#giovani scomparsi
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pier-carlo-universe · 1 month ago
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Il codice delle ossa di Kathy Reichs: un thriller avvincente tra scienza forense e intrighi internazionali. Recensione di Alessandria today
Temperance Brennan torna con una nuova indagine tra Montréal e i Caraibi, affrontando segreti letali.
Temperance Brennan torna con una nuova indagine tra Montréal e i Caraibi, affrontando segreti letali. Alessandria, 15 dicembre 2024 – Kathy Reichs, autrice bestseller e madre della celebre Temperance Brennan, torna con “Il codice delle ossa”, un thriller mozzafiato che unisce scienza forense, mistero e azione. Questo nuovo capitolo della serie trasporta i lettori da Montréal alle isole di Turks…
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lucioganciblog · 14 days ago
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Alessia Castellini Presenta il Suo Ultimo Libro a Tante Storie di Palermo
Rientra nell'elenco dei buoni propositi di anno nuovo, ma mi propongo con questa di pubblicare tutte le presentazione di libri che fotograferò e anche quelle che ho fotografato.
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viendiletto · 1 year ago
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Ho vissuto 17 anni a Pola ed è stata una vita da favola: è quella la mia terra e mi manca tanto. Siamo andati via nel 1946 perché c’erano già state le prime foibe, in Istria si sapeva, a Pola meno. Venivano di notte, chiamavano la persona e dicevano “Vieni, ti devo parlare”, e quella spariva. Poi ci accorgemmo che, dopo tempo, a Pola, sui tabelloni di un cinema erano esposti cadaveri; così la gente andava alle foibe per cercare lembi di indumenti dei familiari scomparsi. Fummo sfollati a Orsera (in croato Vrsar) nel 1944-’45, quando avevo 14 anni, perché gli alleati bombardavano e c’erano i tedeschi. Ricordo un presidio di giovani soldati, 18 o 19 anni, che furono convinti dalla popolazione pro-Tito a lasciare il presidio e andare in bosco coi titini. Questi presero le armi dei nostri soldati e si vestirono con le loro divise: i giovani che andarono in bosco non tornarono più. Le mamme andavano a chiedere a don Francesco Dapiran, poi parroco di Fertilia, dove fossero i loro figli, e lui andò a cercarli paese per paese, chiedendo alla popolazione dove fossero stati portati: erano tutti morti gettati nelle foibe. Tornammo a Pola e riprendemmo la vita di tutti i giorni. Vivevamo in mezzo a gente slava, ma non lo sapevamo, eravamo tutti una comunità. Furono alimentati rancori e odi, ma in realtà non c’era questo fra noi, eravamo gente buona. Mio padre, originario di Buggerru, e mia madre ripresero a lavorare, io proseguii gli studi. Poi anche da noi iniziarono le uccisioni e facemmo domanda per espatriare. La nostra partenza fu fissata il 10 febbraio 1947, ma l’uccisione del generale De Winton la rinviò. Essendo una ragazza di 17 anni, vivevo quell’esperienza non come un disagio, ma come un’avventura. Partimmo col successivo imbarco, il pomeriggio di sabato 15 febbraio. La domenica, a bordo, il parroco celebrò la messa, quindi, nel pomeriggio, arrivammo ad Ancona. Mi aspettavo una festa d’accoglienza, con le bandiere, invece ci vennero incontro delle barche con a bordo uomini che, col pugno chiuso, ci insultavano gridando: “Tornate a casa vostra, fascisti!”. Se non ci fossero stati i carabinieri quelli ci avrebbero buttati in mare: li ringrazierò per sempre per quello che hanno fatto per noi. In treno raggiungemmo Civitavecchia da dove c’imbarcammo per la Sardegna. Il giorno dopo sbarcammo ad Olbia, quindi ci trasferimmo a Sassari e da lì prendemmo il treno per Cagliari. Il paesaggio che si presentò ai miei occhi era desolante, mi sembrava di attraversare la steppa; ricordo delle cavallette enormi ma anche un bel sole, che ci accolse con tutto il suo calore. Il primo impatto con Cagliari fu positivo: il municipio e il bel giardino antistante mi diedero subito l’impressione di una bella città, nonostante i danni subiti dalla guerra appena terminata. Ci condussero nel campo profughi, situato tra le vie Logudoro e San Lucifero, e lì l’accoglienza fu buona. La città mi piaceva e mi piace, ma mi sono inserita con difficoltà, la mia mentalità era diversa da quella che ho trovato e non riuscivo a capire le persone che si esprimevano solo in sardo. Sono arrivata a 80 anni e ringrazio Dio e ringrazio la Sardegna perché mi trovo bene, la vita è tranquilla, una pensione l’ho avuta, ho pochi amici ma buoni e tengo collegata tutta la ‘mia’ gente, sparsa in tutto il mondo.
Nerina Milia, esule da Pola
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pettirosso1959 · 4 months ago
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C'ERA UNA VOLTA LA GERMANIA, UNA POTENZA ECONOMICA, INDUSTRIALE E DI INNOVAZIONE SOCIALE. UNA VOLTA, PERO', PERCHE' I VERDI E LE SINISTRE DEMOCRATICO-PROGRESSISTE AL POTERE HANNO DISTRUTTO IL SOGNO DI MILIONI DI GIOVANI, CHE OGGI SI RIBELLANO, ANCHE A GRETA...
La popolarità dei Verdi e dei Socialisti tedeschi è al collasso, così come le infrastrutture della Germania.
Una parte di un importante nella città sassone di Dresda, un ponte, è misteriosamente crollato. L'incidente evidenzia la negligenza della Germania nei confronti delle proprie infrastrutture, mentre incanala decine di miliardi di euro in progetti verdi dubbi in patria e all'estero. Il crollo del ponte di Dresda è una metafora dell'attuale situazione della Germania.
"Parte del successo di AfD può essere attribuito alla sua politica economica. I tedeschi chiedono la fine dei sussidi governativi che distorcono il mercato dell'energia elettrica e rendono costosa l'energia, quindi la fine della costosa transizione energetica verde del paese e, soprattutto, un'inversione dell'attuale deindustrializzazione. Se questa politica economica moderata viene abbandonata dai centristi al potere, allora gli elettori guarderanno altrove".
Una volta votati i Verdi, i giovani sotto i 18 anni si sono spostati in massa a destra. Lo scorso mese di agosto, in Turingia, in un sondaggio è stato chiesto a 9000 giovani di età inferiore ai 18 anni per chi avrebbero votato. Il vincitore con un ampio margine è stato il partito di destra AfD, che ha ottenuto il 37,4% dei voti, più del doppio rispetto al 16,5% ottenuto nel 2019. I Verdi, d'altra parte, hanno perso un'enorme quota, circa l'83% dei loro sostenitori.
I giorni di Fridays for Future, guidati da Greta Thunberg, sono scomparsi più velocemente di una palla di neve in una calda giornata estiva. In effetti, i giovani hanno mantenuto la loro promessa "vi terremo d'occhio" e, ironicamente, odiano ciò che stanno vedendo ora: uno sgretolamento del loro paese e del loro futuro.
