#io e il mio cacciavite
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i-am-a-polpetta · 5 months ago
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realizzo solo ora, alle 23.15 mentre con un cacciavite in mano aggiusto l'asta della doccia che forse io, qui, non ci volevo tornare. prendo una fascetta di quelle perfette per fare un accrocco in stile non lo so aggiustare proviamo con quella, ma purtroppo fallisco nel mio intento. papà ha un mobile in garage dedicato SOLO alle fascette e mentre sono li a guardarle realizzo che mi sento fortunata nell' avere una "casa di emergenza" in cui scappare quando qui non ci voglio stare. quindi mi ripeto che è vero, che io sono una di quelle persone che invece che risolvere il problema ci circumnaviga intorno e poi scappa, come se farci il giro intorno trovasse la soluzione. eppure prima o poi a casa ce devi torna' e per forza ti impregni i vestiti, l'anima e i pensieri di queste problematiche che saturano l'ambiente. che sai quando gli zen dicevano "e questa malinconia che mi sale dentro al cuore quando entro a casa mia" e mo li capisco troppo bene. intanto ho tolto lo stantuffo dall'asta, ho stretto la vite che si era allentata e cercando di capire come cazzo fosse incastrato tutto penso che anche io mi sento incastrata in una situazione che non ho mai voluto e che forse forse, quando anni prima scappavo a suonare la chitarra alle 2 di notte in stazione non c'avevo poi tutti i torti. quindi penso a quella canzone che dice "non ero più a casa mia nemmeno a casa mia solo mille guai" e quindi mi fermo un secondo, smadonno perché lo stantuffo non entra e mi ripeto che prima di andare a dormire sta cazzo di doccia deve essere perfetta, non solo perché col cazzo che prendo un pezzo nuovo, ma poi perché da qualche parte quei mille guai bisogna farli diventare 999. quindi provo, riprovo, insisto, sudo, cazzo che caldo regà, però alla fine ci è entrato, forse perché il buon signore Gesù ha detto "famogliela na grazia a sta sfigata" e quindi un po' per culo, un po' perché voglio credere di aver capito davvero come andasse e un po' perché le preghiere non aiutano ma le bestemmie sì ci sono riuscita. cosa abbiamo imparato da questa storia? innanzitutto che non è vero che ci sono "problemi per i maschi" e "problemi per le femmine" perché i problemi sono per tuttɜ, poi c'è chi si fa coraggio per affrontarli e chi ci li circumnaviga perché se tanto ci pensiamo domani vedi che non succede nulla. quindi non lo so, sinceramente volevo dire qualcosa di intelligente perché sto con questo cacciavite in mano mentre guardo quasi soddisfatta sta minchia di asta della doccia che finalmente sta ferma e mi dico che forse, nella vita, oltre alle madonne, si ha sempre bisogno di un cacciavite, però si insomma non so se sia meglio piatto o a stella quindi sapete cosa? prendere il kit della lidl che stanno le punte intercambiabili e soprattutto, tenete vicine quelle persone che ti dicono che ce la puoi fare, che ti facciano sentire liberɜ e che ti prendano per mano per vincere sta malinconia.
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gregor-samsung · 1 year ago
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" Durante un weekend a Roma eravamo stati invitati, insieme a un’altra mezza dozzina di persone, a cena da un mio amico, scrittore affermato, finalista allo Strega, un nome in voga tanto nei salotti culturali che in quelli politici. Si era da poco trasferito a Monti e ha voluto farci fare una visita guidata del nuovo appartamento, attraversando stanze dagli alti soffitti affrescati con librerie che occupavano intere pareti e quadri di pittori contemporanei nei corridoi. Nel corso del tour S. si è acceso una sigaretta, senza chiedergli il permesso. Lui l’ha fulminato con lo sguardo e gli ha intimato di fumarla su un balcone. Per prossimità sentimentale il suo biasimo sembrava riguardare anche me, sebbene io abbia finto di non coglierlo, mostrandomi indifferente al pallido incidente diplomatico. Ho lasciato che S. terminasse la sua sigaretta da solo affacciato sul panorama delle terrazze romane. Pochi minuti più tardi, nel corso dell’aperitivo, il nostro ospite si scusava per l’assenza di acqua calda in casa, spiegandoci che la caldaia era guasta e il tecnico che aveva promesso di passare a ripararla aveva spostato l’appuntamento al mattino seguente. Mentre noi sorseggiavamo i nostri drink, S. si è alzato dalla sua poltrona e gli ha chiesto di mostrargli dove fosse collocato l’impianto. Lui l’ha condotto in cucina. Ho sentito S. domandargli: «Hai mica un cacciavite?». Un quarto d’ora dopo la caldaia era di nuovo funzionante e il celebre scrittore guardava il mio compagno con l’ammirazione che si riserva ai genî incompresi. Adesso mi godevo il plauso che la prossimità sentimentale mi aveva fruttato. S. invece era tornato a bere il suo cocktail, indifferente all’elogio come lo era stato al rimprovero precedente. Le convenzioni sociali non sono mai state una sua priorità. "
Matteo B. Bianchi, La vita di chi resta, Mondadori, 2023¹; pp. 115-116.
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deathshallbenomore · 1 year ago
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arrivato il mio nuovo trolley, dovevo montare le rotelle. in un momento di delirio da ribaltamento degli stereotipi di genere mi sono munita di cacciavite e ho iniziato a smontare tutta l’intelaiatura della valigia, credendo di dover procedere in questo senso. [per fortuna avevo smontato solo il supporto della prima rotella quando] ho poi scoperto che sarebbe bastato premere un semplice bottoncino per permettere alla rotella di incastrarsi al supporto. in my flop era ma io mi sento di darmi un solido 9-/10 per aver letto questa impresa come una sfida ai ruoli di genere
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scampoliditesto · 1 year ago
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L’Incompreso
Da ragazzo mi sentivo incompreso. Mi rendevo conto di dire spesso cose che non interessavano ai miei coetanei, oppure di ascoltare dischi che venivano rimossi dal piatto con una smorfia dolorante, come se l'ascoltatore si fosse schiacciato i coglioni sedendosi malamente sulla sella di un motorino truccato. Ma l'apice del disagio lo ho raggiunto tre anni fa nel reparto cessi di Villa. In pratica, ero lì con Laura e stavamo scegliendo il bidet per la casa nuova. Io facevo prove approfondite, mi accovacciavo sui sanitari esposti, li riposizionavo nello showroom, mimavo con la mano il gesto di portare il miscuglio di idrogeno e ossigeno verso il culo sagomato da anni di libri e videogiochi. «Ho il femore troppo lungo!» dicevo a Laura. «Ci cacciano via!» ringhiava, malcelando l'imbarazzo in una smorfia divertita. Allora io mimavo con l'indice destro la distanza tra muro e ano, non credo ci sia un termine tecnico, una quota standardizzata vitruviana, insomma, introducevo questa misura a supporto del fatto che avessi le gambe troppo lunghe e che, quindi, da seduto parte del culo sarebbe uscita dal bidet. «Lo voglio stondato e attaccato al muro: fa cagare ovale e con i tubi a vista.» Questa era la risposta che ottenevo in cambio di complessi ragionamenti trigonogometri. E quindi dicevo che no, lo spazio non si può comprimere, cioè magari si può andando alla velocità della luce, però, ecco, non è che per lavarmi il culo io possa ogni volta compiere un salto nell'iperspazio. E dopo discussioni estenuanti, una specie di trattativa tra lei, signora, e io, ambulante affaticato sotto il sole, la spunto. La spunto sulla forma ma il prezzo da pagare è quello di scegliere un bidet che aderisca perfettamente al muro e non lasci intravvedere all'occhio umano tubi, manicotti e leveraggi.
