#e' anche un po' un pezzo di casa mia quindi sono molto felice per lui
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solo uno coi capelli rossi poteva sconfiggere il male supremo cioe' novax DAJE TUTTA JANNIK
#ORGOGLIO DI SESTO PUSTERIA <3#e' anche un po' un pezzo di casa mia quindi sono molto felice per lui
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Non è tardi - It goes like (na na na)
8:07 pm
Oggi a lavoro tutto ok, veramente non voglio dirlo ma 7h è fin troppo iykwim.
Sicuramente non faccio tutto bene come dovrei, ma non è che le condizioni aiutino molto, nel senso management un po’ vecchia scuola in generale è proprio l’ambiente che mi turba, senza un ufficio una sedia documenti. Boh in generale quel corner un po’ spiacevole.
Despite of this diciamo che il lavoro è ok anche se certo un po’ di ansia la ho sono sincera, ma faccio anche un lavoro che l’ansia me la butta ed un management comunque rigido soprattutto nella comunicazione parlo personalmente rispetto a come sono io.
Parlando di cose personali sarei contenta di fare un recap della dieta da quando l’ho iniziata:
-> Allora oggi 4° giorno di Keto/low carb dove quest’ultimo lo metto perché non lo so se sto a fa proprio le cose per bene tbh
20.08
Uno stracchino senza lattosio, un hamburger di tacchino con maionese, zucchine grigliate con olio e poi la sera non me ricordo boh
21.08
Non me ricordo era l’altro ieri cazzo, forse tipo la sera petto di tacchino con stracchino sicuro, poi a pranzo spinacino con petto di pollo al pesto e la mattina uovo al pesto con burro e sottiletta che chiedeva pietà da 2 mesi una barretta al cocco low carb presa post palestra
22.08
Ovvero ieri allora B. mi ha offerto la cena era tipo crudo, mozzarella, olive taggiasche, pomodorini e insalata, a pranzo un vuoto di memoria boh io impazzita e la mattina comunque uno Skinny Latte di Starbucks capace lo yogurt intero con cioccolata low carb e crema di mandorle ah e poi verso le 11 così un caffè con quei biscottini top dell'Equilibra low carb
23.08
Ovvero oggi iniziato un po’ così con un pezzo de ricotta e un Alpro soya e caramello, a pranzo fiocchi di latte osceni con salame, poi ho mangiato delle noci pecan top e una barretta low carb del Todis, stasera carpaccio di polpo e ho spizzicato del pesto che poi lo odiavo anni fa sto cazzo di pesto ora non vivo senza boh
Sicuramente non è come 2 anni fa però devo dire che mi piace la mia costanza degli ultimi giorni, sono positiva ah e poi stamattina ho anche fatto gongyo perciò sono fiera di me stessa perché la costanza è la mia invalidità maggiore.
Comunque domani chiamo il medico mi faccio segnare le ricette di gabapentin e fluoxetina, lo so greve però sento che possono aiutarmi ora ne approfitto anche che non sto bevendo (oggi è il quarto giorno very proud non che fossi un’alcolizzata, ma sto evitando anche il bicchiere di piacere).
Comunque mi fa ridere e nel contempo riflettere come il nostro intuito sia unico e solo, immacolata fonte di realtà.
Oggi niente alla fine pranzo con lo stock keeper di McQ e il mio intuito (che ha lavorato proprio come lavorò con Riccardo a VT) mi ha suggerito "Inutile, non è utile ora, non è la vibrazione giusta, non è lui, il tempo con lui sarà inutile e sofferto", difatti na pausa pranzo demmerda.
Ed ora parlando "[...] sono meno tosto per un'altra persona" e che cazzo però dimmelo!
Non che io sia interessata considerando quanto dopo aver rivisto G. io abbia fatto due conti fatti bene e per tanto il mio interesse è proprio proprio altrove, oltre che è praticamente l'unico uomo a rispondere alla mia domanda "Sì, ma con questo che ce fai." e sicuramente il sopra-sopra citato non rispondeva bene.
Così come non rispondevano bene tutti gli altri da Maggio dello scorso anno.
Nessuno, tutti quei cosi di cui non ricordo niente, mi fanno una tristezza.
Però vabbe sticazzi va bene anche così.
Non vedo l'ora di risposare venerdì comunque!
Vorrei fare un sacco di cose, sicuro vado in palestra, poi arriva lo stipendio quindi mi divido tutte cose inizio a farmi due conti sereni e tutto.
E poi anche sicuro mi pulisco casa, a proposito domani sta zadankay a casa di Flaminia ed io sono troppo ispirata, troppo felice.
Certo mi intriga l'idea di un po' di sole però non me la sento di andare al The Sanctuary, sinceramente sento che voglio farmi i cazzi miei, anche e sopratutto da quando si è attenuato il puzzo di muffa a casa.
Comunque ho recitato anche stasera, sono soddisfatta dei miei progressi.
Goodnight!
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Dialogo tra Alessandro Borghi e Alessandro Michele.
Alessandro Borghi: Vorrei cominciare parlando dell’origine di Alessandro Michele, non come professionista ma come essere umano, qualche ricordo che hai della tua infanzia, legato a un’immagine. A me succede molto spesso di avere dei flash di me stesso da bambino, con mia madre che mi mette una coperta addosso piuttosto che un albero della casa in campagna. A te?
Alessandro Michele: Ho un ricordo bellissimo, particolarmente nitido, di me bambino, credo che facessi la prima elementare o qualcosa del genere, forse l’ultimo anno dell’asilo, vivevamo a Monte Sacro Vecchio. In una giornata sai di quelle romane – Roma secondo me ha di quelle giornate primaverili, di quelle situazioni climatiche che alle volte sono come delle benedizioni divine e tu percepisci di essere un privilegiato. Io già da bambino questa cosa la sentivo, e c’è un momento che infatti mi torna alla mente in maniera nitida, quando vedo quelle giornate: uscivo da scuola, una scuola cattolica vicino casa, credo mi fossero venute a prendere le gemelle, mia mamma e sua sorella, vivevamo in due appartamenti comunicanti all’epoca. Io torno con il panierino porta pranzo di quando ero piccolo. Mi ricordo questa giornata di sole, era già iniziata la primavera, e io avevo sempre voglia di scoprirmi, andavo sempre da mia madre tutto mezzo nudo perché mi toglievo maglie e magliettine. Esco e trovo le gemelle, che erano spesso vestite uguali solo in variante di colore, sedute a un tavolo che prendevano il caffè e ridevano tantissimo, con questa luce pazzesca, ed è un’immagine che mi è rimasta in testa. Un’immagine di donne, quanto fossero complici. In verità la vera famiglia erano loro due, era un matriarcato, i maschi erano completamente soggiogati da queste due maghe Circe, ma anche io eh! Mi ricordo il sole, le vedo tutte e due con questo chemisier, una in rosa e una in celeste, che ridevano come delle pazze. È un’immagine che mi è rimasta, l’immagine che dice che la vita è stare a fare delle chiacchiere a un bar, in una giornata di sole, tanto siamo destinati meravigliosamente a morire, e siamo meravigliosamente vivi. Io da bambino sono stato molto felice, in una famiglia allargata, formata da due mamme, da vari uomini e da una cugina che era una sorella. Forse mi è rimasta impressa questa immagine perché, come dico sempre, io sono un cuor contento.
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AB. Poi, a un certo punto, hai deciso di andartene. Lo hai fatto perché avevi realmente la percezione che restando lì non avresti potuto raggiungere quello che avevi in testa, o è stata una cosa dettata da altre necessità? E soprattutto, a un certo punto, quanto è stato importante ritornare? Cioè, quanto è importante andarsene e quanto poi ritornare da dove si è partiti, quando invece si potrebbe sopravvivere altrove?
AM. Io avevo due motivi per andare. Uno, è che sentivo di essere un bambino speciale. Poi ce ne saranno tanti di bambini speciali, probabilmente lo siamo stati tutti, ma sentivo che dal posto dove stavo, crescendo, dovevo allontanarmi. È stato un allontanamento dal quale non ho potuto esimermi, l’essere diverso in quegli ambienti lì delle periferie romane è difficile, da un lato c’era una grande umanità, perché ho incontrato anche delle persone meravigliose, oserei dire anche dei maschi alfa meravigliosi, che mi avevano già capito, ma non tutti avevano questa apertura. Il secondo motivo è che io ero un sognatore. Ho sognato finché ho potuto, poi i sogni non erano più sufficienti, dovevo concretizzarli, e quindi ho fatto la valigia. È stato difficile andare via. Ero abbastanza giovane, me ne sono andato in un’altra città e ci sono stato finché ho potuto. Poi una volta che ti sei formato spesso avverti la necessità di ritrovare i luoghi a cui sei appartenuto. Adesso ogni tanto sento un gran bisogno di parlare con un cugino, di ritrovare una strada. Sai cos’è? Credo sia capitato anche a te: quando la tua persona si comincia a spezzettare in un milione di frammenti, diventi un po’ popolare e molti sanno chi sei, il tuo cognome e il tuo nome messi insieme quasi si svalorizzano, non hanno più senso. Non sei più solo Alessandro. Ma Alessandro è stato Alessandro che era sotto casa a giocare a basket, poi Alessandro è diventato Alessandro Michele, un nome che detto così quasi se ne vola via. Allora tornare da dove vengo mi serve a riafferrare questo nome. Io sono Ale, sono Alessandro, sono stato un ragazzino, il mio nome l’ha scelto mio padre, capito?
