in questa frase dà la base logica del perché la vera meta è il ‘conoscere se stessi’. Elabora su questo punto di più nei paragrafi successivi di Nāṉ Ār?, ma questa è l'introduzione a tutto ciò di cui parla il Nāṉ Ār? L'intero Nāṉ Ār? parla di come conoscere noi stessi, come conoscere chi siamo, cosa siamo e come poterne fare esperienza diretta. E questa è la ragione per cui è necessario. Poi nella frase successiva dice:
‘அதற்கு’ (adaṟku), che significa: ‘per far ciò’
‘நானார் என்னும் ஞான விசாரமே’
(nāṉ ār eṉṉum ñāṉa-vicāram-ē),
jñāna-vicāra, jñāna significa conoscenza, come la parola ‘அறிவு’ (aṟivu) in Tamil vuol dire conoscenza diretta o consapevolezza. Per cui jñāna-vicāra è ‘investigare la consapevolezza’. Più tardi Bhagavan dice ‘la consapevolezza è la nostra vera natura’. Quindi jñāna-vicāra vuole dire ‘auto-investigarsi’ (conoscersi) o ‘investigare la consapevolezza che siamo’
‘nāṉ ār eṉṉum ñāṉa-vicāram-ē’ che vuol dire:
‘Solo jñāna-vicāra, chiamata il ‘chi sono io?’’ eṉṉum vuol dire ‘chiamata’ "chi sono io?"
ossia, solo l’indagine… ‘Solo indagare ciò che davvero siamo è mukhya sādhaṉam’ mukhya sādhaṉam significa ‘il mezzo principale’.
Sadhana spesso è tradotto ‘pratica spirituale’ ma in realtà sadhana vuol dire ‘mezzo’ per qualsiasi scopo… Se voglio scalare l’Everest, il sadhana sarà avere abiti pesanti, una bombola d’ossigeno una tenda e persone che mi aiutino, questi sono i sadhana per scalare. Dunque sadhana vuol dire solo il ‘mezzo’ per raggiungere qualsiasi cosa, abbiamo bisogno di denaro per vivere e lavorare per guadagnare lo stipendio è il sadhana per avere i soldi necessari a vivere. Nonostante sadhana, nel contesto spirituale, si traduce ‘pratica’, in realtà è ‘mezzo’. E il mezzo principale per conoscere se stessi e quindi fare esperienza della felicità è l’indagine ‘chi sono io?’
Quando investighiamo il resto non troviamo felicità perché la felicità è la nostra natura. Dobbiamo volgerci a noi stessi e investigare cosa siamo. Perché è necessario? Perché nonostante la felicità sia la nostra natura, ora siamo infelici a causa del fatto che non facciamo esperienza di noi per come siamo davvero. Ora crediamo di essere il corpo, questa persona, chiamata Michael, non è ciò che sono essenzialmente, sono conscio di questo corpo solo ora, nella veglia, nei sogni non sono conscio di questo corpo, faccio esperienza di me in un altro corpo (proiettato mentalmente). Nel sonno, sono conscio di me senza esser conscio di nessun corpo. Ora ci sembra di essere il corpo, questa persona, ma in essenza non è ciò che siamo, la nostra vera natura è felicità perfetta, secondo Bhagavan. Ecco, questo è un paragrafo importantissimo perché è la perfetta introduzione al testo.
Perché è nato il Nāṉ Ār? ? Perché Bhagavan parla tanto del modo per conoscere noi stessi? Perché noi siamo la felicità che stiamo cercando e per ottenerla non dobbiamo far altro che volgerci a noi, conoscerci, investigare ciò che davvero siamo.
Come dicevo prima, Bhagavan scrisse questo paragrafo riassumendo l’introduzione che aveva precedentemente scritto per il Vivēkacūḍāmaṇi. Essendo un po’ più elaborato di questo, vale la pena compararli.
Qui Bhagavan dice molto semplicemente nella prima proposizione:
’Dato che tutti gli esseri viventi vogliono essere sempre felici senza ciò che viene chiamata tristezza’
Le parole sono molto simili a quelle in Tamil, ma è più elaborato, voglio dire… Le parole Tamil usate da Bhagavan sono simili ma la frase è più elaborata nell’introduzione del Vivēkacūḍāmaṇi, perché lì fa anche un esempio.
La parte principale della proposizione è:
‘உலகத்தில் எல்லா ஜீவர்களும் துக்கமென்ன தின்றி எப்போதும் சுகமாயிருக்கவேண்டுமென [...] கோருதலானும்’
(ulahattil ellā jīvargaḷum duḥkham eṉbadu iṉḏṟi eppōdum sukham-āy irukka vēṇḍum eṉa [...] kōrudalāṉum).
‘dato che tutti desiderano essere [sempre] felici senza tristezza’
‘Tutti gli esseri viventi del mondo desiderano questo.’ Ma aggiunge un esempio:
‘தன் சுபாவமல்லாத ரோகாதிகளை நீக்கி எப்போதும்போற் சுகமாயிருக்க வேண்டும்’
(taṉ subhāvam allāda rōgādigaḷai nīkki eppōdum-pōl sukham-āy irukka vēṇḍum)
Perché quando siamo malati, per esempio abbiamo un mal di testa, vogliamo liberarci del mal di testa?
Se il mal di testa fosse la nostra vera natura, non ci infastidirebbe ma avere il mal di testa non è naturale.
Qualsiasi dolore o disturbo spunta, sappiamo che qualcosa non va e ce ne vogliamo liberare. E solo quando ce ne sbarazziamo, siamo felici che sia andato via. Siamo sempre intenti a sbarazzarci di ciò che non è la nostra vera natura.
Quindi: ‘taṉ subhāvam allāda’: ‘ciò che non è la nostra vera natura’;
‘rōgādigaḷai’: ‘malattie e cose simili’, o ‘cose come le malattie’;
‘nīkki’: ‘rimuovere’, ‘eppōdum pōl’: ‘come sempre’; ‘sukham-āy irukka vēṇḍum’:
‘Proprio come vogliamo sempre essere felici, liberi dalle malattie e cose simili, così vogliamo anche essere felici, liberi dalla tristezza, perché la tristezza non è la nostra vera natura’.
Insoddisfazione, tristezza, ‘duḥkham’, non è la nostra vera natura, che è felicità perfetta.