E insomma, racconto questo per dire che oggi mi sono fatto il bidet e dopo che ho finito, tiro la levetta per far defluire l'acqua e si rompe. Tuc. Tuc, fa l'asticella cromata e io la guardo mentre sono seduto a cavalcioni del trabicolo di porcellana. Fisso il muro, poi il pernetto, e infine abbasso lo sguardo e vedo il piccolo specchio d'acqua sotto le mie cosce. Quindi mi alzo, impreco e comincio ad aggeggiare con le dita sul tappo per provare a rimuoverlo dalla sua sede, sede rifinita in maniera millimetrica, nemmeno fosse l'ingranaggio di un Rolex. Dopo dieci minuti mi arrendo. Mi arrendo e corro in cucina. Apro un cassetto ed acchiappo un coltello e torno nel bagno con la speranza di poter usare la lama per far leva sul tappo. Mi tuffo nell'acqua ma l'acciaio è troppo spesso: non ci passa. Il tappo rimane al suo posto, fiero del suo ruolo, una specie di oligarca in un mondo di porcellana e sa-la-madonna quali resti della mia umana ingegneria.
Dopo aver provato una teoria di oggetti, cito a memoria, un cacciavite, uno stuzzicadenti, la lama di un cutter e la tessera della Coop, mi cade l'occhio verso il lavandino. Vedo la soluzione. La vedo e mi compiaccio, addirittura ringrazio dio di avermi fatto scienziato, di avermi donato la possibilità di avere idee utili per tutti tranne che per me stesso. Glu, glu, glu. L'acqua defluisce! Acchiappo con due dita il pistone che dovrebbe alzare il tappo e dare una via di fuga all'acqua e lo tiro. Basta pochissimo e tutto ritorna a funzionare per la gioia del Signor Pozzi e del suo socio Ginori.
Esattamente quattordici ore dopo, sono seduto al Mac che lavoro. È tardi, non so più cosa fare per arginare le scadenze, in pratica sono assorbito dal fallimento professionale quando sento urlare. «Carolina, lavati i denti!» sbraita Laura. «Non posso!» «L-a-v-a-i-d-e-n-t-i!» «Ma come faccio?» urla l'Exogino con parte del mio DNA. «Ho detto che ti devi lavare i denti!» «Non trovo lo spazzolino.» E quindi inizia una rissa madre e figlia, una roba tipo tour dei Genesis quando Phil Colins e Bill Bruford se le suonano sulle note di The Cinema Show. Laura usa l'arma finale: «Adesso viene tuo padre!» Mi alzo sapendo che, ogni volta che vengo invocato, la mia autorevolezza diminuisce, come se il mio essere padre fosse regolato da un'immaginaria barra di energia che niente e nessuno può ricaricare. 
Effettivamente, Carolina ha ragione. Mentre mi gratto il mento ammetto, facendo finta di niente, che lo spazzolino non è più disponibile. «Più?» dice Laura «Più,» dico io. Per chiudere subito la questione, dico che aveva le setole rovinate, anzi, rincaro la dose e aggiungo che bisogna insegnare a nostra figlia a non masticare lo spazzolino. Ma Laura dice che era nuovo, che era diventata scema a trovarlo a forma di giraffa azzurra. «Lo avevo lasciato appiccicato allo specchio, pa'» dice mia figlia. «Proprio qua,» fa Laura indicando l'alone circolare. Mi vedo riflesso nello specchio e capisco di essere spacciato. Ma poco prima di darmi per vinto, mi ricordo di un tizio con cui ho lavorato. Mi ripeteva sempre: "Luca, bisogna sempre dire la verità, perché la verità può essere aggiustata." Allora "aggiusto" il corso degli eventi e, guardando madre e figlia, dico che è successo un incidente e che ho dovuto buttare via il simpatico dispositivo odontoiatrico dotato di ventosa. «Sei un mostro» urla Carolina. «Sei impazzito?» fa coro Laura.
Balbetto e dopo qualche istante ammetto che mi serviva per risolvere un'incomprensione del passato. E quindi spiego alla mia famiglia che non riuscivo a stappare il bidet e che ho usato la ventosa piazzata sul culo dello spazzolino per afferrare il tappo sepolto da acqua e residui pubici. Dico che lo ho fatto a fin di bene, insomma, che lo ho fatto solo nella speranza di tirare via il tappo dalla sede, dalla sua cuccia pure troppo perfetta per quanto ci è costata. «Domani risolvi questa storia» dice Laura. «Come sempre,» dico io mentre vedo madre e figlia che si allontanano senza salutare.
La mattina successiva, giro mezza Genova per cercare uno spazzolino con ventosa. Alla fine lo trovo e, anche se costa una cifra folle, lo pago e lo porto a casa. «Non mi piace,» fa Carolina e aggiunge «ormai sono grande, uso questo» e intanto brandisce un affare di plastica con sopra scritto OralB. Allora ripongo lo spazzolino nel posto segreto dove tengo il mio senso di incomprensione e tutti gli aggeggi che mi ricordano che, alla fine, ho sempre ragione.
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ahrisen · 11 months ago
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02.01.2024
1.
Ero sott’acqua con un gruppo, non respiravo bene dalla bombola. Chiedo al l’istruttore di controllare. Capisco che è un sogno e mi sveglio con il sangue dal naso (Soffocavo).
2.
Siamo in un luogo chiuso, forse una casa o un bar, con delle persone. Sono giovani. Riconosco il mio fidanzato e il fidanzato di un’amica del mio fidanzato. Il mio fidanzato esclama che offre una pizza a tutti. Io esito. Mi chiede perché. Gli dico non abbiamo soldi per offrire. (Siamo in un periodo economicamente di magra)
3.
Sono in cucina a casa di mia nonna al sud, e al tavolo sono sedute varie persone. Tra cui mia nonna che tempesta di domande il mio fidanzato come se fosse un inquisitore. Io entro ascoltando la conversazione. In mano ho una sorta di oggetto simile a un incrocio fra un cacciavite, una chiave, una lampadina, è un taser. Per comodità mi riferirò a questo oggetto come “La bacchetta”. Mentre loro parlano armeggio con la bacchetta e riesco a capire di poter a comando accendere e spegnere la luce nella stanza come se fosse un telecomando. Mentre lo faccio però i presenti si innervosiscono perché vogliono finire il dialogo. Dialogo che, in conclusione, vede il mio fidanzato come un inetto. Mia nonna dice “Che senso ha stare con uno così, che uomo è? Tornatene giù. Tanto vale.”