AB. Ti capisco. Io vivo ancora nel quartiere dove sono cresciuto, camminando è un continuo susseguirsi di “questa è la strada che facevo per andare a scuola”, “questo è il posto dove ho incontrato…”, tutto mi riporta subito in una dimensione che aiuta tantissimo a ricordarmi da dove sono venuto e chi era Alessandro, appunto, che nel mio caso giocava a calcetto alla parrocchia. Mi piace moltissimo ricollegare a te l’idea delle immagini, condividiamo una relazione con il cinema che è imprescindibile, per me perché è diventato con gli anni il mio lavoro, per te perché mi sembra sia sempre più una parte fondamentale del tuo modo di raccontare quello che fai. Ma del cinema parliamo dopo. Mi dici prima se c’è un incontro che ha cambiato la tua percezione delle cose?
AM. Ne citerei due. Uno è stato quello con Giulio Argan, lo storico dell’arte, conosciuto quando frequentavo il liceo. È venuto a parlare a scuola, io sono stato sempre un grande appassionato d’arte, la mia passione per l’immagine è nata da bambino, credo, ma quando ho sentito parlare Argan, quello che gli ho sentito dire quel giorno, mi ha affascinato totalmente. Uscii da scuola pensando che quella cosa chiamata arte era di fatto una forma di religione; un incontro fondamentale. L’altro che citerei �� Piero Tosi, il grande costumista. Incontrandolo, ho capito la gentilezza della passione, la bellezza e la semplicità della complicazione di essere. Lui era una persona complessa, deve aver avuto una testa incredibile, ma aveva un cuore così gentile. Ero un ragazzino, mi ricordo che arrivò questo piccolo uomo elegantissimo, con questa giacca di grisaglia che guardava noi giovanissimi che eravamo nella sala, io mi sono emozionato, gli ho dato anche la mano. Da adulto poi l’ho conosciuto, sono andato a casa sua a prendere un caffè, lui è morto l’anno dopo. Tosi è stato quello che mi ha fatto capire che i vestiti erano importanti perché dentro c’era l’umano. I vestiti, senza quel mucchio di atomi e di cellule che siamo noi, non hanno senso di esistere. Da lì ho iniziato a capire che relazione strettissima c’era tra loro e chi li indossava, la forma che conteneva quell’umanità. Sono cresciuto con una mamma cinematografara, avrò visto La rosa tatuata cento volte, I soliti ignoti pure, credo di saperli a memoria. I ragazzini vedevano Jeeg Robot, io vedevo la Magnani. Mamma sognava un pezzo di vita attraverso i film, praticamente ha fatto la psicanalisi con il cinema, le ha riempito tutti quei vuoti. Diciamo che io, crescendo, ho messo un piede in quel mondo, ma attraverso i vestiti. Poi, che ti devo dire, ho conosciuto tante persone che mi hanno fatto cambiare idea, ancora oggi conosco delle persone che mi fanno cambiare idea. Sono un chiacchierone, ma lo sono perché mi piacciono anche le chiacchiere degli altri. E ne sono influenzato, continuamente. Mi auguro di continuare ad esserlo, da quello che succede, dalle persone che incontro, dai caffè che prendo, dalle cene e dai pranzi. Tipo da questa nostra chiacchierata, come dalla prima che abbiamo fatto dopo che avevo visto un tuo film. Gli incontri che ho fatto mi hanno cambiato la vita.
«È un’immagine che mi è rimasta, l’immagine che dice che la vita è stare a fare delle chiacchiere a un bar, in una giornata di sole, tanto siamo destinati meravigliosamente a morire, e siamo meravigliosamente vivi»
AB. C’è una cosa che ti imbarazza?
AM. Come si dice a Monte Sacro Vecchio, mi imbarazza quando mi mettono in mezzo. Ho ancora un problema col fatto di essere al centro dell’attenzione, è l’unica cosa del mio lavoro che mi ha imbarazzato e che mi imbarazza tuttora. Per il resto non ho grandi problemi a riguardo, sono autoironico, non ho paura di risultare ridicolo, sono uno che si mette in gioco. In più ho la fortuna di aver imparato a non temere di sbagliare. Anzi, ci tengo molto ai miei errori, me li voglio coccolare, me li voglio permettere.
AB. Capisco. Mi piace molto parlare con te perché alcune volte mi sembra di sentire me stesso. Quando inizi un percorso, c’è questa ossessione di voler fare le cose per forza meglio degli altri. Poi ti rendi conto di dover far pace col fatto di essere te stesso, e cominciare a preoccuparti di meno, di non voler per forza ricercare la perfezione, accogliendo gli errori come una fase necessaria. Senti, hai mai pensato di cambiare lavoro o percorso? Cosa faresti se ora non fossi Alessandro Michele?
AM. Ultimamente sono appassionato di terra. Mi piace molto la terra, sento molto il richiamo della campagna, quindi ho restipulato un grande accordo con la natura e con il mondo rurale, che poi è il mondo da dove vengo. Potrei dedicarmici, ma credo che adesso forse la cosa che farei se non facessi questo lavoro, sarebbe il cinema. Ho fatto da poco questo esperimento con Gus Van Sant, la co-regia con lui di “Ouverture of Something That Never Ended”, la serie con cui abbiamo presentato la nuova collezione di Gucci. Ovviamente l’ho fatto in punta di piedi, lui è un grandissimo visionario, e quindi io mi sono messo in un angolo, anche solo per dialogare e permettermi di dire le cose che vedevo in modo diverso; averle condivise con lui per me è stato un grande esperimento. Alla fine ho fatto il garzone di Gus Van Sant, però intanto ho un po’ spiato, e ho capito quanto mi piacciono queste immagini in movimento, portarle a un’altra frequenza rispetto a quanto faccio di solito – io ho sempre lavorato con Glen Luchford su video musicali, dove c’era una narrativa diversa. Avendo adesso rallentato il ritmo delle immagini, avendo provato la poesia della telecamera, ti direi che io un esperimento nel cinema, anche solo per farmi dare dell’asino, se non avessi da fare, lo proverei. Gioco in casa con te, lo so, ma il cinema ha davvero qualcosa di misterioso e di affascinante. Mi ci metterei anche solo per permettermi il lusso di averci provato. Sarà che esco da un mare magnum di immagini, giorni e giorni entrando e uscendo dal van col monitor, al freddo, per strada. Faticosissimo, fra l’altro. Non avevo mai fatto una cosa così faticosa. Io mi chiedo te, voi, come fate. Ho pensato a tutti gli amici attori, che vita. Stimo moltissimo chi riesce a fare e produrre questa cosa che è il cinema, una macchina veramente impressionante.
AB. Credo che l’unica cosa che ti consenta di farlo in una determinata maniera sia la necessità che hai di raccontare quella storia. Quanta voglia hai di portare a termine questo racconto? Tutto dipende da questo, perché sennò al primo freddo, alle prime tredici ore di set, al primo bagno nell’acqua gelata, sembrerà sempre di non avere abbastanza in cambio. Senti, visto che siamo in tema, prendiamoci un attimo per parlare meglio di questo progetto con Gus Van Sant.
AM. Lo dicevi prima, sento il bisogno di raccontare, sono figlio di un raccontatore, mio papà, credo sia una cosa importante. Nasce da questo l’idea, ma è una gestazione che è durata anni. Ci sta poi che la pandemia mi abbia portato a riflessioni di altro tipo, abbia accelerato un processo, ma era un po’ che dialogavo con Gus, è stato una grande icona della mia giovinezza. A un certo punto mi ricordo di aver pensato: “Chissà dov’è e cosa fa”, e così l’ho cercato e abbiamo iniziato una conversazione. Tutto è nato perché ho immaginato di raccontare quello che chiamo il pellegrinare dei vestiti, la storia dell’umano che li indossa, il tempo che passa lento. Stando fermo, poi, ho scoperto come è bella la routine, come sono belli i gesti di quando camminiamo, di quando ci alziamo la mattina, le cose lente che facciamo tutti i giorni. Ho rallentato tutto, anche le persone; è un racconto dove non succede niente. L’idea è nata da me, quella di seguire una persona e le cose che le acca- dono e che non per forza portano a qualcosa. Al contrario di quello che succede nel cinema, che invece ha la necessità di arrivare a un punto. Ho preso il format meraviglioso delle serie televisive, e l’ho interpretato a modo mio, ma con Gus Van Sant, che già abbracciava un po’ questa mia maniera di vedere le cose, ho chiamato lui per quello. In questa storia c’è dentro un pezzo di vita apparentemente congelato, è un po’ come io sto vivendo questo momento, un respiro di sollievo nonostante ci sia un’oppressione, ho pensato a quante piccole cose succedono apparentemente e involontariamente. La definirei una narrazione poetica di un guardone che osserva una ragazza, e che la fa interagire con dei personaggi in maniera onirica e surreale, dando vita anche a dei dialoghi impossibili, quelli di cui sono piene le nostre vite. Soprattutto, ho utilizzato un po’ di miei amici, essendo fortunato ad aver un bacino largo da cui pescare. Qualcuno la serie la amerà, qualcuno no, io trovo che sia sincera e anche coraggiosa, qualcuno si chiederà cosa abbiamo combinato, cioè probabilmente a Gus Van Sant lo diranno meno, essendosi guadagnato una rispettabilità nel cinema che io sicuramente non ho. Da lui ho scoperto che si può essere grandissimi in una maniera così poeticamente semplice. Nonostante sia chi è, Gus Van Sant ascolta quello che dici, impressionante. Questo è stato il progetto. Sette episodi che sono un inno alla lentezza, una preghiera ai gesti, ai movimenti, alle facce belle, alle facce strane, al cinema che ha sempre decantato l’umano.