E nella frase successiva dice:
‘யாவர்க்கும் தன்னிடத்திலேயே அத்தியந்தம் பிரீதி யிருப்பதானும்’ (yāvarkkum taṉ-ṉ-iḍattil-ē-y-ē attiyantam pirīti y-iruppadāṉum)
È di nuovo molto simile alla seconda,ma al posto di ‘parama priyam’, usa ‘atyanta prīti’. Atyanta significa ‘oltre i limiti’, non c’è limite all’amore che abbiamo per noi stessi, poiché ognuno ha amore illimitato per se stesso, qui dice amore (sì, è lo stesso)
‘பிரியம் சுகத்திலன்றி யுண்டாகாததாலும்’
(piriyam sukhattilaṉḏṟi y-uṇḍāhādadālum).
Nel Nāṉ Ār? dice: ‘solo la felicità causa l’amore’
Qui lo esprime un po’ diversamente: ‘Dato che l’amore non nasce da nient’altro che la felicità’, amiamo solo le cose che ci fanno felici. Nessuno ama le cose che lo rendono infelice…
‘நித்திரையில் ஒன்று மின்றியே சுகமாயிருக்கு மனுபவத்தாலும்’
(niddiraiyil oṉḏṟum iṉḏṟiyē sukhamāy-irukkum aṉubhavattālum)
Qui è sottinteso ‘per tutti’ (era nella frase precedente) ‘[per tutti] l’esperienza dell’essere felici senza nulla nel sonno’.
Cioè non abbiamo bisogno di nulla oltre che noi stessi, per essere felici.Nel sonno siamo felici senza avere nulla.
‘தன்னையறியாத அஞ்ஞானத்தாலேயே’
(taṉṉai-y-aṟiyāda aññāṉattāl-ē-y-ē)
Qui, subito dopo, è leggermente diverso, dice: ‘taṉṉai-y-aṟiyāda aññāṉattāl-ē-y-ē’,
‘solo per l’ignoranza di non conoscere noi stessi’
‘அபார சம்சாரத்தி லுழன்று’
(apāra saṁsārattil uṙaṉḏṟu),
‘turbiniamo in questo grande saṁsāra’, questo vasto ciclo di attività senza fine, nascite e morti senza fine,
‘சுகந்தரும் மார்க்கம் விட்டு’
(sukham-tarum mārggam viṭṭu),
‘lasciando la via [o il mezzo] che dona felicità ‘
‘இகபர போக மடைதலே’
(iha-para bhōgam aḍaidalē),
‘இகபர போக மடைதலே சுகவழியென’
(iha-para bhōgam aḍaidalē sukha-vaṙi-y-eṉa),
Vuol dire: ‘illudendoci che avere i piaceri di iha’ – ‘iha’ è questo mondo, ‘para’ è il prossimo mondo quindi ‘i piaceri di questo mondo e del paradiso’, ‘illudendoci che ottenere questi piaceri è il mezzo per avere felicità ‘
‘பிரவிருத்திக்கின்றனர்’ (piraviruttikkiṉḏṟaṉar),
‘ci impegniamo in attività esterne, estroverse’
Come dicevo, l’ultima parte della frase è un po’ diversa da quella scritta qui da Bhagavan ma le ragioni che dà sono le medesime. Ecco le successive due frasi dell’introduzione al Vivēkacūḍāmaṇi, nella frase dopo Bhagavan dice:
‘ஆனால் துக்கமற்ற சுகங்கிடைக்கிறதில்லை’
(āṉāl duḥkham-aṯṟa sukham-kiḍaikkiṟadillai),
‘Ma non otteniamo la felicità priva di tristezza’
Sebbene ci affatichiamo a cercare la felicità nel saṁsāra in diversi modi nessuno di noi raggiunge la felicità senza insoddisfazione.
Per mostrare la via diretta a raggiungerla, sākṣāt Sri Sankara (Sri Sankara qui sta per ‘Shiva stesso’) ‘Shiva stesso prese la forma di Sankara’ (di Adi Sankara). Poi Bhagavan va avanti, aggiunge una lunga frase che spiega… è una frase di due pagine. La pagina dopo (più che piena) è una sola frase che spiega e riassume il contenuto del Vivēkacūḍāmaṇi ma non ci addentriamo.
Un’altra cosa che vorrei accennare, prima di finire, è che nell’introduzione a Nāṉ Ār? Bhagavan, già dalla prima frase, parla di felicità e di quanto tutti la cerchino. Più avanti riprende lo stesso argomento nel Nāṉ Ār?, anche nel 14º paragrafo parla di felicità:
‘சுகமென்பது ஆ���்மாவின் சொரூபமே’
(sukham-eṉbadu ātmāviṉ sorūpamē)
‘quella che viene chiamata felicità è svarūpa’.
Svarūpa, significa letteralmente ‘forma propria’, ‘la nostra propria forma’, ossia ‘la nostra propria natura’, ‘la nostra vera natura’, ‘ātmāviṉ’ vuol dire ‘di se stessi’. ‘Ciò che è chiamata felicità è solo la reale natura di se stessi’.
‘சுகமும் ஆத்மசொரூபமும் வேறன்று’
(sukhamum ātma-sorūpamum vēṟaṉḏṟu),
‘la felicità e la nostra vera natura (atma-svarupa) non sono due cose differenti’.
‘ஆத்மசுகம் ஒன்றே யுள்ளது’
(ātma-sukham oṉḏṟē y-uḷḷadu)
‘la felicità, che siamo noi, sola esiste’
‘அதுவே ஸத்யம்’ (aduvē satyam),
‘solo essa è reale’.
‘பிரபஞ்சப்பொருள் ஒன்றிலாவது சுகமென்பது கிடையாது’
(pirapañca-p-poruḷ oṉḏṟil-āvadu sukham-eṉbadu kiḍaiyādu)
‘Nessuna felicità è ottenuta da nessuna delle cose del mondo’.
E poi va avanti a spiegare come in apparenza otteniamo felicità dalle cose esterne, dagli oggetti del mondo.
Se desideriamo qualcosa, c’è agitazione nella nostra mente. Diciamo: ‘oh non avrò pace finché non ho questo’ (qualsiasi cosa sia). Sino a che il desiderio per qualcosa è nella mente, sia che abbiamo fame o sete, sia che abbiamo grosse ambizioni o qualsiasi altra cosa, quel desiderio crea agitazione nella mente. Più la mente è agitata più annebbia la nostra vera natura, che è felicità. Così quando desideriamo qualcosa… supponiamo il cioccolato, mi piace e ne vedo un pezzo lì, penso ‘sarebbe bello se mi offrissero quel pezzo di cioccolato’. Non è nostra, è lì sul tavolo e non possiamo prenderla senza permesso ma il pensiero è lì nella mente: ‘oh sarebbe bello mangiare un po’ di cioccolato’. In quel caso, se ce la offrono proviamo piacere ‘ah com’è buona’ e associamo quel piacere alla cioccolata, pensiamo venga dalla cioccolata. Bhagavan dice che non è così, in realtà quello che succede è che il desiderio che assillava la mente è temporaneamente soddisfatto, così l’agitazione mentale si placa. La mente si calma e la felicità, che è la nostra vera natura, risplende da dentro. Però noi pensiamo venga dalla cioccolata o dalla macchina o dalla casa nuova o da qualsiasi sia l’oggetto del desiderio che vogliamo al mondo.
