#hashtag del giorno dopo
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libero-de-mente · 11 months ago
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Un ponte per due
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Usavo un hashtag #VitaConAlvin per raccontare ogni tanto della mia vita da prescelto. Prescelto da un gatto rosso che si palesò dalla buca in una strada in un giorno di pieno lockdown.
Non ci pensò due volte, vista l'auto fermarsi, a correre incontro al suo nuovo destino. Da randagio a parte di una famiglia.
Nella mia casa oltre agli umani, strani individui, c'erano ad attenderlo altri tre quadrupedi.
Una sua simile Milly, gatta anziana con i poteri di farti sentire sempre e comunque un essere inferiore a lei, e due curiose "cane".
Madre e figlia con occhi grandi e corpo piccino. Strane quelle due cagnoline sempre con le orecchie dritte pronte ad abbaiare a chiunque sfiorasse i confini di casa.
Dopo un paio di giorni da spaesato Alvin cominciò a scegliere.
Scelse l'umano a cui rompere le balle per pappa, pupù, pipì e fusa, cioè me forse per i colori di pelo simili.
Scelse a chi rompere le balle per giocare anche se "quella" non ne voleva sapere, quindi giù di zuffe, parlo di Milly.
Scelse che condividere il tepore dei loro corpi per farsi dei sonnellini, non era male con i due esserini schiamazzanti. Le due chihuahua. Logicamente provvedendo anche a bullizzarle con sonori ceffoni a zampa aperta quando raggiunse gli otto chili, mentre le cagnoline Minù e Tea pesavano circa due chili a testa.
Ho scelto questa foto, di un Alvin ancora giovane e in crescita a fianco di Minù. Sette anni circa di differenza tra di loro ma uno stesso destino, varcare il ponte dell'arcobaleno praticamente insieme.
Tra il 10 e il 12 dicembre prima Minù e poi Alvin se ne sono andati. Così, dalla mattina alla sera e viceversa.
Sto scrivendo questo post, prometto poi di smetterla altrimenti divento tedioso, con le lacrime agli occhi. Con molta difficoltà.
La loro scomparsa mi ha restituito due figli moderni, spesso avidi nel mostrare sentimenti (troppo cristallizzati da monitor su cui riversare le attenzioni), con lacrime e abbracci che non vedevo da tanto tempo.
A volte la morte sprigiona una capacità, in chi rimane in vita, di amare ancora di più il suo prossimo e i suoi affetti, stringendosi in abbracci più forti.
Ora gatto rosso e "cana" bianconera, scodinzolando, sono su quel ponte colorato.
Si lo so, sono capace di essere anche più razionale ma... oggi no.
Oggi voglio sognare a occhi aperti. E perché no? Del resto quando vidi morire mio padre lui aprì gli occhi risvegliandosi da quel torpore premorte, guardò davanti a se nel vuoto e sorrise. Facendo anche un cenno col capo, come a dire a qualcuno "Si, sono pronto. Arrivo".
Oggi da padre mi ritrovo a gestire il dolore di due ragazzi grandi, che mi stanno dimostrando non la loro fragilità ma la capacità enorme di empatia che hanno dentro di loro. Un altro dei poteri della morte. Incredibile vero?
Ora Minù e Alvin sono in un posto bellissimo dove l’erba è sempre fresca e profumata, i ruscelli scorrono tra colline e alberi e i nostri amici a quattro zampe possono correre e giocare insieme.
Trovano sempre il loro cibo preferito, l’acqua fresca per dissetarsi e il sole splendente per riscaldarsi, e così i nostri cari amici sono felici: se in vita erano malati o vecchi qui ritrovano salute e gioventù, se erano menomati o infermi qui ritornano a essere sani e forti così come li ricordiamo nei nostri sogni di tempi e giorni ormai passati.
Qualcuno leggendomi riderà, francamente non m'interessa. Se un pensiero felice mi fa stare bene perché privamene per dimostrare asettico cinismo?
Sono a pezzetti, mi dovrò ricomporre. Lo farò facendo leva su una verità assoluta. Ovvero che per tanti o pochi che siano gli anni da loro vissuti (dieci anni Minù e tre anni Alvin), li hanno vissuti degnamente e circondati da affetto e amore. Non è una cosa scontata questa, alla luce dei fatti di cronaca che, recentemente, hanno visto coinvolti anche animali. Vedi Leone, il micio seviziato che non ce l'ha fatta a sopravvivere a una breve esistenza fatta di cattiveria.
Vivere quindici anni in un gattile perché nessuno ti vuole è peggio che vivere due anni circondato da affetto.
Chissà se un giorno, quando sarà giunta la mia ora, mi ritroverò in quel posto bellissimo dove i miei amati pelosetti mi riconosceranno, così da attraversare insieme quel ponte per non lasciarci mai più.
La mia #VitaConAlvin finisce qui, oggi. Quella con Minù anche.
Ma non finirò di amare chi c'è ancora e chi, chi lo sa, potrà arrivare nella mia vita.
Grazie
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gaysessuale · 2 months ago
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Non ho capito il post sull' rpf, nonostante abbia letto gli hashtag. Potresti spiegarti meglio?
salve my beloved, giuro che è molto meno serio di quello che sembra. partendo dal principio dato che sei anon e ho avuto un discreto influsso di persone che hanno iniziato a seguire: sono chiaramente un grande fan del mondo dell'intrattenimento italiano, specialmente quello trash, questo comprende anche tutto quel mondo specifico degli streamers / youtuber. tutto ciò mi porta a trovare divertimento e sano old school shipping anche in quei canali dimenticati da dio. spiegazione lunga sotto il cut per fare tutta la panoramica.
in questo periodo sono a casa da solo a curare i gatti, per tenermi compagnia ho messo su vecchie partite di among us risalenti alla pandemia di questo streamer che fino ad ora conoscevo vagamente solo di nome, ovvero Homyatol (credo si scriva così, non ne sono ancora così sicuro).
Passa un giorno, passano due giorni, passano tre giorni e lui con i suoi amici sono sempre nelle mie orecchie e com'è ben giusto che sia si sviluppa una relazione parasociale di media importanza con queste persone che giocano. Tra questi c'è una persona insopportabile data la sua spocchia devastante con il nickname "Enkk", strumentopolo misterioso per dopo.
Passano quattro giorni, passano cinque giorni, sono andato a farmi un giretto da un altro streamer (ai più, temo, insopportabile, ma uno degli stipiti che tiene su la porta della mia adolescenza) che di nome fa Dario Moccia per sentire un intervista con Homyatol e lo strumentopolo misterioso citato prima, Enkk.
Vedi, car* anon, a quanto pare la prima volta che Enkk giocò con Homyatol (in streaming) la chat di quest'ultimo voleva sbattere fuori Enkk per qualche motivo al grido di #Enkkout, probabilmente per l'antipatia, forse per il fatto che fosse timido e non parlasse molto, non me lo ricordo onestamente. E Homyatol ha ignorato queste cose e ha fatto diventare questo Enkk tipo una delle colonne portanti delle loro partite di among us. E hanno sicuramente una dinamica interessante (come al solito, non loro in quanto persone perché non le conosco, ma loro in quanto personaggi che portano nello stream ecc ecc si sa, si sa).
Comunque, quando giocano hanno questo rapporto che si piazza su una linea che va da urlarsi contro a difendersi a spada tratta con, talvolta, violenza verbale importante contro loro stessi o contro gli altri, situazione altamente esacerbata da quello che è il gameplay di among us. Non c'è un "in mezzo", poche volte ho sentito tra di loro una conversazione civile, full in o full out.
Questa intervista e questa loro dinamica, quindi, mi ha fatto domandare se per caso il twitch italia sia pronto alle fanfiction su di loro che se lo buttano allegramente in culo e, nel caso lo sia, allora è il momento di produrre il content.
In tutto questo è giusto aggiungere che in questi stream compaiono quelle che vengono chiamate spesso "le ragazze" e tra queste quattro/cinque ragazze, ce ne sono tre stabili che creano un perfetto triangolo yuri tossico / malsano, sempre ascritto all'interno di quello che è il gioco. Queste sono Sofiasksk, Barbarella e Pseuda, in cui Barbarella (che spesso ricopre la figura dell'impostore) che rende questo triangolo tossico e anche abbastanza malato.
In sunto: la solitudine fa male.