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intotheclash · 3 years ago
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Quella mattina faceva un freddo cane nel nostro quartier generale. In barba all'estate, un vento impetuoso di tramontana spazzava la piazza con furia maniacale. Sbatacchiava senza pietà le chiome delle vecchie Paulonie, lì da sempre, danzava con le loro foglie e tutte le cartacce sparse per terra a quell'ora, per poi infilarsi direttamente su per i nostri calzoni corti, fino a ghiacciarci le palle. Ma non sarebbe durata. A Luglio, quel vento infame, di solito, aveva vita breve. durava appena lo spazio di poche ore, poi, come si era alzato, si riabbassava altrettanto improvvisamente, per poi sparire in chissà quale altro posto. Io, Sergetto, Tonino e il Tasso eravamo in attesa, sugli scalini della fontana, in attesa di quei dormiglioni di Schizzo e Bomba. Ci stava aspettando la nostra seconda giornata di lavoro. La prima ci aveva rotto le ossa, ma non ci aveva piegato. Certo, ci era andata molto vicino, ma avremmo resistito. Erano ormai quasi le otto e dei due perdigiorno, neanche l'ombra. anzi no, un'ombra sbucò all'improvviso dal vicolo che proveniva dalla Ripa dei Somari; chissà mai perché si chiamava proprio in quel modo curioso. quell'ombra avanzava verso di noi con una lentezza esasperante ed aveva una forma assai bizzarra: sembrava quella di un avvoltoio, uno di quelli che apparivano sempre, al tramonto, nei cartoni animati. Era Schizzo. Che arrivava da non si sa dove, visto che la sua casa era dalla parte opposta del paese. “Alla buonora!” Urlò il Tasso, non appena lo riconobbe. “Con calma, eh! Tanto noi non si sa cosa fare, possiamo aspettare!” Schizzo si bloccò all'ingresso della piazza, alzò quel suo sguardo assente che, generalmente, tendeva sempre a sfiorare l'asfalto, come se fosse una delle cose più interessanti del mondo, perse un po’ di tempo a metterci a fuoco, per via di quelle lenti esagerate che si portava addosso, e, con un candore disarmante, chiese: “Chi stavate aspettando?” Ci guardammo un attimo allibiti, poi scoppiammo a ridere, come se avesse detto la battuta del secolo. Schizzo era un comico nato, solo che lui non lo sapeva, si erano dimenticati di avvisarlo. “Ma brutto sciroccato di un quattrocchi! Si può sapere dove cazzo sei stato?” Gli urlò, di nuovo, il Tasso. “Sono passato a trovare mia nonna.” Rispose, spiazzandoci di nuovo. Non era mai scontato. “Tua nonna? Certe volte mi fai paura sul serio, Schizzo. Ma come tua nonna? tua nonna è morta l'anno scorso!” “Lo so che è morta, mica sono un idiota. C'ero anch'io al suo funerale. C'era un sacco di gente al suo funerale. Infatti non è che sono andato a trovare proprio lei…” “Giuro che non ti capisco.” Affermai. E, a giudicare dalle facce degli altri, era evidente che neanche loro avessero capito. “Sono andato a trovare la casa di mia nonna. Quella dove abitava quando era viva.” “Ecco, adesso si che è tutto chiaro!” Si intromise Tonino. “Sei stato a trovare la casa. Mi sembra giusto. Chi è che non va a trovare le case? Io stesso, ogni tanto, ci vado.” Ma il sarcasmo non sfiorava nemmeno Schizzo, che continuò per la sua strada: “Ci vado spesso. Ci passo quasi tutte le mattine. Mi fermo un po’ sotto al portone, guardo la facciata tutta scrostata, le persiane che, ormai, stanno cadendo a pezzi, annuso l'aria e ricordo com'era. E quasi mi sembra che ci sia ancora. Che non sia morta. La vedo esattamente come l'ho sempre vista. Con quella sua veste scura, con sopra il grembiule da cucina, a trascinare quelle sue gambettine rinsecchite da una stanza all'altra, sempre in moto, sempre indaffarata. Oppure la vedo davanti al camino, quello grande della cucina, dove ci appendeva un paiolo di rame grosso come una carriola e ci cuoceva certi minestroni profumatissimi, con dentro tutte le erbe selvatiche che trovava in campagna. Come era buono il minestrone di mia nonna! E anche lei era buona. non mi ha mai picchiato. Neanche una volta. Era un angelo mia nonna.” “Beato te, Schizzo,” Disse il Tasso con un moto di invidia, “La mia mi carica di botte. La stronza! A casa mia, tutti me le danno, lei compresa. E’ sciancata, cammina di traverso come i gamberi, ma come le passo a tiro di bastone, me la fa pagare, anche quando non ho fatto un cazzo. E’ cattiva nell'anima, la vecchiaccia. Non poteva morire la mia, al posto della tua! ci avremmo guadagnato tutti e due!” “Dio non è così giusto come dicono. Oppure è troppo vecchio per fare quel lavoro. E’ distratto, non si ricorda una sega…dovrebbe scegliere bene chi far morire. Forse sarebbe ora che si trovasse un aiutante, uno giovane e serio, che faccia il lavoro per lui.” “Infatti. A me quella cosa che se ne debbano andare i migliori, mi pare proprio una bella stronzata.” Aggiunse il Tasso. La fragorosa risata di Tonino ci colse tutti di sorpresa, così ci voltammo a fissarlo con aria interrogativa. “Ma che ti sei bevuto il cervello? La nonna di Schizzo è morta, la mia mi massacra di legnate e tu te la ridi? Bell'amico che sei!” “Scusa, Tasso, è che mi hai fatto venire in mente quella volta che abbiamo aiutato tuo padre con la lavatrice nuova. Te lo ricordi?” “E chi se lo scorda più! Ancora porto addosso la cicatrice!” Conoscevamo tutti la storia, non c'erano segreti tra noi. L'avevamo già sentita più di una volta, ma era una bella storia, divertente, e una bella storia non stanca mai. Poi avevamo tempo, visto che Bomba chissà dov'era. “Se ci ripenso, mi vien voglia di suonartele ancora oggi!” Disse minaccioso il Tasso, ma si vedeva bene che gli veniva da ridere. “A me? E che c'entro io? Hai fatto tutto da solo! Te le sei cercate. Quella volta, tuo padre aveva ragione!” Replicò, Tonino. “Col cazzo! Mio padre non ha mai ragione. E tu dovresti stare zitto, perché se no…” “Piantala, Tasso! E racconta.” Lo esortammo in coro. “E’ successo l'anno scorso, durante le vacanze di Natale. Alla vecchiaccia si era rotta la lavatrice, ma rotta, rotta, tanto che il tecnico non fu in grado di ripararla. Mio padre, allora, fu costretto a decidere di comprarne una nuova e di farle un regalo, anche se si vedeva che gli giravano i coglioni, sia per la spesa, che per il fatto che fossimo sotto Natale. Perché dice che, sotto le feste, quelle carogne dei negozianti aumentano tutti i prezzi e siccome alla gente non va di fare una figuraccia, di passare per pidocchiosa, va a finire che compra lo stesso. Si fece prestare il furgone da suo fratello, quello che fa il muratore, quello gentile, tant'è che dicono, anche mio padre lo dice, che sia dell'altra sponda. Però io, una volta, mentre me ne andavo in bici su per le curve di Orte, l'ho visto fermo sul ciglio della strada, dove stanno le donnacce. ciò significa che è solo gentile e quello che dicono di lui è una stronzata. Insomma, mio padre prende il furgone e va a Viterbo a comprare la lavatrice. Al ritorno, trova me e Tonino a giocare al calcio nella piazzetta, sotto casa di nonna, così ci chiede di aiutarlo a scaricare l'attrezzo e a portarlo su per le scale. ” Tonino rideva forte e si batteva le mani sulle gambe. “Non posso pensarci! Ancora mi piscio addosso dalle risate. Quante ne hai prese quel giorno!” “Tu non fiatare, bastardo di un amico! E, quel giorno non ne ho prese tante come dici. Non più di tutte le altre volte che me le ha date, almeno. la