Pensiamo di ottenere la felicità da queste cose mentre in realtà la felicità viene esclusivamente da dentro di noi.
E Bhagavan fece un’analogia a riguardo, che Muruganar scrisse nel Guru Vāchaka Kōvai: Un cane va al crematorio a cercare un bell’osso ma vede che tutte le ossa fresche sono già andate, ne trova una vecchia e pensa: ‘forse c’è ancora un po’ di midollo succulento in quest’osso, vediamo un po’… ora lo mastico’… era molto affamato. Allora comincia a masticare e masticare l’osso. Ma era un osso vecchio e privo di midollo ormai, così si frantuma e taglia la bocca del cane, ferendola in più punti. Dopo un po’ che mastica, il cane molla l’osso e lo guarda, vedendo il sangue, pensa: ‘oh bene, un osso molto gustoso’. Lecca il sangue e continua a masticarlo. Più lo mastica, più ferite si provoca e più sangue sente nell’osso. Il nostro cercare la felicità fuori di noi, crea esattamente la stessa illusione.
La felicità, che è la nostra vera natura, viene associata all’ottenimento della cioccolata (o di questo o quello). Pensiamo che gli oggetti ci diano felicità. La felicità che proviamo nel fare esperienza degli oggetti esterni che vogliamo è in realtà la felicità che già risiede in noi. Cercarla fuori dà solo risultati parziali in quanto la mente si riagiterà sempre finché la nostra attenzione sarà proiettata all’esterno, possiamo solo ottenere un piacere relativo dagli oggetti esterni. Se bramiamo qualcosa, quando la otteniamo la mente si acquieta per un po’ di tempo, la superficie non è più agitata, ma la mente non è totalmente cessata, è solo relativamente calma ed è questa calma che dona grande piacere. Ma quanto maggiore potrebbe essere il piacere se l’attenzione si introiettasse fino a provocare la piena resa della mente? Quanto più grande sarebbe il piacere provato, la felicità sentita? Secondo Bhagavan quella è la ‘felicità suprema’.
E quella felicità assoluta la possiamo provare solo se conosciamo chi siamo, solo facendo esperienza di noi stessi per ciò che siamo davvero. Sebbene le due frasi siano semplici, Bhagavan ha... c’è così tanto significato nel primo paragrafo del Nāṉ Ār?
Ed ora per dieci minuti, cerchiamolo in noi.
{silenzio}
Qualcuno ha trovato la felicità infinita in questi dieci minuti? No. {risate} Se Bhagavan dice che la felicità è in noi, perché non la troviamo quando guardiamo dentro? Ne assaggiamo un po’ ma non la proviamo nella sua pienezza. In altre parole non facciamo esperienza di noi come realmente siamo, perché, malgrado quello che ci dice Bhagavan, ancora crediamo fermamente che la felicità sia al di fuori di noi. La mente ancora nutre interesse e piacere a volgersi all’esterno e fino a che quell’interesse sarà lì non saremo pronti a lasciare andare l’ego- che è la causa del problema. Allora abbiamo bisogno di perseverare nella pratica che ci ha insegnato Bhagavan finché, pian pianino, il vizio di cercare fuori di noi non diminuirà e, nello stesso tempo, il gusto (o l’amore) di entrare in noi aumenterà.
Questo avviene con la pratica, Bhagavan disse che nessuno raggiunge questo senza perseveranza. Perché la mente è incline all’estroversione, cerca sempre cose fuori. Bhagavan dice: ‘l’ego nasce afferrando forme, sta in piedi agguantando forme e aggrappandosi alle forme si nutre e prospera’. Qui ‘aggrapparsi alle forme’ sta per ‘partecipare’ a cose fuori da sé. Ecco come l’ego esiste e sopravvive, come viene in vita e continua ad esistere. Dirigersi all’esterno è la natura stessa della mente. Quando cerchiamo di far restare la mente dentro nuotiamo contro corrente, per così dire, andiamo contro la corrente della mente. Ma esiste anche una corrente che ci aiuta, che è la corrente della grazia, che è l’amore per la felicità, che tutti nutriamo. Dobbiamo solo ridirezionare quell’amore per la felicità e cercarla dentro di noi, piuttosto che fuori.
C’è una cosa che ho dimenticato di dire, noterete che l’ultima frase è quasi tutta in grassetto (tranne la prima parola). Bhagavan stesso, prima che fosse stampato per la prima volta la sottolineò nel manoscritto, dando istruzioni che venisse stampata in grassetto. Si trovano poche altre parole in grassetto nel Nāṉ Ār?, e sono così perché Bhagavan stesso le voleva enfatizzate. Quindi la cosa principale qui è l’auto-indagine, investigare ‘chi sono?’ Questo è il mezzo principale per ottenere la felicità, e Bhagavan lo enfatizza.
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salsakid · 7 years ago
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Il matrimonio di mia cugina.
E’ stata una giornata importante, senza ombra di dubbio più per lei che per me.
Onestamente a me del suo matrimonio non importava granché, nonostante la mia famiglia era in subbuglio già da mesi per me non cambiava troppo, anzi ero abbastanza seccato. Ero abbastanza seccato di ascoltare mia madre e mia nonna ed un pò tutto il resto dei parenti parlare in continuazione di questo ricevimento e dei suoi preparativi, quasi ogni giorno. Per indole non sono mai stato un tipo da grandi feste, anzi togliamo pure l’aggettivo grandi e lasciamo tranquillamente sola la parola feste. Però devo ammetterlo, non mi aspettavo un ricevimento del genere. Hanno fatto le cose in grande ed è stato un bellissimo matrimonio nel complesso.