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lamilanomagazine · 2 years ago
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Bari: La XVII edizione della Race for the Cure il 14 maggio
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Bari: La XVII edizione della Race for the Cure il 14 maggio. È stata presentata nella mattinata di ieri mercoledì 10 maggio, a Palazzo di Città, la XVII edizione della Race for the Cure, la celebre manifestazione per la lotta ai tumori del seno di Susan G. Komen Italia che si svolge sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, in programma a Bari dal 12 al 14 maggio prossimi in piazza Libertà. “Per noi l’appuntamento con la Race for the Cure è una delle tappe più importanti della stagione - ha detto il sindaco Antonio Decaro -. Una manifestazione che promuove lo sport, il benessere sociale e la voglia di fare comunità. La Race for the Cure è però, anche e soprattutto, riflessione e prevenzione. Ancora oggi c’è bisogno di parlare, di promuovere e di ricordare alle persone che la prevenzione è la cura che può salvarci la vita in tantissime situazioni. La prevenzione è anche lo strumento attraverso cui tutti noi possiamo aiutare il sistema sanitario ad assistere la nostra comunità e a offrirci le cure migliori. L’occasione della corsa di domenica prossima, quindi, sarà quella di trascorrere una giornata insieme, correndo, camminando e condividendo storie e pensieri che possono aiutarvi tutti. Anche quest’anno la città di Bari non mancherà l’appuntamento con il lungo serpentone rosa che attraverserà la nostra città con il colore della prevenzione”. “È la diciassettesima edizione della Race for the Cure a Bari, un’edizione che cambia di significato - ha spiegato Linda Catucci, presidente del comitato Puglia della Susan G. Komen Italia. -. Dopo anni di incertezze la Race torna con la forza di tutte le donne, il passato è un ricordo, il futuro è la vita che abbiamo dinanzi. Una prospettiva nuova Grazie alla comunità alla grande famiglia che si ritroverà sotto l’arco fucsia in corso Vittorio Emanuele. Insieme al via, il traguardo dinanzi, una corsa verso l’avvenire”. Dal 2000 ad oggi la Komen Italia ha investito oltre 23 milioni di euro su 1500 progetti nell’azione di contrasto ai tumori del seno con un focus su informazione e prevenzione. Ogni anno in Italia ci sono 56mila nuovi casi di tumore al seno che, se diagnosticati precocemente, portano nella maggior parte dei casi alla guarigione e a percorsi di cura meno invasivi. “Siamo parte di un cambiamento culturale, che vede proprio in una corretta informazione e nella prevenzione le nostre migliori chance contro il tumore al seno - ha continuato Catucci - che per questa edizione della Race, che ricorre nello stesso giorno della festa della mamma, lancia hashtag #corriconmamma “perché quando si ammala una donna si ammala tutta la famiglia e vogliamo trasferire la forza catalizzatrice delle mamme in un contesto positivo e creare intorno a loro un movimento di persone che partecipando alla Race contribuiranno a sostenere tutti i progetti che ogni anno realizziamo per le donne in rosa”. Alla presentazione di questa edizione della corsa in rosa è intervenuto anche l’assessore comunale allo Sport, Pietro Petruzzelli: “La Race for the Cure non è solo una corsa, perché da un lato serve a raccogliere fondi per la ricerca contro il tumore del seno, un motivo più che valido per parteciparvi, dall’altro rappresenta un modo concreto per promuovere stili di vita corretti. Lo sport è fondamentale per la salute delle persone: per questo invitiamo tutti ad iscriversi alla manifestazione. Sarà bello domenica partecipare a questo evento nel centro della nostra città, così come  trascorrere il tempo libero nel Villaggio della Salute allestito in piazza Libertà. Inoltre, l'amministrazione ha individuato, tramite un protocollo d’intesa con l’assessorato al Welfare, 95 donne in condizioni economiche difficili che potranno accedere ai controlli gratuiti sanitari offerti dall’organizzazione”. “Questa manifestazione ha tanti significati, qui a Bari ha raggiunto livelli di partecipazione altissimi - ha ricordato Riccardo Masetti, fondatore della Susan G. Komen Italia - , ha generato un cambio di passo del modo in cui si affronta la malattia, ha contribuito a rompere la paura e il silenzio, sostituendoli con un senso di condivisione. Poi la Race è una grande raccolta fondi che ha permesso di dare vita ad oltre 1.500 progetti nell’azione di contrasto ai tumori del seno”. Quindi la presidente nazionale della Susan G. Komen Italia Daniela Terribile ha proseguito: “Dopo la Race a Roma di domenica scorsa tutto è pronto per quella di Bari di domenica 14. La marea rosa non si ferma, non si può fermare perché la prevenzione non si può fermare.  Tutto ciò che vedrete da venerdì a domenica è fatto per celebrare la donna, per poterla seguire sempre e poter cogliere, nel caso, dall’inizio, un piccolo tumore se c’è ma poterlo curare e soprattutto poterlo prevenire. È questo il senso di partecipare generosamente a questa manifestazione”. Alla conferenza stampa ha partecipato anche l’assessore regionale alla Sanità, Rocco Palese: “È un’iniziativa importante che la Regione Puglia sostiene dal punto di vista della partecipazione e dell’attualità, in un contesto di prevenzione, cura, benessere, salute e attività sportiva come partner di Susan Komen. Ma ci preme sottolineare che, nel contesto dell’attività regionale sugli screening oncologici, la performance della Puglia è positiva ed è in crescita. In Puglia il dato della convocazione delle donne nelle fasce d’età prestabilita dall’Oms è più dell’85% mentre l’adesione si attesta intorno al 60%. Dato che vorremmo migliorasse. E questa iniziativa sicuramente contribuirà nel contesto dell’adesione perché la prevenzione è direttamente correlata alla possibilità di guarigione nel contesto della patologia oncologica mammaria”. Il Villaggio della Salute sarà inaugurato venerdì 12 maggio alle ore 15 in piazza Libertà e resterà aperto fino alle 20.00, mentre l’orario di apertura di sabato 13 sarà dalle 9.00 alle 20.00 per consentire a quante più persone possibile di partecipare gratuitamente anche ad attività di sport, fitness, sana alimentazione, benessere psicologico, intrattenimento e a conferenze sui temi della salute e della prevenzione. Domenica 14 maggio il Villaggio della Race aprirà alle ore 8 per consentire a tutti di effettuare le ultime iscrizioni e prepararsi alla partenza della XVII edizione della Race for the Cure di Bari, lungo due percorsi: la passeggiata di 2 km e la corsa competitiva di 5 km Come ogni anno all’interno del Villaggio della Salute saranno eseguiti esami diagnostici gratuiti di screening per le principali patologie femminili, in particolare in favore di donne che vivono in condizioni di fragilità sociale o economica. Saranno offerte prestazioni di dermatologia, ecografia alla tiroide, ginecologia, senologia, misurazione della pressione, della glicemia, cardio online, prestazioni sulla salute dell’occhio e un corner dedicato alla genetica e ai test genetici che quest’anno sarà esteso agli uomini con storia neoplastica personale o familiare. Novità di quest’anno la presenza di un team di 68 ostetriche che offriranno consulenze di prevenzione, perimenopausa e menopausa, riabilitazione pavimento pelvico, trattamento e cura delle cicatrici post interventi e su tutte le prestazioni socio-sanitarie fornite dalle Asl di Bari e Bat. Altra novità di questa edizione è il corso di primo soccorso grazie al quale si potranno imparare i gesti salvavita e le manovre di disostruzione in caso di emergenza. Un’area specifica sarà dedicata all’informazione, con le conferenze mediche dedicate quest’anno ai progressi in ginecologia, patologia, radiologia, genetica, chirurgia, oncologia, radioterapia e alle possibilità dell’intelligenza artificiale nel follow up. Un’attenzione particolare, come sempre, sarà rivolta alle Donne in Rosa, vere protagoniste del mondo Komen, che nell’area a loro dedicata potranno ricevere consulenze e informazioni in materia di preservazione della fertilità, partecipare a laboratori di cucina ed educazione alimentare, ricevere le coccole sonore con le campane tibetane e Gong e tanto altro. Un’intera area del Villaggio della Race, poi, sarà dedicata ai bambini con laboratori creativi, balloon art, face painting, baby dance e family game. Sabato 13 maggio alle ore 16, con partenza dal Villaggio della Salute, le Lady Bikers dell’associazione Angeli della strada sfileranno per la città di Bari con la pettorina rosa, per invitare tutta la città a partecipare alla Race e sostenere le attività della Komen. L’edizione 2023 della Race for the Cure di Bari è dedicata a due amiche della Komen e donne in rosa, che non ci sono più: Rossella Tomasino ed Eugenia De Santis. “Con il loro sorriso - ha ricordato Catucci - sono state esempi fulgidi di un volontariato fatto con il cuore e con l’anima. Hanno insegnato a tutti noi l’importanza di stare insieme, di creare una comunità di persone unite da valori comuni. Riuscire ad andare oltre l’interesse personale, spendendosi quotidianamente per il bene collettivo è ciò che rende il volontariato così forte e prezioso. Lo sanno bene tutte le donne che si avvicinano alla Komen per la prima volta, venendo travolte da un’ondata di gioia e di forza che le aiuta ad avere una visione più aperta. È proprio questo che vogliamo fare, regalare la proiezione del futuro a tutte le donne che, a causa della malattia, non sono più in grado di vederla”. Infine domenica 14 maggio, alle ore 10,ci sarà lo start della XVII edizione della Race for the Cure di Bari. Ci si può iscrivere alla Race con una donazione minima di almeno 13 euro sul sito www.raceforthecure.it, presso il comitato Komen Puglia in via Melo da Bari 195, nel Villaggio della Salute (da venerdì 12 maggio dalle ore 15:00) e in uno degli punti di iscrizione indicati sul sito della Race. L’iscrizione dà diritto a ricevere - fino a esaurimento - la maglia ufficiale e lo zainetto. Info e iscrizioni: www.raceforthecure.it  e www.komen.it. Cultura, arte e bellezza sono ormai riconosciute come una potente medicina per il corpo e la mente. Da questo presupposto è nato alcuni anni fa il protocollo di intesa con il Ministero della Cultura, grazie al quale nei giorni della manifestazione - 12, 13 e 14 maggio, -agli iscritti alle Race in tutta Italia viene offerto l’ingresso gratuito nei musei statali (elenco completo sul sito www.komen.it).... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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enkeynetwork · 2 years ago
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loveint-diario · 2 years ago
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La prima fase del Love Gaming inzia con l’aggancio, che raramente consiste in azioni chiare o esplicite, come inviare un messaggio diretto o diventare un follower della persona che si vuole agganciare; è un’azione che si esplica nei dettagli di spazio e di tempo, nel decifrare post con messaggi criptati che attirano la nostra attenzione, proprio perché fanno eco a qualcosa di personale, di specifico e di riferibile solo, e soltanto, a noi.
Sul finire del 2014 Instagram rispetto ad oggi, aveva poche funzionalità, permetteva di postare una sola foto in formato 1:1, quindi un quadratino, il testo che accompagnava la didascalia al post non poteva essere molto lungo, ma aveva un numero finito di caratteri, non si potevano ancora aggiungere link e anche gli hashtag usati erano sempre gli stessi e avevano lo scopo di assicurare al nostro post la maggiore visibilità possibile, sfruttando i contenitori più grandi e noti. Un post era dunque composto da una foto, una didascalia e degli hashtag. Ognuno di questi tre componenti poteva diventare un blocco testuale che, unito agli altri due, serviva a comporre un discorso più ampio di quello manifesto, serviva a comunicare un messaggio a chi sapeva, o aveva imparato, o a chi era stato istruito a leggere tra le righe.