differenza è che le ho prese per colpa tua!” “Mia? Che colpa ne ho io se quell'affare pesava come un morto e, quando stavamo a tirarlo giù dal pianale, mi è sfuggito di mano e il morto è finito sul piede di tuo padre?” “Ecco, bravo, è proprio questo il punto. E’ sfuggito a te, ma il calcione nel culo l'ho preso io!” “Mi sembra giusto! mica sono io il figlio! Mica si possono picchiare i figli degli altri!” disse Tonino, che non la finiva più di ridere. “Mi fa incazzare ancora, ma fin qui ci posso stare. Dopo, però, sulle scale, il morto ti sarà sfuggito un'altra mezza dozzina di volte. Quindi le cose sono due: o tu hai le mani di merda, oppure lo facevi apposta!” Il quesito era elementare, e il Tasso conosceva già la risposta. Tonino rise ancora più forte, quasi si strozzò per i singhiozzi. “Cazzo, tuo padre tirava fuori certi bestemmioni che non avevo mai sentito. E ti mollava certe sberle che l'eco rimbalzava giù per tutta la tromba delle scale che era una bellezza!” “Allora lo ammetti, vile traditore!” “Certo che lo ammetto, ma la cicatrice non è stata colpa mia. Quella te la sei cercata. Hai fatto tutto tu. E’ stato tutto merito tuo.” “Quale cicatrice?” Chiese improvvisamente Schizzo. “Quale cicatrice? Questa cicatrice!” Strillò il Tasso, mostrando con orgoglio il bottoncino, ancora rosso vivo, al centro del polpaccio. “E come te la sei fatta?” Ci rotolammo tutti in terra dal ridere. Ogni volta la stessa domanda, come se Schizzo non avesse mai ascoltato la storia. Il Tasso decise di non dargli peso e tirò dritto: “Una volta arrivati in casa, mio padre, sudando come un maiale per lo sforzo, liberò la lavatrice dagli imballaggi e iniziò ad armeggiare con i tubi per collegarla e metterla in funzione. Io E Tonino avevamo finito, non servivamo più, stavamo per andarcene, quando mi andarono gli occhi sulla marca della lavatrice. Mi voltai e guardai mia nonna che appoggiata al suo bastone, trascinava per casa la sua faccia cattiva e quella sua gamba matta. Mi uscì di bocca senza pensarci: bravo, papà! hai scelto la lavatrice giusta per la nonna. Una Zoppas! Calò un silenzio di tomba, poi questo giuda di Tonino scoppiò a ridere. Mia nonna faceva fiamme dagli occhi e prese ad insultare me e mio padre per avermi messo al mondo. Tentò anche di colpirmi con il bastone, ma fui lesto a schivare. Fui lesto a schivare pure il tentativo di presa al volo del mio vecchio, ma lui, con l'altra mano, afferrò il cacciavite e me lo lanciò contro, quando ormai, ero convinto di averla scampata. Sentii una fitta tremenda al polpaccio e mi schiantai in terra. Vidi quell'arnese infame piantato, per metà, nella mia gamba e il sangue che iniziava ad uscire. Cacciai un urlo che nemmeno Tarzan nella giungla si sarebbe mai sognato, mio padre si avvicinò lentamente, con la faccia soddisfatta, recuperò il suo maledetto cacciavite, lo pulì sui suoi pantaloni da lavoro e disse: Così un'altra impari a fare lo spiritoso! E se ne tornò soddisfatto alla sua cara lavatrice.” “Giuro che, in quel momento, non mi veniva affatto da ridere, anzi, mi presi pure un bello spavento; chi se la sarebbe aspettata una mossa del genere! Ma ora, ora che è passato, cazzo se mi fa ridere!” Terminò Tonino.
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libriaco · 4 years ago
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Un dvärgen nella borsetta
Una cosa che nessun gentiluomo deve mai fare è gettare un'occhiata indiscreta all'interno della borsetta di una signora; figurarsi poi metterci le mani dentro per cercare qualcosa!
Mi si intenda, non è solo inutile galanteria, rispetto della riservatezza o, in caso di mogli o affini, timore di trovare chi sa cosa: il fatto è che nella borsetta di una donna si trova davvero di tutto e difficilmente quello che si cerca.
Si trovano senz'altro un metro metallico avvolgibile con integrata bolla per livella, le pinzette per le ciglia (quale donna non ne ha con sé?), una crema per le mani (commento come il precedente), una o più chiavette USB con i cordini rigorosamente intrecciati e indistricabili, una penna, un lapis, un piccolo cacciavite, numerose monetine di pezzature varie, decine di scontrini semi appallottolati e risalenti a settimane o mesi prima, dei fazzolettini di carta, un portamonete-portadocumenti con infinite capienti tasche, tutte rigorosamente piene, un cellulare, il caricatore di detto cellulare, qualche banconota da cinque e dieci euro, un paio di mazzi di chiavi con relativi ingombranti portachiavi, un porta occhiali per gli occhiali da vista, uno per quelli da sole, un disinfettante in crema, una mascherina chirurgica, una mascherina FFP2, dei guanti di lattice monouso. E questo è solo un florilegio.
Io, qualche mese fa, autorizzato da mia moglie a cercare il caricatore del suo cellulare, nella sua borsa ho trovato anche un Nano. Non scherzo, neanche sapevo che esistesse, prima di averlo tra le mani: ho pescato, dalla borsa delle meraviglie della consorte, Il nano, di  Pär Lagerkvist, un libriccino cartonato e piuttosto denso.   "E questo Pär Lagerkvist chi è?" ho chiesto alla mia signora. Ho pronunciato il nome nel mio svedese più fluido, dovuto a una vecchia frequentazione lavorativa, e tuttavia ho ricevuto uno sguardo di commiserazione per la mia ignoranza. "Non conosci Lagerkvist? È un premio Nobel!" "Nobel, che vuol dire Nobel, hanno dato il Nobel per la letteratura anche a Dario Fo e a Sinclair Lewis, che c'entra!" Ma ho incassato il colpo; il caricatore che mi aveva chiesto di cercarle gliel'ho dato, Il nano invece l'ho sequestrato e l'ho messo in cima alla mia pila delle letture notturne.
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P. Lagerkvist, [Dvärgen, 1944], Il nano, Milano, Fabbri, 1970
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poilastradalatrovidate · 3 years ago
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#pensieri
Non sono mai stata una bambina ordinata. Ho vissuto in una casa piena di persone, parole, suoni, animali, storie e individualità totalmente differenti l’una dall’altra.
Nonno, nonna, mamma, papà, la gatta, tutte le domeniche zio, zia e mia cugina a pranzo a casa nostra. La casa in campagna, quella grande con il giardino e l’orto. Il pranzo della domenica nonna iniziava a prepararlo dal sorgere del sole, era sempre lo stesso: le conchiglie o con il sugo e le polpette o con il ragù (però con le polpette erano più fighe) e il pollo con le patate. Zio portava i pasticcini, per me e Sara quelli alla panna e quelli al cioccolato, in cui Sara infilava tutta la lingua e si ritrovava ricoperta di cioccolato fino al naso. Dopo pranzo noi in giardino e i grandi a chiacchierare. Erano delle belle domeniche. A mamma non piacevano, non le è mai piaciuta la sua famiglia. Io le adoravo, anche se nel tardo pomeriggio dovevo sistemare tutto e preparare lo zaino per scuola. Quando zio si è separato sono finite. 
Ma tornando a me.. era una casa grande con quattro persone grandi che avevano idee diverse sulla vita e modi diversi di fare e che pretendevano da me che io facessi quello che ognuno di loro voleva... Tutti volevano che lo facessi in un modo diverso ma il fine era lo stesso: la bimba perfetta.
Spoiler: non sono mai stata perfetta e non lo sarò mai.
Volevano che non mettessi in disordine, da nessuna parte, e se proprio dovevo poi era necessario sistemare tutto.