«Alessandro è stato Alessandro che era sotto casa a giocare a basket, poi Alessandro è diventato Alessandro Michele, un nome che detto così quasi se ne vola via. Allora tornare da dove vengo mi serve a riafferrare questo nome»
AB. Lentezza che è un po’ la trasfigurazione del momento storico che stiamo vivendo. A proposito di momento storico, siamo in un’epoca in cui, un po’ per la globalizzazione, un po’ per l’esplodere dei social network, tutti possono esprimere la propria opinione su tutto. Io su questo sono molto combattuto: quanto ne abbiamo bisogno davvero? Quanto bisogno c’è di ascoltare le idee di tutti su tutto?
AM. È un pensiero che faccio molto spesso, perché ovviamente a me non interessano le opinioni di tutti. È una cosa umana: a noi interessano alcune opinioni, altre non ci piacciono, non le vorremmo sentire. Quello che penso è che siamo in un periodo di grande transizione, dove ci sono paure enormi. Inconsciamente, non sappiamo se questo pianeta ci sarà, non sappiamo se sopravvivremo, adesso poi siamo tutti chiusi in casa, la morte ci è venuta a bussare alla porta. Io penso che siamo anche un po’ repressi, ci sono state comunità a cui non è stata data voce, persone che sono state invisibili, come se non fossero esistite. Al di là di quello che succede in questi mesi, io credo che stiamo transitando da anni; dall’epoca vittoriana, dalla rivoluzione industriale, ci siamo evoluti certo, ma i modelli e il mondo sono praticamente rimasti gli stessi. Sono partito da così lontano per dirti che, in un momento di grande transizione e incertezza come questo, tutti hanno necessità di parlare. È come durante le rivoluzioni: le persone non hanno parlato per molto tempo, e quindi guai a non dare voce a qualcuno, anche se dice cose profondamente sbagliate, o che non ci piacciono. Questa grande conversazione globale, che ormai avviene sui social network, passa anche attraverso la voce di quello che secondo noi sbaglia, perché per reazione ci porta a formulare pensieri utili, costruttivi. Dobbiamo essere meno egoisti, non dobbiamo parlare per forza solamente con noi e di noi, è un passaggio obbligato di questa transizione. Arriverà probabilmente un momento in cui avremo esaurito questa specie di manifestazione permanente dove tutti vogliono parlare perché prima non potevano. E dobbiamo solo lavorare perché la transizione sia verso un posto migliore. Io sono ottimista, dobbiamo transitare e portare tanta pazienza. Anche per quelli che verranno dopo.
AB. Sai che mi hai quasi convinto.
AM. Sui social io sono stato massacrato, sono stato adorato, e alla fine ho capito che purtroppo, se ci vuoi stare, è cosi. In questa fase non esiste più l’areopago, non è più oligarchica la storia, non è più per pochi. I pochi, noi, che pensavamo di essere i parlanti, in verità siamo bene o male come gli altri. Il tutto andrebbe sicuramente regolamentato, perché poi ci sono dei momenti in cui in cui si scade nella prevaricazione; è ovvio che non va bene l’insulto, non va bene il dire cose gravi e sconvenienti, però è pure vero che se zittisci uno potenzialmente zittisci tutti. Dobbiamo essere molto attenti, sarebbe come dire che siccome in tv o sulla stampa vengono dette anche cose sbagliate, allora chiudiamo la tv e la stampa.
«Sui social io sono stato massacrato, sono stato adorato, e alla fine ho capito che purtroppo, se ci vuoi stare, è così. In questa fase non esiste più l’areopago, non è più oligarchica la storia, non è più per pochi»
AB. Usando una citazione ti dirò che “mi avevi già convinto al ciao”. Torniamo un attimo indietro: prima, quando ti ho fatto la domanda sulle opinioni di tutti, mi hai raccontato la tua visione sull’epoca che stiamo vivendo. Mi viene in mente che, per esempio, ultimamente ho iniziato a interessarmi molto di più a tutta la questione del cambiamento climatico, una cosa che mi spaventa molto. La domanda che mi e che ti faccio, che poi tutte le domande che ti sto facendo sono domande che mi faccio spesso da solo, è questa: quando ti capita di pensare a come sarà il mondo, pensi che sarà inevitabile adattarci o credi ancora fermamente che la volontà del singolo sia essenziale per cambiare il corso delle cose?
AM. Tutte e due. Credo che la volontà del singolo conti sempre in natura: quella di una sola ape contribuisce al futuro di un pezzettino di mondo, di un prato. Quel prato diventa uno spazio più grande, diventa un territorio, uno Stato. Quindi sì, io credo che il singolo, la sua forza, siano l’essenza della politica. Poi è ovvio che ci dobbiamo adattare. Nel senso, a me ieri è andata via la luce a casa; mi sono incazzato da morire, non puoi capire. Oggi avevo una giornata impegnativa, dovevo collegarmi con molte persone nel mondo. Ero nervoso. Va via la luce. Dieci meno venti. La riattaccano alle due di notte. Io con la candela. Stavo finendo di lavorare, dovevo finire di guardare dei sottotitoli.
AB. Comunque è un’immagine estremamente romantica, devo dire!
AM. Mio padre avrebbe ripetuto quel che mi diceva da bambino: «Spegni la luce, non ce n’è bisogno, accendi la candela che sprechi energia». Adattarsi vuol dire questo, rallentare quando è necessario fare un passo indietro. Sta a noi farlo diventare anche una cosa bella: passare un giorno su una coperta a prendere il sole, fare una grande chiacchiera con altri amici, in questo momento ci sembra un adattarci al ribasso rispetto a tutto quello che vorremmo fare, però in sé non è mica una cosa brutta. Se va via il sole accendo una candela, così se un giorno ci sarà richiesto per necessità, di stare un po’ più fermi, sapremo come stare fermi, no? È ovvio che il modo in cui ci siamo dovuti fermare è stato una cosa violentissima, drammatica. Però tu mi hai chiesto se ci si può adattare, beh, io mi sono adattato, tu ti sei adattato. Allora mi viene da pensare che in futuro potremmo cercare di trovare una via di mezzo, potremmo rimetterci in ascolto del pianeta, accarezzarlo un po’, volergli bene. Come fanno gli altri animali, no? Perché abbiamo pensato di essere meglio e abbiamo fatto un disastro. Siamo degli animali folli, i più folli di tutti, e quindi dico che dobbiamo essere bravi ad adattarci, perché l’adattamento sarà meraviglioso. Quando potremo di nuovo passeggiare, camminare, senza la mascherina, tu pensa quanto capiremo di tutta questa storia! Poi singolarmente ognuno di noi dovrà fare dei piccoli gesti, ci dovremo osservare di più; faremo delle cose grandiose, però dobbiamo non essere presuntuosi. Un grande presuntuoso l’abbiamo mandato a casa a novembre, un folle presuntuoso. È stato un grande gesto per tutti, che sposta l’ago della bilancia, per me è un grande punto di ripartenza. Sono molto ottimista perché l’uomo, come tutti gli animali, ha sempre avuto la capacità di trovare nuove strade, e noi questa strada oggi la dobbiamo trovare. E la troveremo.
AB. Adesso ti imbarazzerai per quello che sto per dire, però te la devi prendere e portare a casa. Tu in questi anni hai completamente rimodulato il concetto di bellezza. Lo hai fatto in una maniera talmente elegante, intelligente e profonda che non tutti sono riusciti a capirlo. E questo è il risvolto della medaglia di fare le cose a un certo livello. In un’intervista in un video che c’è su internet e che si può vedere, dici così: «Strano è bello. Più strano sei, più diventi bello». Ed è una cosa che io trovo meravigliosa. C’è stato un momento particolare in cui hai avvertito questa cosa per la prima volta? Magari anche senza poi immaginare che sarebbe stata alla base di tutto quello che stai costruendo in questi anni.
AM. Non lo so. Io ho un rapporto intimo e molto profondo con la bellezza, nel senso che l’ho dovuta cercare anche in posti dove apparentemente non c’era; il luogo dove sono cresciuto viene universalmente bollato come brutto. Eppure ho visto delle grandi bocche che parlavano, delle facce bellissime, delle ragazze che avevano fatto la seconda elementare ma che avevano una cultura della strada meravigliosa, facevano delle battute che sembravano uscite dal cinema, occhi belli; amichette che si schiarivano i capelli, si mettevano l’ossigeno in testa ed erano bellissime. Io l’ho sempre rintracciata e ricercata la bellezza. Una volta Maria Luisa Frisa, la curatrice di moda che è anche un’amica, mi ha detto che ho un rapporto molto conflittuale con la simmetria. Forse perché sono cresciuto in una città in cui la simmetria ha a che fare con le brutture e le storture, a Roma è nato l’ordine degli ordini di tutte le architetture che arrivano fino alla Casa Bianca. La colonna che sta da una parte, sta anche dall’altra. Tutto è simmetrico, tutto è perfetto. Poi dopo però ci sono un sacco di cose storte, è pieno di schifezze vicino a queste cose meravigliose. Mi viene in mente la Magliana: ci sono delle chiese romaniche pazzesche, e poi vicino ci sta, che ne so, uno sfascia carrozze. Questo mi ha insegnato che la bellezza è una cosa misteriosa. Su di me, che non sono più lo stesso di quando avevo vent’anni, qualcuno potrebbe dire: “Quanto è brutto questo”, invece io mi guardo allo specchio e mi dico: “Che fatica essere diventati belli essendo così diversi”. Credo di aver avuto un dono da bambino, e cioè la necessità di cercare la bellezza per sopravvivere. Ci ho ragionato tanto anche perché è una cosa di cui non volevo diventare schiavo, volevo smettere di pensare che casa mia non fosse abbastanza bella, per dire. Adesso se ci ripenso invece dico che sono stato bravo perché ho ricostruito tutto un apparato di bellezza in un posto dove qualcuno diceva “là è tutto brutto”. È come quel tuo film, Non essere cattivo: non è vero che siccome racconti un certo tipo di cose allora è tutto brutto. No. È tutto bellissimo! Conversazioni bellissime, facce, cose, parole tutte storte, bellissime, tutte dette male, c’è tutto lo sgrammaticato che esce fuori da certi posti dove sono cresciuto io. E mi fa venire i brividi. Perché poi la bellezza è nascosta anche in delle cose terribili, purtroppo. Credo di poter dire di avere un rapporto anche conflittuale con essa. Ma è una conversazione che non chiudo, voglio capire se la ritrovo in altri posti, non farla esaurire mai.
