#storia breve
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Storia breve #2
Il semaforo è rosso e chiunque ci si sia già fermato, a questo semaforo, sa che non sarà una cosa breve; per certo è una informazione che possiede anche l'anziano signore che attende il verde pedonale. Berretto lanoso calato sulla testa, giacca e pantaloni larghi e scarpe comode; al suo fianco un cagnetto, grassottello, le zampe davanti un poco curve e piatte, che si stupisce del tiro di guinzaglio a fermare la sua avanzata, lui che aveva appena trovato una briciola di inerzia che rendesse meno dispendiosa d'energia la passeggiata, che, d'energia, non ne ha mica più tanta; si stupisce e alza gli occhioni, appena strabuzzanti e cerchiati di una peluria ingrigita, verso il padrone, preoccupato di avere fatto qualcosa di sbagliato. L'anziano sorride, gli regala un paio di pacchette rassicuranti sulla testolina e gli dice che bisogna avere un poco di pazienza. Il cane fa gli occhi sottili, l'espressione rilassata e sedendosi, caccia fuori la lingua come a sottolineare il momento di riposo che si prenderà. Si guardano e sembrano dirsi che non hanno molto da darsi l'un l'altro, ma che per certo, tutto il bene che possono, quello sì, quello se lo vogliono.
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🐚 𝐏𝐞𝐚𝐫𝐥𝐬 𝐝𝐚𝐢𝐥𝐲 𝐜𝐡𝐞𝐜𝐤 𝐢𝐧
Hello beautifull humans! 💗 In order to keep myself and my progress in check I will start noting down my daily accomplishments and self care activities. I won't put everything on a masterlist here, but if you are interested into reading my daily check in, you can click on the tag "🐚 Pearls daily checkup" down below.
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L’Incompreso
Da ragazzo mi sentivo incompreso. Mi rendevo conto di dire spesso cose che non interessavano ai miei coetanei, oppure di ascoltare dischi che venivano rimossi dal piatto con una smorfia dolorante, come se l'ascoltatore si fosse schiacciato i coglioni sedendosi malamente sulla sella di un motorino truccato. Ma l'apice del disagio lo ho raggiunto tre anni fa nel reparto cessi di Villa. In pratica, ero lì con Laura e stavamo scegliendo il bidet per la casa nuova. Io facevo prove approfondite, mi accovacciavo sui sanitari esposti, li riposizionavo nello showroom, mimavo con la mano il gesto di portare il miscuglio di idrogeno e ossigeno verso il culo sagomato da anni di libri e videogiochi. «Ho il femore troppo lungo!» dicevo a Laura. «Ci cacciano via!» ringhiava, malcelando l'imbarazzo in una smorfia divertita. Allora io mimavo con l'indice destro la distanza tra muro e ano, non credo ci sia un termine tecnico, una quota standardizzata vitruviana, insomma, introducevo questa misura a supporto del fatto che avessi le gambe troppo lunghe e che, quindi, da seduto parte del culo sarebbe uscita dal bidet. «Lo voglio stondato e attaccato al muro: fa cagare ovale e con i tubi a vista.» Questa era la risposta che ottenevo in cambio di complessi ragionamenti trigonogometri. E quindi dicevo che no, lo spazio non si può comprimere, cioè magari si può andando alla velocità della luce, però, ecco, non è che per lavarmi il culo io possa ogni volta compiere un salto nell'iperspazio. E dopo discussioni estenuanti, una specie di trattativa tra lei, signora, e io, ambulante affaticato sotto il sole, la spunto. La spunto sulla forma ma il prezzo da pagare è quello di scegliere un bidet che aderisca perfettamente al muro e non lasci intravvedere all'occhio umano tubi, manicotti e leveraggi.
E insomma, racconto questo per dire che oggi mi sono fatto il bidet e dopo che ho finito, tiro la levetta per far defluire l'acqua e si rompe. Tuc. Tuc, fa l'asticella cromata e io la guardo mentre sono seduto a cavalcioni del trabicolo di porcellana. Fisso il muro, poi il pernetto, e infine abbasso lo sguardo e vedo il piccolo specchio d'acqua sotto le mie cosce. Quindi mi alzo, impreco e comincio ad aggeggiare con le dita sul tappo per provare a rimuoverlo dalla sua sede, sede rifinita in maniera millimetrica, nemmeno fosse l'ingranaggio di un Rolex. Dopo dieci minuti mi arrendo. Mi arrendo e corro in cucina. Apro un cassetto ed acchiappo un coltello e torno nel bagno con la speranza di poter usare la lama per far leva sul tappo. Mi tuffo nell'acqua ma l'acciaio è troppo spesso: non ci passa. Il tappo rimane al suo posto, fiero del suo ruolo, una specie di oligarca in un mondo di porcellana e sa-la-madonna quali resti della mia umana ingegneria.
Dopo aver provato una teoria di oggetti, cito a memoria, un cacciavite, uno stuzzicadenti, la lama di un cutter e la tessera della Coop, mi cade l'occhio verso il lavandino. Vedo la soluzione. La vedo e mi compiaccio, addirittura ringrazio dio di avermi fatto scienziato, di avermi donato la possibilità di avere idee utili per tutti tranne che per me stesso. Glu, glu, glu. L'acqua defluisce! Acchiappo con due dita il pistone che dovrebbe alzare il tappo e dare una via di fuga all'acqua e lo tiro. Basta pochissimo e tutto ritorna a funzionare per la gioia del Signor Pozzi e del suo socio Ginori.