La mia stanza è sempre stata il caos. Io mi trovavo bene, trovavo sempre tutto e il problema sorgeva nel momento in cui le cose venivano rimesse al posto che, secondo mia mamma o mia nonna o mio papà, dovevano avere. A nonno non fregava nulla della mia stanza, quando eravamo insieme passavamo le giornate nell’orto o in garage e mi diceva che ogni chiave o cacciavite deve stare al suo posto, con quelli come loro, altrimenti si rischia di farli litigare. Era un modo carino per insegnarmi a sistemare le cose. In camera mia ogni cosa era al suo posto e non litigava con nessun’altra.
Crescendo, credo che il mettere o meno in ordine sia diventata un’espressione della mia interiorità. Quando sono tranquilla, sto bene e le cose filano lisce, riesco a mantenere l’ambiente in cui vivo, ordinato in modo quasi maniacale. Persino il cassetto dei calzini e il portapenne sono ordinati.  Quando c’è qualcosa che non va ma non voglio farlo vedere e cerco di far finta che vada tutto bene, è tutto quasi in ordine, ci sono solo delle piccole cose che stonano ma dentro ad ogni armadio e cassetto è il caos. Quando, invece, vivo senza però avere nemmeno la voglia di alzarmi dal letto, mettere in ordine mi costa fatica e scoppia il caos, che non è più il caos in cui mi ritrovavo da bambina, in cui ogni cosa era comunque al suo posto perché io ero in ordine, è solo la manifestazione reale di ciò che ho dentro.
Molte volte ho sistemato fuori perché quella era l’unica cosa che potevo controllare e mi dava tranquillità. Gli ambienti ordinati e precisi, con le luci soffuse, mi fanno sentire a mio agio e protetta.
Ora mi trovo qui, con il letto sommerso di pile di panni puliti e la porta con molteplici stampelle appese alla maniglia. Sulla stufa vi è poggiato un enorme quaderno ad anelli relativo ad una questione che mi spaventa particolarmente e la scrivania è piena di libri e di appunti da studiare per cercare di passare l’esame che, fino ad ora, potrebbe essere il più importante della mia vita e per cui non sono ancora pronta. 
Guardo tutte queste cose e mi sento sopraffatta, così come mi sento sopraffatta da tutti gli eventi che si sono presentati ultimamente nella mia vita. Li guardo e non so da dove iniziare, ma sono sul mio letto e se non faccio qualcosa non ho un posto dove dormire e in cui rifugiarmi. Quindi momentaneamente li sto evitando, sono qui, illuminata dalla luce di una candela al profumo di mare e dalle lucine appese al muro rosso che mi fanno sentire a casa.
Ora mi alzo, giuro che ora mi alzo, prendo tutte queste cose che sono fuori posto e le sistemo così forse domani mattina il mio ambiente ordinato mi dirà che piano piano si sistema tutto, che basta avere pazienza e che troverò anche io la forza di affrontare questa cosa grande grande a cui non ero pronta e che mi ha completamente sommersa.
O almeno lo spero.
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completa-mente · 3 years ago
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Ciao, oggi ti ho vista per sbaglio sul corso
Ti avrei attaccato un bersaglio sul dorso
Poi la voce che confonde stimola il rimorso
Tempo perso metto una croce, pronto soccorso
Mando via te, noi sia fiamma
Questa storia tra palco e tenori senza diaframma
Con la voce per gridare addosso ai tuoi
Ma mai per dire che li ami
Ed io a rimare un po' di noi
Perché è la fine che aspettavi
Farne parte finché quella pancia vive
Per sentirti tra i miei passi ti avrei scritta sopra il parquet con un cacciavite
Ma la mia vita resta un bel riassunto stupido
Per poi sudare contro te che hai avuto tutto e subito
Ed io, ti avrei insegnato come stare tra le iene
Invece, impanicato penso a te mentre lei viene
Ho patinato il vento con il sangue rosso delle vene
E c'ho vestito te per farti matchare col mio quartiere
Dammi un senso
Un senso che da solo serva se la morte inuma
Non ho re, io non ho re, Montezuma
Piango sole sopra il ghiaccio, il fumo lascia te più contenuta
Poi bastarda fai la corte nuda a me
Che ti conosco da prima di conoscerti
Da prima di contorcermi lo stomaco in un foschio, a me
Che ti scopavo sul tappeto, mi ricordo
Ed ora incenerito da sopra il tappeto sono sotto
Tipico di quello che sei dei tuoi mondi
Per vederli un po' puliti lo sporco lo nascondi
Non sei al corrente di quanto male nel cuore hai te
Ma son corrente ho portato fuori la polvere
Lo sai le stelle non brillano anzi
Abituano l'anima a stare zitta e si parlano per amarsi
Ma il silenzio che mi insegni è prezioso quanto gli avanzi
E adesso piove e falli correre tutti per ripararsi
Che io, non vado via
Io sono cielo, il cielo riconosce il gelo della psiche mia
Io ho meno di quegli altri ma più di chiunque sia
Solo un tetto per i tanti e da solo dovunque stia ah!
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der-papero · 4 years ago
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Come mai hai scelto proprio proprio ingegneria?
Wow, ma che è successo? Fino a ieri le persone passavano e mi tiravano un po’ di pane, ma una conferenza stampa era proprio lontana dalle mie aspettative :)
Beh, sin da bambino il mio giocattolo preferito era il cacciavite. Lo portavo sempre con me, smontavo tutto. I miei erano sempre incazzati perché rompevo TV, radio, frullatori, mi piaceva capire come funzionavano le cose, ero molto curioso.
Sempre a quell’età (sui 7/8 anni, credo), presi la mia prima scossa, perché volli riparare la lampadina della macchina per cucire di mia madre, il cavo elettrico era spezzato. Non avendo alcuna conoscenza della materia, mentre lei era distratta, presi i 4 fili (2 per capo), li unii insieme e infilai la spina. Considera che negli anni ‘80, in molti impianti del Sud Italia, non esisteva il magnetotermico. Fece una botta mostruosa, ricordo solo il lampo e come se mi avessero dato uno schiaffo fortissimo alla mano, che diventò tutta nera (con tutta probabilità si ustionò la superficie della pelle). Mia madre me ne diede tante, ma talmente tante, che non ho mai capito se sarebbero stati meglio i calci in culo o gli ampere nei muscoli. Però quel giorno capii che i fili vanno sempre tenuti divisi, un concetto che sembra banale, ma non lo è.
La passione per i computer arrivò poco dopo. Ero ai primi anni delle medie (’89, credo), mio padre tornò a casa con un piccolo fascicolo sul Commodore 64, uscito in allegato con un volume di Educazione Tecnica che aveva comprato. Quel fascicolo divenne il mio peluche. Non ci capivo nulla, ma lo portavo sempre con me, guardavo le figure, tutte quelle scritte, il fatto che sembrasse un oggetto magico, pieno di tasti, luci, colori. La curiosità di capire come funzionasse ovviamente era alle stelle, e il fatto di non averlo (e quindi non poterlo smontare) lo rese ancora più mistico ai miei occhi. Da lì nacque una passione che poi non ho più perso. A 15 anni ebbi il mio primo PC, e da allora non c’è stato un giorno nel quale io non abbia scritto una riga di codice.
Capisci che, con questi presupposti, i corsi di studi disponibili non erano poi così tanti :)
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egyzia · 4 years ago
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Quando ero piccola mio padre mi ha regalato un cacciavite e io ho avuto sempre il terrore si rompesse. Invece è sempre come nuovo. Ha una garanzia avvita.
