#fine del mondo poesia
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pier-carlo-universe · 1 month ago
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"Inverno" di Umberto Saba: Un Paesaggio dell’Anima. Recensione di Alessandria today
La fragilità dell'esistenza nell'inverno dell’animo umano.
La fragilità dell’esistenza nell’inverno dell’animo umano. La poesia “Inverno” di Umberto Saba rappresenta una straordinaria sintesi tra descrizione paesaggistica e introspezione emotiva. Attraverso immagini potenti e una visione simbolica, Saba esplora temi universali come la fragilità dell’esistenza, il conforto nella desolazione e il legame tra natura e condizione umana. Analisi della…
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diceriadelluntore · 1 month ago
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Storia Di Musica #354 - Astor Piazzolla, Libertango, 1974
Nello stesso anno in cui in Brasile Jorge Ben iniziava la sua rivoluzione della musica del suo paese, nei territori dei cugini argentini si consumava il più famoso degli assassini musicali (premetto subito in senso simbolico). Fu però un delitto che non portò alla fine, ma alla rinascita e alla rivoluzione di uno mondo magico ma dalle regole ferree, fiero del suo conservatorismo: il tango. Oltre che musica e il più sensuale dei balli, il tango è poesia e cultura. Nessuno sa perchè si chiami tango (dal latino tangere, io tocco) solo che nacque agli inizi del ‘900 nella zona di Rio de la Plata, diffondendosi inizialmente in Uruguay e Argentina. Nella prima metà del secolo, dal punto di vista musicale, il tango si sviluppò come musica da orchestra e canto, con figure leggendarie, come quelle di Carlos Gardel, eroe nazionale argentino (anche se i maligni sostengono che fosse uruguaiano), Roberto Goyeneche o Carlos José Pérez. Il la musica e il canto, malinconico, emotivo, teatrale modellò il genere. Uno che però non amava tanto le fissità musicali fu Astor Pantaleon Piazzolla. Figlio di genitori italiani, Piazzolla visse i primi 16 anni a New York. Studia musica e direzione d��orchestra. Si trasferisce nella seconda metà degli anni 40 in Argentina, dove diviene un virtuoso del bandoneon, lo strumento inventato da Heinrich Band nell’800 e divenuto il principe delle orchestre di tango, che per caso arriva in Argentina al seguito dei marinai tedeschi, che lo tenevano sulle loro navi ad allietare i durissimi e lunghissimi viaggi transoceanici.
Piazzolla era affascinato dall'idea di fondere elementi della musica jazz alle strutture del tango. Fu un parto difficilissimo: ritornò a fine anni '50 a New York prontissimo a diventare musicista di colonne sonore, ma in quel momento la musica era in fermento per la rivoluzione del jazz che Kind Of Blue di Miles Davis e poi il nucleo del free jazz di Ornette Coleman stavano portando. Finì senza un soldo e solo per la generosità di un editore musicale che gli pagò un anticipo su una delle sue canzoni più famose (e che ritroveremo tra poco) ritornò in Argentina. Qui però un infarto lo segna profondamente, tanto che tramite alcuni amici si trasferisce in Italia. Ed è proprio qui, nella culla della sua famiglia, che inizia la rivoluzione: registrò nel 1974 l’album che lo fece conoscere al mondo interno.
Libertango, dall’unione tra libertad (in questo caso espressiva) e tango. Registrato a Milano con una favolosa sezione d’archi diretta da Umberto Benedetti Michelangeli, ma soprattutto con l’innesto di una sezione ritmica di chiara matrice jazz composta dal basso elettrico di Pino Presti e dalla batteria di Tullio de Piscopo, il disco ridisegna il tango, che attraverso le dissonanze del jazz, l’innesto di strumenti elettrici e una nuova idea compositiva diviene Tango Nuevo. I puristi ovviamente gridano allo scandalo, e definiscono Piazzolla el asesino del tango. Persino Borges se ne risentì, e si dice che lo chiamasse Astor Pianola. Fu persino accusato di non essere mai stato argentino, un camorreno, per le sue origine italiane. Ma poco possono le critiche contro la sensualità e dal forza di Libertango, meravigliosa, famosa per l’innumerevole quantità di usi cinematografici e pubblicitari (per esempio, nella pubblicità della Vecchia Romagna, prima del penoso remix di David Guetta). Vi aiuto a capire le differenze: confrontate la sua musica con quella che accompagna una delle scene più famose del cinema degli ultimi 30 anni: quando Al Pacino in Profumo Di Donna balla il tango, si muove sul ritmo di Por Una Cabeza, uno dei classici di Carlos Gardel: il titolo, Per Una Testa in senso letterale, è l'equivalente del nostro Per Un'Incollatura, ed è una brano che gioca sulla metafora della passione del protagonista per le corse dei cavalli comparata per la sua passione per le donne. Piazzolla sciorina partendo da Libertango la sua idea nuova in altri 6 momenti: Meditango, Undertango, Violentango (clamorosa), Novitango e la conclusiva Tristango. A legare il tutto una toccante e magnifica elegia al padre, Adios Nonino, dedicata al padre morto improvvisamente (Nonino era chiamato il Padre, Don Vicente Piazzolla, e in Argentina l’immigrazione italiana ha di fatto sostituito l’abuelo\a spagnolo con nonino\a dall’italiano nonno\a riferito in senso reverenziale alle persone anziane); scritta nel 1959, è la canzone la cui vendita dei diritti gli permise di ritornare in Argentina da New York, viene ripresa e ridisegnata secondo il conjunto electrico del Tango Nuevo, con una forza espressiva ed emozionale senza pari.
Il disco, un successo per la piccola etichetta Carosello che lo sopportò, proietta Piazzolla ai vertici della musica internazionale. Di lì a poco collaborerà con grandi del jazz, dirigerà intere orchestre e spedisce il tango in una dimensione nuova ed internazionale, e che rivitalizzerà il genere, fino alle ultime evoluzioni, tipo i Gothan Project, paladini del tango elettronico. Piazzolla dimostra come è possibile difronte ad un bivio, scegliere una strada pericolosa, rischiosa, ma che può portare a risultati grandiosi. Nel rispetto di se stessi, anche della tradizione, ma che non si ferma davanti alla difficoltà. Che sia di augurio per chiunque legga queste righe.