Ho avuto la fortuna di svegliarmi un’ora prima della sveglia e sopratutto di buon umore. Senza nessuna precisa ragione, cosa che raramente capita a dire il vero. Nemmeno il tempo di alzarmi dal letto che corsi subito a mettere della musica a palla dallo stereo la quale si andava a sovrapporre con quella di mia sorella messa dallo speaker bluetooth, il tutto miscelato alla grande con le urla di mia madre che era in evidente stato di esaltazione e ritardo nei preparativi. Che gran caciara. Aspettai che i miei se ne andassero di casa per poi prepararmi con calma, prendendomi il mio tempo. Pensai proprio a tutto, dalla macchina fotografica per fare qualche scatto, al libro da leggere nei momenti morti, il caricatore per la batteria del mio cellulare ed il cibo da mangiare per non morire di fame prima del vero pranzo / cena. Passai la mattina a riempire di storie il mio profilo Instagram tra un litigio per il parcheggio ed il mio seguire la messa in “modo troppo attivo”. (Mi permetto di omettere dal racconto le varie figure di merda.) Tutto andò bene e nel primo pomeriggio arrivammo nel luogo in cui avremmo dovuto festeggiare il suo matrimonio. Eravamo in un piccolo paesino sperduto in provincia di Bari, naturalmente siamo arrivati lì dopo l’ennesimo “confronto verbale” tra mio padre ed il navigatore. Il tempo passa velocemente quando a guidare c’è lui. Eravamo puntuali. Giunti in sala in attesa della sposa continuai a leggere un libro che acquistai recentemente. “La ragazza dello Sputnik” di Murakami. Quando tirai fuori dal mio zainetto quel libricino rosso notai subito due ragazze che mi fissarono per qualche secondo bisbigliando qualcosa tra di loro. Avevano l’area di due ragazze da qualche anno laureate con il massimo del punteggio o comunque voti più alti della media. Mi diedero l’impressione che volessero approcciare una conversazione, ma sarà il mio aspetto ed atteggiamento abbastanza riservato ed evasivo che non fecero nessuna vera e propria mossa mentre io cercai di ritirarmi quanto più possibile da loro. Semplicemente mi sedetti affianco al loro tavolo, abbastanza in disparte e comincia a leggere come se nulla fosse. 
Lessi per dieci minuti scarsi quando ad un certo punto mi fermai a pensare. Pensai all’inizio del libro, pensai alla protagonista del romanzo Sumire che proprio al ricevimento della cugina conobbe Myu, ragazza di cui si innamorò perdutamente. Ok, inutile dire che mi feci trasportare subito da quel pensiero totalmente infondato. Non dico che sarebbe dovuto succedere lo stesso e avrei fatto conoscenze che mi avrebbero scombussolato la vita, ma almeno avrei dovuto provare a socializzare con qualcuno, che fosse pure e soltanto per quella giornata. Allora alzai la testa, riposi il libro nello zaino ed osservai il tavolo dove si sedettero le due ragazze che mi notarono in precedenza. Erano sedute sul tavolo adiacente al mio, in compagnia di due coppie di ragazzi leggermente più grandi di loro. Erano due ragazze dall’aspetto molto semplice ed ordinato con il viso molto pulito. A primo acchito non mi diedero un’impressione forte, sicuramente non spiccavano per personalità ed estetica. Provai ad origliare un pò i loro discorsi prima di fare qualsiasi altra mossa. Erano discorsi noiosi.
Parlavano di cosa avevano studiato nella vita, dei loro trasferimenti, del loro cercare affitto in città che non conoscevano minimamente, di ipotetici corsi di studio che sarebbe bene frequentare per avere una “vita dignitosa”. Cercai di origliare per più tempo possibile per poi magari sedermi al loro stesso tavolo e cercare di “socializzare”. Inutile dire che le loro conversazioni mi facero passare ogni pensiero al riguardo. Cambiai aria e gironzolando per il ristorante, molto bello ed appariscente, posai lo sguardo su un sassofono che trovai accantonato vicino ad un mixer, qualcuno avrebbe dovuto suonare musica dal vivo, ne fui molto felice. Rimasi ad osservare lo strumento per un pò fantasticando su quello che avrei potuto ascoltare per poi tornare con i piedi per terra. Cambiai ancora rotta e trovai tutta la strumentazione posata dai vari fotografi e videomaker che c’erano in quella giornata per immortalare la cerimonia. A guardare tutte quelle cose mi sentii stranamente giù di morale, quasi malinconico. Era strumentazione davvero espansiva e costosa, roba da veri professionisti. Roba che non avrei mai potuto avere ne meriterei in vita mia pensai. In chiesa osservai già il loro modo di lavorare e rimasi attonito dalla loro professionalità e dai loro modi di lavorare. 
Iniziò il buffet ed il cibo mi fece dimenticare della voglia di socializzare con altri. A parte qualche parente anziano di cui non ho memorizzato assolutamente il nome non parlai proprio con nessuno. Ci fu anche Achille, la persona con cui ho passato gran parte della mia vita nel fare ogni tipo di attività ed a costituire insieme castelli sulle nuvole. Non’ostante i nostri profondi (almeno per lui) conflitti personali e interpersonali parlammo e scherzammo, a singhiozzi, ma la distanza tra di noi apparve comunque evidente. Durante le portate un gruppo di musicisti cercava di animare il tutto con musica dal vivo e che dire. Erano davvero bravissimi. I miei occhi e le mie orecchie erano in un tutt’uno concentrate su di loro. Esaminavo ogni minimo dettaglio, dalla loro presenza scenica, al loro repertorio, alla loro strumentazione, alle tecniche usate e la suddivisioni delle parti all’interno del gruppo. Volevo fare mio cosa, cercare di comprendere tutto, come ho sempre fatto ogni volta che vedo un musicista nell’esibirsi. 
Il leggero senso di malinconia riapparve quando mi trovai ad osservare tutti quei dettagli e a compararli con la musica che suonavo fino a qualche settimana fa con il mio gruppo ormai quasi sciolto e capii che se volevo fuggirne avrei dovuto cercare di lasciarmi andare maggiormente e lasciare quei pensieri lontani da tutto il testo. Cercai di unirmi ai soliti balli di gruppo come da tradizione ma il mio senso di finto divertimento iniziò a disgustarmi. Dopo un pò mi fermai e cercai di osservare le altre persone che a differenza di me si divertivano sul serio. Diamine, tra gli invitati c’erano personalità davvero strane, non me l’aspettavo. 
Naturalmente furono le donne ad attirare la mia attenzione più di tutto il resto, oltre a delle simpatiche anziane signore che tra gli invitati si rivelarono delle bravissime ballerine tra di loro c’erano tre ragazze adulte davvero “scalmanate”. Erano le più disinvolte nel ballare ed il loro look parlava ancor prima di loro. Questo trio probabilmente sorelle, cugine, madri e figlie varie avevano dei capelli biondi lunghi e ricci ed a detta di un ragazzino a cui stavo molto simpatico erano vestite da “streghe”. Abiti neri, rossi e con veli che lasciava trasparire la pelle nuda, nulla di troppo esagerato ma con il loro trucco dark ma leggero sembravano davvero delle “streghe” (Nel senso buono della parola).