Esattamente quattordici ore dopo, sono seduto al Mac che lavoro. È tardi, non so più cosa fare per arginare le scadenze, in pratica sono assorbito dal fallimento professionale quando sento urlare. «Carolina, lavati i denti!» sbraita Laura. «Non posso!» «L-a-v-a-i-d-e-n-t-i!» «Ma come faccio?» urla l'Exogino con parte del mio DNA. «Ho detto che ti devi lavare i denti!» «Non trovo lo spazzolino.» E quindi inizia una rissa madre e figlia, una roba tipo tour dei Genesis quando Phil Colins e Bill Bruford se le suonano sulle note di The Cinema Show. Laura usa l'arma finale: «Adesso viene tuo padre!» Mi alzo sapendo che, ogni volta che vengo invocato, la mia autorevolezza diminuisce, come se il mio essere padre fosse regolato da un'immaginaria barra di energia che niente e nessuno può ricaricare.
Effettivamente, Carolina ha ragione. Mentre mi gratto il mento ammetto, facendo finta di niente, che lo spazzolino non è più disponibile. «Più?» dice Laura «Più,» dico io. Per chiudere subito la questione, dico che aveva le setole rovinate, anzi, rincaro la dose e aggiungo che bisogna insegnare a nostra figlia a non masticare lo spazzolino. Ma Laura dice che era nuovo, che era diventata scema a trovarlo a forma di giraffa azzurra. «Lo avevo lasciato appiccicato allo specchio, pa'» dice mia figlia. «Proprio qua,» fa Laura indicando l'alone circolare. Mi vedo riflesso nello specchio e capisco di essere spacciato. Ma poco prima di darmi per vinto, mi ricordo di un tizio con cui ho lavorato. Mi ripeteva sempre: "Luca, bisogna sempre dire la verità, perché la verità può essere aggiustata." Allora "aggiusto" il corso degli eventi e, guardando madre e figlia, dico che è successo un incidente e che ho dovuto buttare via il simpatico dispositivo odontoiatrico dotato di ventosa. «Sei un mostro» urla Carolina. «Sei impazzito?» fa coro Laura.
Balbetto e dopo qualche istante ammetto che mi serviva per risolvere un'incomprensione del passato. E quindi spiego alla mia famiglia che non riuscivo a stappare il bidet e che ho usato la ventosa piazzata sul culo dello spazzolino per afferrare il tappo sepolto da acqua e residui pubici. Dico che lo ho fatto a fin di bene, insomma, che lo ho fatto solo nella speranza di tirare via il tappo dalla sede, dalla sua cuccia pure troppo perfetta per quanto ci è costata. «Domani risolvi questa storia» dice Laura. «Come sempre,» dico io mentre vedo madre e figlia che si allontanano senza salutare.
La mattina successiva, giro mezza Genova per cercare uno spazzolino con ventosa. Alla fine lo trovo e, anche se costa una cifra folle, lo pago e lo porto a casa. «Non mi piace,» fa Carolina e aggiunge «ormai sono grande, uso questo» e intanto brandisce un affare di plastica con sopra scritto OralB. Allora ripongo lo spazzolino nel posto segreto dove tengo il mio senso di incomprensione e tutti gli aggeggi che mi ricordano che, alla fine, ho sempre ragione.
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#netflix#terror#thriller#wattpad#books#art#books & libraries#miedo#fiction#espiritualidade#geek#geekedweek#netflix geeked#writing#stories#breve#storia breve
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Giusto una scena breve per Halloween
Una sottile, spettrale nebbia serpeggiava attraverso l’antica foresta, avvolgendo radici morte e le ossa di statue da tempo dimenticate, mezze sprofondate nella terra scura e fertile. Gli alberi si ergevano alti e densi, proiettando ombre simili a ragnatele sotto la pallida luna, gonfia come un occhio silenzioso e vigile. La sua luce argentea illuminava la radura abbandonata, scolpendo forme e sagome dal buio e mettendo in risalto le particelle di polvere sospese nell’aria, scintillanti come un migliaio di piccole stelle.
Nella penombra, due figure stavano come spettri contro il nero degli alberi. Vana era appoggiata a un’alta pietra, frastagliata e consumata dal tempo; la sua silhouette scura ed elegante era un contrasto al rosso sangue delle sue onde di capelli, che catturavano ogni singolo raggio di luna come se fossero intrecciate di fiamme. I suoi abiti, aderenti e ombrosi, sembravano bere la notte stessa, aderendo alla sua figura come fossero parte di lei. Era immobile, come scolpita nel marmo, con il viso parzialmente in ombra, ma con gli occhi che brillavano di una luminosità innaturale—un’intensità silenziosa e consapevole. Il suo sguardo era fisso in avanti, soffermandosi sull’altra figura nella radura.
Lynn stava poco oltre, circondata da una nebbia così densa da sembrare quasi viva, come una creatura antica evocata dai recessi più profondi della notte. I suoi capelli d’argento scendevano in morbide onde lunari, ogni ciocca catturava la luce come fili di metallo fuso, incorniciandole il volto e scendendo sulle spalle. I suoi occhi erano due scarlatti tizzoni che brillavano di un fuoco ultraterreno, fissando Vana senza batter ciglio. La nebbia vorticava e pulsava intorno a lei, viva di magia, spostandosi e avvolgendole i piedi come in segno di riverenza. Si innalzava in sottili volute, serpeggiando fino alle braccia e rivestendola d’ombre, i flebili fili si intrecciavano tra le sue dita, attorcigliandosi e ritirandosi con ogni lieve movimento.