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crazy-so-na-sega · 5 months ago
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mito->poesia->tragedia->metodo scientifico: uno sviluppo straordinario
Il genere tragico in Grecia: riproposizione ed evoluzione del mito arcaico.
La forma della tragedia classica greca è il punto di arrivo di un processo sviluppato a partire da un primitivo nucleo del coro, progressivamente ridimensionato a favore di uno spazio sempre maggiore riservato al dialogo dei personaggi. La tragedia ripropone e riplasma del materiale mitico ereditato dal mondo arcaico. Il suo appellativo si collega etimologicamente alla parola tragos con riferimento al capro, riferimento che è stato interpretato in vari modi quali: a) il sacrificio rituale celebrato alla fine della rappresentazione; b) la maschera indossata dal coreuta, c) il premio dato al vincitore. In ogni caso, si tratta di un riferimento a qualcosa di animalesco, ferino, primitivo, selvaggio (si veda ciò come traccia dell’animalesco selvaggio dionisiaco rispetto all’olimpico armonioso compositore delle passioni rappresentato da Apollo).
La struttura era articolata in un prologo sugli antefatti dell’azione, un parodo, canto di ingresso del coro, gli episodi costituiti da dialoghi con gli stasimi, i canti di stacco tra gli episodi, e l’esodo, canto di uscita. Il coro (12 coreuti ai tempi di Eschilo con uno di loro, il corifeo, dialogante a nome degli altri con gli attori) cantava in armonia con la musica e la danza ( infatti il verbo koreuein significa danzare). Gli attori, tutti di sesso maschile, indossavano maschere, coturni, ovvero alti calzari per essere più visibili agli spettatori e la scena era dotata di macchine teatrali. In genere le rappresentazioni avvenivano in occasioni di feste in onore di Dioniso, dio rurale patrono della fertilità. Erano dei veri e propri festival in cui gareggiavano i poeti tragici con la loro tetralogia (3 tragedie ed un dramma satiresco). C’era una commissione selezionatrice fatta da un arconte ed altri due membri che sceglieva i tre concorrenti per la gara finale, ogni tetralogia veniva rappresentata in una giornata intera e quindi il concorso durava 3 giorni. La giuria per assegnare la vittoria della corona di edera era formata da 1 rappresentante per tribù estratto a sorte da una lista fornita da ognuna delle 10 tribù, che dava una classifica dei concorrenti su una tavoletta, delle 10 poi ne venivano estratte 5 a sorte per avere il vincitore. I contenuti delle opere attingevano ad un patrimonio di racconti mitici tradizionali e la rappresentazione drammatica era fondata sul contrasto, la lacerazione tragica tra protagonista umano e divino e degli uomini tra loro. Tutto il popolo partecipava, lo stato finanziava i poveri con due oboli per indennizzo delle ore di lavoro perdute ed i costi degli spettacolo (scenografia, costumi, attori, coreuti, musicisti) che erano in parte sostenuti anche dalle famiglie ricche, c’era anche un servizio d’ordine dotato di robusti manganelli contro eventuali disturbatori. La partecipazione popolare al "RITO COLLETTIVO" funzionava da presa di coscienza, grazie a questa esteriorizzazione del dramma tragico reso nello spettacolo teatrale, che determinava una presa di distanza, una assunzione di responsabilità collettiva di fronte alle tensioni tremende dell’esistenza umana secondo una visione che affondava le sue radici nei sanguinosi rituali del mondo pre-greco. In questo consiste la CATARSI di cui parla Aristotele: LA RAPPRESENTAZIONE HA UN EFFETTO LIBERATORIO DALLE PASSIONI (i patemata = patemi di animo).
La tragedia si differenzia dal mito per un tratto sostanziale: se nel mito lo scontro è nel mondo divino, qui il piano si sposta sulla violenza tra dei e uomini e degli uomini tra di loro. Questo è testimoniato dal lessico tragico. Sono fondamentali alcune parole chiave ricorrenti nei dialoghi, che mostrano la inconciliabilità nella tragedia di polarità opposte di comportamento: parole da un lato come collera (che però è anche invidia!) (ϕθόνος),e accecamento divino (΄Άτη) , tracotanza (ύβρις), e violenza brutale (βία) , dall’altro legge (νόμος), diritto (δίκη), autorità legale (κράτος), timore (ϕóβος), e pietà (ʹΈλεος), parole che segnano nella loro opposizione il contrasto inconciliabile che caratterizza la tragedia. Viene bollata la tracotanza, si esibiscono i valori morali e le norme etico-sociali cui conformare i comportamenti dei cittadini della polis ed il ricorso al mito serve a rinsaldare il tessuto connettivo della convivenza. Nella trilogia più famosa, l’Orestea, formata da Agamennone, Coefore, Eumenidi, la tragedia si risolve con Oreste portato nella sede suprema della istituzione della polis, l’Areopago, dove Oreste è alla fine assolto e le furiose persecutrici Erinni si trasformano nelle benigne Eumenidi. Si impone la Giustizia, la DIKE, che si esplica nel NOMOS, nella Legge della città, a fronteggiare la violenza, ma ciò non sarà sufficiente se nell’Antigone la legge del cuore e degli affetti si scontrerà con la legge ufficiale della città stessa, che tuttavia prevarrà alla fine. Ma a questo punto, gli Dei c’entrano poco, il conflitto è tra gli uomini, gli Dei sono solo spettatori. I drammi umani riportano le scorie dei drammi divini. Più i conflitti "si umanizzano", più si perde la carica istintiva, travolgente dell’eros e della violenza primitiva e questo porta alla famosa tesi di Nietzsche che ne La nascita della tragedia (1871) vede nelle prime tragedie un equilibrio tra le parti del coro che rappresentano la potenza dionisiaca degli istinti e le parti del dialogo degli attori che moderano con la razionalità apollinea lo scatenamento degli istinti, fino ad arrivare ad Euripide che descrivendo con realismo delle vicende umane fa prevalere il distacco dello spirito superiore ed equilibrato apollineo in contemporanea all’avvento del razionalismo di Socrate in filosofia e la definitiva eclissi del dionisiaco, evento che il filosofo tedesco denuncia come la più grande perdita per tutta la cultura occidentale.
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Più i miti perdono valore di Verità, staccati dal culto dionisiaco, più i paragoni e le similitudini linguistiche, da "strati intermedi" tra il mondo degli dei e quello umano subiranno una trasformazione che costituirà i primi gradini delle deduzioni analogiche di cui il metodo empirico si servirà più tardi.