Continuai ad osservare la festa dalla mia bolla e tra un brano e l’altro intervallati dalle portate del ristorante e il mio occhio cadde su un’altra ragazza che mi ricordai di aver intravisto in chiesa. Penso che aveva più o meno la mia stessa eta, o meglio d’eta che si aggirava intorno ai 18 anni se vogliamo essere onesti. La cosa strana è che come me me è sempre rimasta in disparte da qualsiasi attività. Anzi, a dir la verità è stata così assente che mi dimenticai completamente di lei. Stava sempre perennemente al tavolo dei suoi genitori e forse si sarà mossa da quel tavolo una sola volta per andare in bagno. Naturalmente mi accorsi di quelle cose dopo che mi ricordai della sua esistenza. Cercai di avvicinarmi per osservarla meglio e la trovai abbastanza carina, o almeno aveva quel tipo di bellezza che a me piace ma che potrebbe tranquillamente non piacere. Il suo viso era smunto ed aveva la palle abbastanza scura per la stagione corrente, i suoi lineamenti erano a tratti asiatici, i suoi occhi scuri e piccoli, così come il suo naso e le sue labbra colorate da un rossetto scuro. Non riuscivo a captare molto della sua personalità, indossava un abito nero che terminava con del pizzo superate le ginocchia. Fisicamente era molto minuta ma era abbastanza alta per essere una ragazza o meglio, quei 2 centimetri di tacchi sembravano fare la differenza. Più la guardavo e più sembrava una ragazza assente e nel suo mondo, aveva degli occhiali molto rotondi, con una montatura sottile e nera. Tirava fuori spesso lo smartphone per rispondere alle notifiche delle chat mentre la forte luce del cellulare gli illuminava il volto e i suoi occhiali specchiavano ciò che c’era sullo schermo del dispositivo. Riuscii a scattarle una sua foto abbastanza a tradimento mentre la sala era illuminata da delle luci fioche e lei si attingeva a scattare delle foto con il flash del suo cellulare alle invitanti portate che erano state ben disposte su più piani. La scena aveva un nonsochè di artistico ed ho scattato, senza nessuna precisa ragione, francamente non so se lei si accorse del tutto. Mi iniziava a piacere e forse ci avrei voluto scambiare due parole. e mentre la festa giungeva al termine e ci lanciavamo occhiate sempre più frequenti. Chiesi ad Achille di lei, se la conosceva. Volevo avere un minimo di preparazione prima di potermi approcciare. Che cosa stupida.
Cercai di descrivere quella ragazza ad Achille ma dalla mia descrizione non capì minimamente di chi stessi parlando, chiesi a mia sorella se lei l’aveva notata ma anche lei non sembrava sapere di chi stessi parlando e mi sentii per qualche istante come un matto in preda a delle visioni.Va bene, ci riprovo. orniamo nella sala principale e la indico ad Achille, gli chiedo chi sia e se la trova carina. Lui non ci vede bene da lontano e pensava che stessi parlando della madre della ragazza a cui mi riferivo, che in effetti poteva anche essere visto la sua giovane età. Alla fine riesco a fargli inquadrare la persona esatta, che fatica.
- “Bhe? Come ti pare? Sai chi è?” Achille molto fermamente: - “Non ho idea di chi sia, non pensavo nemmeno che fosse un invitata” - “Ma l’hai guardata in faccia? ti sembra carina?” Mi rispose quasi con sdegno - “No cazzo, è una cessa !” Odio quando i ragazzi descrivono ragazze che non gli attraggono come “cesse”. Ma cercando di mantenere più calma e compostezza possibile gli chiesi: -“Come mai dici così?” -“Perché sembra una cinese.” Io risì, inizialmente perché fu spiegata la mia attrazione verso di lei, mi attraggono da morire le ragazze asiatiche o con lineamenti asiatici ma nessuno sembra mai capacitarsene. Ed in successione perché più che da cinese erano lineamenti Coreani. Ma lasciamo stare, Achille non è una persona da questi discorsi. La festa avanzava e mi decisi che volevo sapere almeno il suo nome ed intuire se fosse una ragazza interessante o meno. Quando il gruppo musicale smise di suonare ci fermammo nell’aerea bar. Era la mia occasione perfetta.
Se non fosse stato per la musica.
Venne un ragazzo che si mise a suonare musica al pianoforte, musica molto Jazz e quasi da piano bar, molto gradevole. Neanche il tempo di agire ed è li che un altra ondata di parenti mi fermò per parlare della mia musica o come andava con la band. Non andava per nulla bene. Non tocco strumenti da settimane ormai. Non c’è il minimo stimolo e la formazione sembra ormai dissolta nel nulla. 
Raccontai stronzate su stronzate. A tutti quanti. Di quanto ci tenessi alla mia passione e di come bene le cose stessero andando. Persi un pò il mordente, odio dover mentire e doverlo fare in questo modo così spudorato ma cercavo di non dar peso a quello che avevo appena sputato fuori. E’ una situazione troppo recente per dar peso alle parole ed agli avvenimenti che si stanno verificando attorno, parlo della musica che ho sempre considerato, composto ed ascoltato ovviamente. Cerco di evitare tutto e focalizzarmi su di lei, quella ragazza a cui ancora non ho dato un nome. Attendo il momento propizio ascoltando la musica del pianoforte. Ma bastarono pochi attimi e venni rapito da un universo di sensazioni che cercavo di tenere nascosto con tutto me stesso.
Il suo repertorio cambiò completamente e iniziò a suonare canzoni dalla cadenza molto più melodica, romantica e malinconica. Alcune canzoni mi era sembrate di averle già ascoltate, in fondo ero un appassionato di musica new age e di pianoforte. Ricordo che ascoltavo sempre quel tipo di musica mentre ero insieme alla mia ex ragazza e dovevo andarla a trovare prendendo corriere e corrispondenze. Riuscii a viaggiare un pò con la mente, vagando nei meandri più fragili e nascosti del mio animo. Quella musica suonata con tanta emotività riusci a toccare corde che sarebbe stato meglio non toccare. Mi lasciai davvero trasportare e pensai che melodie così belle non le ascoltavo da molto tempo, di quanto potesse trasportami un brano di pianoforte se suonato in una certa maniera. Riprovai dopo tanto tempo quel brivido, quella sensazione variegata che solo la musica mi può far provare. Mi venne la pelle d’oca ed in seguito gli occhi lucidi. Per non so quale motivo mi sentivo sempre più debole e piccolo, come se avessi smarrito la via della mia strada di casa e casa non avessi più.