Ora stanno guidando una ribellione silenziosa ma potente. Le bugie sul Covid e sui vaccini, le bugie sulla guerra contro la Russia e il sabotaggio palese del gasdotto North Stream 2 che ha reso l'energia elettrica ed il gas in Germania costosissimi, ma i giovani si stanno rendendo conto di come l'Occidente sia tutto tranne che libero e democratico.
I dissidenti sono stati messi a tacere mentre la censura si diffondeva sulle principali piattaforme di social media. In Germania, e altrove in Europa, le persone che esprimevano opinioni diverse si sono trovate calunniate e criminalizzate. I leader dissidenti sono stati persino arrestati e imprigionati. Migliaia di account di social media sono stati sospesi.
Nel luglio 2024, la rivista tedesca di "estrema destra" Compact è stata perquisita dalle forze speciali tedesche e chiusa dall'eccessivamente zelante ministro dell'Interno socialista, Nancy Faeser.
Il fondatore del servizio di messaggistica istantanea Telegram, Pavel Durov, è stato arrestato dalle autorità francesi. Il suo crimine: fornire libertà di parola. I giovani ora si rendono conto di come la "libertà di parola" in Occidente sia solo uno scherzo.
L'uccisione di tre persone (e molte altre ferite) da parte di un rifugiato siriano durante un festival ha evidenziato una lunga serie di crescenti violenze da parte degli immigranti. L'opinione pubblica ha reagito mettendo in discussione a gran voce le politiche europee sulle frontiere. Nonostante una serie di grandi promesse, i politici non hanno intrapreso alcuna azione concreta per arginare l'ondata di migranti dal Medio Oriente e dall'Africa, provocando l'indignazione di tutti, soprattutto proprio dei giovani.
Il crimine e la violenza hanno reso insicure molte parti della Germania, e i giovani si stanno rendendo conto che il loro paese sta potenzialmente andando all'inferno; in nome dell'accoglienza, in nome della guerra, in nome dell'energia verde e di false promesse, ormai palesemente bugie di Stato.
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mucillo · 8 months ago
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"Hippy"
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Tutte le mattine passano gli impiegati che vanno in banca e in municipio. Vestono giacche grigie, cravatte e portano i capelli corti.
Alcuni hippy seduti per terra, li guardano con commiserazione. Gli hippy hanno capelli lunghi, camicie a fiori e medaglioni con la scritta <Fate l'amore non la guerra>. Alcuni suonano la chitarra, altri fanno bolle di sapone, altri piegano un filo di ottone per fare braccialetti. Nel gruppo ci sono anche alcune ragazze; portano fiori di carta fra i capelli lunghi e collane di perline false.
Due mondi opposti si fronteggiano e si disprezzano: il vecchio mondo del conformismo, che sta per finire, e il nuovo mondo dell'ispirazione che sta per nascere. Il vecchio mondo è grigio e rigido; quello nuovo è colorato, fatto di amore e fantasia.
Dall'alto i potenti della politica e della religione osservano: il gregge sta sbandando, il gregge vuole la propria libertà, il gregge non ha più bisogno di preti e politici!!! I giovani non vogliono più il denaro e il paradiso dopo morti. I giovani vogliono la libertà, la musica, la bellezza, l'amore. E queste idee si diffondono. Il potere rischia di sfaldarsi; la tirannide non ingabbia più le menti delle persone.
Gli uomini di potere, statici e occulti, decidono di annientare gli hippy. Per far questo, inviano fra i giovani elementi fanatici e politicizzati che diffondono droghe e violenza. E dopo qualche anno il mondo hippy crolla, senza fare rumore, stritolato dalla ruota della politica e della religione.
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Mi trovo nella stessa piazza, 30 anni dopo.
Tutte le mattine vedo passare gli impiegati di banche e municipio. Vestono giacche grigie, cravatta e portano i capelli corti.
Io li guardo e penso: il Potere organizzato ha vinto. Gli hippy sono scomparsi, ma non hanno perso, semplicemente perché essi non volevano vincere.
Gli hippy sono sempre esistiti, anche se in passato si sono chiamati con nomi differenti: goliardi, bohemiens L'essenza hippy dell'anima adesso dorme; in futuro si risveglierà di nuovo per far sbocciare un'altra primavera dell'umanità:
Dicembre 2001
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popolodipekino · 8 months ago
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brutto
Da quando con il politeismo sono scomparsi quei giovani dei, quei geni sorridenti, quegli efebi celesti dalle forme così assolutamente perfette, così armoniosamente scandite, così idealmente pure, e la Grecia antica più non canta l'inno della bellezza in strofe di Paro, l'uomo ha crudelmente abusato della libertà di essere brutto, e benché fatto a immagine di Dio, lo rappresenta piuttosto male. (da T. Gautier, Avatar, in Racconti fantastici)
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fridagentileschi · 2 years ago
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Oggi è mille volte peggio non solo Berlino ma l'Europa con quello che ha importato e come ha ridotto i giovani con la scuola e la società in cui i valori sono scomparsi proprio affinché certe culture scivolassero meglio. Meglio drogarsi e non avere genere quando il nulla prende il posto di Dio Patria e Famiglia.
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lunamarish · 1 year ago
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Quali labbra baciarono le mie labbra e dove, e perché, non ricordo. Non so più quali braccia posassero sotto il capo, sino al mattino. Ma la pioggia stasera ospita fantasmi che sospirano e battono ai cristalli e ascoltano se giunge una risposta; e una pietà serena mi s’insinua in cuore per i giovani dimenticati, che da me più non verranno con un grido, a mezzanotte. Così in inverno l’albero se ne sta solo, né sa quali uccelli uno per uno siano scomparsi, ma sente che i suoi rami tacciono più di prima; e così anch’io non so dire quali amori siano trascorsi: ma solo che l’estate in me ha cantato per poco tempo, ed ora non canta più.
Edna St. Vincent Millay
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ciclistasingolo · 1 year ago
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SABRAESHATILA.“Celodisserolemosche”
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17 set 2020
Fisk, Israele, libano, Palestina, Sabra, Sharon, shatila
by Redazione
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Vogliamo ricordare Robert Fisk, scomparso il 30 ottobre, riproponendovi l’articolo che il grande giornalista scrisse quando tra i primi ad arrivare nei campi profughi di Sabra e Shatila a Beirut dopo il massacro di migliaia di palestinesi nel settembre del 1982
di Robert Fisk – settembre 1982
Roma, 17 settembre 2020 Nena News – “Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare.
Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù giravano intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che assumessimo la generosa immobilità dei morti. Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci erano intorno, ricordandoci che c’è vita anche nella morte. Qualcuno ne trae profitto. Le mosche sono imparziali. Per loro non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati vittime di uno sterminio di massa. Le mosche si sarebbero comportate nello stesso modo con un qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio, doveva essere stato così anche nei caldi pomeriggi durante la Peste nera.