-Franco Sarcinelli (WeSchool)
-Bruno Snell (le origini del pensiero europeo)
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fashionbooksmilano · 1 month ago
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Jiří Kolář
Gerwald Sonnberger, Egon Schiele Centrum Český Ktumlov
Galleria Nazionale d'Arte Antica Palazzo Barberini, Roma 1998 , 140 pages, 21x29,5cm,
euro 80,00
email if you want to buy [email protected]
Mostra Galleria Nazionale d'Arte Antica Palazzo Barberini Roma 21 maggio-28 giugno 1998 nell'ambito della mostra Jiří Kolář e il Collage Ceco
Jiří Kolář nasce nel 1914 a Protivín in Boemia. Nel 1922 si trasferisce a Kladno vicino a Praga. Dopo un’adolescenza caratterizzata da lavori fortuiti, a sedici anni scopre l’edizione ceca di “Les mots en liberté futuristes” di Filippo Tommaso Marinetti, che lo conduce nel mondo della poesia moderna, fondamentale per la sua futura ricerca artistica. Grazie all’incontro con il Surrealismo inizia a lavorare con la tecnica del collage. Nel 1937 espone per la prima volta al Mozarteum di Praga. Nel 1941, durante l’occupazione tedesca, esce la sua prima raccolta di poesie e l’anno seguente fonda il “Gruppo 42” insieme ad altri artisti. Tra il 1946 e il 1948 compie alcuni viaggi a Parigi, in Germania e in Gran Bretagna e qualche anno dopo esce Il Fegato di Prometeo (1952) nel quale, unendo le immagini alla poesia e alla prosa, denuncia la drammatica situazione cecoslovacca dopo l’avvento del regime comunista; una dura verità che insieme ad altri scritti gli costa il carcere per nove mesi e il divieto di pubblicazione fino al 1964. Verso la fine degli anni Sessanta espone in Germania e in Brasile dove nel 1969 è premiato alla X Biennale di San Paolo quindi in Canada e in Giappone. Nel ‘75, nel ‘78 e nell‘85 il Solomon R. Guggenheim Museum di New York gli dedica tre importanti mostre personali (Kolář e Picasso sono gli unici artisti che, da viventi, hanno avuto l’onore di tre mostre personali presso il Guggenheim di New York). Seguiranno molte altre esposizioni in tutto il mondo. Nel 1983 conclude il “Dizionario dei metodi”, una raccolta con tutte le tecniche utilizzate per la realizzazione delle sue opere: collage, ventilages, chiasmages, confrontages, etc. Le sue opere sono presenti nei maggiori musei del mondo. Nel 1991 riceve il Premio Seifert e viene nominato cittadino onorario di Praga, dove muore nell’agosto del 2002.
É del 2012 un’importante retrospettiva presso il MOCAK di Cracovia, mentre nel 2014 si è tenuta una mostra antologica presso la Kunstforum Ostdeutsche Galerie di Regensburg, in Germania ed una mostra-tributo in onore del centenario della nascita dell’artista (September 23, 2014 – February 8, 2015) presso il Museum Kampa di Praga.
L’anno successivo una mostra antologica con più di 160 lavori gli è stata dedicata a Prato presso la Galleria Open Art ed il museo di Pittura Murale di San Domenico.
14/12/24
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sciatu · 11 months ago
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LA FAVOLA DEL MARE (da una lettura del filosofo Cacciari sula necessità della poesia).
Un ragazzo con un lento andare cercava sulla riva del grande mare il senso di quella distesa infinita che sollievo dava alla sua vita un senso si giusto, ma ben pesato quando incontrò uno scienziato che gli spiegò con fare dotto cosa era il mar da sopra a sotto. “Il mare è realtà non fantasia è una riserva di energia, il sole crea le nuvole bianche loro corrono via mai stanche, vanno nel mondo acqua a donare con essa la vita fan germogliare. L’acqua scende intensa o avara diventa ora rivolo, fiumara dona ricchezza gioia, dona vita al mare torna mai stanca, sfinita! Il mare quindi è energia infinita una pila che mai è esaurita” Il ragazzo ascoltava stupito ma quanto detto dall’erudito era giusto preciso, ma parziale, era il noto, il vero il reale. Continuò allora per la sua via finché non trovò un gran dottore della filosofia conoscitore “Il mare esiste, come scienza dice, della vita e origine e fattrice alla terra, opposto lo penso e dell’aria, molto più denso ma con l’uomo non ha affinità è acqua che va di qua e di là, necessario per la sua utilità però non ha nessuna santità, è un oggetto non fondamentale solo acqua, dei pesci e del sale se ci chiediamo la sua necessità capiamo che quindi non ne ha: della natura e uno strumento come la roccia o come il vento.” Il ragazzo alla fine si allontanò con pochi si e mille non so. Mentre deluso sulla sabbia andava vide un uomo che felice nuotava Gli chiese “Scusa nuotatore Tu che vi trovi gusto e sapore dimmi del mare il significato perché questo liquido manto a guardarlo porta all’incanto quale senso può mai avere guardarlo e provar piacere?” “il mare per quanto sia vecchio Dell’anima di ognuno e lo specchio lei lo guarda e vede dubbi, paure sente le ansie quelle più dure e quelle che sono meno vere quelle false e quelle più sincere e nel guardarle ne vede il confine pesa quelle pure e quelle meschine e capisce infine dove volgere la prua in quale direzione è la sorte sua. Questo lo capisci nell’esser poeta non nello scrivere versi di seta ma nel dare voce a quel che vede l’anima tua, nel capir quanto crede nel dar forma in modo sincero a quel che è il tuo pensiero. Per questo il gran mare è perfetto perché cambia muta e l’effetto di questo instancabile mutare è un tuo continuo poetare. Pensa alle albe quando si accende e presto di blu tutto risplende pensa alle tempeste, alla sua rabbia che non potrai mai metter in gabbia pensa al tramonto, il diventar quieto e della luna esser l’amante lieto Muta come l’animo nostro ora è pace ora diventa mostro.” Quando l’uomo ebbe finito Il ragazzo lo guardò stupito “Chi sei che ben hai definito quanto scienziato ed erudito non ha saputo voluto sviscerare e per parte loro raccontare” “Non sono un saggio o un profeta come ogni uomo sono poeta quanto non vedon scienza e filosofia lo trova e lo dice la poesia”