Io che pensavo solo a fantasticare sui romanzi, sulle ragazze, sul nascondere a me stesso cose che in realtà non potrei mai nascondere. Sul quanto cazzo potrei stare male senza la musica, al mio voler mandare a puttane tutto e ricominciare senza di lei, come se non contasse più niente e non facesse parte di me. Come se l’aver qualche amico o conoscenza in più potesse sostituire quello che provo con lei quando mi ritrovo da solo. E nella vita siamo sempre soli, la solitudine per quanto possa essere normale è triste.  E nel mentre affrontavo tutto ciò nella mia testa quella ragazza senza nome mi passa affianco quasi come per mettermi alla prova, la distanza tra me e lei è stata così poca che ci siamo sfiorati con li sguardi e con il corpo. Provo un enorme paura nel sapere cosa possa aver visto all’interno dei miei occhi pieni di lacrime in quella determinata circostanza. Esco un attimo fuori a prendermi un pò di freddo, quella sensazione di freddo che mi ricorda che sono vivo e che bisogna continuare a camminare incondizionatamente da tutto e da tutti. Faccio un reset generale e rientro dentro. Cerco di fare del mio meglio per arrivare a fine serata, stessa maschera di sempre e via non ci sono troppi problemi d’altronde manca poco.  Tornato a casa non so cosa rimanga se non quella forte sensazione di un profondo sentimento che sto cercando in tutti i modi di nascondere e qualche scatto rubato tra i quali e tra i meno importanti anche quello della ragazza di cui non saprò mai il nome.
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larrystylynson28 · 5 years ago
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Adore you (capitolo 4)
Il resto della notte è stata tranquilla. Non ho
più fatto incubi e mi sono svegliato piuttosto tardi. Devo assolutamente chiamare mamma o penserà che sia successo qualcosa. Prendo il telefono e compongo il numero.
<Tesoro come va? Sono felice che di tanto in tanto ti ricordi di tua madre> dice sbuffando.
Scoppio a ridere e le rispondo <va tutto bene mamma. A te come va?>
<Tralasciando il fatto che la casa senza di te è vuota, va abbastanza bene. Gemma ha quasi finito di organizzare il matrimonio> conclude, ma sento che ha altro da dirmi.
<C'è altro vero?>
Prima di rispondere esita <preferisco dirtelo di persona. Il prossimo fine settimana puoi venire a casa?>
Mentre sto per dire di si mi ricordo del ballo <sabato sera c'è il ballo, e....sai, io...beh, io ho invitato una ragazza> concludo imbarazzato.
<Harry ma è fantastico! Voglio conoscerla. Portala a pranzo domenica>
<Io non ho detto che verrò, e poi ancora non è una cosa molto seria tra me e lei>
<Tu domenica verrai. Se decidi di portarla dimmelo sabato, così mi organizzo>
<Va bene> ci salutiamo e attacco.
Mia mamma è sempre a duemila ed è quasi insopportabile, però se non fosse così com'é non so cosa farei. Ha detto che vuole conoscere Kendall, ma io non sono sicuro che sia quello che voglio. Non voglio che Kendall conosca la mia famiglia quando ho ancora confusione nella testa. È tutto così sbagliato e complicato. Lancio il telefono sul divano e sbuffando vado in cucina. Mangio una merendina e vado a farmi la doccia. Mentre l'acqua scorre ripenso all'invito di Kendall a quella festa. Forse dovrei andare e divertirmi, senza preoccuparmi di incontrare Louis o i suoi amici. Ultimamente è stato gentile, perciò non credo che mi infastidisca. "I suoi amici non sono lui" aggiunge la vocina nella mia testa. È vero i suoi amici ci sono, però l'altra volta lui ha fermato Zayn quando voleva darmi un pugno. Esco dalla doccia e scrivo a Kendall che alla festa ci sarò. Mi risponde pochi minuti dopo dicendomi che passerà a prendermi con le sue amiche verso le sette. Lunedì ho un test di matematica e se non voglio prendere un'insufficienza devo studiare. Prendo il libro di testo e gli presto tutta l'attenzione possibile.
La sera arriva in fretta e il mio studio intensivo di matematica non è servito un granché. Non ho capito niente e nessuno dei miei amici può aiutarmi. Indosso una camicia e dei jeans neri. I capelli sono totalmente fuori controllo, e non riesco a sistemarli. Una volta pronto mi guardo allo specchio e mi guardo sbalordito. Emano una sicurezza che non ho, e non mi dispiace. Un messaggio di Kendall mi informa che è arrivata. Quando scendo la trovo in piedi davanti alla macchina. Per un momento non la riconosco: indossa una minigonna di pelle, un top bianco che le lascia scoperti i fianchi e dei tacchi a spillo. I capelli neri sono perfettamente allisciati e gli occhi sono truccati pesantemente. Mi avvicino e lei sorride, però è un sorriso diverso dal solito.
<Harry sei veramente sexy vestito così. Sembri molto più audace!> strilla buttandomisi addosso.
È ubriaca. Puzza di alcol e barcolla.
<Hai bevuto?>
<Forse un pochino> risponde ridendo.
Guardo l'amica al volante e lei alza le spalle. Anche le ragazze sedute nei sedili posteriori sembrano non saperne niente. La prendo per mano e inizio ad andare verso il portone di casa, ma lei si scioglie dalla mia presa e mi guarda irritata.
<Vieni a casa mia. Non è il caso di andare ad una festa>
<Noi vogliamo andarci e se non ti muovi a salire su quella macchina ce ne andiamo>
Sono tentato di non andare più a quella stupida festa, dato che la serata non è iniziata nei migliori dei modi, però non posso lasciarla andare da sola. Non in questo stato. Sbuffo e salgo nella macchina. Kendall si siede accanto a me posa le gambe sulle mie. Mi guarda con un sorriso malizioso. È irriconoscibile.
<Perché hai bevuto?>
<Non posso?>
<Non senza motivo>
<Voglio divertirmi. Va bene come motivazione?>
<Qual è quella vera?>
<Ragazze accendete la musica> chiede, ignorandomi totalmente.