Per un po’ restarono semplicemente lì, studiandosi in un silenzio spesso e impenetrabile come la nebbia stessa. I suoni della foresta sembravano dissolversi nel nulla, lasciando solo il lieve sibilo della nebbia che accarezzava le foglie e il leggero fruscio del mantello di Vana mentre cambiava appena il peso da un piede all’altro.
Alla fine fu Vana a parlare, la sua voce un sussurro vellutato, velata di un tono divertito. «Sai, Lynn,» iniziò, il suo sorriso tenue ma affilato, «non tutto ciò che brilla nel buio è innocuo.»
Lynn inclinò la testa, i suoi occhi rossi brillavano mentre la osservava con uno sguardo fermo, inflessibile. Le sue labbra si incurvarono appena, rivelando un accenno di sorriso che non era né caldo né crudele, ma qualcosa di molto più calcolato. «E non tutto ciò che giace nell’ombra è pericoloso quanto sembra, Vana.»
Le parole restarono sospese nell’aria tra loro, cariche e pesanti, come una corda tesa pronta a spezzarsi. La nebbia intorno a Lynn si ispessì, innalzandosi fino a formare una barriera ondeggiante intorno a lei, sfumando i bordi della sua figura, dandole l’aspetto di qualcosa di presente ma etereo. Cominciò a girare lentamente intorno a Vana, i suoi movimenti fluidi, lo sguardo mai distolto dal viso di Vana. I suoi passi erano silenziosi, scivolavano come se i suoi piedi sfiorassero appena il terreno, un fantasma avvolto nella nebbia.
Vana restò immobile, la sua espressione impassibile, anche se nei suoi occhi danzava una scintilla di malizia, forse persino un accenno di sfida. Le sue dita accarezzavano i bordi della nebbia di Lynn mentre le passava accanto, sentendo il freddo e setoso tocco della foschia sulla pelle, come se stesse accarezzando qualcosa di vivo, qualcosa di senziente.
Il suo sorriso si allargò, la sua voce si abbassò a un mormorio. «Siamo legate dall’inganno, io e te,» disse, lasciando che le parole fluissero come miele, ricche e cariche di significato. «Un piccolo colpo di polso, una bugia sussurrata, e il mondo può cambiare. Così tante bugie da tenere sotto controllo… e così tante verità da nascondere.»
Lo sguardo di Lynn si fece più penetrante, i suoi occhi scarlatti brillavano di un’intensità che sembrava trapassare il buio stesso. Lasciò sfuggire un lieve, quasi musicale, risolino, che echeggiò nella radura come il lontano rintocco di una campana. «Gli inganni ci tengono in vita in questo mondo, Vana. Ma il peso di tutto questo… mi domando, non diventa mai troppo, persino per te?»
Vana inclinò la testa, riflettendo sulle parole di Lynn, e per un momento il sorriso svanì dalle sue labbra, la sua espressione divenne seria, riflessiva. I suoi occhi si sollevarono verso la luna, seguendo la sua fredda luce argentea mentre illuminava eterea la radura. Una lieve brezza sussurrò tra gli alberi, facendo frusciare le foglie, e la nebbia intorno a loro si mosse, portando con sé l’odore di terra umida e pietra antica.
«Dipende,» rispose lentamente, la voce ora più soffusa, quasi contemplativa. «Dipende da chi è degno di essere ingannato… e chi merita di essere deluso. C’è una certa soddisfazione in questo, sai?» Il suo sorriso tornò, ma questa volta era più cupo, quasi crudele, anche se temperato da qualcosa di molto più complesso—una stanchezza profonda, nascosta. «Dopotutto, il tradimento è un piacere raro, una piccola crudeltà riservata solo a coloro che lo meritano.»
Il sorriso di Lynn si allargò, i suoi occhi che riflettevano un barlume di comprensione. Fece un passo avanti, la nebbia avvolgendola strettamente come a schermarla dal resto del mondo. «Coloro che si aspettano fedeltà sono spesso i primi ad attaccarsi troppo strettamente ad essa, non credi? Ma il tradimento… quello richiede precisione, un’arte raffinata. E pochi lo comprendono come lo comprendiamo noi, Vana.»
Una risata bassa e senza allegria sfuggì a Vana, che scosse la testa, i suoi capelli rossi si sparpagliarono sulle spalle, catturando la luce lunare come gocce di sangue nella notte. «Lasciarli cadere, lasciarli inciampare… condurli su una strada solo per sottrargliela da sotto i piedi. È una piccola, deliziosa crudeltà,» sussurrò, la voce poco più di un respiro. «Un’arte, come hai detto.»
Un silenzio tornò a distendersi tra loro, denso di significati non detti, di strati di memoria e di intenti che nemmeno la nebbia riusciva a nascondere. Sopra di loro, le stelle brillavano, fredde e distanti, come indifferenti alla tela intrecciata che si stava formando lì, in quell’angolo nascosto della foresta. In lontananza, un uccello notturno cantò, il suo canto malinconico che spezzò la quiete, prima di svanire di nuovo, come se percepisse la tensione nell’aria.
Gli occhi di Lynn restarono fissi su Vana, inespressivi, ma pieni di una promessa non detta, di un accordo silenzioso tra loro. Fece un passo avanti, il viso illuminato dal chiarore argenteo della luna, la sua pelle pallida quasi luminescente contro la nebbia oscura che vorticava intorno a lei. «Allora suppongo che, per ora, entrambe conosciamo abbastanza bene i nostri ruoli,» mormorò, la voce poco più di un sussurro, eppure carica del peso di verità nascoste e segreti non detti.