THE TALE OF THE SEA (from a speech by the philosopher Cacciari on the need for poetry). A boy with a slow walk, was looking on the shore of the great sea, the meaning of that infinite expanse, what relief it gave to his life, a correct but well-considered meaning, when he met a scientist, who explained to him with a learned manner, what it was the sea from above to below. “The sea is reality not fantasy, it is a reserve of energy, the sun creates white clouds, they run away never tired, they go into the world of water to donate and with it they make life sprout. The water descends intensely or sparingly, now it becomes a trickle, the river gives richness, joy, it gives life to the sea, it never returns tired, exhausted! The sea therefore is infinite energy a battery that is never exhausted" The boy listened in amazement but what the scientist said was precise, but partial, it was what was known, what was true, what was real. He then continued on his way, until he found a great doctor, a connoisseur of philosophy “The sea exists, as science says, of life origin and mother, to the earth, opposite, I think of the air much denser, but it has no affinity with man, it is water that goes here and there, necessary for its usefulness but it has no sanctity, it is a non-fundamental object only water, some fish and some salt if we ask ourselves its necessity we understand that it therefore has none: for the nature is an instrument like the rock or like the wind.” The boy finally walked away with a few "yeses" and a thousand of " I don't know". While disappointed on the sand he saw a man who was swimming happily, he asked him "Sorry swimmer. You who find taste and flavor in it, tell me the meaning of the sea, because this liquid blanket, looking at it, leads to enchantment, what meaning can it possibly have, looking at it and feel pleasure?” “the sea no matter how old it is, of everyone's soul it is the mirror, she looks at it and sees doubts, fears, feels the anxieties, the hardest ones, and those that are less true, the false ones and the most sincere ones, and in looking at them he sees the boundaries, weighs the pure ones and the petty ones and finally understands where to turn his bow and in what direction his fate lies. You understand this in being a poet, not in writing silken verses, but in giving voice to what your soul sees, in understanding what it believes, in sincerely giving shape to what your thoughts are. This is why the great sea is perfect, because it changes and the effect of this tireless change is your continuous poetry. Think of the dawns when it lights up, and soon everything shines blue, think of the storms, of its anger, which you will never be able to put in a cage, think of the sunset, the becoming quiet and of the moon being the happy lover Mute like our soul , now it's peace, now it becomes a monster.” When the man finished, the boy looked at him in amazement. “Who you are that you have well defined, as a scientist and scholar, he was unable to dissect, and for their part to tell” “I am not a sage or a prophet, like every man I am a poet, what science and philosophy do not see, poetry finds and says”
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lunamarish · 7 months ago
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Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.
Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi geni ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi.
Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.
Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene.
Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola.
Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne.
Tu diresti “Che bello!”. Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno.
E non diresti “Che bello! “, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musica.
Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni.
Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda.
Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina.
E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
Dino Buzzati
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canesenzafissadimora · 10 months ago
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È l’ultima lettera d’amore che ti scrivo.
È stato un lungo cammino, da quel primo giorno che sono entrata nello studio della psicologa.
Ero arrabbiata, delusa, incazzata con il Mondo e con me stessa, ho preso un sacco di decisioni di merda e la serenità sembrava così lontana, da diventare impossibile da raggiungere.
Eppure oggi, mi ha dato un foglio, una penna e mi ha detto “ora, sei pronta a dirle addio”.
Sai, in fondo ho sempre saputo che sarebbe finita così… ed è per questo e per altri mille motivi, che non sono mai riuscita a dirti “ti amo”.
Te lo dico ora, perché ti amavo.
Ti amavo perché eri come uno di quei giorni di fine marzo, che è Estate sotto i raggi del Sole ed è ancora Inverno, quando ti ritrovi all’ombra.
Ti amavo, perché ti guardavo quando eri distratta. Quando lavoravi, guardavi il telefonino, rullavi una sigaretta o ti perdevi nella collezioni dei tuoi mostri e mi rendevo conto, che per averti accanto, qualcosa di buono nella vita, l’aveva fatta.
Ti amavo, perché sentivo il bisogno di coniugare i verbi al futuro ed i sogni al plurale.
Che di notte, mentre dormivi, alzavo le coperte per vedere se respiravi e mi rendevo conto, che da soli si diventa forti, ma in due si diventa un po’ più felici.
Avrei potuto cancellarti, mandarti a quel paese, non risponderti al telefono, voltarti le spalle, dimenticarti, non pensarti, non prendere treni in piena notte, ricordarmi i dettagli, ma non l’ho potuto fare, perché non ci capivo più niente. Ti amavo e basta.
Amavo le tue battaglie perse, l’inchiostro che usavi meglio di me, la voce che era sabbia rotta dalle onde del mare, il modo in cui ti facevano male i sogni, le cazzate che dicevi pur di non dire delle stupide verità.
Allora, ti auguro di circondarti di “persone medicina”
L’ho letto in una stupida poesia, che fa così
“ Nonna diceva che esistono persone che hanno le tisane dentro gli occhi
Camomilla nello sguardo
Che tu le vedi e ti si tranquillizza il respiro, i pensieri.
Diceva che esistono persone che non si spaventano dei tuoi dolori
Che non hanno paura di abbracciarti i traumi
Che sanno dove metterti dentro le parole giuste
Persone che hanno imparato a frequentare così bene il Sole
Che sanno addirittura accompagnarti fino al tuo tramonto “
Lascio a te la rabbia, ascoltare chi voleva solo distruggerci, i punti e le virgole che mancano nelle mie parole, il dolore che ti ha coperto gli occhi e le labbra, rendermi sostituibile, perché io non lascio più sporcare i ricordi e la memoria, a nessuno.
Neanche da me stessa.
E racconterò di noi, alla gente che incontrerò, alla persona che amerò dopo di te, ti ritroverò nei miei progetti per aiutare gli altri, nei film che ti scavano dentro, nei tramonti visti dal finestrino della macchina, nei viaggi dove scoprirò qualcosa di nuovo e negli sguardi dei bambini che non sanno chiedere aiuto.
Tu, porta rancore anche al posto mio.
E ti diranno che è tutto prestabilito, che fa parte di quel rapporto tossico che ti hanno messo in testa, che di buono non ho nulla, che io sono il lupo e tu Cappuccetto Rosso, che sono un fake, che ho rubato, mentito, ma sai, queste parole non sono per riaverti, ma per rendere libera me.
Da tutto questo.