La ragazza al volante mi lancia un rapido sguardo e poi accende la radio. Sospiro e guardo Kendall che canta. Quando arriviamo davanti casa di Crowell, Kendall, scende e accelera il passo verso l'entrata. Non provo nemmeno a fermarla. Ho capito che questa sera non mi presterà ascolto e farà di testa sua. La musica è assordante e il cortile è già pieno di ragazzi ubriachi. Per quale motivo sono venuto a questa stupida festa? In questo momento potevo essere sul divano a vedere la tv, invece mi ritrovo in un posto affollato, pieno di gente che non conosco ubriaca. Non ho nemmeno chiesto a Liam e Niall se ci sarebbero stati. "Sono un'idiota!" penso, mentre entro. Dentro la casa la musica è ancora più alta ed è pieno di ragazze ubriache che ballano e si strusciano su dei ragazzi altrettanto ubriachi. Mi guardo intorno all ricerca di Kendall, ma non la riesco a vedere. Tento di farmi spazio tra i ragazzi e le ragazze che ballano, fino ad arrivare in una stanza più isolata. Ci sono una ventina di persone. Una parte chiacchiera tranquillamente, mentre l'altra, quella che attira la mia attenzione, ride rumorosamente. Mi avvicino e quando vedo Louis perdo un battito. Faccio per andarmene, ma ormai è troppo tardi. Mi ha visto.
<Styles! Non pensavo che ti piacessero le feste. Vieni a giocare con noi!> dice sorridente.
Mi mordo il labbro e mi avvicino imbarazzato. Tutto il gruppo mi squadra da capo a piedi e Zayn fissa l'amico infastidito. Sento che da un momento a l'altro dirò o farò qualcosa di stupido se nessuno spezzerà questo silenzio. Mi guardano tutti, e non mi piace per niente essere al centro dell'attenzione. Gli amici di Louis mi fissano con disprezzo, al contrario suo che fa vagare gli occhi per tutto il mo corpo, soffermandosi sul colletto sbottonato. Se possibile arrossisco ancora di più. Vorrei sotterrarmi, ma mi limito a restare in piedi ed in silenzio davanti a loro.
<Quindi giochi Styles?> chiede Louis spezzando il silenzio.
<Che gioco è?>
<Succhia e soffia>
<Forse lui vorrebbe solo succhiare> si intromette un suo amico, seduto accanto ad una ragazza con i capelli rosa.
Louis lo fulmina con lo sguardo e poi riporta i suoi dannati occhi azzurri su di me. Non ho nessuna voglia di giocare con dei ragazzi che non fanno altro che deridermi da tre anni.
<Vaffanculo> rispondo andandomene, e mentre mi giro vado addosso a Eleanor.
Il liquido nel suo bicchiere si deposita sulla mia camicia e il gruppo degli stronzi ride alle mie spalle. Fulmino Eleanor con lo sguardo, impreco e senza dire una parola me ne vado. Cazzo! Questa serata non poteva andare peggio! Sono venuto con Kendall e nemmeno la trovo più. Vado in cucina alla ricerca di qualcosa per pulirmi e un ragazzo alto, biondo, con gli occhi marroni mi mette in mano un bicchiere di non so cosa. Senza rifletterci abbastanza mando giù tutto il contenuto. L'alcol brucia un pò nella gola, però è una bella sensazione. Mi faccio coraggio e riempio il bicchiere di vodka alla ciliegia. In pochi secondi mando giù anche questo bicchiere, constatando che non è piacevole come il primo. La vodka brucia molto di più nella gola e quasi subito mi da alla testa. Dopo aver bevuto non so quanti altri bicchieri di vodka, e dopo esser diventato ubriaco, vado a ballare in mezzo alle altre persone. Non mi ero mai ubriacato prima d'ora ed essere onesto adesso capisco perché lo fanno tutti gli adolescenti. Tutte le domande, i dubbi e le incertezze sono sparite dalla mia testa, o quanto meno sono offuscate dall'alcol. Per la prima volta dopo tanto tempo mi sento libero da tutto. Libero dai miei incubi, libero dai miei sentimenti per Kendall, libero dai sentimenti per Louis, libero dalla convinzione di essere sbagliato, libero dalle domande che controllano la mi testa da giorni e soprattuto, libero da quei dannati occhi blu di Louis. L'unica che sento nella mia testa è la musica. Inizio a muovermi a ritmo finché una ragazza bionda, con gli occhi celesti e un rossetto rosso, non inizia a strusciarsi su di me. "Odio le ragazze sfacciate!" penso allontanandola. Sul suo volto appare un'espressione tra il confuso e il dispiaciuto, ma subito si riprende e mi rimpiazza con un ragazzo dietro di me. In mezzo alle gente che bella intravedo Louis e Eleanor, e capisco che per reggere quella scena ho bisogno di altro alcol. Torno in cucina dove, con mia grande sorpresa, trovo Kendall con in mano una bottiglia di birra.
<Dove stavi?> biascica venendomi incontro.
<Ballavo. Ora però ho bisogno di qualcosa di forte>
Sulle labbra le spunta un sorriso malizioso e prendendomi per mano mi porta in un'angolo appartato della cucina.
<Questa sera vuoi dimenticare tutto e divertirti solamente?> chiede eccitata.
Annuisco, anche se so che non dovrei e che probabilmente domani me ne pentirò. Tira fuori dalla borsetta nera brillantinata un pezzo di carta stagnola e una bottiglietta di vetro.
<Cos'è?>
Alza le spalle e aggiunge <me l'ha data un ragazzo. Mi ha detto che ti manda in paradiso e per questa sera ne ho bisogno. Non ho mai provato droghe o cose simili, solo alcool> puntualizza vedendo la mi faccia <quindi....vogliamo provarla insieme?>
Una volta nella vita dovrei provare a sballarmi, infondo chi è che non ci ha mai provato? Cosa può succedere? Dirò cose insensate di cui nessuno si ricorderà domani e di cui probabilmente non mi ricorderò nemmeno io. Lei aspetta una mia risposta, ma sono comunque impaurito. Quando però vedo Louis baciare Eleanor decido che non voglio ricordare questa serata e senza soffermarmi troppo sulle conseguenze annuisco.