Vana annuì lentamente, lo sguardo che vagava sulla distesa nebbiosa intorno a loro, come se scrutasse un’enorme distanza invisibile oltre il velo di foschia. «Per ora,» concordò, la voce morbida ma ferma, come se riflettesse su qualcosa di più grande di entrambe. I suoi occhi tornarono a posarsi su Lynn, e l’espressione si fece tagliente, la voce bassa e carica di un avvertimento. «Ma sappi, Lynn, che i ruoli sono fatti per essere infranti.»
Per un singolo battito, gli occhi di Lynn si accesero, un bagliore di qualcosa di oscuro e feroce che balenò nelle profondità scarlatte, e poi la sua espressione si ammorbidì, il suo sguardo divenne pensieroso, quasi malinconico. «Forse,» disse, mentre la sua figura iniziava a dissolversi nella nebbia, il suo contorno diventava sfocato e indistinto, come un sogno che scivola tra le dita.
Vana restò per un istante in più, osservando mentre le ultime tracce di Lynn scomparivano nella foschia, lasciando solo un leggero increspamento nella nebbia a segnare il punto in cui era stata. Con un lieve sospiro, Vana si voltò, la sua silhouette oscura si fuse con le ombre mentre si allontanava, svanendo nella notte come un fantasma, lasciando dietro di sé solo il lieve sussurro delle loro parole, trasportato dal vento che scivolava tra gli alberi.
La radura tornò silenziosa, avvolta di nuovo nell’oscurità, come se nulla l’avesse mai disturbata, salvo l’eco persistente di segreti e ombre, che svanivano nella notte infinita.
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Sotto la luce della luna
Era una primavera più fresca del solito, eravamo scappati dalla città per passare alcuni giorni in un tranquillo paesino bagnato dal mare. Quella sera, poche ore dopo il tramonto, decidemmo di fare una passeggiata sul bagnasciuga, lui mi prese per mano e in silenzio iniziammo a camminare l'uno a fianco dell'altro; ricordo ancora la sensazione delle sue dita intrecciate fra le mie, avevano una presa ferma, ma allo stesso tempo immensamente delicata; lui era alto solo qualche centimetro più di me, quindi non avevamo problemi a tenere il passo.
Si sentiva il leggero fruscio delle onde che si riversavano sulla sabbia, il lontano stridio dei gabbiani, dalla città invece non arrivava nessun suono, era come se in quel momento fosse esistita solo la natura e noi due, era come una bolla, bellissima e delicata nella sua iridescenza, seppur di breve esistenza.
Durante tutta la serata non ci scambiammo una parola, non era necessario, il nostro amore non aveva bisogno di essere espresso a parole, bastava uno scambio di sguardi, una carezza sul viso, un buffetto sul naso, un sorriso, anche solo una sistemata al colletto della camicia. Tutto quello che ci dovevamo dire era già stato detto, in quel momento bastava solo lui e le nostre dita intrecciate.
Ad un certo punto lui si fermò a qualche passo davanti a me, si girò lentamente e mi guardò negli occhi, lentamente la sua mano lasciò la mia per essere poi depositata sulla mia guancia, dopo poco venne seguita dall’altra, che venne posizionata nell’altro lato del viso; con gentilezza asciugò le lacrime inconsapevoli che avevano iniziato a scendere qualche momento prima, non diedi nessuna giustificazione e allo stesso modo lui non chiese nulla, poiché in fondo, conoscevamo entrambi la malinconica realtà che si celava dietro quelle lacrime salate.
In quel piccolo ritaglio di mondo non esistevano pregiudizi, morale, sguardi pieni d’odio, commenti bisbigliati colmi di veleno; nell’aria permeava soltanto l’affetto condiviso fra due esseri umani.
In che modo i sentimenti dovrebbero essere legati all’istinto primordiale insito nell’uomo? L’umanità prospera poiché si riproduce e lo stesso si può dire con gli animali che popolano la Terra, prima nacque l’istinto e poi nell’essere umano arrivò il sentimento.
L’uomo compie l’atto della riproduzione per piacere del corpo ed estasi dell’anima, allora perché nella società molti ancora precludono l’amore fra i sessi tra uomo e donna?
Dopo che finì di asciugarmi le lacrime appoggiai le mie mani sulle sue e mi abbandonai completamente a lui; l’amore è un sentimento difficile da spiegare, può essere consolazione e disperazione, felicità e tristezza, timidezza e disinibizione.
Nonostante tutte le sue sfumature ricordo perfettamente cosa provai quel giorno, ogni singola cellula del mio corpo voleva avvicinarsi a lui, fino a diventare una cosa sola, il mio cuore era avvolto da una fiamma che bruciava, bruciava fino a non lasciare più nulla, sentivo di poter passare al suo fianco una vita e anche qualsiasi cosa ci sia dopo la morte, dolore e sofferenza persero significato; dire che lui era la mia anima gemella è riduttivo, era l’altra metà di me stesso, lo specchio della mia anima, noi due eravamo il frutto della divisione dell’essere umano di Platone, in origine insieme eravamo perfetti, una volta separati ci cercammo l’un l’altro instancabilmente per colmare il vuoto che avevamo dentro, fino a ritrovare la perfezione perduta.
Poi calò la notte, tornammo al piccolo casolare e andammo direttamente nella camera da letto, i vestiti scivolarono dai nostri corpi come gocce di rugiada dai fili d’erba la mattina, le nostre labbra si unirono con dolcezza e le nostre membra nude cercarono quelle dell’altro, lui mi fece stendere con delicatezza sulle lenzuola fresche del letto e un brivido passò per la mia schiena, iniziò a baciarmi le caviglie e piano piano salì fino ad arrivare al pomo d’Adamo, ogni suo gesto era di venerazione, del corpo e dei crudi sentimenti che fluttuavano nell’aria, in quel momento di estrema intimità e desiderio.