All’inizio non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le mosche si avventavano infallibilmente sulle nostrae bocche. Per questo motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare. Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto.
Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli assassini – i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare nei campi per «spazzare via i terroristi» – se n’erano appena andati. In alcuni casi il sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver visto un centinaio di morti, smettemmo di contarli. In ogni vicolo c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni corridoio tra le macerie trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano scomparsi dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di andarsene. Dappertutto, trovavamo i segni di fosse comuni scavate in fretta. Probabilmente erano state massacrate mille persone; e poi forse altre cinquecento.
Mentre eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli israeliani che ci osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest – il secondo palazzo del viale Camille Chamoun – li vedevamo che ci scrutavano con i loro binocoli da campo, spostandoli a destra e a sinistra sulle strade coperte di cadaveri, con le lenti che a volte brillavano al sole, mentre il loro sguardo si muoveva attraverso il campo. Loren Jenkins continuava a imprecare. Pensai che fosse il suo modo di controllare la nausea provocata da quel terribile fetore. Avevamo tutti voglia di vomitare. Stavamo respirando morte, inalando la putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano. Jenkins capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto assumersi una parte della responsabilità di quell’orrore. «Sharon!» gridò. «Quello stronzo di Sharon! Questa è un’altra Deir Yassin.»
Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico. C’erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno sterminio di massa, un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la parola «episodio» in Libano – che andava ben oltre quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica. Era stato un crimine di guerra.
Jenkins, Tveit e io eravamo talmente sopraffatti da ciò che avevamo trovato a Shatila che all’inizio non riuscivamo neanche a renderci conto di quanto fossimo sconvolti. Bill Foley dell’Ap era venuto con noi. Mentre giravamo per le strade, l’unica cosa che riusciva a dire era «Cristo santo!». Avremmo potuto accettare di trovare le tracce di qualche omicidio, una dozzina di persone uccise nel fervore della battaglia; ma nelle case c’erano donne stese con le gonne sollevate fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola squarciata, file di ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli allineati lungo un muro. C’erano neonati – tutti anneriti perché erano stati uccisi più di ventiquattro ore prima e i loro corpicini erano già in stato di decomposizione – gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette delle razioni dell’esercito americano, alle attrezzature mediche israeliane e alle bottiglie di whisky vuote.
Dov’erano gli assassini? O per usare il linguaggio degli israeliani, dov’erano i «terroristi»? Mentre andavamo a Shatila avevamo visto gli israeliani in cima ai palazzi del viale Camille Chamoun, ma non avevano cercato di fermarci. In effetti, eravamo andati prima al campo di Burj al-Barajne perché qualcuno ci aveva detto che c’era stato un massacro. Tutto quello che avevamo visto era un soldato libanese che inseguiva un ladro d’auto in una strada. Fu solo mentre stavamo tornando indietro e passavamo davanti all’entrata di Shatila che Jenkins decise di fermare la macchina. «Non mi piace questa storia» disse. «Dove sono finiti tutti? Che cavolo è quest’odore?»
Appena superato l’ingresso sud del campo, c’erano alcune case a un piano circondate da muri di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle casupole alla fine degli anni settanta. Quando varcammo la fangosa entrata di Shatila vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state fatte saltare in aria con la dinamite. C’erano bossoli sparsi a terra sulla strada principale. Vidi diversi candelotti di traccianti israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli paracadute. Nugoli di mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che avevano annusato la vittoria.
In fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri dall’entrata, trovammo un cumulo di cadaveri. Erano più di una dozzina, giovani con le braccia e le gambe aggrovigliate nell’agonia della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la pallottola aveva portato via una striscia di carne fino all’orecchio ed era poi entrata nel cervello. Alcuni avevano cicatrici nere o rosso vivo sul lato sinistro del collo. Uno era stato castrato, i pantaloni erano strappati sul davanti e un esercito di mosche banchettava sul suo intestino dilaniato.
Avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o tredici anni. Portavano jeans e camicie colorate, assurdamente aderenti ai corpi che avevano cominciato a gonfiarsi per il caldo. Non erano stati derubati. Su un polso annerito, un orologio svizzero segnava l’ora esatta e la lancetta dei minuti girava ancora, consumando inutilmente le ultime energie rimaste sul corpo defunto.
Dall’altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di macerie, trovammo i corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le donne erano tutte di mezza età ed erano state gettate su un cumulo di rifiuti. Una era distesa sulla schiena, con il vestito strappato e la testa di una bambina che spuntava sotto il suo corpo. La bambina aveva i capelli corti, neri e ricci, dal viso corrucciato i suoi occhi ci fissavano. Era morta.
Un’altra bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via, con il vestitino bianco macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più di tre anni. La parte posteriore della testa era stata portata via dalla pallottola che le avevano sparato al cervello. Una delle donne stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola attraversandone il petto aveva ucciso anche il bambino. Qualcuno le aveva squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino non ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro pietrificato dall’orrore.
Tveit cercò di registrare tutto su una cassetta, parlando lentamente in norvegese e in tono impassibile. «Ho trovato altri corpi, quelli di una donna con il suo bambino. Sono morti. Ci sono altre tre donne. Sono morte.»
Di tanto in tanto, premeva il bottone della pausa e si piegava per vomitare nel fango della strada. Mentre esploravamo un vicolo, Foley, Jenkins e io sentimmo il rumore di un cingolato. «Sono ancora qui» disse Jenkins e mi fissò. Erano ancora lì. Gli assassini erano ancora nel campo. La prima preoccupazione di Foley fu che i miliziani cristiani potessero portargli via il rullino, l’unica prova – per quanto ne sapesse – di quello che era successo. Cominciò a correre lungo il vicolo.
Io e Jenkins avevamo paure più sinistre. Se gli assassini erano ancora nel campo, avrebbero voluto eliminare i testimoni piuttosto che le prove fotografiche. Vedemmo una porta di metallo marrone socchiusa; l’aprimmo e ci precipitammo nel cortile, chiudendola subito dietro di noi. Sentimmo il veicolo che si addentrava nella strada accanto, con i cingoli che sferragliavano sul cemento. Jenkins e io ci guardammo spaventati e poi capimmo che non eravamo soli. Sentimmo la presenza di un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una bella ragazza distesa sulla schiena.
Era sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido le scendeva lungo la schiena. Gli assassini se n’erano appena andati. E lei era lì, con i piedi uniti, le braccia spalancate, come se avesse visto il suo salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi, era una bella donna, e intorno alla sua testa c’era una strana aureola: sopra di lei passava un filo per stendere la biancheria e pantaloni da bambino e calzini erano appesi. Altri indumenti giacevano sparsi a terra. Quando gli assassini avevano fatto irruzione, probabilmente stava ancora stendendo il bucato della sua famiglia. E quando era caduta, le mollette che teneva in mano erano finite a terra formando un piccolo cerchio di legno attorno al suo capo.