Fatti ancor più carina, un filo di trucco, lascia i capelli sciolti, spruzza il profumo, mettiti quei jeans che ti fanno il culo da paura, sali in macchina, accendi la radio, ma che sia la tua voce la canzone più bella e vatti a prendere tutto il buono di questo Mondo.
Questa è l’ultima lettera d’amore che ti scrivo, se senti un cigolio, è la porta del mio cuore, che si chiude e ti dice addio.
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#Ale
Tuttodunfiato
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elperegrinodedios · 1 year ago
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Storie ed emozioni e lezioni di vita.
Dal Grande Spirito allo Spirito Santo.
Tatanka, taverna del pellegrino, oasi di pace. 📷
Ancora ateo ma molto provato dagli eventi. Non mi ero ancora convertito, e stavo attraversando il periodo più duro della mia vita. Ma nonostante tutto avevo dei punti fermi su cui appoggiarmi e molti amici che mi sostenevano, conoscendo le cause delle mie sofferenze. Subivo ingiustizie da parte di chi invece, avrebbe dovuto aiutarmi. Le cause? Avevo acquistato un luogo che non avrei dovuto prendere io, già, faceva gola ai qualcuno dei potenti che amministravano il Comune e ad altri che in teoria avrebbero dovuto stare neutri.
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Era ridotto cosi quando l'ho acquistato io ma era al centro del paese e in più confinava con quella che si può ben vedere, un'antica chiesa del 1700 circa, ancora diroccata e sconsacrata. Divieti su divieti, ma nonostante aver dovuto rinunciare a molte delle strutture che avevo nei programmi come per esempio una piscina, alla fine questo è stato il prodotto che sono riuscito ad ultimare. Avevo due squadre in serie "A" sia maschile che femminile e i campi di calcetto erano necessari.
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Non mi fecero muovere più di cosi e non potetti più avere nessun altro permesso, nel frattempo avevano ristrutturato e riconsacrata la chiesa. E cosi, come funzionava anticamente, mi ritrovai contro Sindaco e Comune, Chiesa, clero e Belle Arti con il naturale coinvolgimento dell'arma dei carabinieri. Sindaco comunista (Peppone) prete (Don Camillo)...si voglio finire questo post con il sorriso sulle labbra pensando che è solo passato e che, seppure in tantissimi anni di soprusi, che in Italia conosciamo bene, forse proprio per tali sofferenze, io quì ci ho incontrato, conosciuto e ricevuto il Signore nel mio cuore e nella mia vita.
Nello stesso periodo dunque, iniziò la mia storia come pellegrino e mi ritrovai come d'incanto ad essere un uomo davvero felice. Avevo con me il Fratello e l'Amico come Guida, e tutte le Vie del mondo da percorrere in libertà. La vera Libertà!
-Non dovevo rinnegare niente e nessuno, io ero cresciuto come uno spirito libero e sempre dalla parte dei deboli. Amavo gli indiani fin da piccolo e odiavo le promesse non mantenute cosi come facevano i bianchi con lingua biforcuta. D'altra parte gli indiani erano un popolo spirituale, che amava e rispettava la natura gli animali e gli altri esseri umani se agivano correttamente con loro e venivano in pace e rispettavano la parola data. Traditi più volte, reagivano con forza e coraggio come le madri quando difendono i loro figli. Per non dilungarmi oltre e concludere, quel Grande Spirito era non altro che lo Spirito Santo, avevo solo cambiato il nome ma era sempre il mio Dio.
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Ma il giorno dopo l'11 Settembre però, dopo aver appreso la notizia dai Tg, anch'io come tutti feci cordoglio. Un abominio, uno vero scempio circa tremila morti, ma gli esecutori, avevano toccato la pupilla di Dio e attirato la sua ira, mentre Bush dichiarava che tutto quello non sarebbe di certo rimasto impunito. Ecco cosi come sempre i capi dichiarano le guerre dai loro comodi salotti, e gli altri vanno a morire. Perchè non andate in testa voi come si faceva una volta? Ma non succederà mai. Ecco perchè il giorno dopo, ripensando alla storia di quei popoli innocenti e sottomessi, cosi come gli indiani e in accordo, con ciò che si può leggere nelle scritture: "Ciò che l'uomo semina, quello pure raccoglierà", ho scritto questa breve poesia già pubblicata, per non dimenticare:
"Guardando e riguardando queste foto degli indiani, mi viene in mente adesso la guerra ai talebani.
La lotta al terrorismo che il mondo sta facendo si dice è cosa giusta, ma la gente sta morendo.
L'America che spara, e che colpisce forte, non se ne rende conto che semina la morte.
Or tutti che l'aiutano perchè colpita al cuore ma intanto nessun ricorda che il talebano muore.
Tu un bel giorno hai deciso e hai decimato gli indiani, con le pistole, i fucili e loro con le mani.
Che senso d'impotenza devono aver provato, hanno difeso casa e non ti avevano provocato.
Ci vivevano da sempre, era la loro terra, ma tu per bramosia gli hai dichiarato guerra.
Li hai sconfitti, sei diventato padrone, loro erano i daini, tu eri il leone e quando eri sicuro che loro erano finiti, hai detto a tutto il mondo: "Ecco a voi gli Stati Uniti".
Ora ti ricordi che quel che è fatto è reso, che senso d'impotenza provi adesso popolo leso.
Eri certo ed eri sicuro che non sarebbe mai successo, del boomerang che è tornato te ne accorgi solo adesso.
Ma tu ti puoi difendere, puoi persino attaccare, la vittoria è quasi certa, ma poi dovrai pensare,
a come vivere in futuro e a far la strada dritta o pagherai di nuovo perchè ogni cosa è scritta".
lan ✍️🖤
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susieporta · 1 month ago
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DINO BUZZATI
"Gli inviti superflui"
Tratto dalla raccolta "60 Racconti".
Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.
Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi.
Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava.Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.
Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene
Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola.
Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne.
Tu diresti “Che bello!”. Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno.
E non diresti “Che bello! “, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musica.
Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni.
Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda.
Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina.
E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose."
DINO BUZZATI, "Gli inviti superflui" da "60 Racconti".
Illustrazione di Barbara Baldi.