«Ho ancora un problema col fatto di essere al centro dell’attenzione, è l’unica cosa del mio lavoro che mi ha imbarazzato e che mi imbarazza tuttora. Per il resto non ho grandi problemi a riguardo, sono autoironico, non ho paura di risultare ridicolo, sono uno che si mette in gioco»
AB. A proposito, quando io ho fatto Non essere cattivo, tu eri direttore creativo di Gucci da otto mesi, ci siamo quasi accompagnati. Se tu dovessi riguardare a questi anni, trovi nel tuo percorso un tema ricorrente?
AM. Di ricorrente trovo la voglia di dare vita a dialoghi impossibili, di far incontrare cose che non si incontrerebbero normalmente. Ad esempio nella serie c’è Achille Bonito Oliva che parla con Harry Styles. Quando mai Achille Bonito Oliva avrebbe potuto parlare con Harry Styles? La conversazione tra mondi impossibili resta una delle mie costanti. Anche con i vestiti creo conversazioni apparentemente folli tra il mondo del pop, Paperino per esempio, e le scarpe della professoressa. Harry fa musica pop e vive tra Londra e Los Angeles. Apparentemente non avrebbe nulla a che fare con uno che fa il critico d’arte. Quando comincio a lavorare, cerco sempre una cosa, un elemento che, entrando, mi aiuti a rompere, perché sennò questa conversazione tra vestiti, tra colori, è una noia. Che mondo sarebbe se non arrivasse qualcuno, a un certo punto, a mandare a quel paese tutto?
AB. Questa intervista verrà letta da un po’ di persone e quindi mi piacerebbe che la usassimo anche per dare spazio a qualcuno che magari di solito ne ha di meno. C’è una persona che hai incontrato negli ultimi anni o che già conoscevi che ci consigli di tenere d’occhio?
AM. Una sola è un po’ complicato, anche perché io mi circondo di persone che tengo d’occhio. Quando ho conosciuto Harry Styles, per esempio, lui veniva da una boy band, quanto di più banalizzante potesse esistere nel mondo del pop. Eppure io ho avvertito altro da subito, quando ho visto lui ho capito che esistevano uomini diversi, uomini che erano molto più in contatto con la loro parte femminile. Mi ricordo quando si è presentato, con questa aura un po’ da James Dean, una specie di Apollo, così britannico, con questa voce che sembrava un doppiatore, e che però mi parlava dei suoi vestiti, di come li conservava. Mi è sembrato da subito un animale stranissimo, mi ricordo di essere tornato in ufficio e aver pensato che avrebbe fatto cose esagerate. Mi è successo con tanti in questi anni; penso a Florence Welch, penso alla sera in cui ho conosciuto te e Jared Leto e via dicendo. Avete poi tutti fatto cose incredibili. La verità è che non solo sono delle persone note e hanno prodotto dal punto di vista creativo delle cose fantastiche, ma sono proprio le loro vite che si sono evolute in maniera incredibile.
AB. Se posso dirtelo, una delle cose più belle che hai è che chiacchieriamo da un’ora e hai sempre parlato degli altri, ti ho praticamente dovuto costringere a dire qualcosa di te.
AM. Per me gli altri sono fonte di vita. Io sono un grande ladrone, senza gli altri non esisto.
«Io ho un rapporto intimo e molto profondo con la bellezza, nel senso che l’ho dovuta cercare anche in posti dove apparentemente non c’era; il luogo dove sono cresciuto viene universalmente bollato come brutto»
AB. Ed è per questo che sei quello che sei e noi siamo molto fortunati, io in particolare. AB. Quindi ti voglio dire che ti voglio molto bene. Grazie per il tuo tempo, per il tuo talento, per la tua amicizia. Spero davvero il prima possibile di poterti abbracciare di nuovo molto forte.
AM. Anch’io ti dico due cose prima che ci lasciamo. Uno, che mi mancano i tuoi abbraccioni quelli forti forti, e poi che sto vedendo Suburra, sono alla terza puntata, lo guardo lentamente per paura che finisca troppo presto. Devo dire che è molto bello. È stata un’operazione grandiosa, perché non si è sgonfiato per niente, siete stati gli unici ad aver cotto di nuovo il ciambellone senza che si sgonfiasse. Credo sia difficilissimo.
AB. Lo è!
AM. Fantastico. Ti ho mandato quel messaggio quando ero sul set, perché era pieno di inglesi, e tutti erano contenti che il giorno dopo uscisse la nuova stagione di Suburra, si sono poi chiusi dentro al Grand Hotel, nelle camere, per vederlo. Mi hanno detto che il più grande regalo che potessi fare loro era portarli a cena con te, e anche con Benedetta Porcaroli, che pure Baby non sai come se lo vedono. Ma poi sai cos’è? Mi viene in mentre Chris Simmons, col suo studio in periferia a Londra, con tutte le riviste alternative, tutti quei fotografi che in pochi conoscono, la Londra quella lì underground dei produttori di immagini, quella che noi diciamo “succede solo a Londra”. Ebbene sì, questi stanno lì al chiodo a vedere Suburra, mi sembra una cosa bellissima.
AB. Sì, sembra quasi che in questo momento storico tutti parlino la stessa lingua, speriamo non sia solo una sensazione. Grazie amico mio, a presto.
https://www.rivistastudio.com/alessandro-michele-intervista/
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The Untamed
Commento secondo rewatch
LO SO, SONO PAZZA.
Mi sono accorta di aver iniziato questo secondo rewatch il quattro maggio, giorno della parziale riapertura dell'Italia. Coincidenza? Sinceramente, non lo so. Ne sentivo la mancanza da un po', e forse il fatto di poter di nuovo uscire liberamente di casa e riprendere a fare passeggiate all'aria aperta, mi ha dato la spinta per cliccare play sul primo episodio. O forse avrei ricominciato la visione in ogni caso, chi lo sa.
Ho impiegato esattamente otto giorni per rivedere la serie, guardando tra i sei e gli otto episodi al giorno, e qui lo dico: MAI PIÙ FARÒ UNA COSA DEL GENERE.
Perché The Untamed ha cinquanta episodi. È vero, non sono episodi lunghi, non sono dei pipponi, ma cinquanta sono cinquanta episodi.
E, cosa più importante, sono cinquanta episodi emotivamente pesanti.
Su cinquanta puntate, ho pianto almeno in venti. Vi pare normale piangere per quasi metà del tempo?
Durante questa terza visione (questo è stato il secondo rewatch + la prima volta che l'ho visto), ho maledetto la serie in tutti i modi. "Stronzi bastardi" è stato il mio commento più frequente. E ho maledetto anche me stessa per la bella idea che ho avuto di fare il rewatch di quella che sapevo benissimo essere una tragedia immane.
Più volte mi sono detta: "Veronica, la prossima volta che ti viene la bella idea di rivedere The Untamed, ricordati bene che è una serie che ti fa soffrire come un cane".
Ho notato per la terza volta che quando io vedo The Untamed, arrivo sempre a un punto in cui sento il bisogno di tornare indietro. Di solito succede verso la fine del flashback. Perché questo flashback è talmente bastardo che io sento di non potercela fare, e ho solo voglia di tornare indietro, alle prime puntate, quando i personaggi erano ancora felici e spensierati, quando si volevano tutti bene ed erano tutti vivi.
Per questo le puntate ambientate ai Meandri delle Nuvole me le godo come una bambina felice, perché so che questa spensieratezza non durerà per sempre, e che quello che arriverà dopo sarà davvero molto tosto.
Stavolta, quando mi è venuta voglia di tornare indietro, ho stretto i denti e sono andata avanti, facendomi coraggio con la certezza che una volta tornati al presente le cose sarebbero piano piano andate meglio.
E così è stato. Quindi al di là di tutto, nonostante tutte le lacrime, una volta arrivata in fondo mi sono sentita sollevata. Contenta per avercela fatta. Triste per tutto quello che ho visto.
The Untamed è così: prima ti spezza il cuore in tanti pezzi, un po' alla volta, e poi ti aiuta a rimetterli insieme. Prima ti ferisce, poi ti cura.
È per questo che quando arrivo alla fine dell'ultimo episodio sento che ne è valsa la pena.
E sinceramente ho anche voglia di ricominciare, ma no, non intendo rivedere la serie per mesi, perché se la rivedessi sempre non ci sarebbe gusto. Ovvio, sarebbe sempre bella, ma io The Untamed me lo voglio godere con calma, nel tempo. È per questo che io non rivedo mai le scene di questa serie, neanche le mie preferite. Quando ho voglia di rivedere la serie la rivedo, e quando l'ho finita, stop, grazie e arrivederci.
Quindi la prossima volta che rivedrò The Untamed non mi guarderò gli episodi uno dietro l'altro, tutti concentrati nel giro di una settimana. Sarà una visione graduale, per godermelo meglio e metabolizzare bene gli avvenimenti.