Solo il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man mano allargando indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non l’avevano ancora trovata. Pensai che Jenkins stesse pregando, ma imprecava di nuovo e borbottava «Dio santo», tra una bestemmia e l’altra. Provai tanta pena per quella donna. Forse era più facile provare pietà per una persona giovane, così innocente, una persona il cui corpo non aveva ancora cominciato a marcire. Continuavo a guardare il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il filo da bucato, quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento all’altro.
Probabilmente quando aveva sentito sparare nel campo era andata a nascondersi in casa. Doveva essere sfuggita all’attenzione dei miliziani fino a quella mattina. Poi era uscita in giardino, non aveva sentito nessuno sparo, aveva pensato che fosse tutto finito e aveva ripreso le sue attività quotidiane. Non poteva sapere quello che era successo. A un tratto qualcuno aveva aperto la porta, improvvisamente come avevamo fatto noi, e gli assassini erano entrati e l’avevano uccisa. Senza pensarci due volte. Poi se n’erano andati ed eravamo arrivati noi, forse soltanto un minuto o due dopo.
Rimanemmo in quel giardino ancora per un po’. Io e Jenkins eravamo spaventati. Come Tveit, che era momentaneamente scomparso, Jenkins era un sopravvissuto. Mi sentivo al sicuro con lui. I miliziani – gli assassini della ragazza – avevano violentato e accoltellato le donne di Shatila e sparato agli uomini, ma sospettavo che avrebbero esitato a uccidere Jenkins e l’americano avrebbe cercato di dissuaderli. «Andiamocene via di qui» disse, e ce ne andammo. Fece capolino in strada per primo, io lo seguii, chiudendo la porta molto piano perché non volevo disturbare la donna morta, addormentata, con la sua aureola di mollette da bucato.
Foley era tornato sulla strada vicino all’entrata del campo. Il cingolato era scomparso, anche se sentivo che si spostava sulla strada principale esterna, in direzione degli israeliani che ci stavano ancora osservando. Jenkins sentì Tveit urlare da dietro una catasta di cadaveri e lo persi di vista. Continuavamo a perderci di vista dietro i cumuli di cadaveri. Un attimo prima stavo parlando con Jenkins, un attimo dopo mi giravo e scoprivo che mi stavo rivolgendo a un ragazzo, riverso sul pilastro di una casa con le braccia penzoloni dietro la testa.
Sentivo le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza, dall’altra parte di una barricata coperta di terra e sabbia che era stata appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta più di tre metri e mi arrampicai con difficoltà su uno dei lati, con i piedi che scivolavano nel fango. Quando ormai ero arrivato quasi in cima persi l’equilibrio e per non cadere mi aggrappai a una pietra rosso scuro che sbucava dal terreno. Ma non era una pietra. Era viscida e calda e mi rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai gli occhi vidi che mi ero attaccato a un gomito che sporgeva dalla terra, un triangolo di carne e ossa.
Lo lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta sui pantaloni, e finii di salire in cima alla barricata barcollando. Ma l’odore era terrificante e ai miei piedi c’era un volto al quale mancava metà bocca, che mi fissava. Una pallottola o un coltello gliel’avevano portata via, quello che restava era un nido di mosche. Cercai di non guardarlo. In lontananza, vedevo Jenkins e Tveit in piedi accanto ad altri cadaveri davanti a un muro, ma non potevo chiedere aiuto perché sapevo che se avessi aperto la bocca per gridare avrei vomitato.
Salii in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi consentisse di saltare dall’altra parte. Ma non appena facevo un passo, la terra mi franava sotto i piedi. L’intero cumulo di fango si muoveva e tremava sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando guardai giù di nuovo, vidi che solo uno strato sottile di sabbia copriva altre membra e altri volti. Mi accorsi che una grossa pietra era in realtà uno stomaco. Vidi la testa di un uomo, il seno nudo di una donna, il piede di un bambino. Stavo camminando su decine di cadaveri che si muovevano sotto i miei piedi.
I corpi erano stati sepolti da qualcuno in preda al panico. Erano stati spostati con un bulldozer al lato della strada. Anzi, quando sollevai lo sguardo vidi il bulldozer – con il posto di guida vuoto – parcheggiato con aria colpevole in fondo alla strada.
Mi sforzavo invano di non camminare sulle facce che erano sotto di me. Provavamo tutti un profondo rispetto per i morti, perfino lì e in quel momento. Continuavo a dirmi che quei cadaveri mostruosi non erano miei nemici, quei morti avrebbero approvato il fatto che fossi lì, avrebbero voluto che io, Jenkins e Tveit vedessimo tutto questo, e quindi non dovevo avere paura di loro. Ma non avevo mai visto tanti cadaveri in tutta la mia vita.
Saltai giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi piagnucolando come uno scemo perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena aprii la bocca per parlare, entrarono le mosche. Le sputai fuori. Tveit vomitava. Stava guardando quelli che sembravano sacchi davanti a un basso muro di pietra. Erano tutti allineati, giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena mentre erano appoggiati al muro e giacevano lì dov’erano caduti, una scena patetica e terribile.
Quel muro e il mucchio di cadaveri mi ricordavano qualcosa che avevo già visto. Solo più tardi mi sarei reso conto di quanto assomigliassero alle vecchie fotografie scattate nell’Europa occupata durante la Seconda guerra mondiale. Ci sarà stata una ventina di corpi. Alcuni nascosti da altri. Quando mi inchinai per guardarli più da vicino notai la stessa cicatrice scura sul lato sinistro del collo. Gli assassini dovevano aver marchiato i prigionieri da giustiziare in quel modo. Un taglio sulla gola con il coltello significava che l’uomo era un terrorista da giustiziare immediatamente. Mentre eravamo lì sentimmo un uomo gridare in arabo dall’altra parte delle macerie: «Stanno tornando». Così corremmo spaventati verso la strada. A ripensarci, probabilmente era la rabbia che ci impediva di andarcene, perché ci fermammo all’ingresso del campo per guardare in faccia alcuni responsabili di quello che era successo. Dovevano essere arrivati lì con il permesso degli israeliani. Dovevano essere stati armati da loro. Chiaramente quel lavoro era stato controllato – osservato attentamente – dagli israeliani, dagli stessi soldati che guardavano noi con i binocoli da campo.
Sentimmo un altro mezzo corazzato sferragliare dietro un muro a ovest – forse erano falangisti, forse israeliani – ma non apparve nessuno. Così proseguimmo. Era sempre la stessa scena. Nelle casupole di Shatila, quando i miliziani erano entrati dalla porta, le famiglie si erano rifugiate nelle camere da letto ed erano ancora tutti lì, accasciati sui materassi, spinti sotto le sedie, scaraventati sulle pentole. Molte donne erano state violentate, i loro vestiti giacevano sul pavimento, i corpi nudi gettati su quelli dei loro mariti o fratelli, adesso tutti neri di morte.