<Prendi quel bicchiere. Il ragazzo mi ha detto che va versato in un liquido. Lo dividiamo?>
Annuisco per la decima volta e lei versa il liquido della boccetta di vetro e il contenuto della carta stagnola nella birra. Mischia il tutto e senza esitazione se lo porta alla bocca, ne beve più della metà, lasciandomene solo un goccio, e dopo avermi dato il bicchiere se ne va. Guardo incerto il liquido rimanente nel bicchiere, chiudo gli occhi e bevo. Torno a ballare e qualche minuto dopo tutta la casa sembra girare. Le persone intorno a me sembrano essersi moltiplicate e forse è così. O no? Non riesco a capire più niente. Da come descrivano, essere sballati doveva essere divertente, ma a me non lo sembra per niente. Sento gli occhi farsi pesanti. Non so come riesco a uscire in giardino, dove vedo un Louis intento a fare qualcosa con il telefono. È così dannatamente bello, che non capisco come mai sia solo in questo momento. Non capisco con Eleanor non gli ronzi sempre attorno. Se lui fosse mio probabilmente non riuscirei a separarmici. "Ma lui non è tuo" non tarda ad aggiungere la vocina nella mia testa. Già non è e non sarà mai mio, e ammetterlo mi fa più male del necessario. No! Cazzo perché deve farmi male? Ho una ragazza bellissima, intelligente e simpatica che non mi prende in giro e mi tratta bene, quindi non posso stare male se uno stronzo non mi vuole. Che poi non è stronzo, è solamente normale. È normale che un ragazzo sia attratto dalle ragazze e non dai ragazzi. Sono io quello anormale che è attratto dalle ragazze e da due stupidi occhi blu. Le gambe iniziano a muoversi verso Louis e una volta arrivatogli davanti parlo senza riflettere.
<Sei uno stronzo, egoista, violento e i tuoi amici sono degli idioti>
Sulla sua faccia appare una smorfia arrabbiata, poi dopo avermi riconosciuto si trasforma in irritata, e dopo aver incastrato i suoi occhi nei miei in preoccupata. Spegne immediatamente il telefono e lo mette in tasca.
<Harry sei ubriaco?>
<Non sono affari tuoi. Sei uno stronzo! Questi sono affari tuoi>
<Quanto hai bevuto?> chiede, non dando peso alla frase precedente.
Possibile che non lo tocchino minimamente i miei insulti? Lo guardo arrabbiato e lo spintono. Non so bene per quale motivo lo stia facendo, so solamente che toccarlo mi da sollievo. Continuo a spintonarlo finché la sua schiena non tocca il muro alle sue spalle. Forse lo sto facendo per tutte le volte che mi ha picchiato, per tutte le volte che i suoi amici mi hanno insultato e per questi ultimi giorni che si è comportato in modo gentile incasinandomi i pensieri, e facendomi ammettere di essere attratto da lui. Da un ragazzo, proprio come lui e i suoi amici sospettano da tre anni. Lui non sembra intenzionato a bloccarmi, perciò mi avvicino ancora barcollando. La testa mi gira violentemente ed inciampo. Fortunatamente Louis mi afferra prima che la mia faccia si scontrasse con il prato.
<Harry quanto hai bevuto?>
Sento gli occhi farsi pericolosamente pesanti, le gambe diventare sempre più molli, e tra le braccia di Louis, provo un piacevolissimo senso di protezione che mi permette di lasciarmi andare.
<Harry cos'hai preso? Cazzo Harry rispondimi!>
Farfuglio qualcosa prima di chiudere gli occhi e lasciarmi totalmente andare fra le sue braccia.
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entheosedizioni · 5 years ago
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Estate, vacanze, libri
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Estate, vacanze, libri: per me sono un trinomio perfetto. Indubbiamente il tempo cosiddetto “delle vacanze” è soprattutto per i giovani e giovanissimi che finiscono le scuole. Per noi “adulti” ci sarebbero le ferie. Sempre più brevi. Non ci sono più quelle lunghissime vacanze prima di tornare a scuola in cui uno si poteva leggere tutti i libri che desiderava… anche se, in realtà, c’erano mille altre cose da fare: uscire, giocare, divertirsi. Poco male se i professori ti riempivano di compiti e libri che tu non avevi intenzione di leggere (ne avresti preferiti altri che non erano in programma). Estate e libri In ogni caso, anche se ora le vacanze non sono lunghe e sono diverse da quelle di una volta, l’estate è decisamente il tempo della lettura. Questo vale per molti, ma non per tutti. Per chi legge tutto l’anno, l’estate è comunque un periodo in cui si riesce a leggere ancora di più. Per chi non riesce a leggere in inverno per vari problemi lavorativi, di prole, del tran tran quotidiano, l’estate cambia tutto. Sembra un periodo di pausa: vuoi per le giornate che si allungano, vuoi perché il caldo ci rende oziosi, vuoi perché comunque un po’ di relax al mare o in montagna fa bene, tutto questo ci fa riempire di libri. “Il Buon Lettore aspetta le vacanze con impazienza. Ha rimandato alle settimane che passerà in una solitaria località marina o montana un certo numero di letture che gli stanno a cuore e già pregusta la gioia delle sieste all'ombra, il fruscio delle pagine, l'abbandono al fascino di altri mondi trasmesso dalle fitte righe dei capitoli. Nell'approssimarsi delle ferie, il Buon Lettore gira i negozi dei librai, sfoglia, annusa, ci ripensa, ritorna il giorno dopo a comprare; a casa toglie dallo scaffalevolumi ancora intonsi e li allinea tra i fermalibro della sua scrivania.” Il buon lettore di Italo Calvino, già citato in questo nostro articolo. Su Libriantichionline potete trovare tutto lo spassoso articolo del grande scrittore italiano.
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Cosa leggere in estate Assodato che l’estate sia un ottimo momento per rilassarsi con le letture, resta da capire quali libri comprare o portarci in vacanza. Leggendo le recensioni di alcuni libri si trova spesso una frase del genere: “Ottimo libro da portare sotto l’ombrellone”. Oppure: “Libro leggero adatto per le veloci letture estive”. In realtà io non sarei molto d’accordo: abbiamo detto che il tempo è maggiore, le giornate più lunghe e oziose, quindi perché non rispolverare dei classici? Qui ne trovate alcuni riassunti tra cui poter scegliere: si va da Madame Bovary di Flaubert a Anna Karenina di Tolstoj al Grande Gatsby di Fitzgerald. Se non abbiamo letto alcuni classici, durante le vacanze estive lo possiamo fare. Anche se vogliamo rileggere un classico, questo momento sembra il più propizio. Non dico che bisogna leggere solamente i classici in estate: in effetti i libri spassosi da leggere sotto l’ombrellone quando la concentrazione è pochissima fanno comodo!
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Per concludere Il nostro auspicio è che leggiate sempre, leggiate tantissimo. L’estate, le vacanze, i libri davvero sono un ottimo trinomio. Quindi bisogna approfittarne. Calvino è più pessimista di me: conclude l’articolo poco prima da me citato in questo modo: “Le ferie sono finite. Il Buon Lettore ripone i libri intonsi nelle valige, pensa all'autunno, all'inverno, ai rapidi, concentrati quarti d'ora concessi alla lettura prima di addormentarsi, prima di correre in ufficio, in tram, nella sala d'aspetto del dentista.”   Roberta Jannetti Read the full article
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