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4liuse · 5 years ago
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Quando ho iniziato stavo steso fumando al soffitto
Una mano sul petto appena sotto il mento
E finalmente un po' me ne stavo zitto
Lei dorme mentre io guardo l'arredamento
A sedici anni circa la chiamavo "Chica"
Non capivo come avessi quel pezzo di fica
E non è che ora capisca come va la vita
Ma lei ha dipinto con la cipria questo mio Guernica
Un altro flash e sono in piedi come un manichino
Mentre lei si fa le foto dentro un camerino
Parla di parità dei sessi e non ci crede in Dio
Ma a me sembrava che a rimetterci ero solo io
Sua madre penso che mi odi tipo un attivista
Lei ripete a pappagallo mentre do di testa
E ora le storie d'amore si fanno su Insta
A me rompevano i coglioni ste stronzate di sinistra
Ma per me era bella
Siamo come un orecchino di perla
Un cacciavite a stella dentro un sotto sella
Ed è come se, dopo anni lei non sappia stare lontano da me
Perché per me era bella
Siamo come un orecchino di perla
Un cacciavite a stella dentro un sotto sella
Ed è come se, dopo anni io non sappia stare lontano da te
Quando è finita mi son detto "Cosa vuoi che faccia?"
In sta città non ce n'è una che in fondo mi piaccia
A letto dove vuoi che vada con sta faccia
Come un verme steso dentro ad una mela marcia
E la minestra riscaldata non è buona sai?
Ma si cammina molto meglio con le scarpe vecchie
E i chiacchiericci di un quartiere non si ferman mai
Così che ritornammo insieme quando mi strappai le orecchie
Ma la felicità è spesso scritta in grassetto
Dentro una parentesi che prima o poi finisce
E io che prima avevo solo ghiaccio nel petto
Piantai un bucaneve aspettando che fiorisse
Ma vengono le fisse, le pare
La voglia di scappare ai lati opposti il cerchio diventa un ellisse
Non puoi mangiare pesce senza badare alle lische
E io lo ripetevo sperando che mi capisse
Ma così non fu
E ora a volte mi scrive, una faccina che ride nelle conversazioni
Mi parla delle amiche, questa cosa mi uccide, ho le allucinazioni
Circa cinquanta righe, le spaccherei la testa, questa rompi coglioni
Ma se la incontro alle feste, si comporta ancora come se in fondo sapesse
Che per me era bella
Siamo come un orecchino di perla
Un cacciavite a stella dentro un sotto sella
Ed è come se, dopo anni lei non sappia stare lontano da me
Perché per me era bella
Siamo come un orecchino di perla
Un cacciavite a stella dentro un sotto sella
Ed è come se, dopo anni io non sappia stare lontano da te
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chez-mimich · 6 years ago
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OTTO MARZO. Mi ricordavo che era Natale solo quando si rompeva il miserabile giocattolo che mio nonno mi aveva regalato. Era una macchina di latta grande come una scatola da scarpe con il cofano metà giallo e metà rosso; una specie di Volkswagen un po' sbilenca. Le ruote erano di bachelite e nemmeno perfettamente circolari, tanto che il suo andamento era sussultante. All'interno era priva di qualsiasi finitura (sedili, volante o altro). Insomma era un giocattolo per modo di dire. Quel giorno di Natale i nonni erano raggianti, in particolare il nonno. Quando mi diede l'automobilina mi abbracciò ed io sentii che oltre al dono, mi veniva trasmesso amore. Poi l'automobilina si ruppe; una delle quattro ruote andò per conto suo. Quando la portai al nonno, lui cercò di rimettere la ruota al suo posto ma non ci riuscì, anzi si bucò un dito con il cacciavite. Il nonno imprecò contro di me che piangevo, contro l'automobilina e perfino contro Gesù bambino che me l'aveva portata. E così maturai l'idea che il Natale portava con sé un certo rischio. Mi ricordavo che ero stato al mare solo quando tornavo a scuola. Non erano proprio vacanze, almeno non come le intendiamo oggi; diciamo che "stavamo al mare" visto che le mie zie abitavano nei dintorni della spiaggia di Mondragone che raggiungevamo in bicicletta. Stavo sulla spiaggia in canottiera seduto nella sabbia (e la cosa mi faceva anche un po' schifo poiché certamente a Novara non avrei potuto stare seduto nella terra; al mare invece si poteva e non mi sono mai spiegato il perché). Però tutto sommato era piacevole: aria fresca, sole caldo, il rumore del mare. Era bello. Poi però mi accorgevo che la festa finiva quando tornavo a scuola senza aver svolto i compiti estivi e la burbera maestra mi diceva: "Non hai studiato vero? Sei un gran somaro! Siediti all'ultimo banco!". Mi accorgo sempre della "Festa della donna" quando qualcuno prende il macete o una tanica di benzina e rincorre la propria compagna o la propria mogli o ex-moglie per farla a pezzi. Magari è il 17 aprile, il 6 giugno o il 22 ottobre e magari quello che corre con il mano il macete o la tanica di benzina, è uno che aveva portato le mimose, era entrato in ufficio e aveva fatto gli auguri alle colleghe. A me le feste non sono mai piaciute. Le feste sanno di "occasionalità". Lo dice anche la cosiddetta "saggezza popolare", passata la festa... Non farò gli auguri a nessuna donna, li farò solo a me stesso. Mi auguro di ricordare sempre che le donne sono coloro che ci dànno la vita, coloro che ci proteggono e che ci amano, qualche volta ci feriscono o ci detestano, ma che quasi mai ci usano violenza, ci torturano, ci ammazzano, mi auguro di ricordarmi sempre che sono molto spesso migliori degli uomini. Mi auguro di ricordamelo domani, il 17 aprile, il 6 giugno, il 22 ottobre...
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franzpalermo-blog · 5 years ago
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L’infanzia di Franz(ia)
Quando avevo otto anni ero, a mia insaputa, il protagonista di un romanzo di formazione. Il degrado, quello vero, lo assapori dai particolari, dalle sfumature. Tra le varie cose:
-Staccavo i rametti degli alberi e me li fumavo. Promotore di nuove tendenze, passai il "vizio" a tutta la comitiva di allegri prepuberali. Un amichetto di cui non ricordo il nome, che aveva due o tre anni più di me, dopo il primo tiro alla mia trovata la definì una "droga potente" con tutta l'eleganza del materano puro. Probabilmente, nessuno sapeva di che stava parlando. Ah, la mia prima sigaretta l'avevo fumata un paio di mesi prima, forse: ne avevo fumate un paio e non m'era piaciuto, probabilmente perché preferivo un modo più naturale d'intossicazione. -Avevo un edicolante senza scrupoli che ci vendeva i pornazzi. Eh, sì, oggigiorno c'è l'internet e s'è persa tutta la ritualità dell'esperienza, la preparazione della casa libera con videoregistratore, la riunione con gli amici, roba del genere. Ah, inutile dire che dall'edicolante ci andavo io perché ero il più faccia-di-cazzo del gruppo. Non giudicate male il povero edicolante, però, perché noi eravamo piccoli e neanche conoscevamo la masturbazione, quindi la nostra era una visione esclusivamente platonica. Il raspone-di-gruppo sarebbe arrivato in seguito, comunque, mica ce lo siamo perso! -Leggevo "Topolino", "Alan Ford", "Piccoli Brividi" e qualche altro libretto sparpagliato. All'apice di una creatività infantile, di un'immaginazione insuperabile e con un'esperienza nulla, cominciai a scrivere un romanzetto noir-thriller-erotico intitolato "Il violentatore fantasma". Rimpiango d'averlo perduto nel tempo, perché certe perle d'idiozia è un peccato non conservarle. -Giocavo con i cani randagi e li amavo, quando oggi, se parlo di pancia, dico che li detesto; poi però ci ragiono e realizzo che odio i padroni, non i cani. -Ero mingherlino, avevo la vocina, il nasino, indossavo gli slip, ero un angioletto, non sapevo fare a botte. Tra gli amichetti della mia comitiva ero senz'altro quello con la "fedina penale" più immacolata, ma tutti dicevano che, tra loro, il più depravato ero io. Su molti livelli. -Nel mio condominio mi chiamavano "Il piromane di Viale Italia". Giocavo col fuoco, mi piaceva appiccarlo lentamente, vederlo nascere piano piano da una scintilla e poi espandersi. Certe volte è diventato troppo tardi per controllarlo. -Una delle poche volte in cui mio padre mi picchiò davvero (e forse doveva farlo più spesso) fu quando mi beccò con un cacciavite a praticare un'apertura sempre più grande nella parete di cartongesso della mia cameretta. Volevo farmi la Bat-Caverna personale.