Il fotografo britannico, il terzo account che avevo iniziato a seguire su Instagram, cercò subito di attirare la mia attenzione, servendosi della sincronicità, della somiglianza e della ripetitività. Pur non seguendomi postava una foto immediatamente dopo di me, era una foto che aveva una somiglianza di tema con la mia, per esempio un bosco nella luce del primo mattino, o di palette, un tramonto tinto di viola, oppure nella sua didascalia o tra i suoi hashtag, c’era una parola che avevo usato nel mio post o nei miei hashtag. Questo accade molte volte, tutte le volte necessarie finché non capii che era un modo di comunicare con me. La cosa mi sembrò divertente e risposi, anche io giocando questo gioco.
L’aggancio era dunque avvenuto e poteva iniziare la seconda fase, quella degli effetti speciali.
Una volta addestrata a leggere tra le righe, mi sorprendeva in un modo ogni volta diverso, per esempio quando le didascalie dei suoi post erano laconici titoli, quegli stessi erano i titoli di bellissime canzoni, che potevo ascoltare cercando su Youtube. Mi insegnò a comunicare seguendo le sue attività, guardavo cosa gli piaceva e si profilava un lungo discorso che iniziava con un saluto, scorrendo account di artisti, a volte eccezionali, che da tutto il mondo condividevano le loro opere, con poesie, canzoni e pensieri di altri, parlava di quello che ci stava accadendo. Mi sembrò un modo di comunicare straordinario. Ero incantata, passavo ore sul social, dimenticandomi del tempo e dello spazio, condividevo sempre di più e quando non lo facevo pensavo a cosa avrei condiviso. Gli effetti speciali non finivano mai, un giorno postai una foto che fu l’inizio di una serie di post, dei quali la parola chiave era mood, umore. Il social si riempì di account con questa parola, @inthemoodoftheday, @inthemoodof, @mymood, eccetera eccetera, ma mi sembrò una coincidenza, anche quando il venerdì dopo la call su Instagram fu proprio #mood. Poco tempo dopo, postai una foto, era il mare d’inverno, agitato, eccetto la schiuma delle onde e le nuvole entrambe bianchissime era tutto azzurro e tra gli hashtag scrissi, in Inglese però, #voglioubriacartidiblue.
A quel punto tutto il social diventò blu, Instagram fece la sua call #blue, tutti postavano foto blu, era tutto blu. Stupore e ansia si mischiavano in egual parte.
Presi il coraggio a due mani e scrissi un’email nel mio sgangherato Inglese a questo istagramer, dato che il suo indirizzo era sul suo profilo pubblico. Scherzai sugli effetti speciali che mi aveva mostrato fino a quel momento e gli dissi che per quanto belli, secondo me, nulla poteva essere meglio di una conoscenza reale e gli proposi di conoscerci magari scrivendoci, data la distanza geografica.
Rispose alla mia email in maniera garbata e formale, concluse dicendo che non era solito condividere informazioni personali attraverso la rete.
Sì, rispose proprio così.
Non pensai minimamente a leggere tra le righe, e mai avrei immaginato quanto questa frase avrebbe contato per me negli 8, ormai 9, anni successivi. La sua risposta formale mi fece dubitare di quanto avessi vissuto, mi chiedevo come facesse a seguirmi se non mi seguiva, mi domandavo perché proliferavano account che avevano a che fare con me, perché Instagram? Mi fece dubitare a tal punto che mi bloccai, non postai per qualche giorno, guardavo soltanto.
Le cose più importanti accaddero proprio in quel momento. Il fotografo che mi aveva risposto così freddamente, non mancò di postare sul suo account foto che facevano riferimento al contenuto della mia email, così fece Instagram e ogni account di cui avevo dubitato o sospettato. Quegli stessi account selezionarono e pubblicarono una delle sue foto e così fece anche Instagram, che una volta a settimana sceglieva un/a fotografo/a da presentare alla comunità. Apparve una delle sue foto e un articolo con una breve intervista.
Poco dopo, i suoi post cambiarono, non erano più paesaggi ma ritratti di persone, di solito donne, che presentava proprio come faceva l’account di Instagram. Iniziò anche a seguirmi con l’account di un fotografo che si diceva spagnolo.
Mi sembrò di iniziare a capire. Capii che tutti questi account tematici, compreso quello ufficiale di Instagram erano gestiti da persone in carne e ossa, e che con ogni probabilità lui era una di queste, o tutte queste. Non capivo a quel tempo perché lo facesse, pensavo fosse il suo lavoro e pensavo che volesse mantenere una comprensibile riservatezza, così continuai a scrivergli delle email alle quali rispondeva raramente con sue email, ma non mancava mai di usarne il contenuto costantemente sul social. Continuava a sembrarmi solo una forma originale di comunicare, così continuai anche io a comunicare con lui, che nel frattempo continuava a creare tendenze e comunità, facendomi pensare che stesse favorendo la socialità e la cultura, che provasse a promuovere l’arte e la creatività attraverso il social.
Lo scopo vero l’ho capito molto tempo dopo quando ho potuto riconoscere lo schema, quello di tenere gli utenti sempre agganciati alla piattaforma, sempre in rete e sempre pronti a condividere, come anche quello di creare reti tra di loro.
I follower erano spinti a creare comunità tra di loro, usavando gli stessi hashtag, concorrendo per le stesse, a volte, elitarie call, erano chiamati a distinguersi non soltanto come singoli ma come gruppo. Questo era quello che il fotografo che seguivo faceva, sia con la sua identità pubblica, creando attorno a sé una comunità di fotografi vicini per area geografica o pronti a partire, generando contesti fotografici e account che li avrebbero poi pubblicati, sia celandosi attraverso fakeaccount con nazionalità diverse e nomi di fantasia, sia anche utilizzando gli account tematici che lui stesso generava, o quello ufficiale di Instagram.
Vi starete chiedendo a che serve tutto questo. A che serve creare gruppi e comunità di utenti? Non basta creare contesti per ottenere visibilità, follower, premi? Non basta che i singoli utenti siano costantemente collegati alla piattaforma?
No, è necessario che siano anche in rete, uniti tra loro, in comunicazione tra loro, perché quando ci si conosce si condividono molte più informazioni personali, ci si scambia l’inidirizzo email, il numero di telefono, l’indirizzo di residenza. E molto, molto di più, ci si scambia emozioni. Questi sono metadati importanti per conoscerci. Sono informazioni su di noi, che possono essere acquisite solo osservandoci agire e interagire. Inoltre vi ricordo che per utilizzare Instagram, e qualsiasi altra applicazione social, bisogna dare il consenso affinché l’applicazione possa accedere ai nostri contatti e alla nostra fotocamera, due delle cartelle più private che abbiamo sui nostri smartphone e le più ricche di dati sensibili su di noi e sulla nostra rete di relazioni.
Ad un certo punto, il fotografo mise in vendita delle sue foto, io ne acquistai qualcuna e senza il minimo sospetto gli fornii il mio indirizzo di residenza e probabilmente la possibilità di recuperare i miei dati anagrafici, dalla carta di credito che usai per pagare in sterline quelle foto.
Capii che era anche uno sviluppatore della piattaforma quando, dopo avergli scritto un’email in cui speculavo, o sarebbe meglio dire straparlavo in una lingua che mal padroneggiavo, sull’importanza di considerare la vita non soltanto nella sua dimensione orizzontale, la dimensione terrena e quotidiana, ma di lasciarsi ispirare e guidare dalla dimensione verticale dell’esistenza, quella che preme per ascendere, per farsi infinito, la piattaforma annunciò un nuovo aggiornamento, scaricato il quale, potevamo postare le foto scegliendone l’orientamento: orizzontale o verticale.
Qualunque effetto speciale potesse mettere in campo, non mi divertivo più. Avevo come l’impressione che ad ogni cosa che condividessi, ne scaturisse fuori un’eco che si ripeteva così all’infinito da perdere del tutto senso. Mi sentivo frustrata, da questo suo modo di darmi attenzione che mancava di qualsiasi riconoscimento, come mancava di una vera e sana comunicazione. Così come da mia ingenua abitudine, pensai che parlarne sarebbe servito a far evolvere questa esperienza, che per quanto stupefacente all’inizio, si stava rivelando non solo povera di veri contenuti ma decisamente asimmetrica e unilaterale.
Scrissi l’ultima email, a quello che oggi so essere stato il primo ad aver hackerato i miei supporti, una lettera, nella quale gli raccontavo di una persona che incontrai qualche anno prima. Erano i primi anni del 2000 e mi trovavo all’aeroporto, stavo tornando a Roma, non ricordo con esattezza se da Barcellona o dalla Sicilia. Ero seduta in attesa dell’imbarco e stavo leggendo un libro su Second Life, uno dei primi giochi interattivi creati. Il gioco consisteva nel crearsi una seconda vita virtuale, ci si iscriveva e si creava un avatar (il film penso si sia ispirato a questa esperienza perché è successivo) che poteva avere le sembianze che ognuno preferiva. Attraverso una serie di tappe si potevano guadagnare soldi virtuali, ci si poteva costruire una casa, mettere su un’azienda, diventare sindaco di una comunità, costruire città, insomma riprodurre una vita virtuale in ogni aspetto simile a quella reale.
Mi ricordo che mi colpì molto il fatto che le persone scegliessero di cambiare il loro aspetto, principalmente modificando il colore dei loro corpi e aggiungendovi una parte animale, per cui la loro pelle poteva essere blu, rossa, verde e potevano avere orecchie e coda da gatto, musi da lupi o artigli da pantere. Stavo leggevo il testo quando un signore americano, sulla cinquantina, si sedette nel posto accanto al mio e sbirciando il mio libro, attaccò bottone chiedendomi se lo trovassi interessante. Iniziammo a parlare e mi disse che era un sociologo che studiava i processi sociali attraverso le teconologie informatiche, che stava andando a Roma perché avrebbe insegnato per un semestre in una università della Capitale e meraviglia della vita che non smette mai di sorprenderti, che era stato uno dei sociologi che aveva partecipato allo studio dei processi sociali, a partire dal suo lancio, proprio di Second Life!