Per esempio, stavolta, quando finivo un episodio non mi tenevo l'ansia per il successivo, perché tanto lo vedevo subito, e così ho notato che preferisco vedermi uno o due episodi al giorno, in modo da tenere l'adrenalina bella alta.
Detto ciò, voglio buttarmi su una serie di punti per mettere nero su bianco quello che più mi ha colpito in questo secondo rewatch:
Prima di tutto, posso dire che questa volta ho guardato la serie con molta più razionalità e consapevolezza. La prima volta che ho visto The Untamed è stata indimenticabile, ho provato emozioni pazzesche e bellissime, ma che a volte mi portavano a non vedere l'obiettività delle cose, o a non vedere le cose in modo completo.
Mi ricordo bene che al tempo (si parla di otto mesi fa) ero ESTREMAMENTE empatica con Wuxian, quindi mi arrabbiavo davvero tanto quando vedevo Jiang Cheng scontrarsi con lui. Sono sempre molto empatica con Wuxian, ma ho imparato a scindere le emozioni personali, e ad oggi posso dire di avere una buona comprensione del personaggio di Jiang Cheng, e che non sono più minimamente arrabbiata con lui.
Questa terza visione della serie mi ha fatto capire una cosa che già intuivo: ho sempre voluto stilare una classifica dei dieci personaggi preferiti di The Untamed, ma mi sono resa conto che, almeno per me, è praticamente impossibile. Alcuni sono fissi, ma altri variano perché ogni volta che vedo la serie i personaggi mi colpiscono in maniera differente, quindi decidere una classifica che sia sempre valida è davvero difficile.
Io lo dico: Shijie non è un personaggio psicologicamente interessante ai miei occhi, ma è di certo uno di quelli che mi ha fatto piangere di più. È sempre stato così, e questa cosa mi piace molto. Trovo il suo amore verso i suoi fratelli davvero commovente, così come il suo desiderio di tenere la famiglia unita.
Per quanto riguarda la sua morte, lo so, si è un po' suicidata andando sul quel campo di battaglia, ma cavolo, SE FOSSI STATA IN LEI AVREI FATTO LA STESSA COSA.
Si riuniscono tutti contro mio fratello e probabilmente questa è l'ultima possibilità che ho di dirgli che gli voglio ancora bene nonostante tutto? Cazzo, pure io sarei corsa su quel campo.
E comunque nella scena della caccia è stata mitica.
Wuxian. Non c'è niente da fare: lo amo. Non c'è altro da dire.
Lan Zhan: miglior personaggio di The Untamed. E muti.
WangXian. Ancora devo conoscere una storia d'amore che mi piaccia più di questa. Penso che aspetterò per sempre. Non comincio neanche a elencare tutte le scene adorabili tra loro due sennò faccio notte, ma questa la devo citare perché rimane la scena madre della serie:
Colonna sonora: non ci sono parole per dire quanto la trovo bella.
Amo Jin Ling, Sizhui e tutti i discepoli. Sono davvero una ventata di freschezza, e il loro rapporto con Wuxian è adorabile.
Signora Yu: Queen del mio cuore per l'eternità. Tra l'altro, mi ricordo di averla odiata non poco la prima volta. Ora? Pfff. Ora la amo e basta.
L'ho già detto e lo ripeto: il sorriso finale di Wuxian vale tutto.
Jin Guangyao e Xue Yang rimangono due villain con i controcazzi. Li amo un sacco entrambi.
Curiosità: non riesco a vedere la morte di Xue Yang senza piangere.
Voglio un uomo che mi guardi come Lan Zhan guarda Wuxian. È meraviglioso. Mi ha sciolto il cuore. E adoro come Lan Zhan dimostri tutto il suo amore non con le parole, bensì con i fatti. Ha letteralmente salvato Wuxian, dopo che lui ha portato la gioia nella sua vita.
CIOÈ, MA SI PUÒ???
(E comunque una parte di me non ha potuto fare a meno di pensare che Wang Yibo fosse davvero innamorato di Xiao Zhan, perché sennò non si spiega. Qui gatta ci cova XD)
Ho trovato alcuni momenti un po' troppo lunghi. Sono solo alcuni, e in generale il drama scivola via bene. Tra l'altro mi sono stupita perché in soli quaranta minuti di puntata sembravano succedere un sacco di cose, e questo mi è piaciuto molto. Ma ci sono state 2/3 scene che potevano essere tagliate di qualche minuto, come quando in uno degli episodi finali arriva Wen Ning brandendo la sciabola di Nie Mingjue, e Wuxian deve calmare lo spirito della sciabola e metterla nella tomba. Per fare ciò ci si impiega una cosa come 12 minuti: troppo.
Il finale. In generale mi piace come si chiudono tutte le storyline, la mia preferita è quella tra Wuxian e Jiang Cheng. Riguardo Wuxian e Lan Zhan, manca (per ovvie ragioni) un pezzo in cui i due si parlano e chiariscono i propri sentimenti. Ammetto che la cosa non mi secca più di tanto, perché la serie ha fatto un lavoro davvero mostruoso riuscendo a mostrarci l'amore senza mai dirlo con le parole, quindi mi sento molto appagata anche solo con gli sguardi. Ma devo anche ammettere che se ci fosse stata una vera e propria dichiarazione d'amore sarebbe stato perfetto. Il finale di The Untamed, per come ci viene mostrato, non è facile da capire a un primo sguardo (perché i dialoghi tra i due protagonisti sono quasi ZERO), e bisogna interpretarlo, ma considerando i limiti di cui dovevano tener conto credo che abbiano comunque fatto un buon lavoro.
Questo commento dimostra quanto questa serie mi abbia fatto impazzire, visto che già avevo scritto vari commenti nei mesi precedenti.
Devo ammettere un'ultima cosa: ho impiegato più tempo a scegliere le gif da usare che a scrivere il commento stesso.
Ecco perché dovrei fare pulizia in galleria XD.
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The one where they write a song (again)
Ermal aveva capito che la pausa non sarebbe durata a lungo nel momento esatto in cui era sceso dal palco del suo concerto in Canada e la pausa era effettivamente iniziata. Lui non era in grado di stare lontano dal palco, dallo studio, dalla musica. Aveva bisogno costantemente del contatto con il suo pubblico, di far sentire a chi lo seguiva i suoi pensieri trasformati in canzoni. E tutte quelle cose non poteva farle se era in pausa. Quindi non era poi stata una sorpresa se, in un caldo pomeriggio di luglio, si era ritrovato nel suo studio a Milano. Sentiva la mancanza di quel posto quasi quanto sentiva la mancanza di casa ogni volta che era in tour, ma era una sensazione totalmente diversa. La nostalgia di casa era un leggero fastidio allo stomaco, un piccolo pensiero in un angolo del cervello, qualcosa di non troppo invasivo che però gli ricordava quale fosse il posto a cui apparteneva davvero. La nostalgia del suo studio, della sua musica, era tutt'altro. Era una morsa dolorosa che gli stritolava il cuore, una voce nella testa che gli diceva continuamente di tornare a comporre. Quindi non c'era da sorprendersi se nel bel mezzo della sua pausa aveva deciso di tornare a lavorare. La vera sorpresa era che, dopo appena mezz'ora, qualcuno si fosse presentato nello studio e quel qualcuno fosse Fabrizio. Erano passati almeno tre mesi dall'ultima volta in cui si erano visti, e gli impegni di entrambi li avevano costretti anche a sentirsi meno. Quindi Ermal era visibilmente stupito di trovarselo davanti. "Che ci fai qui?" disse mentre si spostava di lato e gli permetteva di entrare nello studio. "Che c'è? Non posso avere voglia di vedere un amico? E poi scusa, Renga può stare qua e io no?" rispose Fabrizio. Ermal ignorò la battuta che Fabrizio aveva fatto sul suo amico, consapevole che se si fosse permesso di dire qualcosa sarebbe scoppiato un dramma. Chiuse la porta e lo invitò a proseguire lungo il corridoio, fino ad arrivare a una piccola sala relax con un divano, un tavolo e una piccola cucina, in cui Ermal aveva dormito spesso nei giorni in cui le idee per le canzoni erano così tante da non potersi permettere di tornare a casa. "Dico solo che potevi avvertirmi. Ci saremmo visti a casa mia, oppure in qualche locale." Fabrizio si strinse nelle spalle. "Mi piace stare qui. È dove abbiamo registrato la nostra canzone, è un posto speciale." Ermal sorrise al ricordo di loro due, ormai quasi due anni prima, che registravano quella canzone senza minimamente aspettarsi le conseguenze. Prese due birre dal frigorifero e ne porse una a Fabrizio, poi si sedette di fronte a lui. "Come sapevi