La luce lieve della luna entrava dalle finestre socchiuse, le tende venivano quasi impercettibilmente mosse dal leggero venticello notturno, si udivano i cric-crac dei grilli nel giardino e noi ci unimmo.
Quella giornata non fu che l’inizio di numerose che vennero a seguire.
Ora sono qui, guardo il tuo viso immobile, con la mano sul tuo petto, dove il cuore ha smesso di battere ormai da tempo, il mio invece è affogato da un’immensa sofferenza, eppure, se potessi tornare indietro, non cambierei una singola cosa.
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Skin White As Snow, Lips Red As Blood - Chapter 4
As promised, the huntsman returned to the queen the casket containing evidence that he had carried out her orders. He received his reward in gold coins and left the castle, while the queen remained a long time gazing at the casket.She could not believe it: she had freed the kingdom from the vampire that would destroy it, and now all her subjects would finally welcome and respect her for saving…
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Frey Kan è un bambino curioso
Frey Kan è un bambino curioso.
I genitori sono sempre molto fieri di lui. Rispetta tutte le regole, senza mai fare i capricci. Specialmente quando si tratta di andare a letto: sempre alle nove, anche se il resto dei bambini della sua classe sono svegli fino alle dieci per guardare i cartoni. Lui non si lamenta, anche se l'indomani non è un giorno di scuola. In fondo, gli piace.
Frey sa dormire. Sembra tutto al contrario quando si dorme. Di giorno lavora, studia e si stanca a compiere tutte le sue faccende; di notte si riposa, come il papà quando lascia perdere il lavoro e parla di leggi fisiche. Di giorno c'è tanto chiasso a cui badare attenzione, tutt'attorno a lui; di notte è tutto calmo e silenzioso, come la domenica in chiesa subito dopo la comunione. Di giorno deve mantenere gli occhi bene aperti e, se proprio necessario, usare la sua mano per coprirli dalla luce fastidiosa del sole; di notte può chiudere gli occhi, ed è il turno della mano di nascondersi sotto le coperte.
Frey sa fare sogni lucidi. Lo ha imparato tanto tempo fa, così tanto che neanche si ricorda di alcunissimo sogno non lucido. Ma non fa niente, perché non serve a nulla ricordare quando puoi creare tutto quello che vuoi. A dire il vero la base è già tutta pronta quando Frey capisce di essere in un sogno. Un villaggio medievaleggiante, con bastoncini di zucchero al posto di alberi e strade di carbone edibile...
«Sì,» dichiara ad alta voce Frey, «è già successo questo dicembre. Sono in un sogno a tema Natale. Forse perché abbiamo fatto altri lavoretti a scuola stamattina.»
«Che bel bambino, vuoi forse una caramella all'arancia? Ha tanta vitamina C!», gli chiede un torreggiante elfo verde abbassandosi alla sua altezza, imperturbato, come se non avesse sentito le precedenti parole di Frey.
Frey sa parlare. Molto bene, a dirla tutta. Una volta inciampava tra le parole perché doveva essere il più veloce di tutti, ma da quando ha scoperto la dizione ha capito che è più veloce se cerca di fare, molto lentamente, attenzione ad ogni sillaba. Sa anche essere molto molto educato. A scuola gli fanno sempre i complimenti, a parte i compagni invidiosi ovviamente. Le sue maestre gli hanno fatto fare bella figura coi genitori all'incontro scuola-famiglia del primo quadrimestre, e per questo gli hanno regalato un farfallino del suo colore preferito, giallo. Frey nota di averlo addosso proprio in quel momento. Gonfia le sue guance, poi cammina via.
Frey sa andare in bici. Non ha mai imparato, perché non può sporcarsi o sbucciarsi le ginocchia, farsi male è sbagliato perché fa la bua e fa preoccupare la mamma. Quindi non può assolutamente provare, perché se prova rischia di sbagliare. Però sa andarci lo stesso, nei sogni. Frey non fa mai rumore perché non è giusto disturbare i vicini anziani che dormono o la maestra che spiega. Stacca il suo farfallino blu e lo attacca alla bici a mo' di clacson, e con un "poti poti", attraversa la parete di una casa come se non ci fosse, uscendo così dai confini del sogno così com'era.
Frey sa orientarsi. Sa seguire le indicazioni, sa leggere una bussola, sa tradurre una mappa. Conosce il significato di tutti i cartelli stradali, anche se è piccolo. Sa dettagliarti come arrivare ad ogni via della sua città, una volta con un turista ha persino fatto stupire il papà. Chiedigli una nazione, lui ti saprà dire la capitale. Sarà per questo, forse, che quel nero era per Frey una strada. È circondato di stelle mentre corre veloce con la sua bici. Riconosce la Stella Polare, ma non è nella sua direzione che sta andando- no, è altrove. Il villaggio del Natale si fa sempre più piccolo, fino a diventare un'altra stella tra le tante. Frey sa di aver già oltrepassato il confine quando vede, piccola, una figura incappucciata con degli strani baffi a forma di freccia. Non è lui ad averla creata. Farà parte della base?
Frey sa. Sa fare tante, tante cose. Non sa, però, non fare le cose.
«Ciao, Frey. Il mio nome è Uber.»
Il mondo tutto a sinistra di Frey diventa, all'improvviso, un verde sentiero, tutto prato e lontane foreste di frutti. Nel cielo c'è un coloratissimo sole, e si respira una deliziosa aria di campagna, come un misto tra erba spezzata e pecorino appena tagliato dalla forma. A destra, la notte rimane tale.