Facemmo amicizia, ci scrivemmo qualche email e ci incontrammo qualche volta a Roma, ma io ero poco più che ventenne e parlavo un pessimo Inglese, per cui la nostra amicizia non continuò a lungo, ma abbastanza da permettermi di capire che in parole poverissime, lo studio aveva dimostrato che nonostante lo schermo, nonostante l’avatar e il mascheramento, ognuno di quelli che aveva partecipato a Second Life, alla fine aveva riprodotto la stessa vita, lo stesso tipo di relazioni, lo stesso tipo di dinamiche sociali che viveva nella vita reale, quella fuori dal gioco, quella non virtuale. Non cambiava niente tra le due vite. Infatti il gioco ebbe vita breve.
Raccontai di questa storia al fotografo e conclusi che pensavo che su Instagram accadesse proprio lo stesso e che preferivo la vita vera a quella virtuale. Conclusi con un invito all’amicizia, al dialogo vero e franco e gli proposi anche d’incontrarci.
Mi rispose dicendo solo di ‘non essere sicuro di cosa fosse reale e cosa non lo fosse’ e da quel momento sparì. Sul suo account ufficiale smise di apparire. Non mi rispose mai, ma l’account del National Geographic proponeva bellissime mete di viaggi. I miei follower aumentarono di account di uomini che prima o poi, si rivelavano essere lui. Era iniziata l’ultima fase del Love Gaming, la fase soap opera.
Roma 11 gennaio 2023 h: 3:36 pm
Capitolo 17 Love Gaming – VI parte
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allecram-me · 3 years ago
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Marci, una cosa: non è che può servirti una Bibbia in più?
Apro la porta dell’ascensore. L’immagine di un pianerottolo qualsiasi, sui toni neutri, e non un elemento concorde alle aspettative del mio pilota automatico. Sboccio di gioia: è la primissima vera volta che torno ubriaca in questa casa. È l’incongruenza nel retaggio di una esistenza che non è così assopita, un qualcosa che forse sa cambiare. Io che sono sempre stata sincera con me stessa, un po’ meno chiara con voialtri: non vado a letto con nessuno, non sono bella, speciale, né niente. Ti allontaneresti dal mondo, con me, e tu non dovresti volerlo. Io non penso potresti.
Se parli la mia lingua, però, può accadere di tutto. Se parli la mia lingua puoi immaginarmi attraversare quei pochi passi che separano il palazzo in cui adesso vivo dall’ingresso del parco. Puoi vedermi incedere soddisfatta per avere indossato gli stivaletti comodi nonostante il tacco e soprattutto le calze coprenti, e mi immagini splendere senza bisogno alcuno che ci sia anche una sola anima a potermi guardare; se apro la porta di quell’ascensore e titubo nell’infilare la chiave nella toppa, e se mi soffermo interrogativa sul pulsante del campanello che recita due cognomi sbagliati: se anche solo comprendi la mia lingua, hai capito che stasera ho riscattato il mondo, e che ricordo a memoria tutte le canzoni sbagliate e nessuna delle poesie giuste, ma tu puoi ridere dei miei tacchi e del disagio che ci raccontano mentre ordino un amaro dopo il vino, e poi incrociamo insieme i bicchieri del secondo, e solo un’oretta e mezza dopo la chiave gira e mi vengono incontro due gatti, che quando aprivo altre serrature non esistevano affatto: mi chiedono indietro la vita che gli ho regalato, e quel libro su cui ho riso, Tiziano Ferro che fingeva di essere etero, la telefonata in cui hanno provato a convincermi che io fossi entrata nella tua vita per volere di una qualche madonna - spazzatura simbolica, è vero, e finalmente mi sono ritirata dopo il passaggio del netturbino. Posso fare il minimo indispensabile nonostante i gatti e l’alcool, essere una pessima madre e andare a letto ancora truccata, mentre risuona il primo “a domani” che non nasconde la paura di non avere più niente da dire.
Tutto questo mentre Valerio non c’era, e non aveva nessuno.
Comunque, per adesso, il tampone è negativo.
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ross-nekochan · 2 years ago
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So due settimane buone che ho il pancino di una incinta da 3 mesi. E vabbè, non ho gli specchi, vado in giro come se non si vedesse e bona.
Mo, questo posto è testimone di tutte le malefatte delle mie ovaie (gli hashtag pure), per cui va raccontata l'ennesima. Perché io mi aspettavo che le stronze si attivassero, come da tradizione, nel giorno del mio compleanno perché così segnava pure l'app.
Inizialmente avrei voluto fare un mini festino, preparare cose e il tiramisù come lo scorso anno, peò ho tipo un limite di socialità e dopo la laurea (in cui so arrivata la sera che veramente non ne potevo più) e Redentore, non c'avevo sbatti di fare un bel cazzo di niente. Per cui è andata a finire che la sera prima sono andata a mangiare una pizza e bere con gente mezza a caso che mi ha cantato tanti auguri alle 00:00.
Le ovaie, non potendo rompere le palle perché in pratica non ho festeggiato, hanno quindi deciso di rimanere sopite. E nel frattempo io continuavo ad avere sto pancino di belzebù, i brufoli e voglia di biscotti 3 volte al giorno. Ma va bene.
Poi decido che sto weekend, dato che ora sono disoccupata e non c'ho un cazzo da fare, volevo andare a Bologna a trovare un compaesano che è da tempo che mi invita.
Dopo sto popò, mi pare inutile stare a dire chi, poche ore fa, ha deciso di fare, come sempre, le rompicoglioni nei momenti meno opportuni di tutti: ebbene sì, LE STRACAZZO DI MALEDETTISSIME OVAIE.
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filorunsultra · 3 years ago
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Blog, film, magazine, podcast
Avevo voglia di scrivere di un po’ di cose, allora le ho messe tutte insieme a caso:
1) Ho trovato un blog sulla storia dell’ultrarunning negli Stati Uniti (https://ultrarunninghistory.com/), è anche un podcast, probabilmente è famosissimo ma io non lo conoscevo. È di un tipo che sta super fuori: si fa chiamare Davy Crockett, non credo che sia il suo vero nome, ma sarebbe divertente. Ma perché non c’è una cosa del genere anche in Italia? Il tipo si è andato a studiare tutta la storia di Rim To Rim e ci ha tirato fuori non so quante ore di registrazione. Mi piacerebbe fare la stessa cosa per Translagorai, cercando le storie dei pastori e di quei disagiati della Guerra (cit.). Sarebbe divertente, poi potrei darla ad Ale o pubblicarla con Polenta Mag.
2) L’altro giorno mi sono riguardato per l’ennesima volta un po’ di cult: Unbreakable, Outside Voices, The Runner in Winter, In the High Country. Ci sono anche un sacco di corti su Krupicka nei tempi d’oro, come quello di Buff su LUT, o su UTMB, o quello con Joe Grant che parla in francese. Trovo i film di oggi sull’ultrarunning meno emozionali: il film di Billy Yang su Krupicka a Leadville non è brutto, ma non mi dice molto; come non mi dice molto Purpose di LaSpo. Mi ha divertito Long Shorts di Salomon su D’Haene e Courtney, e ho trovato molto bello Transamericana, ma emozionante? Mm, non direi. Wolpert aveva un altro spessore. Sarebbe bello che Luca girasse qualcosa sulla scena alternativa in Italia, sarebbe la persona giusta.
3) Sto curando la traduzione di un libro sull’ultrarunning. È scritto in modo piuttosto puerile e sciatto, ma anche in fatto di contenuti è povero. Non capisco perché tutti i libri di ultrarunning siano penosi. Di solito me li dimentico subito dopo averli letti, tanto che le uniche cose di cui ho qualche ricordo sono: Eat&Run, scontatissimo, ma è l’unica cosa passabile sull’argomento - le ricette vegane a fine capitolo potevano davvero non esserci, ma sono così inutili che le trovo divertenti. Il secondo è L’ascesa degli Ultra Runner: buona parte del libro è noiosissima, ma Finn si prende la briga di parlare di tante questioni di questo sport con un taglio giornalistico, è un bel reportage. L’ultimo, anche questo scontato, è Born To Run: sono troppo giovane per esserne rimasto toccato, il che forse mi permette di avere uno sguardo lucido. Al di là del taglio un po’ biblico, è scritto molto bene. Mi piacerebbe leggere qualcosa di nuovo. Forse c’è ma nessuno è interessato a tradurlo.
4) Per quanto riguarda l’editoria, sia digitale che cartacea, la situazione è questa: SpiritoTrail, che dovrebbe un po’ assolvere le funzioni di iRunFar negli States, sta ancora decidendo cosa sarà del suo futuro, penso che abbia molta potenzialità, ma dovrebbe darsi una ripulita soprattutto in termini di chi ci scrive, non se ne può più dell’atteggiamento da pane e salame. Le riviste di settore non esistono, esistono solo riviste di settore outdoor in generale, che spesso parlano di corsa, ma non è la loro naturale vocazione. Hanno molto potenziale, magari espresso bene in altri sport (come il freeride), dovrebbero riuscire a spostarlo sul mondo corsa. E poi ci sono i blog, e in particolare i canali YouTube: non smetterò mai di chiedermi come si riesca a concentrare così tante stronzate e incompetenza tutte insieme. Trovo canali come Sterrato e Personal Running Coach il male assoluto. Le aziende ovviamente ci credono.
5) Finché il pubblico medio è fatto da hashtag come #corrosoloperlamedia dubito che andremo lontano. Ho molta fiducia in ASD come Trailrunning Torino e Gente Fuori Strada; anche se sono troppo organizzati. Ci sarebbe bisogno di più gruppi disorganizzati e non ufficiali, gruppi di amici insomma.
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levysoft · 3 years ago
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Chiedo scusa se scrivo ancora di Taylor Swift, ma quanta determinazione e cocciutaggine ci vogliono per fare quel che fa? Dimenticate per un attimo l’aria da prima della classe che si porta appresso e che magari v’indispettisce. Mettete da parte la vostra stima o dispregio del suo repertorio. Qui si parla di come l’ex fidanzatina d’America sta portando ai massimi livelli dell’aristocrazia pop una battaglia che è assieme economica e di principio. Lo fa per sé, è ovvio. In ballo c’è una montagna di soldi che lei pensa le appartengano e se c’è un punto da segnare non è una che si tira indietro: è una macchina da guerra. In ballo c’è pure l’idea che l’artista debba esercitare il controllo sulle proprie creazioni. E trattandosi di Taylor Swift, questa cosa non può che avere una ricaduta benefica sulla percezione che il pop ha di se stesso.