Poi sono cambiato, sono diventato più gestibile. Prima del cambiamento, non ero mai stato innamorato. Be', devo dire che il sentimento s'è portato via la parte migliore di me! :'(
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intotheclash · 4 years ago
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Un coro di emozioni mi stava cantando negli orecchi. Tante voci confuse insieme, con il risultato di confondermi ancora di più. Ero deluso da me stesso, ero triste, arrabbiato, confuso, affamato. Si, tra le tante cose, mi era arrivata anche la fame. Ma soprattutto sentivo il bisogno di parlare con Pietro. Volevo scusarmi, spiegare le mie ragioni, volevo che capisse, doveva capire! Con fare incerto, mi avvicinai, eravamo rimasti soli. Antonio era uscito, non so per dove, ma non era più lì e la madre era salita al piano superiore, forse per preparare i letti.
Avevo un groppo in gola, ma non mi avrebbe fermato. "Io non volevo...Scusami, Pietro, avrei dovuto tacere, non dire nulla, ma mio padre mi ha costretto. mi avrebbe ammazzato di botte!" Che figura di merda! Lui aveva preso una sventola paurosa senza fare un fiato ed io mi ero cagato addosso solo per la promessa di prenderle. Proprio una gran bella figura di merda. Poi mi ricordai che non era solo per quello, che avevo parlato anche perché, al mio vecchio, avevano raccontato delle falsità. "Poi Alberto Maria aveva raccontato un mucchio di stronzate, per non dire al padre che le aveva buscate da uno più piccolo, così ho dovuto dire la verità! Io..."
"Chi è Alberto Maria?" Mi chiese, come se fosse appena arrivato. Come se in tutto il casino che era scoppiato lui non c'entrasse affatto.
"Come chi è? Quello che se ne è tornato a casa con il naso spappolato!" Risposi tutto d'un fiato. Poi feci una cosa di cui mi vergognai immediatamente. E di cui mi vergogno ancora. Scoppiai a piangere come un poppante cui hanno rubato il ciuccio. Saranno state le troppe emozioni accumulate, non saprei, il fatto è che un fiume di lacrime mi sgorgò dagli occhi e non riuscii a trattenerne neanche una.
Pietro rimase immobile e immobile la sua espressione distante, poi si voltò, mi guardò serio, mi cinse le spalle in un abbraccio e disse: " Non stare lì a preoccuparti, amico mio. Hai fatto la cosa giusta. Tanto, prima o poi, i miei lo avrebbero saputo lo stesso. Al tuo posto, avrei fatto la stessa cosa."
Non era vero, lo sapevo. lui era un duro, un duro vero, non gli avrebbero cavato una parola, neanche con le pinze. Però gli credetti lo stesso. Avevo bisogno di crederci e lo feci. Mi sentii subito meglio. Eravamo ancora amici. Era proprio forte il Maremmano, sapeva sempre cosa dire e fare. Era un grande. Più grande degli adulti.
"Chissà cosa si staranno dicendo lì fuori, è già un bel pezzo che sono usciti." Dissi, rinfrancato nel corpo e nello spirito.
"Mio padre starà raccontando al tuo di mio fratello."
"Tuo fratello? Che cazzo c'entra tuo fratello con noi?"
"Quando abitavamo a Tuscania, vivevamo in paese, come te, un pomeriggio di un paio di anni fa, stavo giocando al pallone con i miei amici, in una piazzetta del centro. Non ci crederai, ma quel giorno mi avevano messo in porta. Non avevo voglia di correre ed ero il più piccolo della banda. Successe che uno degli avversari tira in porta una cannonata spaventosa ed io in porta sono una pippa. Naturalmente segna, neanche lo vidi il tiro, ma, purtroppo, centra in pieno lo specchietto retrovisore di un'auto parcheggiata lì vicino. Era una centododici abarth, così c'era scritto su quella macchina, non me lo dimenticherò mai. E quando dice male, dice male, esattamente in quel momento, stava arrivando il proprietario in compagnia di un amico. E vuoi sapere un'altra cosa?"
"E me lo chiedi? Certo che la voglio sapere!"
"Erano tutti e due vestiti da carabinieri!"
"Una jella nera!"
"E già, proprio una jella nera. tutti i miei amici se la filano gambe in spalla, lasciandomi lì da solo, come un coglione."
"Ma che cazzo! Perché non te la sei squagliata anche tu?" Era la cosa più logica da fare.
"Perché il pallone finito sotto quell'auto era il mio pallone. Non volevo perderlo. Uno dei carabinieri, quando vide lo specchietto rotto, si incazzò come un picchio, mi chiamò, mi fece avvicinare e quando gli fui a tiro, mi mollò una sberla in faccia. Non piansi, non ho mai pianto per le botte ricevute. Questo lo fece incazzare ancora di più, aprì lo sportello della macchina, ricordo che pensai: ora mette in moto e se ne va, così recupero il pallone. Ma non lo fece, non subito, prese un cacciavite e con quello bucò il mio pallone."
"Brutto figlio di puttana!" Dissi accalorato dal racconto, poi mi guardai subito intorno, preoccupandomi che nessuno mi avesse ascoltato, "Solo, non capisco: cosa c'entra tuo fratello?"
"Dammi tempo, ci sono quasi. I due carabinieri salirono in macchina e partirono, io raccolsi il pallone sperando che, in qualche modo, si potesse riaggiustare, mi avviai verso casa, quando, da un vicolo, sbucò fuori Marchetto, il mio migliore amico di allora. Era scappato, ma si era pentito ed era tornato ad aspettarmi, e decise di accompagnarmi a casa. Sotto le scale di casa mia, incrociammo mio fratello che stava tornando dal lavoro. Hai visto come è fatto, no? Ci si fece incontro sorridendo, ma quando mi fu vicino, si accorse che qualcosa non andava. Poi notò il pallone sventrato e il segno rosso delle cinque dita che quel verme mi aveva stampato sulla faccia. Mi chiese spiegazioni, io non volevo dire nulla, ma la rabbia mi fece scoppiare in lacrime. Fu Marchetto a spifferare tutto. Ho pure pensato che fosse stata colpa sua di quello che successe dopo; ma so che non è vero."
"Cosa è successo dopo?" non volevo sembrare troppo curioso, ma era più forte di me. Il Maremmano era un narratore favoloso e quella storia sembrava un film.