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princessofmistake · 1 month ago
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"La poesia più breve è un nome." Che pensiero curioso. Considerare che un nome, una sola parola, può racchiudere così tanto — eppure così poco. Forse è la forma più pura di poesia, distillata alla sua essenza. Un nome è un segno, un simbolo, un suono. Ma in quel suono fugace si nasconde l'intera storia di una persona, di un luogo, di un'idea. Prendiamo, ad esempio, le opere senza tempo di Shakespeare. Si potrebbe sostenere che Shakespeare, in tutto il suo genio, abbia compreso il potere di un nome meglio di chiunque altro. Romeo e Giulietta: quei due soli nomi, pronunciati nel silenzio di un teatro, suscitano emozioni. La faida tra i Montecchi e i Capuleti non è semplicemente una faida di famiglie, ma di identità, di nomi che racchiudono in sé generazioni di significati, amore e dolore. Giulietta dice: “Cosa c'è in un nome? Quella che chiamiamo rosa con un altro nome avrebbe lo stesso profumo”. Eppure, nonostante la sua protesta, il nome Montecchi ha ancora un peso. Non è solo una parola; è un lignaggio, un fardello, un'eredità. Lei lo sa, Romeo lo sa. E ad ogni pronuncia dei loro nomi, sentono sia l'attrazione del destino che il peso della storia. L'etimologia stessa della parola nome è affascinante. Dall'inglese antico nama, derivato dal protogermanico namô, risale ancora più indietro al protoindoeuropeo nomen, che significa “nominare” o “chiamare”. Il nome, nella sua forma più antica, era un richiamo, un modo per evocare qualcuno o qualcosa. Era un potere, e con il potere arrivava l'identità. Diventava un legame, un filo che collegava gli individui alle loro comunità, ai loro antenati, al loro destino. Che cos'è allora un nome? È molto più che un accozzaglia di lettere. È una rivendicazione. Un nome è un dono, ma a volte sembra più una condanna. Nei nostri nomi ereditiamo eredità di amore, ma anche di conflitti, di aspettative. Dal momento in cui ci viene dato un nome, esso inizia a plasmarci. Diventa parte del nostro paesaggio emotivo. Ci cresciamo dentro, o a volte ci ribelliamo ad esso, cercando di ridefinire chi siamo a prescindere da esso. In un certo senso, i nomi sono uno specchio. Ci riflettono chi siamo e chi siamo destinati a essere. Ma sono anche in continua evoluzione, perché il modo in cui ci chiamiamo, in cui ci rivolgiamo, definisce il modo in cui siamo visti. Considerate le emozioni che si provano intorno a un nome: l'emozione di sentire qualcuno pronunciare il vostro nome con amore, il dolore quando viene pronunciato con rabbia. C'è potere in un nome che viene sussurrato, che viene gridato, che viene scritto in una lettera, che viene inciso nella pietra. Ma forse il vero peso di un nome deriva dal suo legame con qualcun altro. Quando chiamiamo un altro per nome, lo riconosciamo. Convalidiamo la sua esistenza. Il semplice atto di pronunciare il nome di qualcuno ci lega in un modo che le parole da sole non possono fare. E cosa c'è di più poetico di questo? Un nome, la più breve delle poesie, è un ponte tra i cuori, un riconoscimento di chi siamo in relazione gli uni agli altri. Le grandi tragedie di Shakespeare ce lo ricordano. I nomi Amleto, Ofelia, Macbeth, Lear: ognuno è un filo di un complesso arazzo di emozioni, legami e conseguenze. Ma forse, alla fine, ciò che conta davvero è il nome che ci lasciamo alle spalle. Non perché durerà per sempre, ma perché è stata la poesia che abbiamo vissuto, quella che abbiamo portato con noi, che abbiamo sussurrato sulle labbra di chi abbiamo amato e che abbiamo impresso per sempre nel mondo che abbiamo toccato. Quindi, sì, la poesia più breve è un nome. È una poesia che, una volta pronunciata, può riecheggiare attraverso il tempo, attraverso le generazioni, attraverso i cuori.
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iimsc · 2 months ago
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Ho fatto riferimento al tempismo perché ha limitato anche me, più di una volta. Alla fine condiziona le scelte di tutti, secondo me se ci potessimo confrontare un po' tutti sarebbero d'accordo nel dire che dopo la vita, la cosa più ingiusta è il tempismo.
ci sono anche tanti tempismi giusti che diamo per scontato. sicuramente il caso, quando si manifesta, purtroppo non ha morale, nè ragioni. e quando il caso veste i panni del tempo, che è un raggio proiettato all'infinito - almeno per quanto ne sappiamo - ha una vasta libertà di azione e probabilmente è difficile che cada proprio nel punto esatto dove avremmo voluto. però, se ci pensi, sono sicura che troverai tanti punti in cui sei grato che sia accidentalmente accaduto. io sono molto lontana dalla matematica, è fredda, mi rigetta, la rigetto, ma è madre di tutto, anche mia, che per giusto tempismo sono arrivata a fecondare l'ovulo e la probabilità che ci arrivassi proprio io era una su quaranta milioni. è un buon tempismo, non è detto che sia una fortuna, forse un millisecondo dopo di me sarebbe arrivato qualcuno che invece di filosofeggiare stronzate su tumblr adesso starebbe cambiando il mondo in meglio con una scoperta rivoluzionaria. però, fatto sta, che pure il mondo sta qua per un tempismo perfetto e ci starà finché questo miracolo non scadrà, ma fino ad allora ospiterà, come ha sempre ospitato, altri tempismi e questi si troveranno al momento giusto nel posto giusto, a compiere le giuste rivoluzioni; scientifiche, sociali, evolutive, intime come è sempre accaduto. forse anche io e te in questo momento siamo al posto giusto e nel momento giusto, però siccome ancora non lo sappiamo, ci sembra che tutti i tempismi privativi subiti fin ora ci destinino a una conclusione ingiusta, invece forse sono stati solo modi di trattenerci, rallentarci, velocizzarci, comunque ritmarci in direzione del tempo giusto. ci troveremo lì prima o poi. tocca a tutti un tempo giusto. non per poesia, non per filosofia, non per romanticismo ma per matematica. per statistica
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ilgiardinodivagante · 5 months ago
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Mi capita spesso di osservare le persone. Molte sono farfalle che svolazzano da un fiore all'altro, senza mai posarsi davvero. Ma, purtroppo, c’è meno poesia. C'è invece un'agitazione frenetica, una reazione a catena che sembra non avere fine. Un grido che ne suscita un altro, un gesto aggressivo che ne innesca una sequenza. È come se stessero recitando una parte, senza un copione ben definito, semplicemente reagendo a uno stimolo esterno. Una strana presenza-assenza sul grande palcoscenico della vita. Una disconnessione tra l'azione e il pensiero, tra il corpo e l'anima.