C’era un altro vicolo in fondo al campo dove un bulldozer aveva lasciato le sue tracce sul fango. Seguimmo quelle orme fino a quando non arrivammo a un centinaio di metri quadrati di terra appena arata. Sul terreno c’era un tappeto di mosche e anche lì si sentiva il solito, leggero, terribile odore dolciastro. Vedendo quel posto, sospettammo tutti di che cosa si trattasse, una fossa comune scavata in fretta. Notammo che le nostre scarpe cominciavano ad affondare nel terreno, che sembrava liquido, quasi acquoso e tornammo indietro verso il sentiero tracciato dal bulldozer, terrorizzati.
Un diplomatico norvegese – un collega di Ane-Karina Arveson – aveva percorso quella strada qualche ora prima e aveva visto un bulldozer con una decina di corpi nella pala, braccia e gambe che penzolavano fuori dalla cassa. Chi aveva ricoperto quella fossa con tanta solerzia? Chi aveva guidato il bulldozer? Avevamo una sola certezza: gli israeliani lo sapevano, lo avevano visto accadere, i loro alleati – i falangisti o i miliziani di Haddad – erano stati mandati a Shatila a commettere quello sterminio di massa. Era il più grave atto di terrorismo – il più grande per dimensioni e durata, commesso da persone che potevano vedere e toccare gli innocenti che stavano uccidendo – della storia recente del Medio Oriente.
Incredibilmente, c’erano alcuni sopravvissuti. Tre bambini piccoli ci chiamarono da un tetto e ci dissero che durante il massacro erano rimasti nascosti. Alcune donne in lacrime ci gridarono che i loro uomini erano stati uccisi. Tutti dissero che erano stati i miliziani di Haddad e i falangisti, descrissero accuratamente i diversi distintivi con l’albero di cedro delle due milizie.
Sulla strada principale c’erano altri corpi. «Quello era il mio vicino, il signor Nuri» mi gridò una donna. «Aveva novant’anni.» E lì sul marciapiede, sopra un cumulo di rifiuti, era disteso un uomo molto anziano con una sottile barba grigia e un piccolo berretto di lana ancora in testa. Un altro vecchio giaceva davanti a una porta in pigiama, assassinato qualche ora prima mentre cercava di scappare. Trovammo anche alcuni cavalli morti, tre grossi stalloni bianchi che erano stati uccisi con una scarica di mitra davanti a una casupola, uno di questi aveva uno zoccolo appoggiato al muro, forse aveva cercato di saltare per mettersi in salvo mentre i miliziani gli sparavano.
C’erano stati scontri nel campo. La strada vicino alla moschea di Sabra era diventata sdrucciolevole per quanto era coperta di bossoli e nastri di munizioni, alcuni dei quali erano di fattura sovietica, come quelli usati dai palestinesi. I pochi uomini che possedevano ancora un’arma avevano cercato di difendere le loro famiglie. Nessuno avrebbe mai conosciuto la loro storia. Quando si erano accorti che stavano massacrando il loro popolo? Come avevano fatto a combattere con così poche armi? In mezzo alla strada, davanti alla moschea, c’era un kalashnikov giocattolo di legno in scala ridotta, con la canna spezzata in due.
Camminammo in lungo e in largo per il campo, trovando ogni volta altri cadaveri, gettati nei fossi, appoggiati ai muri, allineati e uccisi a colpi di mitra. Cominciammo a riconoscere i corpi che avevamo già visto. Laggiù c’era la donna con la bambina in braccio, ecco di nuovo il signor Nuri, disteso sulla spazzatura al lato della strada. A un certo punto, guardai con attenzione la donna con la bambina perché mi sembrava quasi che si fosse mossa, che avesse assunto una posizione diversa. I morti cominciavano a diventare reali ai nostri occhi.
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m2024a · 8 months ago
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Maltempo in Friuli, chi sono i tre giovani dispersi nel fiume: due ragazze di 20 e 23 anni e un ragazzo 25enne I tre giovani dispersi, un ragazzo e due ragazze, nel fiume Natisone avrebbero un'età presunta tra i 20 e i 25 anni. E' quanto ipotizzano le forze dell'ordine e i soccorritori sulla scorta delle testimonianze raccolte e dalla visione dei filmati messi a disposizione dai passanti che erano nella zona al momento dell'incidente. Chi sono i tre dispersi I tre giovani dispersi sono di nazionalità rumena oppure originari della Romania. Si tratta di una ragazza di 20 anni, figlia di genitori rumeni, residente a Campoformido (Udine), nata a Colleferro (Roma); l'altra ragazza, di 23 anni, era invece giunta tre giorni fa dalla Romania per far visita ai genitori che abitano a Udine, poi sarebbe tornata in Romania. Il ragazzo, di 25 anni, che conduceva l'auto, abita in Austria ma è domiciliato a Udine. Scomparsi nel Natisone, l'allarme L'allarme è stato lanciato attorno alle 13.30. Sul posto stanno operando i vigili del fuoco di Udine con squadre di terra e soccorritori fluviali alluvionali, supportate da Drago 141, l'elicottero del Reparto Volo del comando di Venezia. Da Venezia sono giunti anche i sommozzatori assieme ad operatori specializzati degli altri tre comandi Vvf del Friuli Venezia Giulia. Alle ricerche sta partecipando anche l'elicottero del servizio sanitario regionale Fvg. Le indagini sono affidate ai carabinieri della Compagnia di Cividale del Friuli. La testimonianza E' stato un passante a lanciare l'allarme per i tre ragazzi bloccati dalla piena del fiume Natisone, a Premariacco (Udine). Lo apprende l'ANSA da fonti investigative. Il passante stava transitando sul ponte Romano quando ha udito le urla disperate di aiuto. A quel punto ha chiesto l'intervento dei vigili del fuoco, cercando di rassicurare i ragazzi invitandoli a mantenere la calma. Nel frattempo, numerose altre persone si sono fermate sul ponte e hanno assistito impotenti alla drammatica scena in cui i tre, vinti dalla corrente, si lasciano andare nel tentativo di agganciare la fune protesa dai vigili del fuoco, ma mancano la presa e finiscono nella forra sottostante, trascinati dalle acque. L'abbraccio Il livello dell'acqua del Natisone in Friuli è salito in pochi minuti e i tre ragazzi, ora dispersi a causa della piena del fiume, sono stati trascinati dalla corrente. I giovani, che non sospettavano il pericolo, sono stati sorpresi e, mentre l'acqua arrivava loro progressivamente alle caviglie e poi alle ginocchia continuando a salire, si sono abbracciati tentando forse in questo modo di costituire una difesa più forte alla violenza delle acque. Queste, però, in pochi istanti sono diventate ancora più violente e l'abbraccio non ha tenuto, i tre sono stati sballottolati in varie direzioni. Nello stesso tempo i vigili del fuoco dall'alto di un ponte, ad alcune decine di metri di altezza, avevano posto un'autogru. Da questa è stata allungata una scala al di sopra del Natisone, e alcuni vigili hanno lanciato funi alle quali i ragazzi avrebbero potuto afferrarsi. La corrente ha trascinato i tre e nessuno di loro è riuscito ad aggrapparsi alla corda. Le ricerche dunque si sono spostate in direzione della corrente.