che ero qui?" chiese curioso. "Sono passato da casa tua. Quando ho visto che non eri lì, questo è stato il primo posto in cui ho provato a cercarti. È la tua seconda casa." Ermal posò le labbra sulla bottiglia e tirò giù un sorso, più per evitare di parlare che perché avesse sete. Il fatto era che non sapeva per quanto tempo ancora avrebbe potuto evitare di dire a Fabrizio che la sua seconda casa - dopo Bari, dopo la sua famiglia - era lui. Si era affezionato a Fabrizio così velocemente e così intensamente, da non accorgersene nemmeno. Ed era stato incredibilmente semplice lasciarlo entrare nella sua vita, anche se lui era quello che prima di permettere a qualcuno di conoscerlo davvero si faceva mille paranoie. Con Fabrizio, invece, era stato tutto più semplice. Ermal sospettava che in parte fosse perché lo stimava artisticamente fin dai tempi di Pensa. Lo aveva sempre seguito, era stato un suo fan e, per quanto sembrasse assurdo, quando si erano presentati durante il festival del 2017, a Ermal sembrava già di conoscere Fabrizio da una vita. Ma forse, il vero motivo era semplicemente che Fabrizio sapeva farsi amare da tutti e per Ermal era stato impossibile non accoglierlo nella sua vita come un amico di vecchia data. Solo molto tempo dopo si era accorto di quanto Fabrizio fosse importante per lui. Molto più di un semplice amico. Quei sentimenti all'inizio lo avevano spaventato, al punto che per un periodo aveva cercato di ridurre il più possibile i contatti con il collega. Durante l'estate del 2018, nonostante più volte avessero detto che si sarebbero ospitati a vicenda nei propri concerti, Ermal non lo aveva mai invitato e aveva declinato ogni invito che Fabrizio gli aveva rivolto. Non perché non avesse voglia di vederlo o non sentisse la sua mancanza, semplicemente aveva cercato di preservarsi, di proteggersi. Ma non era servito e quei mesi di lontananza non avevano fatto altro che fare capire ad Ermal che ormai non c'era più niente da fare per proteggersi. Era andato troppo oltre, ormai proteggersi non aveva senso. Proteggersi da cosa poi? Dall'innamorarsi di Fabrizio? Troppo tardi. Anzi, probabilmente era stato troppo tardi fin da subito. Probabilmente si era innamorato di lui appena lo aveva conosciuto, ci aveva solo messo un po' di tempo a capirlo. "Non sono venuto qua solo per salutarti, però" disse Fabrizio dopo qualche minuto. Ermal posò la bottiglia sul tavolo e gli rivolse la sua completa attenzione. Fabrizio sospirò. "Stavo pensando che, se ti va, potremmo lavorare a un altro pezzo insieme." Ermal lo guardò sorpreso. Ovviamente era felice della proposta, ma era anche piuttosto stupito. Non aveva mai pensato all'eventualità di lavorare di nuovo insieme. Avevano parlato tante volte di scrivere ancora qualcosa, ma non c'era mai stato nulla di concreto e dopo un po' Ermal aveva smesso di crederci. "Davvero?" "Solo se ti va" disse Fabrizio titubante, quasi come se temesse che Ermal rispondesse di no. "Certo che mi va" rispose Ermal sorridendo. "E immagino che tu abbia già qualche idea." Fabrizio annuì, come se non aspettasse altro, e aprì la custodia della chitarra estraendone un paio di fogli. Ermal diede un'occhiata veloce allo spartito e al testo che Fabrizio aveva abbozzato, bloccandosi di colpo sulla prima strofa. C'era qualcosa di familiare. Troppo familiare, come se quella canzone parlasse di cose che lui stesso aveva vissuto. "È solo una bozza della prima strofa, manca ancora il ritornello e tutto il resto" disse Fabrizio, mentre osservava Ermal esaminare i fogli che gli aveva dato. Ermal sollevò lo sguardo e sorrise. "Me la fai sentire?" Fabrizio non se lo fece ripetere. Afferrò la chitarra e iniziò a far scivolare le dita sulle corde, iniziando a cantare un attimo dopo. I versi che aveva scritto parlavano di qualcuno che era entrato nella sua vita cogliendolo di sorpresa, prendendosi una parte di lui senza che nemmeno se ne accorgesse. Era una canzone d'amore, questo Ermal lo aveva capito bene, ma non riusciva a capire a chi fosse rivolta e perché Fabrizio avesse deciso di condividerla con lui. E poi, improvvisamente, fu colto da un dubbio. In un verso, Fabrizio aveva descritto il legame con questa persona usando il termine indissolubile. Ermal ricordava che più di una volta Fabrizio aveva usato quell'aggettivo per descrivere ciò che c'era tra loro, quella sorta di amicizia e collaborazione che con il tempo era diventata molto di più. Un legame indissolubile, appunto, che Fabrizio era certo non si sarebbe mai spezzato. "Ecco, per ora ho scritto solo questo" disse Fabrizio posando la chitarra appena ebbe finito di cantare. "Mi piace. È intensa" disse Ermal, senza trovare la forza di aggiungere altro. Fabrizio abbassò lo sguardo, grattandosi la nuca imbarazzato. "Sono felice che ti piaccia." Ma ciò che avrebbe voluto dire in realtà era che il motivo per cui era felice che a Ermal piacesse quella canzone, era perché quel testo parlava di lui.
L'estate era passata in un attimo. Ermal si era preso un po' di tempo per buttare giù qualche idea, promettendo a Fabrizio che si sarebbero rivisti a settembre, appena lui fosse tornato dalle vacanze in Sardegna con i suoi figli. In realtà, se avesse lasciato parlare il cuore, non avrebbe nemmeno avuto bisogno di tutto quel tempo. Appena aveva sentito Fabrizio canticchiare la prima strofa della canzone, la sua mente si era affollata di parole. Insomma, per lui non era poi così difficile scrivere una canzone d'amore quando era davvero innamorato. E sapere di scriverla insieme alla persona per cui provava certi sentimenti, non faceva altro che renderlo più ispirato. Dall'altra parte, però, non sapeva come fare a esprimersi senza che Fabrizio capisse davvero come stessero le cose. Ermal aveva colto dei riferimenti a lui nelle poche parole che Fabrizio aveva scritto, ma doveva anche essere razionale e rendersi conto che magari quelle non erano altro che parole a caso, messe lì per descrivere una storia in cui non c'entrava minimamente. E se le cose stavano così, sarebbe stato imbarazzante scrivere la sua parte con riferimenti palesi a Fabrizio e al loro rapporto, quindi Ermal aveva preferito prendersi del tempo per pensare bene a cosa scrivere. Ma prendersi del tempo non era servito a nulla. Ormai era settembre inoltrato ed Ermal non aveva scritto una sola parola. "Quand'è che vi vedete?" chiese Marco una sera, mentre se ne stava seduto sul divano di Ermal a sorseggiare una birra. Marco era l'unico a cui Ermal aveva raccontato tutti i dubbi che gli erano passati per la testa. Ed era anche colui che continuava a dirgli di rischiare perché altrimenti se ne sarebbe pentito per sempre. "Domani. E lui pensa di arrivare in studio e di trovare qualcosa di pronto, mentre io non ho scritto nemmeno una frase" sbuffò Ermal. "Sarebbe così tanto un dramma se Fabrizio scoprisse, da una tua frase in una canzone, ciò che provi per lui?" chiese Marco sinceramente curioso. Non riusciva a capire per quale motivo Ermal si facesse prendere dal panico in quel modo. In fondo, anche Fabrizio stesso aveva scritto delle frasi che potevano essere riferite a Ermal. Anzi, Marco era convinto che lo avesse fatto volutamente per confessargli, attraverso una canzone, dei sentimenti troppo grandi e che non sarebbe riuscito a spiegare diversamente. Ma questo a Ermal non l'aveva detto, un po' perché comunque il timore di essersi sbagliato c'era sempre e un po' perché voleva che lui arrivasse a quella conclusione da solo. "E se lui non prova le stesse cose? Sai come funziona in queste situazioni. Inizia a esserci imbarazzo, i rapporti si raffreddano... Non voglio rischiare di perdere Fabrizio per una cazzata del genere." "Ermal, non è una cazzata. Tu sei innamorato di lui!" "È una cazzata, se lo paragono al solo fatto di averlo nella mia vita. Preferisco continuare a frequentarlo e ad amarlo da lontano, piuttosto che dirglielo e rischiare di rovinare tutto" disse Ermal. Era estremamente convinto della sua decisione. Eppure, una voce nella sua testa continuava a sussurrargli che si stava sbagliando.