Già l’idea di reincidere sei vecchi album dalla prima all’ultima canzone, e di farlo nel modo più possibile fedele alle registrazioni originali, ci dice di un’artista incredibilmente risoluta. Chi altri avrebbe voglia di fare una cosa del genere? Voglio dire, va bene ri-registrare uno o due pezzi del proprio repertorio, l’abbiamo visto. A volte vengono prodotti album antologici composti da riletture di vecchie canzoni, ci sta. Ma sei dischi? E con queste modalità, poi, convocando laddove possibile i musicisti che hanno registrato gli originali. Questa riba non l’ha mai fatta nessuno nella storia della musica popolare. Se ci pensate, sembra un’impresa tanto enorme quanto inutile: perché riscrivere il passato se non lo si vuole alterare in qualche modo? Perché questo sforzo gigantesco? Vale la pena?
Swift lo sta facendo con l’obiettivo di mettere fuori gioco i detentori di una porzione importante del suo repertorio. L’idea è venuta dopo che l’etichetta Big Machine, con cui ha firmato giovanissima un contratto discografico, ha venduto i suoi master a società di Scooter Braun che a sua volta li ha ceduti a un gruppo di private equity per 300 milioni di dollari. I master sono passati di mano per ben due volte senza che alla cantante fosse data la reale possibilità di fare un’offerta.
L’idea è quindi produrre nuove versioni invitando i fan ad ascoltare in streaming queste ultime al posto di quelle d’epoca, e intanto spingere chi si occupa di sincronizzazione delle musiche in film, serie e pubblicità a fare uso delle canzoni reincise. La faccenda ha anche un lato diciamo così emotivo che ha a che fare con la necessità da parte degli artisti di sentirsi proprietari del proprio lavoro. Non a caso, che si tratti di album o canzoni, tutte le nuove versioni hanno come sottotitolo Taylor’s Version. Come se le precedenti non fossero anch’esse versioni di Taylor. Come se il mancato possesso dei master originali non avesse solo depauperato l’artista, ma l’avesse alienata dal suo stesso lavoro. «È la mia unica possibilità di riguadagnare un senso d’orgoglio quando sento le canzoni dei miei primi sei album e di permettere ai miei fan di ascoltarli senza sentirsi in colpa perché, facendolo, stanno dando dei soldi a Scooter», ha scritto Swift un anno fa. Per dirla in termini faustiani, Taylor si sta ricomprando l’anima, una canzone alla volta.
E così nell’aprile 2021 è uscita la prima “versione di Taylor” formato album, ovvero Fearless del 2008 rifatto dalla prima all’ultima canzone, con l’aggiunta di un’ampia varietà di bonus track, uno schema che a quanto pare verrà ripetuto per i dischi successivi. In giugno la cantante ha annunciato l’uscita il 19 novembre di una Taylor’s Version persino più importante, ovvero quella dell’album Red. Poi nel corso della scorsa settimana è successa una cosa inattesa.
È una storia che ha a che fare con l’economia digitale della musica. Spiazzando chi si aspettava l’uscita di un singolo tratto da Red (Taylor’s Version), venerdì la pop star ha pubblicato Wildest Dreams (Taylor’s Version), non una canzone tratta da Red, ma dall’album 1989. Il tutto accompagnato da un tweet molto semplice: «Ciao! Siccome ho visto che Wildest Dreams è in trend su TikTok, ho pensato che dovreste avere la mia versione».
La versione originale del 2014 di Wildest Dreams si è infatti diffusa molto velocemente su TikTok come colonna sonora della prova di una nuova funzione della app chiamata #slowzoom, un hashtag che raccoglie video con oltre 300 milioni di visualizzazioni. Un fenomeno del genere finisce per influenzare gli ascolti sulle piattaforme di streaming: la gente sente pochi secondi del pezzo su TikTok e va ad ascoltarlo altrove. E difatti secondo i dati raccolti da Variety, tra mercoledì 15 e giovedì 16 settembre la vecchia Wildest Dreams totalizzava qualcosa come 750 mila ascolti al giorno.
Una tale mole di stream significa introiti per gli aventi diritto, ovvero la stessa Swift, ma anche chi possiede i master. In altre parole, i “nemici” della cantante. La pubblicazione di Wildest Dreams (Taylor’s Version) accompagnata dalla raccomandazione di usare la nuova versione è la contromossa di Swift ed esce dai piani promozionali conosciuti per segnare il punto. Nel giro di poche ore, la nuova versione ha superato i due milioni di ascolti solo su Spotify. Mentre scrivo ne ha sei milioni e mezzo.
Taylor Swift non è certo la prima artista a ingaggiare una lotta con un’etichetta discografica o un altro attore del sistema. A fine anni ’80, all’interno di una più ampia battaglia sulla proprietà della sua musica, John Fogerty (Creedence Clearwater Revival) si trovò nella situazione paradossale di essere accusato di plagio di una sua stessa canzone. Prince ha lottato contro la Warner per la proprietà dei master degli album. Per restare in ambito country-pop, le Chicks (ex Dixie Chicks) hanno accusato la Sony di «ladrocinio sistematico», uscendone più ricche di 20 milioni di dollari. Solo solo tre esempi. Oggi la battaglia non si svolge più solo nelle aule di tribunale o sui giornali, ma nell’arena digitale. E anche lì Taylor Swift ha dimostrato d’essere una che non arretra di un centimetro.
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lamomodicecose · 4 years ago
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E’ questione di dimostrare
Buon pomeriggio a tutti!
Siete contenti che siamo in zona rossa eh, ditemi la verità!
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Un po’ di DAD di quà, un po’ di profumo di quarantena di là, un pizzico di rosso peperoncino che ci da il tocco giusto al mix insalatissime del cazzo da gustarci oggi in questo giovedì che sembra sia invece solo martedì.
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Cazzo, sono sincera e lo voglio urlare: NON MI SOPPORTO PIù.
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Sì non sopporto più me stessa, lo specchio, i miei impacchi anticellulite, impacchi per i piedi, maschee per il viso che ormai è martoriato dall’ansia di DAD per bambini della scuola dell’infanzia, e con qualche accenno di ruga e brufoletti da stress per risolvere problemi intorno a me e vicinissimi a me... persone addosso e persone che sono distantissime e insomma...non so più sopportare nulla.
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E poi come faccio se non mi sopporto più?
Per non parlare della creatività illustrativa che manco si manifesta in questo periodo, ci mancherebbe, come per dimostrarmi che alla fine non sono più capace di fare un cazzo, dopo un anno di “Stiamo in casa” e “Andrà tutto bene!”. Un ebete. Sono diventata una bellissima ebetina domestica.
Potrei metterlo sul curriculum.
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Ad ogni modo, tra un caffè e mille pensieri che mi prendono ogni giorno come se fossi un boomerang c’è una parola tra tante che mi martella nella testa proprio oggi.
Ci sono stati tanti momenti che ho sempre fatto cose, sbrigato faccende, eseguito comandi, mi son mossa come una pedina di una scacchiera (sempre come un ebete, ricordatevelo!).
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In fondo siamo tutti pedine che si muovono per cercare di fare scacco matto...
ma scacco matto a chi? Di cosa? Perchè?
Eppure sento in voi una grande vogliad i dimostrare che avete il mondo in pugno. Cazzo vi voglio abbracciare.
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Ah no, non si può, solo gomitino! Scusate. Statemi lontani 1 metro. Ma facciamo anche 2...facciamo che vi levate dalle palle.
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Vorrei davvero oggi parlare della parola che vi dicevo prima che tanto mi da un nervoso incredibile: dimostrare.
Vediamo cosa dice il dizionario:
“Rendere evidente con fatti o prove certe, confermareEsprimere in modo chiaro e inequivocabile (spec. riferito a sentimenti, stati d'animo, ecc.); manifestare; Fare una dimostrazione pubblica, manifestare, protestare; Rivelarsi mostrando le proprie qualità buone o cattive, i propri sentimenti; Risultare, svelarsi. “
Ok, e fin quì forse lo immaginavamo. E’ una sorta di mi tiro fuori, mi spoglio, faccio l’esibizionista e corro nuda per strada...
no, forse quello ancora no. Ma ci siamo intesi.
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Dimostrare che siamo persone fuori dagli schemi, dimostrare che siamo persone che se diciamo una cosa la facciamo anche a costo di risultaer ridicoli, dimostrare che siamo più bravi con le parole di altri, dimostrare che mastichiamo filosofia con un selfie, dimotrare che siamo belli e impossibili, dimostrare che stravolgiamoci per stravolgere è l’unica via, dimostrare il dimostrabile già dimostrato. Dimostrare che sorridere e basta perchè tutto si risolve con uno big smile hello world hashtag felicità forever è l’unica via sennò eh insomma, dai , non mi sorridi, cos’è quella faccia lì da ebete eh?
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Ma chiedo per un amico: a chi lo dovete dimostrare? Vi pagano?
Io vi ammiro quando fate tutto questo, perchè ne siete capaci e lo imparate ad una velocità che nemmeno un master appena preso.
Vi ammiro molto...ma vi faccio una proposta alternativa, dato che amate dimostrare...
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Non dimostriamo un cazzo. Per un giorno.
Dimostriamo che non dimostriamo.
Che non ne abbiamo voglia, che non ci interessa niente e nessuno.
Cambiamo un po’.
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Non dimostriamo nulla.
Anche questa è una questione di dimostrare.
Secondo me ci si sente più leggeri.
altrochè dieta.
Anzi, ora che ci penso mi è veuta un po’ fame.
Vado a mangiarmi due lamponi, e dimostro al mio stomaco quanto sono buoni!