«Uber, sei parte del sogno?»
«So esserlo.»
«Che intendi?», chiede Frey, un po' spaventato.
«Io sono qui per insegnarti a scegliere, Frey.» La figura alza il suo braccio sinistro, e seguendo la sua mano, ora libera dalle lunghe maniche grigie di Uber, lo sguardo di Frey si ferma sullo spazio dietro di lei. «Per guidarti verso la scelta giusta.»
«Di quale scelta si tratta, Uber?»
Frey sa desiderare.
All'improvviso, alla sinistra di Frey brillano tra le stelle centinaia di fotogrammi in successione. Frey non ha nemmeno il tempo di percepirli, ma sa capirli. Sa pesarne il significato, sa apprezzarne il valore.
«Questa è la tua vita futura, Frey, se sceglierai questa strada. Ti ricordi cos'hai chiesto a Babbo Natale quest'anno che i tuoi genitori ti hanno rivelato che non esiste?, un nuovo robot da cucina, così che la mamma ti possa cucinare la tua torta preferita, la crostata ai frutti di bosco. Qui te l'ha fatta. Vedi?, ha tanta crema, come piace a te. Ti ha anche dato la fetta più grande.
«E la bambina di cui ti sei innamorato, che abita vicino la scuola? Eccovi lì, con i vostri tre figli - oh, eccovi lì di nuovo, anziani, con i vostri nipoti. La mamma e il papà sono così felici con i tuoi figli. Tutti sorridono. È un ritratto davvero idilliaco, ti ricordi la parola?, in questo contesto significa più o meno "senza pensieri".
«E cos'è quello in secondo piano?, ah, già, un pianoforte a mezza coda. Ti è stato comprato in sostituzione della tastiera. Hai continuato a suonare, perché ti piace tanto suonare, giusto?, e allora il papà ha pensato di comprarti un pianoforte a parete per praticare un po' e entrare in conservatorio, poi a mezza coda per continuare. La casa è grande e spaziosa e per gli anni del liceo ci hai invitato gli amici per suonare assieme o discutere di matematica.
«Ecco, la matematica. Ti sei trasferito a Roma per il liceo, giusto per fare qualcosa che sia più alla tua altezza. Hai studiato tanto e ti sei diplomato a pieni voti. In realtà, nel mentre, ti sei anche divertito molto vincendo alcune gare di matematica. Alcuni erano invidiosi di te, ma sei riuscito a trasformarla in ispirazione con le tue parole gentili. Specialmente dopo la tua laurea, quando sei diventato un ricercatore e hai dato il nome a ben tre diversi teoremi. Alcuni giornali ti hanno chiamato il nuovo Einstein.
«In poche parole,» termina Uber, «scegli la strada a sinistra e otterrai tutto quello che hai sempre desiderato.»
Frey sa brillare. I suoi occhi sicuramente scintillano più di tutte le miriadi di stelle sotto e dietro di lui.
«E per quanto riguarda la strada a destra?», chiede.
«Non lo so.» risponde Uber, riponendo le sue mani nelle maniche.
Frey Kan è un bambino curioso.
#120 storie brevi per una vita più lunga#la storia di oggi è preziosetta. voglio bene a Frey#Frey Kan and he will#scegliete voi quale credete sia il finale della storia. Uber ha guidato anche la vostra di scelta#scrittura#scritture brevi#narrazione#narrazione breve#narrativa#narrativa breve#storia breve
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Benvenuti. E congratulazioni. Sono molto contento che ce l’abbiate fatta. Arrivare fin qui non è stato facile, lo so. Anzi, sospetto che sia stata più dura di quanto voi stessi pensiate. Tanto per cominciare, per consentire a me e a voi di essere qui in questo momento, trilioni di atomi, che vagavano ognuno per conto proprio, hanno avuto la gentilezza di assemblarsi in una combinazione molto complicata, e questo appositamente per creare noi. Si tratta di una configurazione molto particolare, mai sperimentata prima e che non potrà mai più ripetersi. Per i prossimi anni (ci auguriamo che siano ancora molti) queste minuscole particelle si impegneranno a cooperare senza mai lamentarsi in una serie di sforzi che richiederanno tutta la loro abilità, e questo al solo scopo di mantenerci integri e darci la possibilità di provare in prima persona quella particolare condizione, estremamente gradevole anche se spesso poco apprezzata, nota con il nome di esistenza.
Perché gli atomi si prendano questo disturbo resta ancora un enigma. Dal loro punto di vista, essere me o voi non è un’esperienza molto gratificante. In fondo, per quanto ci concedano la loro più devota attenzione, agli atomi non importa nulla di noi, anzi, non sanno neanche che esistiamo. Per la verità, non sanno di esistere nemmeno loro. Dopotutto, sono solo delle stupide particelle e non sono neanche vive. (È curioso notare che, se potessimo usare una pinzetta per scomporre il nostro corpo atomo per atomo, non otterremmo altro che un mucchietto di polvere – un mucchietto di atomi – i cui singoli granelli non sono mai stati vivi, ma, presi nel loro insieme, costituivano il nostro corpo.) Eppure, per l’intera durata della nostra esistenza, non faranno altro che rispondere, in qualche maniera, a un unico rigido impulso: fare in modo che noi continuiamo a essere noi.