Mi chiedo: perché? Qual è la molla che spinge gli individui a comportarsi in questo modo? Credo che alla base ci sia una profonda insicurezza, un bisogno spasmodico di affermare sé stessi in un mondo che ci chiede costantemente di essere qualcuno che non siamo. Un mondo che ci promette l'apice del successo, ma ci costringe a indossare maschere sempre più uguali.
E poi c'è la rabbia, un sentimento represso che esplode alla minima provocazione. È la rabbia di chi si sente prigioniero di un sistema che lo soffoca, di chi anela a ribellarsi senza sapere a cosa o come.
Ma la cosa più preoccupante è la perdita di un senso più profondo. Sembra che stiamo vagando alla deriva, senza una bussola, senza una meta. Viviamo in un'epoca di grande incertezza, dove i valori tradizionali sono messi in discussione e le nuove generazioni sembrano smarrite.
Eppure, nonostante questo grande caos, in ognuno di noi c’è una stanza, vuota e silenziosa, che attende solo di essere scoperta. Un luogo interiore dove, al riparo dai giudizi e dalle aspettative, possiamo finalmente guardarci dentro senza filtri. Un rifugio dove chiederci: "Chi sono io, davvero, al di là di ciò che mostro al mondo? Quali sono i miei desideri più autentici, quelli che nascondo anche a me stesso? Perché fuggo da loro invece che corrergli incontro?"
È in questa stanza che possiamo liberarci dalle maschere che indossiamo per paura di essere giudicati, o per conformarci a un'immagine che non ci appartiene. È qui che possiamo smettere di cercare un giusto o uno sbagliato, e semplicemente essere.
Io ho scoperto questa stanza grazie a un amore che mi ha messo a nudo, mostrandomi le contraddizioni e le paure che nascondevo. All'inizio ho provato terrore, ma poi ho capito che quella era la mia occasione per riconnettermi con me stessa.
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Un amore che non è possesso, ma dono. Che si trasforma nella capacità di aprirsi completamente all'altro, senza riserve, e insegna che, per farlo davvero, bisogna prima conoscersi a fondo. Bisogna prima entrare nella stanza vuota, trovare il coraggio di farlo.
Sono grata di quell’amore. Quello che ho vissuto è stato un incontro unico, un regalo inaspettato che mi ha permesso di cambiare prospettiva. Non c'erano le aspettative e i desideri della passione, solo una profonda volontà di dare e di essere autentica.
Vorrei che tutti potessero provare questa esperienza: la fortuna di provare un sentimento così intenso da spingerli a mettersi a nudo. Vorrei che tutti voi riceveste lo stesso dono che ho ricevuto io. Ma se non dovesse arrivare, se fosse in ritardo, andatelo a cercare voi. Che sia un qualcuno o un qualcosa, non importa, cercatelo e non vi arrendete. Ne vale la pena. È l’accesso alla vostra stanza vuota, la soglia di quel luogo di verità e di autenticità in cui trovare finalmente le risposte che cerchiamo.
Questo blog è il mio piccolo angolo creativo. Ogni parola e ogni immagine presente in questo post è frutto della mia immaginazione. Se ti piace qualcosa, condividi il link, non copiare
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emz26 · 2 years ago
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Nannina
“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale”, questa poesia ritorna costantemente nella mia vita ed in questi anni di social lo fa ancora di più, è sfruttata fino all’inverosimile, pubblicata, ripostata, taggata e twittata in continuazione, è inflazionata e abusata, ma incredibilmente non perde la sua forza, ogni volta che la incontro è come una goccia d’acqua che cade dentro il mio lago interiore creando delle onde che rimbalzano sulla costa , si intrecciano e sovrappongono, ipnotizzano gli occhi ed in questo viaggio onirico formano un volto, quello di mia nonna, Nannina, con lei sotto braccio ho sceso veramente un milione di scale e non perché i suoi occhi fossero obnubilati ma per le sue gambe, il suo corpo era consunto dalla guerra, dai genitori persi troppo presto, dalla fatica di crescere le sorelle più piccole quando tutto intorno era solo fame e freddo, le gambe le tremavano per la scomparsa prematura di un figlio, e anche il tempo non era stato clemente con le sue ossa, la fine le aveva riservato l’osteoporosi, “n’se famo mancà gnente no”, Nannina, mai Anna, sempre e solo Nannina, aveva una rigidità impostagli dai patimenti, dalle valigie sempre troppo pesanti, ma dentro di lei, lì si nascondeva una bontà straripante, desiderava voler bene alla gente, Nannina, e io, io ero il nipote fortunato, quello più piccolo e nato dalla figlia femmina, ero privilegiato, il poterle tenere il braccio mi aveva regalato qualcosa, una ragazza mi disse “odio tua nonna, è lei che ti ha dato la dolcezza che mi tiene legata a te”, perché odiarla quando puoi godertela?
Nannina era la seconda ragazza più bella del paese, questo raccontavano gli anziani di Fiano e questo le disse anche mio nonno, “allora vai dalla prima” tosta la nonnina (rinunciare ad un buon partito), “ma per me sei la più bella” e lei si sciolse al baffetto conquistadores del nonno (se ti chiami Ovidio qualche freccia al tuo arco devi pur averla), Nonna Nannina, così la chiamavamo noi nipoti, sentite come suona? Nonna Nannina, suona come una lallazione, come una glossolalia, come una formula magica, come quelle delle maghette della nostra infanzia, pimpulo pampolo palim pa pu, puff e la magia è fatta, Nonnanannina, puff e la magia è fatta, lei aveva una sua formula magica personale, semplicissima ed efficace, diceva sempre “basta che ve volete bene”, “basta che ve volete bene” tutto qui, semplice e disarmate, basta volersi bene e tutto andrà a posto, è roba da far cadere le braccia, “basta che ve volete bene”, è come dopo una lunga salita spossante vedere aprirsi agli occhi l’immenso panorama di una valle, lascia senza fiato.