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soldan56 · 5 years ago
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Il giorno dopo la sconfitta del Corona Virus sapremo se ci siamo semplicemente arresi alla proposta di una versione totalizzante della realtà o se il senso di Comunità è stato veramente così forte da sopravvivere all’emergenza. Perché, parliamoci chiaro, quando pensiamo che l’emergenza sia transitoria è facile essere ligi, collaborativi e corali. Se ci passa per la testa l’incertezza della soluzione saccheggiamo i supermercati con un filo di gas.
Dunque, se accettate un consiglio vuoto a perdere, gli arcobaleni fateli per i bambini, addolciscono la quarantena a cui, in fin dei conti, ha collaborato la nostra supponenza. Mollate ‘sti hashtag un po’ narcisisti con cui facciamo vedere quanto siamo bravi a ubbidire e partoritene altri che stimolino un cambiamento utile (che poi pure ‘sta parola me l’hanno fatta diventare inutile a forza di cacciarla in ogni slogan). Basta fare la guardia delle passeggiate degli altri dal balcone e cominciate a pretendere il Progresso che, per dirla con Pasolini, è una cosa totalmente diversa dallo sviluppo. Il Progresso si occupa di Felicità. Si occupa delle Malattia, della Fame, della Povertà, dell’Inclusione, della Solidarietà.
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lamilanomagazine · 2 years ago
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Cremona, "Travel Hashtag": dopo Londra rotta su Cremona per l'edizione italiana 2023
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Cremona, "Travel Hashtag": dopo Londra rotta su Cremona per l'edizione italiana 2023. Travel Hashtag, l’evento-conferenza itinerante nato nel 2019 per approfondire gli scenari che si delineeranno nel prossimo futuro relativamente all’industria del turismo, ha scelto Cremona per una decima edizione interamente dedicata al turismo culturale, tra tradizione, innovazione e sostenibilità. "Dopo la recentissima ed entusiasmante tappa di Londra, durante la quale abbiamo promosso l’Italia al trade londinese, torniamo nel Belpaese con un’edizione diversa dalle precedenti, ma come sempre ricca di temi e relatori di primo piano. – spiega Nicola Romanelli, fondatore e presidente di Travel Hashtag – ”Per la prima volta la location del nostro format non sarà un hotel o resort, bensì una città che aprirà le porte di alcuni dei suoi luoghi più rappresentativi”. La prima giornata, quella di martedì 21 marzo, dal titolo Turismo Culturale, tra tradizione, innovazione e sostenibilità, si aprirà con una conferenza presentata da Zaira Magliozzi, che vedrà la partecipazione, tra gli altri, di Ivana Jelinic (Enit), Gianluca Galimberti (Sindaco di Cremona), Virginia Villa (Museo del Violino), Leonardo Cesarini (TRENORD), Giorgio Palmucci (TH Resorts e AICA), Simona Tedesco (DOVE), Massimiliano Zanardi (Marzocco Group). Nel pomeriggio, 2 talk. Il primo: “Quale ospitalità per le città d’arte e cultura?”, animato da Davide Scarantino (Italianway), Michele Ridolfo (AIGAB), Alessandro Callari (Booking.com), Giorgio Palmucci (TH Resorts e AICA) e Sauro Mariani (Hospitality Advisor). Il secondo “Turismo accessibile: il progresso è inclusivo” con gli interventi di Valentina Tomirotti (giornalista), William Del Negro (Willeasy), Marta Grelli (Travelin), Lisa Noja (ex senatrice, da poco eletta nel consiglio regionale della Lombardia), Luigi Passetto (Anglat) e Rosita Viola (Assessore alle Politiche Sociali del Comune di Cremona). Focus del secondo giorno, invece, il talk “Una nuova cultura per la valorizzazione del territorio”. Tra i relatori, Roberta Garibaldi (OCSE), Antonio Nicoletti (Apt Basilicata), Davide Cassani (Apt Emilia-Romagna), Giancarlo Dall’Orco (esperto e docente di destination management), Leonardo Cesarini (TRENORD – Gite in Treno), Zaira Magliozzi (Art & Travel storyteller e content creator) e Barbara Manfredini (Assessore al Turismo di Cremona). Per il Sindaco di Cremona Gianluca Galimberti e l’Assessore al Turismo Barbara Manfredini “Travel Hashtag è il partner e il format ideale per raccontare la nostra splendida città in maniera differente, aprendoci al turismo di domani con entusiasmo e voglia di conoscere trend e visioni di un settore meraviglioso e in continua evoluzione. Cremona, con l’Auditorium G. Arvedi del Museo del Violino e Palazzo Trecchi, sarà la cornice ideale per la decima edizione di un evento unico nel panorama del turismo internazionale come Travel Hashtag”.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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libero-de-mente · 5 years ago
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DIARIO DI UNA QUARANTENA
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• GIORNO 6
Il campionato sospeso.
La notizia ufficiale è arrivata, con disperazione di buona parte dei calciofili che speravano nelle partite televisive per rendere meno pesante la quarantena, il campionato di serie A è sospeso.
Come se non bastasse l’emergenza ci ha privato anche della Formula 1, del basket, della boxe, del ciclismo, della corsa di tartarughe e di qualsiasi altra disciplina sportiva immaginabile. Una tragedia nella tragedia.
Torniamo alla disciplina calcistica, il tam tam nella chat di condominio è diventato il trend topic, uno dei momenti per superare la reclusione casalinga grazie al campionato di calcio, delle coppe europee viene inesorabilmente a mancare.
Gli hashtag #comecazzofacciamo, #ilcalciononsitocca, #mitoccaascoltaremiamoglie o #senzacalciomuoio sono diventati virali.
L’ingegno dell’uomo però esce proprio quando egli è messo con le spalle al muro. Così Simeone Pedone caposcala della scala A lancia la sfida a Calogero Brocchetti suo pari grado della scala B: una sfida di calcetto a cinque in cui i due capi scala saranno gli allenatori.
Inutile dire che il Brocchetti, che vanta nella sua gioventù quattro presenze nella prima squadra della A.S. Oreta nella stagione ’76-’77, non sé l’è fatto ripetere due volte: Sfida accettata. Del resto il Pedone è da sempre il suo rivale, oriundo spagnolo Pedone è stato centravanti nella stagione ’72-’73 nella prima squadra spagnola del Deportivo La Carogna.
Il campo per la sfida è il cortile retrostante il condominio, lo spazio dove ci sono gli ingressi dei garage, il locale immondizia e la sala condominiale. Su questo cortile asfaltato si affacciano finestre e balconi delle camere da letto e dei bagni.
Per rispettare le regole imposte dal Dcpm i giocatori indosseranno sopra le rispettive divise delle sagome circolari di cartone preparate dalle sapienti mani delle loro mogli e dei rispettivi figli, riciclando dal locale immondizia i cartoni delle pizze a domicilio, delle scatole varie dei pacchi consegnati a casa ai compulsivi degli acquisti online. Da noi è forte la concorrenza del colosso Priapon che vende di tutto.
Le sagome circolari del raggio di cinquanta centimetri, che sommati alla stessa misura di un altro cerchio fanno giusto un metro, gira intorno alla vita dei calciatori e si sostiene con due corde elastiche porta pacchi che s’incrociano come due bretelle.
Visti dall’alto i giocatori sembrano dervisci roteanti che girano su se stessi. Le regole sono state cambiate di comune accordo tra gli sfidanti per rispettare il Dcpm (Domani Chiunque Può Morire), niente contatti fisici. Le intenzioni di un’azione devono essere espresse verbalmente come ad esempio: “Tackle da dietro”, “Tunnel”, “Ti ho stoppato”, “Ti ho rubato il tempo”, “Colpo di tacco” e via dicendo.
L’arbitro sarà il signor Frederick Fydriszewski, polacco che abita in Italia da trent’anni, nessuno lo vuole in squadra perché ora che lo chiami per farti passare la palla l’azione è finita. Quindi gli permettono di fare l’arbitro con il soprannome di El Polaco. Pare che sia stato proprio Pedone a soprannominarlo così alla spagnola.
Oltre ai due guardalinee abbiamo il VAR, diretto da Filippo Lupini il nerd (vedi ep. 3 ndr) che con una Go-Pro segue le azione in tempo reale collegandola al suo PC portatile dove può rivedere le azioni.
Il tifo è caldo, tre quarti della palazzina è affacciata a finestre e balconi incitando ognuno la propria squadra di scala. Tra gli spettatori noto che c’è anche il Maestro Osvaldo Lastono, per me è starno vederlo interessato al gioco del calcio. Il Maestro Lastono, che ha l’aspetto di Giuseppe Verdi nel vederlo con barba e capelli bianchi, fu Direttore Musicale del monumentale Teatro cittadino La Chiocciola nel lontano 1971.
La partita ha inizio tra le grida assordanti delle due ali del condominio che delimitano lo spazio del cortiletto, dal mio balcone mi sembra di osservare dei ragazzi che giocano ai dischi volanti, la palla non la vedi perché i piedi sono coperti dalla circonferenza di cartone. Durante le mischie, anche quelle più accese, i giocatori rispettano il Dcpm e quando gli animi si scaldano mimano la testata o la manata, oppure il calcetto provocatore e dall’altra parte l’avversario di turno urla fingendo di essere stato colpito, portandosi le mani al volto o sulla caviglia.
Sembra tutto surreale, sembra un gioco di mimi. Presto le urla d’incitamento si trasformano in risate oppure in mutismi di chi rimane deluso dell’evolversi delle azioni. Così finte. Anche dopo un gol i giocatori esultano facendo finta di saltare abbracciati, in realtà tengono le braccia a forma di cerchio davanti a loro e saltano da soli. La partita finisce otto a sei per la scala B. 
L’unico ad aver applaudito sincero alla fine della partita è stato il Maestro Lastono, che complimentandosi ha detto che era dai tempi dei balletti al Teatro La Chiocciola che non vedeva delle pose di chassé, attitude, en dehors, allongé, brisé e una meravigliosa entrechat royal simile a quella de le ballet de la nuit eseguito come se fosse Nureyev, forse si riferiva all’entrata in sforbiciata con cui un giocatore della scala B ha segnato un magnifico gol, ma nessuno ha osato contraddirlo visto che lacrimava dalla gioia.