Il giorno seguente, Fabrizio arrivò a Milano con una strana sensazione addosso. Era felice di rivedere Ermal, ma si sentiva anche preoccupato per l'esito di quell'incontro, come se da quella giornata dipendesse il loro futuro. Non riusciva a ricordare di preciso quando avesse iniziato a provare qualcosa per lui. Doveva essere stato dopo l'Eurovision, probabilmente. Ricordava di aver dormito poco la notte del suo ritorno a Roma, di aver sentito la mancanza delle chiacchierate con Ermal prima di andare a dormire, delle interviste fatte insieme durante la giornata, delle prove su quel palco immenso. Ricordava la sensazione di assoluta completezza e gioia che aveva provato quando aveva stretto Ermal a sé durante la Partita del Cuore, le domande che gli avevano affollato la mente quando si era accorto di non volerlo lasciare andare e di come le aveva messe a tacere perché era troppo spaventato dalle conseguenze. E poi ricordava bene il suo concerto all'Olimpico, la mano di Ermal stretta nella sua, il suo cuore che batteva all'impazzata, la voglia di baciarlo lì sul palco davanti a tutti. Era stato in quel momento che se n'era accorto. Era stato in quel momento che si era reso conto di quanto i suoi sentimenti per Ermal fossero cambiati. Per un po' si era tenuto dentro ogni cosa, custodendo gelosamente i suoi sentimenti come se fossero un segreto. Ma a un certo punto era diventato impossibile continuare a tenersi dentro le cose e così aveva semplicemente iniziato a scrivere. All'inizio erano pensieri sconclusionati, poi erano diventati una vera e propria canzone che Fabrizio aveva fatto ascoltare a Ermal sperando che capisse cosa provava senza doverglielo dire apertamente. Era in quel modo che era nata Come Te. Ma, nonostante una canzone piena di parole che Fabrizio aveva scritto pensando a lui, Ermal non aveva capito. O forse aveva finto di non capire. Era per quel motivo che Fabrizio aveva deciso di scriverne un'altra e di farlo proprio insieme a Ermal. Per quel motivo e anche perché gli mancava da morire il periodo in cui avevano scritto Non Mi Avete Fatto Niente. Ermal, almeno quando Fabrizio gli aveva fatto sentire la canzone la prima volta, non aveva dato segno di cogliere i riferimenti e Fabrizio si era messo l'anima in pace. Se nemmeno quella volta le cose stavano funzionando, forse era il caso di lasciare perdere. Quando arrivò davanti allo studio del collega, lui lo stava già aspettando fuori. Stava finendo di fumare una sigaretta accesa poco prima e appena lo vide raggiungerlo sorrise. "Ciao, Bizio!" esclamò gettando il mozzicone e poi avvicinandosi per abbracciarlo. Fabrizio ricambiò l'abbraccio affondando il viso nell'incavo del suo collo, quasi nascondendosi. Poi si costrinse ad allontanarsi e disse: "Entriamo?" Percorsero il corridoio fino alla saletta in cui erano stati l'ultima volta che si erano visti, entrambi silenziosi e un po' tesi senza nemmeno sapere bene quale fosse il motivo di tutta quella agitazione. Solo quando Fabrizio si sedette sul piccolo divanetto, Ermal - appoggiato al frigorifero - si permise di sospirare e dire: "Bizio, in realtà io non ho scritto niente." Fabrizio inclinò la testa di lato, guardandolo confuso. "Se hai bisogno di più tempo..." "No, non è quello" lo interruppe Ermal. "Saprei esattamente cosa scrivere, ma prima di farlo ho bisogno di chiederti una cosa a proposito di quello che hai scritto tu." "Dimmi." Ermal lo fissò per un attimo, consapevole che quello fosse l'ultimo momento per tirarsi indietro, per decidere di non confessargli ciò a cui aveva pensato per tutta la notte. Poi si fece coraggio e disse: "So che probabilmente mi dirai di no, ma devo chiedertelo ugualmente e togliermi questo dubbio. L'hai scritta pensando a me?" Appena quelle parole uscirono dalle sue labbra, Ermal si sentì incredibilmente stupido. Era certo che a quel punto Fabrizio si sarebbe sentito in imbarazzo, avrebbe balbettato che ovviamente nulla di quella strofa era riferito a lui e il loro rapporto sarebbe inevitabilmente cambiato. Ma, contrariamente a ciò che pensava Ermal, Fabrizio sospirò e rispose: "Allora te ne sei accorto." Ermal lo guardò incredulo. Anche se i dubbi erano stati tanti da spingerlo a chiedere un chiarimento, non credeva che davvero Fabrizio avesse scritto quei versi per lui. "Quindi è così?" chiese Ermal titubante. "Il rapporto che ho con te è l'unico che definisco indissolubile. Certo, anche il rapporto con i miei figli non è una cosa che si può spezzare, ma con loro ho un legame di sangue, è ovvio che mi senta legato a loro. Tu sei l'unico, al di fuori della mia famiglia, che vorrei mi rimanesse accanto tutta la vita." Al termine di quella spiegazione, Ermal sentiva gli occhi lucidi e un groppo in gola. Nessuno gli aveva mai detto una cosa del genere e sentire Fabrizio - l'uomo di cui era innamorato e a cui aveva avuto paura di confessare i suoi sentimenti - dire quelle cose lo destabilizzava. "Ermal, ti prego, di' qualcosa" mormorò Fabrizio vedendo che Ermal continuava a rimanere in silenzio. Ermal sospirò. Si sentiva improvvisamente sollevato e più leggero, e allo stesso tempo non aveva nessuna voglia di continuare quel discorso. Avrebbe solo voluto raggiungere Fabrizio e baciarlo, ma sapeva di dovergli delle spiegazioni. "Quando mi hai fatto sentire la canzone, sapevo perfettamente come continuarla. Il solo fatto che tu la stessi cantando con così tanto passione, mi ha ricordato ciò che provo e mi sono rivisto in quelle parole. Ma non solo perché sono innamorato. Mi ci sono rivisto perché sono innamorato di te, e tu in quella canzone hai parlato di noi" disse Ermal. Fabrizio lo guardò sorpreso ma non disse nulla, lasciandogli la possibilità di continuare. "Sapevo esattamente cosa scrivere, ma non l'ho fatto perché temevo di essermi sbagliato. Temevo che quella canzone in realtà non parlasse di noi, di me. Temevo che in realtà tu l'avessi scritta per qualcun altro e io avessi frainteso. E temevo che se avessi scritto ciò che pensavo, tu avresti capito cosa provo e le cose sarebbero diventate complicate." "Avevi paura che me ne sarei andato? Che mi sarei allontanato da te?" chiese Fabrizio. Ermal annuì con un cenno e la stanza piombò di nuovo nel silenzio. Entrambi avevano nascosto i loro sentimenti per talmente tanto tempo, che ora sembrava assurdo anche solo pensare di averne parlato ad alta voce. "Sai qual è la cosa divertente?" disse Fabrizio a un certo punto. Ermal lo fissò in silenzio aspettando che continuasse. "Che io non te l'ho mai detto per lo stesso motivo. Ho cercato di dirtelo con le canzoni, perché dirtelo chiaramente sarebbe stato troppo e avevo paura delle conseguenze." "Siamo veramente due idioti" disse Ermal sorridendo. Fabrizio si alzò dal divano e lo raggiunse. "Già. Però voglio baciarti comunque, anche se sei un idiota." "Ah, grazie! Ma vorrei ricordarti che tu sei idiota quanto me, in questa situazione!" replicò Ermal. "Sta' zitto." Ed Ermal, a quel punto, rimase in silenzio davvero. D'altronde, sarebbe stato difficile parlare con le labbra di Fabrizio premute sulle sue.
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NEI NOSTRI OCCHI IL RIFLESSO DELLA NOSTRA FELICITÀ, PER TUTTA LA VITA.
(Esiste l'amore eterno?)
Oggi ho accompagnato mia madre al cimitero a trovare mio padre, domani giorno di Ferragosto sarebbe stato il 60° anniversario di matrimonio. Vicino alla tomba di mio padre da non molto tempo c’è una nuova “ospite”, anche lei era coetanea dei miei genitori.
Questa mattina abbiamo trovato suo marito intento a osservarla nella foto della lapide.
Io ero uno o due passi indietro, osservavo queste due figure anziane piegate dagli anni e dalla fatica di essere ora soli guardare i rispettivi consorti, che oggi non ci sono più.
Il signore anziano dopo qualche attimo di silenzio, rivolgendosi a mia madre, le disse: - Era suo marito?
- Si - rispose mia madre – domani avremmo festeggiato i sessant’anni di matrimonio.
- Io e mia moglie i sessant’anni li abbiamo festeggiati insieme, ora non c’è più. Vengo due volte al giorno a trovarla, ma non mi do pace. Sarò egoista, ma avrei preferito che fossi io a morire. Una donna riesce ad andare avanti in qualche modo senza il suo amore, ma l’uomo no… muore anche lui.
Allora mia madre gli raccontò di come mio padre, ormai divorato dal cancro, in uno dei suoi ultimi giorni di vita gli confidò che era felice che la sorte di ammalarsi fosse toccata a lui. Perché senza lei sarebbe morto con più sofferenza.
Curiosità del fato, vivo in un Comune di ottomila anime quindi ci si conosce quasi tutti, vicino alle due tombe c’è la tomba comune che accoglie due persone, marito e moglie. Per sette anni furono miei vicini di casa, li conoscevo molto bene.
La moglie, donna energica, venne a mancare per una di quelle malattie che crescono e ti divorano dall’interno. Al suo funerale mi colp�� molto il viso di suo marito, uomo tutto d’un pezzo e dalla ferrea disciplina ereditata da una carriera militaresca, che quel giorno dimostrava tutta la sua fragilità e le sue paure. Quando lo abbracciai sembrava essere lontano anni luce da tutti noi con lo sguardo perso nel vuoto.
Lo rividi dopo qualche settimana, mi si strinse un nodo alla gola, sembrava un uomo finito. La mia sensazione non era sbagliata, aveva smesso di vivere quando morì sua moglie e lui si spense poco a poco. Nel suo grande dolore morì dopo non molto tempo, raggiungendo la sua cara consorte.
Quando finii questi ricordi mi riconcentrai su mia madre e il vedovo e lei stava piangendo, lui con un briciolo di compostezza che faceva fatica a tenere, riuscì a non esplodere in un pianto anche se le lacrime gli solcavano il viso.
Qualcuno scrisse “Se amate qualcuno per la sua bellezza, non è amore ma desiderio. Se amate qualcuno per la sua intelligenza, non è amore ma ammirazione. Se amate qualcuno per la sua ricchezza, non è amore ma interesse. Se amate qualcuno e non sapete il perché, questo è amore.”, già l’amore.
Illusi o disillusi si cerca, o silenziosamente si spera, in un amore duraturo. All’inizio lo si cerca eterno, poi lo si ridimensiona alla propria vita, alla fine si spera in un amore che non importa per quanto duri ma che ci sia.
Ho visto matrimoni durare e che durano ancora oggi con molta partecipazione, tanti altri spegnersi e morire.
L’amore che dura non è per tutti, credo, ma per chi sa seguire le varie metamorfosi che l’amore stesso verso una persona ha nel corso degli anni.
Credo che un errore che si faccia spesso sia quello di desiderare l’amore dei “primi tempi”, quello ardente e forte di passioni e impetuoso, per tutta la vita. Impossibile.
L’amore si evolve fino ad arrivare all’essere complicità, pazienza, sorrisi compassionevoli e perché no anche un po’ di sopportazione; solo così dopo tanto tempo la propria metà diventa insostituibile.
Ma non a tutti va bene. Quindi si trascura, si abbandona, si tradisce e ci si allontana già da quando si condivide ancora il talamo nuziale.