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wolfman75 · 9 months ago
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Gilles de Montmorency-Laval, conosciuto principalmente con l'appellativo di Gilles de Rais[1] (Champtocé-sur-Loire, 1404[2] – Nantes, 26 ottobre 1440), è stato un generale, criminale e nobile francese che fu barone di Rais, signore di varie località in Bretagna, Angiò e Poitou, capitano dell'esercito francese e compagno d'armi di Giovanna d'Arco. È conosciuto per l'accusa di essere stato coinvolto in pratiche alchemiche e occulte, in cui avrebbe torturato, stuprato e ucciso almeno 140 bambini e adolescenti.
Dal 1427 al 1435 servì come comandante nell'esercito reale francese e combatté contro gli inglesi durante la guerra dei cent'anni; fu nominato maresciallo di Francia nel 1429. Accusato di praticare l'occulto, dopo il 1432 venne implicato in una serie di omicidi di bambini. Nel 1440 una violenta controversia con un religioso aprì un'indagine ecclesiastica che lo portò a essere accusato dei reati sopra citati. Durante il processo i genitori dei bambini scomparsi e i servi di Gilles testimoniarono contro di lui, facendolo condannare a morte per una vasta serie di reati. Venne impiccato a Nantes il 26 ottobre 1440.
Si pensa che Gilles de Rais abbia ispirato lo scrittore francese Charles Perrault per la fiaba del 1697 Barbablù (Barbe bleue). La storia narra infatti di un crudele signorotto che uccide brutalmente le proprie mogli e ne nasconde i cadaveri in una stanza segreta del proprio castello.
Di nobile casato (i Montmorency-Laval erano due fra le più potenti famiglie di Francia, imparentate con il connestabile Bertrand du Guesclin), a soli undici anni rimase orfano di entrambi i genitori (la madre morì di malattia ed il padre ucciso da un cinghiale durante una battuta di caccia), e fu allevato dal nonno materno, Jean de Craòn.
Jean de Craòn lo fidanzò a tredici anni con Jeanne Peynel, una ricca ereditiera, poi con Beatrice de Rohan, nipote del duca Giovanni IV di Bretagna. La morte prematura di entrambe le giovani impedì il matrimonio. Sposò infine un'altra ereditiera, Catherine de Thouars (1409-1462), il 30 novembre 1420.
Nel 1427, agli ordini di Arturo III di Bretagna, entrò al servizio di Carlo VII di Francia combattendo alla testa di un proprio contingente in svariati episodi della guerra dei cent'anni e finanziando il futuro re nelle sue campagne militari. Grazie alla parentela con Georges de La Trémoille, gran ciambellano di Francia, entrò nelle grazie del sovrano combattendo poi contro gli inglesi al fianco di Giovanna d'Arco, ad Orléans, a Jargeau, a Meung-sur-Loire e a Beaugency.
Divenuto pari di Francia, consigliere e ciambellano di re Carlo VII, presenziò alla consacrazione di quest'ultimo, avvenuta a Reims il 17 luglio 1429, dopo essere stato elevato al titolo di maresciallo di Francia il precedente 21 aprile. Continuò a combattere prima sulla Loira quindi in Normandia, alla testa di un piccolo esercito personale da lui stesso mantenuto.
Morto il nonno, nel 1432 ereditò un'immensa fortuna, consistente soprattutto in proprietà terriere in Bretagna, nel Maine e nell'Angiò, cui si aggiungevano le ricchezze dei de Rais e quelle della moglie, ritrovandosi così ad essere uno degli uomini più ricchi del suo tempo.
Grazie a questa fortuna finanziò Carlo VII nelle sue campagne, con denaro che non gli venne mai restituito.
Ritiratosi dal servizio militare (l'ultima azione cui prese parte ebbe luogo nell'estate 1432 a Lagny-sur-Marne, assediata dalle truppe di Giovanni Plantageneto, I duca di Bedford), iniziò a condurre una vita dispendiosa e raffinata, circondandosi di manoscritti preziosi e finanziando sfarzosi spettacoli teatrali.
Si sa che nel corso di una visita ad Orléans il suo seguito di 200 persone occupò tutte le locande della città, e in pochi mesi la spesa arrivò a 80 000 corone d'oro. Non mancò di interessarsi di religione, costruendo una sfarzosa cappella privata e finanziando opere caritatevoli.
Dissipò così in breve tempo il patrimonio di famiglia, fino ad essere costretto a ricorrere a prestiti e a svendere i propri possedimenti per somme irrisorie.
In seguito agli sperperi, fra il 1434 e il 1436 la moglie lo abbandonò, il fratello prese possesso dell'avito castello di Champtocé e Carlo VII giunse su richiesta dei familiari a emanare nei suoi confronti un atto di interdizione, dichiarando nulle ulteriori vendite. Giovanni V di Bretagna non rese nota tuttavia l'interdizione nei propri domini e con il vescovo di Nantes Jean de Malestroit, ansiosi entrambi di opporsi alla politica del sovrano e soprattutto interessati all'acquisto dei terreni, nominò de Rais luogotenente generale di Bretagna.
Fu probabilmente in quel periodo che, per cercare di ritrovare la perduta fortuna, Gilles de Rais cominciò a interessarsi alla creazione della pietra filosofale, motivo per cui affidò al suo cappellano Eustache Blanchet il compito di procacciargli alchimisti. Fu proprio Blanchet a recarsi a Firenze e a incontrare, nel 1439, Francesco Prelati, un giovane monaco spretato toscano dedito all'occultismo, che assoldò e portò con sé nel castello di Tiffauges.
Prelati, impegnato nel tentativo di ottenere la pietra filosofale, disse a de Rais di avere al proprio servizio un demone personale, di nome "Barron". Davanti all'inquisizione Prelati dichiarò che, non essendo in grado di soddisfare i desideri del suo mecenate, ogni giorno più bisognoso di denaro, richiese a nome del demone il sacrificio di un bambino.
Il 15 maggio 1440 de Rais riprese armi alla mano il castello di Saint-Étienne de Mermorte, che egli stesso aveva venduto al tesoriere di Bretagna Guillaume Le Ferron (prestanome del duca). Ciò facendo non solo violò un contratto, ma infranse anche le leggi della Chiesa entrando in armi in un luogo sacro e prendendo in ostaggio il canonico Jean Le Ferron (fratello del proprietario), che stava celebrando la messa. Il fatto indusse il vescovo di Nantes, competente sul territorio, ad aprire un'indagine.
Dopo la liberazione di Le Ferron, nel settembre dello stesso anno de Rais fu arrestato insieme a servitori e amici, e il 28 settembre cominciò il processo inquisitoriale di fronte al vescovo e al viceinquisitore di Nantes, Jean Blouyn. Quel giorno deposero otto testimoni a suo carico, seguiti poi da altri due, tutti lamentando la scomparsa di bambini e attribuendone il rapimento a una serva di Gilles de Rais, Perrine Martin soprannominata "la Meffraye", all'epoca in prigione a Nantes.