Il brutto è che gli atomi sono creature volubili e la loro devozione è da ritenersi transitoria, molto transitoria. Una vita umana, per quanto lunga, raggiunge appena le 650.000 ore. E quando si trovano a sfrecciare nei pressi di quella modesta soglia, o in qualsiasi altro punto lì intorno, per ragioni assolutamente sconosciute, i nostri atomi decidono di spegnerci. Poi, silenziosamente, si slegano e se ne vanno ognuno per conto proprio, a diventare qualcos’altro. E per noi tutto finisce lì.
Eppure dovremmo essere contenti che ciò accada. In linea di massima, e per quanto ne sappiamo, è una cosa che non si verifica altrove, nell’universo. E questo è davvero un fatto strano, giacché gli atomi che qui sulla Terra si aggregano fra loro in modo spontaneo e naturale formando gli esseri viventi sono esattamente gli stessi che si rifiutano di farlo altrove. A prescindere da cosa altro possa essere, a livello chimico la vita è estremamente banale: carbonio, idrogeno, ossigeno e azoto, un po’ di calcio, un goccetto di zolfo e una spolverata di altri elementi molto comuni. Nulla che non si possa trovare nella farmacia sotto casa. Tutto qui, non serve altro. L’unica particolarità degli atomi che costituiscono il nostro corpo è appunto il fatto che costituiscono noi. E questo, ovviamente, è il miracolo della vita.
Indipendentemente dal fatto che gli atomi diano luogo alla vita anche in angoli dell’universo diversi dal nostro, è pur vero che fanno moltissime cose: anzi, per la verità, fanno tutto il resto. Senza di loro non ci sarebbero né acqua né aria, né rocce né stelle. E nemmeno pianeti, lontane nubi gassose, o nebulose a spirale: nessuna di quelle cose, insomma, che rendono l’universo un luogo così gradevolmente concreto. Gli atomi sono talmente numerosi e necessari da indurci facilmente a dimenticare che in realtà potrebbero benissimo non esistere. Nessuna legge costringe l’universo a riempirsi di particelle di materia o a produrre luce, gravità e tutte quelle altre caratteristiche fondamentali per la nostra esistenza. Non è che l’universo debba esistere per forza. E infatti per un tempo lunghissimo non c’è stato. Non esistevano atomi e non esisteva nemmeno un universo in cui essi potessero fluttuare. Non c’era niente, niente di niente, da nessuna parte.
Sarà quindi il caso di rallegrarci per l’esistenza degli atomi. D’altra parte, il fatto che noi abbiamo i nostri atomi e che essi siano tanto determinati ad assemblarsi è solo una parte del processo che ci ha portati fin qui. Trovarci qui adesso, vivi, nel ventunesimo secolo, e così intelligenti da esserne consapevoli, significa essere stati i beneficiari di una straordinaria dose di fortuna biologica. Soppravvivere sulla Terra è una faccenda sorprendentemente complicata. La maggior parte (qualcuno sostiene il 99,9 per cento) dei miliardi e miliardi di specie viventi esistite dall’alba dei tempi, oggi non esiste più. La vita sulla Terra, come si vede, non è soltanto breve, ma anche terribilmente precaria. Una curiosa caratteristica della nostra esistenza è che veniamo da un pianeta adattissimo a promuovere la vita, e ancor più efficiente a portarla all’estinzione.
In genere, le specie presenti sulla Terra durano all’incirca solo quattro milioni di anni. Quindi, se uno ha intenzione di rimanere in circolazione per miliardi di anni, dev’essere mutevole tanto quanto gli atomi che lo compongono. Occorre essere pronti a modificare tutto di se stessi: forma, taglia, colore, specie di appartenenza. Tutto insomma. Ed essere pronti a farlo ripetutamente. Tutto questo è più facile a dirsi che a farsi, poiché il processo di trasformazione è assolutamente casuale. Per evolvere da «primordiale globulo atomico protoplasmico» (come dice la canzone di Gilbert e Sullivan) a esseri umani moderni, eretti e senzienti, abbiamo dovuto mutare, escogitando caratteristiche nuove, e abbiamo dovuto farlo in una sequenza temporale precisa e per un tempo estremamente lungo. In momenti diversi, negli ultimi 3,8 miliardi di anni dapprima abbiamo aborrito l’ossigeno e poi l’abbiamo amato alla follia; ci siamo fatti spuntare ali, pinne ed eleganti vele dorsali; abbiamo depositato uova e falciato l’aria con lingue biforcute; siamo stati lisci o pelosi, abbiamo vissuto sottoterra e sugli alberi; siamo stati grandi come cervi e piccoli come topi, e milioni di altre cose ancora. Una minima deviazione da ciascuno di questi processi evolutivi e adesso ci ritroveremmo a leccare alghe dalle pareti di una grotta, a ciondolare su una riva rocciosa alla maniera dei trichechi o ancora a sfiatare da un’apertura sopra la testa prima di immergerci a diciotto metri di profondità per concederci un boccone di quei deliziosi vermi che vivono affondati nella sabbia. La nostra fortuna, d’altra parte, non si è limitata al fatto di essere inclusi fin dai primordi in una linea evolutiva favorita dalla selezione: siamo stati anche estremamente, diciamo pure miracolosamente, fortunati per quanto riguarda il nostro albero genealogico personale. Consideriamo che per 3 miliardi e 800 milioni di anni – un periodo di tempo superiore all’età delle montagne, dei fiumi e degli oceani – ognuno dei nostri avi, per parte di padre e di madre, è stato abbastanza attraente da riuscire a trovarsi un compagno; abbastanza sano da essere in grado di riprodursi; e a tal punto benedetto dal fato e dalle circostanze da vivere abbastanza per farlo. Nessuno dei nostri diretti progenitori è stato schiacciato o divorato; nessuno è morto affogato, di fame, trafitto a tradimento, ferito anzitempo, o in qualsiasi altro modo distolto dal fondamentale compito della sua vita: quello di consegnare, al partner giusto e al momento giusto, quella minuscola quantità di materiale genetico necessaria a perpetuare l’unica possibile sequenza di combinazioni ereditarie che alla fine, incredibilmente, e per un tempo così breve, avrebbe prodotto ciascuno di noi.