Ci sarà di sicuro una rivincita, magari quando il Dcpm ce lo permetterà, perché cosi con i dischi di cartone non ci si può abbracciare ed è importante potersi abbracciare. Ce ne stiamo accorgendo ora che non possiamo farlo. 
Mi chiamo Juri Quarantino e questo è il mio diario di quarantena.
Pagina 6 (to be continued)
- @libero-de-mente​
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daniinreallife · 4 years ago
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Crescita Personale
Sono molto indecisa se scrivere in italiano o in inglese. Quest’ultimo renderebbe i miei post accessibili e comprensibili da più persone, ma l’italiano è la mia lingua madre e le cose che ho intenzione di scrivere qui saranno piuttosto personali. Non scrivo su una piattaforma che non sia il mio diario o la mia agenda da anni. E anche lì tendo a scrivere in inglese, quindi questa cosa dell’esprimermi in italiano mi sta venendo un po’ strana. Questo post sta già andando in una direzione diversa da quella che volevo e ho appena iniziato, ma va bene così. Farò un punto della situazione generale per fini di contestualizzazione.
Da qualche settimana sto cercando di migliorare la mia vita. La quarantena e la situazione generale causata dal COVID-19 mi ha permesso di dedicare del tempo a me stessa, la persona con cui paradossalmente ho passato meno tempo da quando ci siamo affacciati al nuovo decennio. Con “dedicare tempo a me stessa” intendo che ho passato le prime tre/quattro settimane di quarantena a marzo guardando film, serie tv, mangiando il mondo e studicchiando. La cosa più sana che facevo per la mia persona era una doccia ogni tanto. E mi pesava anche. Non ero depressa, non lo sono (credo), sono solo estremamente pigra. Il non dover soddisfare nessuna aspettativa sociale mi aveva dato una libertà di cui ho abusato. Non dover organizzare gli impegni in base ai lavaggi di capelli, non doversi truccare o fare la ceretta, non dover far parte di situazioni mondane di scarsa importanza mi aveva reso una persona serena e libera. Libera di fare schifo. In quelle prime settimane devo essere ingrassata di almeno 4 chili, devo aver cresciuto metri e metri di peli e devo aver bruciato centinaia di neuroni appresso a film che ho già visto 5 o 6 volte.
Mi sono anche data allo shopping online che, sempre paradossalmente, è stato ciò che mi ha destato dall’ingiustificato ma prevedibilissimo letargo. Anzichè ordinare vestiti o superflui accessori da casa (nonostante la tentazione fosse forte), ho ordinato libri. Tenendo conto che non leggo forse dalle scuole medie, ho pensato bene di acquistare 8 libri al primo colpo, in preda ad un irrefrenabile impulso di migliorare la mia vita. Sette di questi sono libri di self-help, di crescita personale (l’ottavo è Profumo di Suskind, un romanzo che ho sempre voluto leggere). Sarà per il loro vivace tono, per i loro concetti motivazionali o la loro organizzazione step by step, ma dal 4 maggio ho letto 3 dei suddetti libri, e ci ho pure preso appunti. Non deve essere un grande numero per i lettori accaniti là fuori, ma per una ventunenne estremamente fuori forma è stato un bel traguardo. 
E’ raro che io mi guardi allo specchio e mi faccia schifo, sono generalmente soddisfatta della mia persona attuale, ma in quei giorni non importa quante frasi motivazionali leggessi, mi facevo comunque pena. Vedevo i chili in più, le occhiaie da orologio biologico completamente sballato, i capelli spenti e senza forma; la quarantena era riuscita a scalfire anche il mio spirito e la mia abilità di tirarmi su il morale, caratteristiche di cui vado molto fiera.
Insomma, dal 4 maggio ho deciso che avrei cambiato vita. Dalla camera del mio appartamento a Roma ho iniziato ad usare la scheda di allenamento settimanale che il mio amico culturista ha fatto per me (il 23 marzo...), ho dato i miei esami universitari, ho iniziato a leggere e ad implementare nuove, sane abitudini, cercando di abbandonarne altre meno sane. Nonostante la mia passione per le soddisfazioni immediate, il non vedere risultati dopo due giorni non mi ha fermato. Mi ritrovo oggi, nella casa della mia città natale, ancora a sfruttare ogni minuto per migliorarmi fisicamente o mentalmente. Da tre settimane seguo gli allenamenti senza eccezioni, continuo a leggere, a studiare per me stessa, ad implementare nuove abitudini. Sto bevendo più di 2 litri d’acqua al giorno! Non lo credevo possibile. Passo tre quarti delle mie giornate a fare pipì, ma dato che sono ancora in quarantena mentre il resto d’Italia è autorizzato ad uscire, la cosa non mi pesa molto. 
Sì, spostandomi dal Lazio alla mia regione di residenza sono dovuta restare chiusa in casa per due settimane, che scadranno questo mercoledì. Sono contenta, sto iniziando ad avvertire il peso di un lockdown durato più di quello delle altre persone, ma allo stesso tempo sono contenta di come ho sfruttato il tempo passato in casa. Ho fatto le mie cazzate, ho bruciato due mesi (marzo e aprile) che avrebbero potuto fare la differenza nel mio percorso di miglioramento personale. Ma quel che è fatto è fatto; ho iniziato in ritardo, questo vuol dire che dovrò lavorare di più per ottenere i miei risultati, ma la cosa non mi pesa. Mi sento mossa da una motivazione che ho avuto poche volte nella vita, ma che spero duri il più a lungo possibile. 
La questione ora è: perchè sto scrivendo tutta questa roba in un post su Tumblr? Prima di tutto, la scelta di piattaforma non è casuale, ma è stata alquanto necessaria: conosco e uso Tumblr da anni e so come funziona. Inoltre, creare un blog su Wordpress mi avrebbe tolto troppo tempo perchè sono una perfezionista che vuole avere la grafica e il layout perfetti prima di poter pubblicare cose. Non so perchè, ma se uso Tumblr non è così. 
Secondo di tutto, l’unica delle nuove buone abitudini che non ho ancora messo in pratica è quella di scrivere il più possibile. E non scrivere ciò che mi sta succedendo o cosa ho mangiato ieri sera, ma scrivere i miei pensieri, le mie riflessioni, i miei sentimenti. Scrivere è stata una delle mie più grandi passioni da quando ho memoria. Ricordo che a stento andavo alle elementari, e già giocavo sul vecchio catorcio che chiamavamo computer inventando e scrivendo storie su Word. Raccontavo le avventure di una bambina come me (la chiamavo sempre Stellina, un nome da incubo a ripensarci), che andava in vacanza con la famiglia e scopriva mondi incantati. Le mie storie non duravano mai più di una pagina, ma io smanettavo con le cornici, con il font e il colore del testo e chiedevo a mio padre di stamparle. Poi le leggevo alla mia famiglia e chiedevo di conservarle. Era il mio passatempo preferito insieme alle Barbie. Anche quelle simboleggiavano un insito bisogno di creare storie, mondi nuovi e fantastici in cui immergermi. Con gli anni la magia è andata svanendo, ai temi d’italiano delle medie davo il meglio di me, portavo a casa innumerevoli 10 e pensavo di essere destinata a fare la scrittrice. Poi è arrivato il liceo, che ha infranto tutti i miei sogni e mi ha fatto smettere di leggere, di scrivere, di voler creare. Ai temi di italiano vedevo raramente un 7. La mia professoressa era un demonio, la incolpo parzialmente per aver rovinato le mie passioni. Il resto della colpa è mia; mi sono lasciata andare alla pigrizia, ho trascurato tante cose e ho coltivato solo più pigrizia, che poi mi ha portato a tante tante esperienze che sarebbero potute andare meglio. Forse un giorno scriverò di esse. 
Per adesso, voglio solo scrivere quello che mi capita, ciò che sento il bisogno di buttare giù, le lezioni che imparo vivendo. E nonostante questo post sia ciò che di più lontano esiste dalla mia idea originaria, ho imparato che la chiave per fare cose che sembrano impegnative, che sia allenarsi, imparare a cucinare, a parlare una lingua, o a scrivere romanzi, è semplicemente di iniziare. Iniziare senza troppi fronzoli o pretese. Quando il 4 maggio ho capito che dovevo iniziare ad allenarmi, ho iniziando mettendomi un paio di leggings e un reggiseno sportivo. Poi ho messo le scarpe, e lì non c’era molto altro che potessi fare. Una volta vestita ho iniziato, ed è stata dura. Davvero dura e uno spettacolo pietoso. Non ho neanche finito il circuito di esercizi perchè sentivo di stare per andare in arresto cardiaco. Ad oggi, tre settimane dopo, a fine allenamento contemplo la possibilità di fare un set in più rispetto ai quattro previsti. Il mio corpo si sta adattando alla nuova abitudine di allenarsi assiduamente. Ora devo solo abituare le mie dita a scrivere di nuovo, e la mia mente a riversarsi su questa pagina bianca. Per questo tengo questo post, lo pubblico e ci aggiungo pure qualche hashtag. Avevo tante cose su cui volevo scrivere, tante lezioni che ho imparato e che voglio diffondere, o semplicemente scrivere per tenerle a mente. E lo farò. C’è tanto che mi frulla in testa ultimamente, e sento già le mie mani muoversi da sole sulla tastiera. Riuscirà la nostra eroina ad implementare un’altra nuova, buona abitudine nel suo processo di crescita personale?
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Oh, un’ultima cosa, se qualcuno sta davvero leggendo i miei soliloqui: la pandemia che stiamo vivendo tutti nel mondo è stata dura (e lo è ancora) sulla maggior parte delle persone, ma molto più dura su alcune di esse. Qualcuno è stato costretto a restare chiuso in casa con una famiglia tossica, con qualcuno di non desiderabile o violento per settimane e settimane. Qualcuno con disturbi quali ansia e depressione, che già di per sè portano ad un’alienazione dalla sfera sociale, non è potuto uscire o vedere persone neanche le poche volte in cui ne ha avuto voglia. La mancanza di interazioni, di luce del sole, di vento sulle guance è stata deleterea su questi individui e molti altri in condizioni simili o peggiori. Io sono stata fortunata abbastanza da avere la voglia e la possibilità di provare a migliorare la mia vita, ma non tutti possono o ci riescono. 