Il 13 ottobre il processo riprese; nel frattempo furono stilati 49 capi d'imputazione: de Rais fu accusato di avere, con l'aiuto di complici, rapito numerosi bambini, averli uccisi nei modi più perversi, smembrati, bruciati, averli offerti in sacrificio ai demoni, di aver condotto con Prelati pratiche stregonesche, ecc.
Il vescovo e l'inquisitore lo minacciarono di scomunica, e gli diedero 48 ore di tempo per preparare una difesa.
Il 15 ottobre Gilles de Rais ricomparve davanti al tribunale, mentre il 16 e il 17 furono raccolte le deposizioni dei presunti complici.
Gilles de Rais inizialmente si scagliò con violenza contro i giudici, accusandoli apertamente di volerlo processare per sottrargli le sue ricchezze (de Rais si era già distinto in precedenza per l'atteggiamento polemico o apertamente violento nei confronti del clero); quindi, sotto tortura, confessò nei giorni successivi una quantità enorme di crimini di incredibile efferatezza.
Il 25 ottobre fu emessa la sentenza: in nome del vescovo e dell'inquisitore, Gilles de Rais fu dichiarato colpevole di apostasia e invocazione demoniaca; a nome del solo vescovo fu dichiarato colpevole di sodomia, sacrilegio e violazione dell'immunità della Chiesa e quindi condannato a morte per impiccagione e al rogo post mortem.
Il 26 ottobre de Rais, insieme ai due servitori e complici, Henriet Griart e "Poitou", fu quindi impiccato, ma poiché restava il membro di una famiglia potente, aveva chiesto e ottenuto che il suo corpo, dopo la morte per impiccagione, non venisse arso, bensì tumulato nella cappella dei Carmelitani di Nantes, luogo di sepoltura dei duchi di Bretagna.
La vicenda giudiziaria non si estinse con l'esecuzione: in due lettere scritte da Carlo VII nel 1442 è riportato che Gilles de Rais aveva inoltrato appello al re e al Parlamento di Parigi, senza che ciò fosse stato considerato dai giudici, ragion per cui, su istanza dei familiari, Pierre de l'Hôpital, presidente del tribunale di Bretagna, e gli altri giudici, erano chiamati a comparire davanti al Parlamento, e il sovrano chiamava il Parlamento e i balivi di Maine, Angiò e Turenna all'apertura di un'inchiesta sulle circostanze della condanna. Le due lettere, tuttavia, non furono mai spedite per motivi ignoti, anche se è significativo il solo fatto - per quel che concerne le accuse a Gilles de Rais - che Carlo VII le abbia scritte.
Dal matrimonio con Catherine de Thouars nacque una figlia, Marie (1433 o 1434-1457) sposata con l'ammiraglio Prigent de Coëtivy, e in seconde nozze con il cugino maresciallo André de Lohéac.
La sua vedova, un anno dopo la morte di Gilles, contrasse nuovo matrimonio con Jean de Vendôme. La famiglia si estinse nel 1502.
Fonte: https://it.m.wikipedia.org/wiki/Gilles_de_Rais
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Olbia, continuano le ricerche dei due giovani di 15 e 17 anni scomparsi
A Ostia e dintorni proseguono senza sosta le ricerche dei due ragazzi di 15 e 17 anni, scomparsi dalla sera di giovedì 25 gennaio. Giuseppe Contini e Karol Canu non danno notizie ai loro familiari da oltre una settimana. I carabinieri stanno setacciando, in particolare, l’agro di Olbia e le sue frazioni come Berchideddu e Putzola. I due sono stati visti insieme all’interno di un bar e poi i loro…
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personal-reporter · 2 years ago
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Glocal Film Festival 2023
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Dal 15 al 20 marzo 2023, organizzato dall’AssociazionePiemonte Movie, è il momento del 22° Glocal Film Festival, in programma a Torino al Cinema Massimo MNC e in altre sedi della città dei Savoia. La direttrice artistica è la regista piemontese Alice Filippi, che ha cercato di lavorare sulla contaminazione tra le arti, con danza, videoarte, musica, arti visive e molto altro, senza dimenticare l'origine glocal che caratterizza da sempre il festival. Sono in programma 74 film brevi, documentari e lungometraggi, di cui 29 in concorso, 2 omaggi, 3 lungometraggi fuori concorso, 5 mostre e altri 6 eventi speciali. Le opere in competizione sono, 5 per il concorso documentari Panoramica Doc, 5 per il concorso documentari brevi Doc Short, 16 cortometraggi di Spazio Piemonte per il Premio Torét - Miglior Cortometraggio e 3 doc nel progetto Professioni Documentario che ha coinvolto oltre 1000 studentesse e studenti delle provincie di Torino, Cuneo e Biella, invitati anche a partecipare al contest,  ideato da Eugenio Cesaro degli Eugenio In Via Di Gioia,  Cortissimo, che invita i giovani talenti a inviare una o più stories di Instagram della durata massima di 15” su un tema che sarà svelato il 15 marzo. Il festival sarà inaugurato ufficialmente il 15 marzo alle 21 al Cinema Massimo con un documentario che ha avuto il riconoscimento come Miglior film ai Nastri d’Argento, La bella stagione di Marco Ponti, a cui verrà  assegnato il Premio Riserva Carlo Alberto 2023, dedicato a un personaggio del mondo cinematografico capace di esportare l’eccellenza piemontese. Inoltre l’artista Irene Dionisio incontrerà il pubblico, oltre a essere protagonista della mostra, Geologia di un padre, da lei curata, all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, e sarà riservano uno spazio alla regista Adonella Marena e all'attore Andrea Murchio, due figure importanti del cinema glocal, scomparsi negli scorsi mesi. Il fattore territoriale, centrale nella manifestazione, è un aspetto che emerge anche grazie alle serie e con l'evento Salotto Cinema - La serialità in Piemonte dove si parlerà di  Cuori, La legge di Lidia Poët e Il nostro generale, previsto per il 18 marzo alle 19 al Circolo dei lettori con i registi Riccardo Donna, Letizia Lamartire e Lucio Pellegrini. In tema di contaminazioni, l’artista Valerio Berruti sarà  al centro di un focus dedicato all’animazione, con una selezione di corti animati nati dalle sue opere accompagnati da musiche di importanti autori, che vanno da Paolo Conte a Ludovico Einaudi, fino a Ryuichi Sakamoto. In questa nuova edizione ci sarà una volta la storica collaborazione Coorpi,  per un intero pomeriggio dedicato alla danza. Per il 2023 il Focus from Local to Glocal  ospiterà la Francia, con tre cortometraggi in arrivo dalla regione Auvergne Rhône-Alpes grazie al gemellaggio col festival Filmoramax di Lione. Inoltre fuori concorso ci saranno tra documentari: La banda degli asini di Max Chicco e Le mille notti di Stefano Di Polito e Umberto Eco e La biblioteca del mondo di Davide Ferrario che chiude l’edizione, dopo la cerimonia di premiazione che vedrà anche l'assegnazione del Premio Prospettiva all'attore di origine albanese Jozef Gjura. Read the full article
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luigidelia · 2 years ago
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Antella, Firenze. 21 gennaio 2023. Non avevo ancora camminato intorno alla casa dove dormiamo. Sono riuscito a farlo stamattina. I primi giorni di prove sono stati senza respiro. Ieri abbiamo messo per la prima volta tutto in fila e ora, lo so, c’è da ritrovare una dilatazione, un respiro. Ho comprato dei fiori. Rallentiamo un po'. Bisogna lasciare a spazio a qualcosa che arrivi di per sé. Roberto ha un grande ascolto. E fiuto. Osservo come accelera, approfitta, molla, sparisce, sente cosa fare o non fare a seconda di dove sono. È rispettoso. È una bella qualità. Mi sento sereno: so che dietro quella tranquillità è un kamikaze senza paura. Gli altri, Michela, Davide, Ciccio, sono entrati ora nei giorni senza respiro. Dormiamo in una casa in collina subito fuori Antella. Camminando questa mattina pensavo al fatto che ho preso al volo un po' di libri di Pavese che volevo avere qui e non ho portato proprio quello che vorrei ora, quelle delle poesie. Forse meglio così, se certe vite le hai già vissute meglio provarne altre no? L’altra mattina era ancora buio e dovevamo spostarci a Cascina per recuperare delle date. Alla svolta della casa ho sorpreso con i fari due caprioli. Non sono corsi via. Si sono spostati piano al lato della strada. Li ho potuti vedere da vicino. Avevano corna giovani ricoperte di peluria morbida. Li ho seguiti per un po' con lo sguardo e poi sono scomparsi nello specchietto e nella notte. Rileggendo queste righe ritrovo tutto quello in cui mi ha formato Pavese come scrittore e come narratore. E’ in questa maglia questi giorni che stiamo cercando con Roberto cosa c’è di nascosto ancora.