Nannina in quelle lunghe discese mi ha regalato degli occhi strani, una sensibilità diversa, forse sfasata, diroccata, ma è sempre stato chiaro per me che l’importante fosse invisibile agli occhi, gli ultimi giorni della sua vita li ha passati sofferente in un letto, le veniva somministrata della morfina per lenire i dolori, alternava stati di veglia e sonno ,e lì, lì mi ha regalato la sua ultima magia, stavo vivendo un periodo orribile, uno di quelli dove hai perso il filo ed hai paura a toccare la matassa informe che è la tua vita, era il suo ultimo giorno, trovai la forza di avvicinarmi al suo orecchio e sussurrarle “ti voglio bene” mi rispose “grazie ni’ ”, grazie ni’, nino, ninetto, bambino, ero tornato ad essere il nipote piccolo, ero tornato bambino e lì avvenne l’incantesimo, anzi il DIS-incantesino, mi sbloccò dal torpore, ruppe la brocca che conteneva tutte le mie lacrime, esplosi in un pianto liberatorio, sbloccò il meccanismo che si era inceppato, mi rimise in moto, e quindi, quindi grazie a chi ci DIS-incanta, a chi ci sblocca e chi ci regala occhi nuovi, alle Nannine del mondo.
P.S.
Nannina aveva i capelli rossi, e le rosse fanno sempre un gran casino, spesso, senza far rumore.
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keyla0953 · 4 months ago
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L’autunno si è svegliato e con i suoi colori invade la mia anima,sento il suo respiro fresco accarezzarmi il viso. Le foglie che cadono dolcemente al suolo,colorando il grigio dell’asfalto mi fanno dimenticare la tristezza dei miei anni passati. L’autunno ha una magia che in pochi riescono a cogliere,non è solo una stagione ma un sentimento che ti accompagna e accoglie. Quando raccolgo una foglia ascolto la sua storia, un ricordo lontano che ha portato il vento, un frammento di poesia che solo io riesco a sentire. I colori caldi delle foglie, portano con loro una dolce malinconia e annunciano che la natura si prepara a riposare, e io posso rallentare il mio passo e riflettere su ciò che ho vissuto. Nel silenzio crispante dell’aria autunnale possiamo ascoltare la sua trasformazione mentre le foglie si staccano dai rami e per me è una celebrazione di ciò che lascio andare per far spazio a nuove storie, e per me questa stagione rappresenta speranza, la mia speranza che porto sempre con me nelle pagine dei miei libri. E vedo i riflessi di un mondo che lentamente cambia,la natura si prepara si spoglia e si calma in un abbraccio tra luci e ombre e quando la luce del sole timidamente si nasconde il profumo delle foglie invade la notte…mentre io la guardo e leggo un libro viaggiando nella fantasia di una storia con un lieto fine.
-keyla0953
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ossicodone · 2 years ago
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Ho sempre guardato con ammirazione le persone che a un certo punto della loro vita decidevano di lasciare questo social, più o meno come quelli per cui l'ultima sigaretta, era davvero l'ultima sigaretta, non come la sigaretta della coscienza di Zeno. Non so cosa scattasse in loro, ho sempre visto tumblr come un posto sicuro dove vomitare miei pensieri, mie intimità e mano a mano rapportandomi anche con altre persone nel corso del tempo son cambiato tantissimo. Son cambiato nel momento in cui ho eliminato il mio primo blog con cui son diventato più popolare, ma si dai avete capito, quello con sessanta mila e passa followers che non so perché siano capitati a me ma che mi son ritrovato di punto in bianco dopo aver scritto una sorta di poesia, sì i più datati si ricorderanno di quale parlo. Lo cancellai e ne aprii un altro in cui il mio anonimato duró poco perché il mio stile di raccontare le cose era facilmente riconoscibile. Accettai di nuovo di essere in vista dai più, ma ero molto diverso. Meno scritti intimi, più cose sarcastiche, accadimenti divertenti della mia vita, risposte a domande anonime solo di carattere medico o consigli. Che poi mi ci vedete a me a dare consigli? Eppure oh, sembrava funzionassero. Son bravo a predicare ma poi quando si tratta di me son una chiavica. Una chiavica vera, un inetto, un Serafino Gubbio operatore che guarda da lontano la sua vita da una cinepresa e non vi partecipa. Vabbè fatto sta che lasciai l'ennesimo blog per farne un altro e fingermi una ragazza, per un periodo son stato Jasmin e scrivevo solo, non avevo interazioni con nessuno e poi alla fine è finita che mi han riconosciuto anche lì. Arrivo ad oggi che non so davvero cosa posso dare di più su questo social, dopo quindici anni sento di aver dato forse troppo in pasto a chi poi ha rigirato spesso le cose a suo favore, giusto per parlare di qualcosa con le amiche, giusto per avere una freccia in più al loro arco da poter scoccare al momento giusto. Arrivo ad oggi in cui non mi sento partecipe di questo mondo, tantomeno di questo social. Non mi sento più, vivo ma non vivo ed è davvero logorante per me continuare a fingere di star bene quando la mattina l'unico pensiero che ho è: "e pure oggi non sto fra i convocati del Signore". Magari questa cosa di salvare il mondo, aiutare il prossimo mi si sta ritorcendo contro. Faccio miei dolori altrui, i miei non so risolverli, accumulo e non voglio farmi aiutare perché non sia mai che porto nella merda qualcuno a me caro. E sto in questo loop, in questo mio inferno personale, creato su misura per me da me medesimo. E chi meglio di me poteva costruire questo castigo infernale? Forse voglio punirmi, ma per cosa? Perché continuo? E se me ne andassi? Ma ci pensate, se da domani io non esistessi più e tutto ciò che rimanesse di me sarebbe questo post? Credete sia possibile? Andarsene in silenzio, in punta di piedi, senza scomodare o disturbare nessuno, perché non voglio questo. Ma cosa voglio per me? Davvero non sarebbe bello? Sparire, da ogni social, non essere più partecipe. Oggi mi han detto:"lei mi ha salvato doc" e son stato felice ed ho pensato alla mia promessa:" una vita per una vita". Certo me lo ha detto la nonnina dissociata di ottant'anni, ma per lei io in quel momento l'ho salvata. Salvare, salvarsi, una vita per una vita. Sono pronto.
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swingtoscano · 1 year ago
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Vorrei che tu venissi da me una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi, per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrare la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti d’essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dai prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti “Che bello!” Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora.
Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti intorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata ad esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti “Che bello!”, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici.
Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di se una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. E’ inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo e donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo.
Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso tra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
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