La morale di questa postilla è che va bene se hai passato questa quarantena nel letto, a guardare film e serie tv, a mangiare popcorn per cena e a sentirti perso e triste. Non sentirti in colpa se è così. Nessuno ti obbliga a passare il tempo in più che sei stato obbligato ad avere facendo cose produttive. Il nostro cervello è meraviglioso, ma a volte anche lui ha delle difficoltà. Non devi soddisfare le aspettative di nessuno, non devi cercare di essere come l’influencer photoshoppata che passa la quarantena ad allenare il suo bel culo nella sua bella palestra personale. Nessuno ha scelto la quarantena, nessuno ha scelto la pandemia e nessuno ha scelto la propria condizione mentale. Quindi, nessuno può scegliere cosa è giusto che tu faccia. Trova i tuoi tempi, i tuoi ritmi, muoviti quando e se lo decidi tu. Sii paziente con te stesso, sii buono e perdònati. Passerà anche questa.
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3nding · 5 years ago
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La bravura di Salvini sta tutta nell’uso sapiente dei social network. Ed è solo dopo aver capito questo che possiamo arginare il salvinismo.
La mossa della sfiducia al governo, un vero e proprio tutorial su come commettere un suicidio politico, dimostra tutta la sopravvalutazione del Salvini politico e delle sue capacità. Le due ore trascorse tra quei banchi del Senato ieri, dove ha fatto la più grande figura di mer*a mai consumata in quell’aula, in diretta TV e a reti unificate, hanno messo in luce tutta la sua inettitudine e imbarazzante goffaggine con il mondo reale.
Insomma, nella vita di tutti i giorni, parliamo di uno che o sta imparando come si beve il caffè, oppure è costretto a usare due mani per bere, per evitarne il tremolio di fronte a un indimenticabile bagno di realtà.
☕️☕️Sapete cos’ha fatto Salvini appena ha finito il suo discorso? Senza ascoltare gli altri interventi, è corso nel suo ufficio, ha acceso il telefonino, in crisi di astinenza da like, nella comfort zone dei suoi seguaci, a contarsi i cuoricini come un adolescente insicuro. E a raccontare il contrario di tutto.☕️☕️
Senza i social network, senza gli enormi investimenti della Lega sulla comunicazione, Salvini a quest’ora sarebbe al massimo capo del gabinetto del Papeete, manco il Dj gli farebbero fare. Ma vedete, io sono sicuro che qualcuno starà già storcendo il naso di fronte ad un’analisi così superficiale e che dà così tanta importanza al potere della propaganda. Sappiate che sono d’accordo, il problema non è Salvini, ma chi vota per lui.
Però il problema è proprio questo, credere che si possa tornare indietro. C’è un’illusione diffusa che d’improvviso questo Paese tornerà alle librerie piene e alla gente che si incontra nelle piazze per socializzare e scambiarsi il pensiero. C’è una nostalgia per un mondo che non esiste più da almeno 30 anni, per delle pratiche che purtroppo non funzionano più da almeno 10 anni, per Aldo Moro che va in spiaggia con la giacca e i pantaloni. Quando ci decidiamo a voltare pagina e ad accettare che l’Italia è cambiata e nel frattempo è diventata prima in Europa per ignoranza dei suoi abitanti?
In quanti saremo rimasti a leggere questo post, siamo sinceri. I soliti diligenti lettori attenti che non si spaventano di fronte a un “muro di parole”. Ma siamo la minoranza, e prima lo capiamo e meglio è, perché altrimenti ci ritroviamo il fascismo in casa mentre approfondiamo la prefazione de “La Missione del Dotto” di Fichte, senza sapere neanche il perché.
In queste settimane, con un gruppo di amici, ci siamo “divertiti” a giocare con le uniche armi che funzionano quassù: gli slogan. So che è difficile a credersi, ma migliaia di persone che come noi sono contro Salvini, hanno cominciato a condividere quegli slogan, come se non aspettassero altro che dei contenuti semplici da condividere o anche solo qualcosa per ribattere ai leghisti. Con #parlacideirubli abbiamo fatto irruzione in un campo dove funzionano gli hashtag e non i ragionamenti complessi, un campo dove la sinistra è sostanzialmente assente. Parliamo tra di noi, ci trastulliamo con le nostre analisi fatte di migliaia di parole, facciamo la gara a chi declina meglio il pensiero più a sinistra di tutti, abbiamo spesso paura di sembrare banali e superficiali e ci scordiamo di fare i conti con uno strumento che ti consente di battere un corteo di migliaia di persone con un hashtag qualunque, uno a caso, parleteci di Bibbiano.
Ma non vi turba il pensiero che milioni di persone siano sotto scacco di Salvini con una notizia di cronaca alterata, trasfigurata e convertita in fake news?
Dobbiamo decidere se continuare a perdere nell’illusione di riuscire a battere l'algoritmo di Facebook.
Chiunque abbia in mente di veicolare dei messaggi di sinistra quassù, deve imparare a semplificare, riassumere (io per primo), anche se questo ci fa ribrezzo e suona come una resa. A mio modestissimo parere è l’unico modo per riconquistare le masse e riempire nuovamente le nostre file, magari nel tempo riuscire a priorizzare l’agenda politica, magari un giorno far eleggere qualche nostro rappresentante e provare a cambiare il Paese con una consapevolezza diffusa dell’idea di come vorremmo che fosse. E continuare ovviamente a batterci affinché si eliminino quelle differenze sociali che giocano sempre a favore di chi capitalizza il malcontento sociale: chi sta male, non può prendersela con chi sta peggio. È una semplificazione, ma sticazzi.
Per farlo non dovremmo neanche mentire come fa la destra, non dovremmo neanche giocare con le fake news, come ha fatto e fa il Ministro degli int… ah no, scusate, l’ex Ministro degli interni. - Luca Delgado
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miriskussnika · 5 years ago
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“Come stai?”
In questo strano periodo, è praticamente impossibile sfuggire al COVID-19. Il COVID-19 è un buco nero di testate giornalistiche surreali, numeri di morti e infetti che lievitano a vista d’occhio, foto di personale medico esausto e video toccanti.  All’inizio era lontano millemila miglia, in Cina, lo osservavamo con sospetto, ma così come si osserva un’eclissi parziale di sole: un fenomeno strano, che ci oscura un po’ la giornata, ma non ha nessun effetto su di noi. Poi si è spostato più vicino a noi.
Anche se non vivo in Italia, l’ho vissuto comunque dal primo momento da italiana - nei racconti e nelle notizie, ma soprattutto nella preoccupazione per i miei cari. Anche se non vivo in Italia, sono in auto-quarantena da quando la quarantena è stata dichiarata obbligatoria in tutta Italia. Mio malgrado, passo ormai quasi tutto il giorno incollata allo schermo: per informarmi, per lavorare, per ammazzare il tempo.
E, mio malgrado, osservo come gli altri stanno gestendo la situazione.  Ovvero: reinventando la propria routine e adattandola al nuovo contesto senza apparente sforzo, con ottimismo e regole di self-care diligentemente auto-imposte e rispettate. Tutti a fare chiamate video e non a qualsiasi ora per socializzare, a condividere meme divertenti a raffica, a scrivere post motivazionali pieni di gratitduine, a inventarsi hashtag positivi, a fare attività fisica in casa. 
In Italia, gente che addirittura canta e balla sui balconi.
Tutto bellissimo. 
Dico davvero, non c’è ironia nelle mie parole. Non faccio altro che chiedermi dove prendano la forza e perchè io non riesca a trovare la mia. Sono io ad essere troppo pessimista? Sono loro ad essere troppo ingenui?
Perchè, come sto, mi chiedete?
Mah, così: Apro gli occhi al mattino e mi sento travolta e senza spearanza.  Vado a dormire la sera sentendomi sola e delusa, pregando (inutilmente) di svegliarmi più motivata e cazzuta il giorno dopo.
Non riesco a mantenere costanza in nessuna self-care routine, a stento mi alzo dalla scrivania per pranzare. Non partecipo a sessioni di ginnastica in streaming e decisamente non sto facendo alcuno sforzo per mantenermi in forma. In verità, sposto il culo dalla sedia al divano e viceversa tutto il giorno, tutti i giorni. 
Non mi va di usare il tempo libero per provare nuove ricette, imparare a lavorare all’uncinetto nè imparare a fare la pizza.
Vorrei, ma non ho la forza di pulire e sistemare casa o di rimettere in ordine gli armadi guardando Marie Kondo.
Non ho assolutamente voglia di chattare tutto il tempo con nessuno nè di chiamare o tanto meno di videochiamare nessuno.
Tutte cose che normalmente sono ispirata a fare, ndr.
Al lavoro, faccio quello che mi sembra essere molto meno del minimo indispensabile e ho serie difficoltà a concentrarmi.
A stento mi preparo il pranzo o la cena, e decisamente non entrambi.  Mi nutro per lo più di fette di pane tostato col burro e pasta col tonno. I biscotti che dovevano durarmi per tutta la quarantena sono già un lontano ricordo.
Ho crisi esistenziali ed epistemologiche ogni 15-20 minuti, con domande che spaziano dal “Perchè esistiamo?” al “Com’è possibile che non sappiamo affrontare una pandemia nel 2020?”, passando per il “Ma quindi a cosa serve lavorare 40 ore a settimana, se tanto basta un virus di merda a mettere tutto in pericolo?” e l’ancor più classico “Morirò sola”.
Sono consapevole che ci sono persone che soffrono davvero durante questa epidemia e a queste persone va il mio più assoluto rispetto.
Avevo solo davvero bisogno di scrivere da qualche parte che sì, forse andrà anche tutto bene, ma ora come ora, io ho davvero difficoltà ad andare avanti e vorrei non sentirmi “anormale” nel dirlo.
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