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charlievigorous · 3 years ago
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"...io domenica scorsa ho scoperto che non ho più amici. Tutto il movimento antagonista, centri sociali, quella che una volta era lo zoccolo duro, a Bergamo non esiste più. Il paci paciana (centro asociale) di Bergamo chiede il pass per entrare o autocertificazione con tampone (prezzo politico di 4 € ahahahah). In un posto liberato si chiede la tessera. È inaudito. Mi vergogno dei miei "compagni". Chi ha resistito alla fine è andato via. Addirittura, un amico mi ha detto che anche il Leoncavallo si è piegato al vaggino. La mia sola fortuna è che avevo già deciso anni fa che la città con i suoi deliri non faceva per me e sono andato a vivere in campagna. Ora vivo in un ecovillaggio con altre 15 persone. Non siamo immuni al delirio lì fuori. Anche noi, nelle poche occasioni in cui scendiamo in Babilonia, ci scontriamo con l'ottusità della gente "normale" e tornando a casa capita di portarci dietro l'amarezza e lo sconforto. Siamo forti ma non invincibili. Questa estate abbiamo ospitato tanti giovani, alcuni anche vaccinati. Le fasce di età c'erano tutte, ma dopo che è iniziato il delirio invernale, anche qui è scomparsa la fascia 18-35, sostituita dalla fascia 35-50. Scomparsi tutti! Hai tutta la mia solidarietà..."
Anonimo
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corallorosso · 3 years ago
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16 settembre 1976 "LA NOTTE DELLE MATITE SPEZZATE" Un orrore, una piaga indelebile per l'Argentina e per il mondo intero. La Plata, capoluogo della provincia di Buenos Aires, notte del 16 settembre 1976. María Claudia Ciocchini, María Claudia Falcone, Horacio Hungaro, Claudio de Acha, Francisco López Muntaner, Daniel A. Racero: sequestrati nel corso dell’operazione di polizia conosciuta come la Noche de los Lapices e poi scomparsi. Desaparecidos. Erano tutti e sei studenti liceali di 16 e 17 anni, accusati di sovversione, colpevoli di aver manifestato in difesa dei diritti degli studenti, in particolare contro l’abolizione del Boleto Escular Secundario, che garantiva il trasporto gratuito sugli autobus e uno sconto sui libri di testo. Era l’anno del colpo di stato che portò al potere la giunta militare di Jorge Rafael Videla e che vide l’avvio del Processo di Riorganizzazione Nazionale, durato fino al 1983. Il bilancio assegnato all’istruzione venne ridotto energicamente. Le università, con i loro professori progressisti, i ricercatori e i gruppi studenteschi, vennero considerate possibili centri di “sovversione politica”. Il concetto di Riorganizzazione significò un’azione repressiva sistematica. Per gli studenti diventò sempre più difficile incontrarsi, i centri ricreativi pullulavano di poliziotti, nelle scuole iniziarono i blocchi e le perquisizioni all’entrata. La notte del 16 settembre 1976 un gruppo di uomini incappucciati fece irruzione nelle case dei sei ragazzi e li rapì, dopo averli picchiati e denudati, impedendo alle famiglie di opporre resistenza. Furono internati in campi di detenzione diversi e torturati. Usarono gli elettrodi attaccati alle labbra, alle gengive e ai genitali, inviando potenti scariche elettriche che bruciavano la pelle. Li tennero rinchiusi nudi, in mezzo ai liquami. Abusarono delle ragazze. Li nutrirono con una brodaglia grassa quel tanto per non farli morire. Qualche giorno dopo furono arrestati altri quattro giovani, Patricia Miranda, Emilce Moler, Pablo Díaz, Gustavo Calotti, tutti sopravvissuti. Dalla testimonianza di Pablo Diaz, militante in una organizzazione giovanile rivoluzionaria, è stato possibile ricostruire i fatti di quella notte, l’orrore delle detenzioni politiche, delle torture e delle “sparizioni” durante i voli della morte sull’Atlantico: dal 1976 al 1981, più di cinquemila dissidenti politici, veri o presunti oppositori del regime, dopo un’iniezione di Penthotal, barbiturico ad azione ipnotica usato anche nella pena di morte negli Stati Uniti, narcotizzati ma ancora vivi, furono scaraventati dai portelloni degli aerei della Marina Militare e lanciati nell’oceano. Un volo di sola andata verso il Destino Finale. Pablo Diaz fu detenuto per tre anni, nove mesi e dieci giorni nell’Unità Penitenziaria nº9 di La Plata e non venne affatto formalizzato un processo legale; non è mai riuscito a spiegarsi il perché della sua liberazione e non di quella dei suoi compagni. Il senso di colpa per essere sopravvissuto, il dolore e il senso di solitudine lo spinsero nel 1982 a presentare una denuncia alla Commissione Nazionale sulla Sparizione delle Persone. Plaza de Mayo a Buenos Aires, ma anche altre città argentine, ricordano i sei ragazzi e le migliaia di scomparsi che hanno lottato per la propria terra, la propria cultura, la propria libertà, contro ogni forma di dittatura. Stella Colombo
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