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" Una democrazia è costituita da un popolo specifico che si organizza, per sé stesso, sul suo territorio. Questo gruppo difende la sua frontiera. Non è un collettivo astratto, che decide per l'umanità in generale. Se accettiamo questa evidenza storica di una componente cupa, etnica, nazionale della democrazia originaria, possiamo accettare di vedere e comprendere, perché la resistenza all'oligarchia, la crescita democratica che tocca una a una le "democrazie" occidentali, disorganizzate dalla nuova stratificazione educativa e dal libero scambio, si colora sempre di xenofobia. La democrazia rinasce, ma contro i messicani in America, contro i polacchi in Inghilterra. La scelta attuale della Francia, "contro i musulmani", è disfunzionale dato che prende di mira un gruppo interno che rappresenta tra i giovani il 10% della popolazione, e non può che condurre ad un'implosione della nazione. Questo primo elenco evoca lo stesso un movimento generale di ritorno dei popoli verso la democrazia, verso il populismo secondo la terminologia attuale delle oligarchie occidentali, un "cammino provvidenziale" avrebbe detto Tocqueville. La nuova stratificazione educativa iniqua esclude tuttavia la possibilità di un semplice ritorno alla democrazia classica della prima metà del XX secolo, radicata nell'omogeneità culturale dell'alfabetizzazione universale, ma senza lo sviluppo di un'università di massa. "
Emmanuel Todd, Breve storia dell'umanità. Dall'homo sapiens all'homo oeconomicus, traduzione di Julie Sciardis, LEG Edizioni, 2019, p. 301.
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Storia breve #1
Interno di un bar: ride, qui accanto, d'una ebbrezza alcolica, un lavoratore a pranzo. Seduto, gambe larghe, occhi acquosi, mani esauste, strette intorno ad una birra, il viso arrossato anche dal freddo preso fin dall'alba, spensierato come un soldato al congedo. Chissà se la felicità non sia questa: una feroce determinazione nel trovarla, ad ogni costo; e questo dubbio rende più intenso il gusto del caffè che sto bevendo.
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Tagged by @girldante 🫶
five songs I fell in love with recently
Pressure tag: @moonschocolate 🔫
No pressure tags: @theeslutintheroom @thatdammchickennugget @gufu-vire @architetturacannibale @pizzaapeteer 🩷
#“storie brevi” perché la canzone è davvero una storia breve#2:55 criminaleee#però mi piace ecco#poi Florida!!! cause Florenceeeee#me screaming “Florida is hell of drug” even if I’ve never been to Florida#tag game#Spotify
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Titan 750
La cosa più vicina al sottomarino Titan in cui sono stato è la Panda di Count. Raffreddata ad aria, aveva una perdita d’olio proprio sopra al raccordo tra motore e condotto che portava alla marmitta. Ogni goccia veniva nebulizzata dalla temperatura infernale e convogliata, attraverso la bocchetta d’areazione al centro del cruscotto, dentro l’abitacolo. In pochi giorni, il parabrezza era stato ricoperto da una patina nera e l’atmosfera all’interno dell’incubo bianco era sempre malmostosa, rovente e malsana. Per ovviare al malfunzionamento, Count cercava di mantenere una velocità di crociera costante, velocità che garantiva al motore un flusso d’aria sufficiente a non farci prendere fuoco. Apparentemente, la contromisura sembrava innocua e sicura. Peccato che Count, in breve tempo, maturò uno stile di guida che creava raccapriccio nei poveri passeggeri. Sì, andava al massimo a 60 km/h, ma lo faceva in ogni occasione: la velocità era sempre quella, sia che stesse uscendo da un parcheggio, imbroccando una rampa elicoidale, percorrendo una rotonda o attraversando un incrocio con il giallo lampeggiante alle 5 di mattina.
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*vado in giro per musei con qualcuno*
*chiedo di venire immortalata, e la persona gentilmente mi fa decine di foto*
*mi faccio mandare quelle che reputo salvabili in quel momento*
*in solitudine, comincio a modificarle per esaltarne colori e/o particolari*
*le guardo per troppo tempo, notando sempre più dettagli che non mi convincono*
*decido di non postarle da nessuna parte*
*dopo un tempo più o meno lungo, le rivedo e mi maledico per non averle postate da nessuna parte perché in realtà erano belle*
*mi maledico doppiamente perché so che la volta successiva sarà uguale*
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Jannik Sinner tenta di non farti scoprire come un coglione challenge.
#Aiuto#Sembra che stiano facendo di tutto pur di farsi scoprire basta aiuto per favore#Sto piangendo che ridere che mi fanno#Prevedo una storia di Maria che annuncia il breakup a breve
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Pelle bianca come neve, labbra rosse come sangue - Capitolo 4
Come promesso, il cacciatore restituì alla regina lo scrigno contenente le prove che aveva eseguito i suoi ordini. Ricevette la sua ricompensa in monete d’oro e lasciò il castello, mentre la regina rimase a lungo a guardare lo scrigno.Non poteva crederci: aveva liberato il regno dal vampiro che lo avrebbe distrutto, e ora tutti i suoi sudditi l’avrebbero finalmente accolta e rispettata per averli…
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