"E' successo che Antonio, invece di rientrare a casa, è andato a cercare quei due, portandosi dietro me e Marchetto, visto che, da solo, non avrebbe potuto riconoscerli."
"E l'avete trovati?"
"Eccome se l'abbiamo trovati! Anche se, a conti fatti, sarebbe stato meglio di no. Erano seduti ad un tavolo, fuori da uno dei bar del centro, che ridevano e scherzavano beati. Mio fratello ha detto a Marchetto di aspettarci sul marciapiede, mi ha preso per la mano e si è avvicinato a loro. Era calmo. Almeno lo sembrava. "Quale di voi due coglioni ha messo le mani addosso a mio fratello?" Ha detto quando stavamo ad un passo da loro.
"Ha dato del coglione ad un carabiniere? Un carabiniere in divisa?" Domandai stupito. Era da pazzi. Almeno secondo il mio modo di vedere. Era come scavarsi la fossa con le proprie mani.
"Magari si fosse limitato a quello. I due, che non si erano resi conto del nostro arrivo, si voltarono di scatto con le facce truci, credo non fosse loro capitato spesso di essere stati insultati sotto al muso, e davanti ad altre persone, scattarono in piedi come molle, le loro facce da ebeti dimostrarono tutta la loro sorpresa. Poi quello che mi aveva picchiato mi notò e riuscì a collegare i fili. Sorrise cattivo e disse:" Ora capisco, lui è lo stronzetto che mi ha rotto lo specchietto, ha avuto quello che si meritava. Tu invece chi sei? Attento che..." non si seppe mai a cosa doveva stare attento. Non riuscì a terminare la frase. Antonio lo colpì a mano aperta, uno schiaffo, non un pugno, me lo ricordo come se fosse adesso. Uno schiaffo, ma lo fece volare in aria come un fantoccio. Come se non pesasse un cazzo di niente. Andò a schiantarsi su un altro tavolo, fracassandolo. Non si alzò più. Dormiva che era un piacere guardarlo. L'altro sbirro, vista la mal parata, cercò di mettere mano alla pistola, anche se, negli occhi, si leggeva la paura. Mio fratello fu, ancora una volta, più lesto dell'avversario. Lo piegò in due con un pugno allo stomaco, lo sollevò in aria come un fuscello e lo scaraventò in strada; lui e la sua cazzo di pistola."
Mi ero sbagliato, non sembrava un film, era un film! Meglio di un film! Antonio aveva due mani come due prosciutti e pensai che quelli avevano avuto un bel culo a non finire dritti al creatore. Che scena doveva essere stata! Avrei anche pagato non so cosa per poter dire: c'ero anch'io. Ecco il Maremmano da chi aveva preso!
"E non finì lì. Nessuno dei due era in grado di rialzarsi. Pensai: ora ce ne andiamo, ora è meglio se ce ne andiamo, Antonio sembrò leggermi nel pensiero, mi prese nuovamente per mano e scendemmo in strada. Fatti pochi passi, si accorse della loro macchina parcheggiata. Era facile da riconoscere, gliela avevo descritta ed era l'unica cui mancava lo specchietto. Mio fratello lasciò la mia mano, si appoggiò all'auto da una fiancata e la ribaltò completamente. Uno spettacolo da non credere. Nessuno dei presenti osò emettere un solo fiato. E' stata la cosa più incredibile che abbia mai visto."
"Poi? Poi come è andata finire?" Pendevo dalle sue labbra.
"Poi niente. Stavolta era finita davvero. Mi mise un braccio intorno alle spalle e disse: Chissà forse la prossima volta ci penserà due volte prima di picchiare un bambino." Concluse fissandomi. Io me ne accorsi che era triste.
"Cazzo, aveva ragione! E anche tu avevi ragione!"
"Anch'io la penso così, ma, forse ci sbagliamo. Forse non è così. Perché Antonio lo arrestarono la sera stessa e lo rinchiusero nel carcere di Viterbo. Hai capito ora perché mio padre me le ha suonate così forte?"
"Brutti figli di puttana!" Fu l'unica cosa che fui capace di dire.
"E già. Siamo venuti via da Tuscania per questo motivo. Mio padre dice che lo abbiamo fatto per lavoro. Perché comprare questa casa e questa terra è stato un ottimo affare, ma io lo so che non è vero. Era stato per via di mio fratello. Si vergognava che fosse finito in carcere. Ecco il vero motivo. Ora ha paura che la stessa cosa possa succedere a me."
"Ma a te non succederà mai! Io, Bomba, Tonino, Sergetto, Schizzo, il Tasso, i nostri genitori, stiamo tutti con te! Ti difenderemo! Gliela facciamo vedere noi a quella testa di cazzo dell'avvocato Terenzi!" Urlai. Ero diventato tutto rosso per la rabbia. Ero pronto a dar battaglia.
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firewalker · 2 years ago
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Allora.
Giorni fa ho chiesto a mio fratello, maresciallo dei carabinieri: "ho un coltellino svizzero in macchina da sempre, lo posso tenere o..." e a quel punto gli si sono spalancati gli occhi, ha fatto cenno di no con la testa e ha detto "oh, no!" il più lentamente possibile, con un sorriso malefico.
Subito dopo ho chiesto al mio amico avvocato la stessa cosa, dicendo "lo tengo perché ogni tanto mi capita di avere bisogno di un cacciavite o di una pinzetta qui in macchina, tipo una volta l'anno" e lui mi ha risposto "ecco, dovresti dirlo a un eventuale controllo, potrebbero accettarti la giustificazione"
Entrambi dicevano che non contava al misura.
E io ne esco più confuso di prima.
Ciao Kon, si può girare liberamente con un coltellino in borsa o rischio la denuncia qualora mi fermassero per un qualsiasi motivo? Ci sono delle regole sulla lunghezza della lama o altro?
Certo che ci sono
La liceità del porto di coltello è condizionata alla lunghezza della lama che non superi i sei centimetri ed è per questo necessario che il manico non ecceda in lunghezza cm. 8 e in spessore cm. 9 per una sola lama e millimetri tre in più per ogni lama affiancata. Ne consegue che, venendo meno anche una sola di queste tre condizioni il porto rimane illecito se non è giustificato il motivo.
Questo coltello è legale
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Questo supera i 6 cm di lunghezza della lama
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e pure gli 8 di manico
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(la lunghezza del manico ha senso perché con una lama lunga meno di 6 cm e un manico di 30 cm non avrete un coltello ma una lancia)
Questo, se avate capito come funziona, ditemelo voi se è legale o meno:
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In ogni caso, ogni tipo di coltello è giustificato nel porto SE AVETE REALI MOTIVI DI UTILITÀ NEL PORTARLO DIETRO.
L'ultimo coltello, per esempio, posso portarlo con me SE STO ANDANDO A CACCIA O IN CAMPEGGIO così come un boscaiolo è giustificato nel portarsi dietro un'ascia e il contadino un falcetto.
Ricordate una cosa: la denuncia o meno è a discrezione delle forze dell'ordine, quindi dovete essere convincente nel porto di una lama più lunga di 6 cm, quindi non vale il coltello nella borsetta in discoteca e dire che siete tornate dal campeggio. E anche se avete la più piena delle ragioni loro vi possono mandare lo stesso a processo... sarà il giudice a valutare le vostre ragioni e a dichiararvi non colpevoli.
P.S.
ERRATA CORRIGE - L'ultimo coltello non è legale neanche in campeggio perché è affilato anche sul dorso della lama, caratteristica che rende la sua funzione quella di ferire (idem per i coltelli a scatto che sono tali solo per la velocità di estrazione e quindi un'arma impropria).
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