Non si può pretendere che tutti ne siano capaci, impossibile, ma sono secondo me fortunati quelli che ci riescono. Poiché a rincorrere i fuochi di paglia, alla fine, si muore di freddo. Meglio della cenere ardente che anche senza fiamma viva può scaldarti a lungo.
Oggi ho potuto sentire e vedere che l’amore per tutta la vita esiste. Non so spiegare come si possa vivere e trovare, ma esiste. La speranza che posso avere per qualunque persona che ne abbia bisogno, sia che prima poi possa arrivare. Almeno da morire felici, per aver trovato un amore grande.
Davanti a queste persone, forse, mi sono reso conto di non aver mai davvero amato nessuna, poiché solo adesso ho intuito cosa significa amare davvero.
Deve essere qualcosa di speciale amare una persona, anche quando nessuno pronuncerà mai più il suo nome se non il vento che ti farà sentire quando tu la chiamavi e questa persona ti rispondeva. Solo il vento.
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Una storia senza titolo
Quinta e ultima parte
Liz entrò nel bagno e accese il telefono. Suo padre aveva visualizzato il messaggio e le aveva risposto “tesoro mio grazie di cuore! ci vediamo alle tre in aeroporto. un bacio, papà”. Perché suo padre aveva sempre l’abitudine di firmarsi al fondo dei messaggi? Non concepiva di essere salvato come contatto? Questa cosa lasciava Liz perplessa, però lei amava questa sua stranezza.
Mentre svuotava la vescica, stava sorridendo. Non sapeva se fosse dato dal sollievo di essere atterrata, dal messaggio di suo padre o da chissà cos'altro, ma questo le ricordò un episodio di quando era piccola: si trovava in spiaggia con sua mamma e doveva assolutamente andare in bagno, ma erano lontani dalla casa che avevano affittato per le vacanze. "Andiamo in un bar, seguimi" disse allora la mamma, prendendola per mano. La sabbia scottava sotto i suoi piedini arrossati per il sole, il vento soffiava e rendeva l'aria più respirabile, ma Liz avrebbe approfittato volentieri per chiedere un succo di frutta fresco o un gelato, oltre che per usare il bagno. Nel tragitto verso il bar, la mamma si era fermata a parlare con una conoscente, sino a dimenticarsi completamente della piccola Liz, il cui bisogno di trovare una toilette stava aumentando. Ad un certo punto, senza nemmeno pensarci, la bimba si abbassò il costume e iniziò ad urinare in mezzo alla sabbia, come un cane randagio diceva la madre quando raccontava l'accaduto, per l'urgenza e per il bruciore alla vescica. Mentre lo faceva, stava sorridendo: la mamma, accortasi del gesto, attese che la bambina si tirasse su il costume per poi tirarle un ceffone in pieno volto. Il dolore al viso superava di gran lunga il patimento sofferto in precedenza nel trattenersi e la bambina iniziò per la prima volta a considerare l'effetto delle proprie azioni sui suoi genitori. Adesso, in un bagno discutibilmente igienizzato dell'aeroporto, Liz si ritrovava ad urinare sorridendo, tenendo le gambe divaricate e sostenendo il proprio peso sulle ginocchia: non aveva nemmeno provato a circondare la tavoletta del gabinetto con la carta igienica, anche perché del rotolo nemmeno l'ombra.
Nel frattempo, Joe stava litigando dentro di sé con la sensazione di essere osservato dal vicino di urinatoio: perché la gente ha tutto questo bisogno di compagnia quando è in bagno? Abbiamo paura di sentirci soli con noi stessi? Ma perché quel tizio all'ingresso mi sta osservando le scarpe? Ma perché io sto guardando quel tizio tenendomi il pene in mano? Ma si muove a uscire sta cazzo di pipì? Oh conto fino a tre, se non esce simulo il rumore con la bocca e me ne vado senza farla. Uno... Due... Oh eccola finalmente.
Quasi nello stesso istante, Liz concluse: prese un pacchetto di fazzoletti dalla borsa e dopo aver tirato lo sciacquone, continuò a ridere. Uscendo dal bagno in contemporanea, una signora si chiese cosa avesse trovato Liz di così divertente nel suo stallo, ma preferì non indagare. La ragazza si lavò le mani e uscì, per trovare Joe in piedi vicino ad un muro che la aspettava.
"Fatto tutto?" chiese lui. Che idiota pensò subito dopo, che domanda cretina.
"No, ho dimenticato di farmi i capelli" rispose Liz, notando il suo imbarazzo e volendo sdrammatizzare "ma spero mi perdonerai".
"Eh non lo so, io ho avuto anche tempo di fare la barba, ma forse perché c'era meno fila che da te"
"Sicuramente, la fila al bagno delle donne è sempre un incubo".
I due si diressero al nastro per recuperare i bagagli. La valigia di Joe fu una delle prime ad arrivare: nera, con delle toppe in stoffa di loghi musicali e di band, con una targhetta che riportava le sue iniziali, JA. La valigia di Liz invece, non si vedeva. La ragazza iniziò a tenere gli occhi fissi sul nastro, nella speranza di notarla tra quelle arrivate, ma niente: mosse la testa alla ricerca del punto in cui iniziavano ad essere trasportate le valigie e lo raggiunse, come se la sua presenza all'inizio del tragitto facesse magicamente comparire il suo bagaglio. Joe la perse di vista per qualche secondo e la ritrovò con gli occhi spalancati e l'espressione terrorizzata, mentre fissava il vuoto.
"Che succede...?"
"Me l'hanno persa. Me lo sento."
"Ma ne sei sicura?"
"Me l'hanno persa, ti dico! Non c'è, tra tutte le valigie la mia non-"
Improvvisamente una valigia rossa varcò la soglia del nastro trasportatore, facendo cambiare a Liz espressione.
"È la mia!" urlò catapultandosi su di essa, per recuperarla. La aprì con foga, temendo il peggio: il computer era ancora lì, tutto era ancora lì, tirò un sospiro di sollievo.
Joe la guardava da pochi metri di distanza, non voleva interromperla mentre stava passando in rassegna ogni oggetto all'interno del suo bagaglio. "C'è tutto" disse lei "anche il PC!" e sorrise.
"Bene, sono contento. Adesso puoi finalmente tornare a casa tranquilla".
I due si fermano qualche secondo e si fissarono negli occhi: c'era qualcosa nello sguardo di quel ragazzo che la rassicurava, come se si conoscessero da una vita ma allo stesso tempo fossero abbastanza estranei da affascinarsi a vicenda. Avrebbe voluto conversare con lui in eterno, ma il tempo stava correndo e doveva raggiungere suo padre.
"È stato un piacere conoscerti, Joe, io però devo proprio andare"
"Beh sicuramente nemmeno io resto qui al deposito bagagli, stai tranquilla. Vado anche io"
"Spero di averti tenuto abbastanza compagnia, nonostante tutto"
"Sicuramente più della musica"
Si sorrisero e si guardarono negli occhi: entrambi sentirono l'impulso di abbracciarsi, ma nessuno dei due si avvicinò, quindi si salutarono velocemente e si allontanarono.
"Mi piacerebbe sentirti qualche volta" disse Liz, mentre Joe era già voltato. Non le interessava passare per pazza o per persona troppo invadente "mi sei stato molto vicino e se ti stai trasferendo per lavoro potrebbe comunque farti comodo un contatto" cercò di giustificarsi lei.
"ehm sì certo" disse lui, un po' in imbarazzo. Liz era sicuramente una persona simpatica, ma era sicuro che una ragazza così ansiosa sarebbe stata di buona compagnia per la sua nuova vita? Aveva davvero bisogno di un punto di riferimento così intermittente? Gli amici ansiosi e preoccupati per tutto erano proprio quelli che volevano convincerlo a rimanere nella sua città natale, perché cercarne di uguali? Pensieri stupidi disse a sé stesso, e prese in mano il telefono della ragazza. Compose un numero e glielo restituì "il mio è nello zaino, non lo tiro fuori adesso ma scrivimi e ti rispondo appena leggo". Sembrava distante, ma Liz attribuì il tutto alla possibile stanchezza e lo salutò. Si diresse verso l'uscita, dove suo padre la stava aspettando a braccia aperte.
Arrivata a casa, Liz si fece una doccia calda: nemmeno si preoccupò di disfare il bagaglio, né di andare a salutare i parenti, che avrebbe comunque visto la sera stessa, alla festa del padre. Si preparò per andare a cena al ristorante, indossando un vestito scuro e delle scarpe eleganti: il suo ritorno sarebbe stato in grande stile, avrebbe raccontato dei suoi studi e dei suoi successi a familiari e amici che non vedeva da tempo, voleva brillare. Prese in mano il telefono e scrisse un messaggio a Joe "Ciao, sono Liz. Scusa se ti scrivo solo adesso, ma sono rientrata ed ero distrutta, ho dovuto fare una doccia. In ogni caso non ti ringrazierò mai abbastanza, davvero. Ti auguro un buon rientro". Sorrise allo specchio, felice di come la sua vita stesse procedendo e si diresse con i genitori alla festa. Durante la serata controllò costantemente il telefono, in attesa di un messaggio di risposta del ragazzo, ma inutilmente. Possibile che non abbia avuto il tempo di leggere in così tante ore? si chiese, continuando a osservare lo schermo, che rimase spoglio dalle notifiche. Adesso aspetto l'intera serata, se entro domani mattina non risponde, gli mando un altro messaggio. Anzi no, se non risponde, che si fotta. Guardò il telefono. No grazie, zio, non voglio altro vino sto a posto così. Guardò il telefono. No zia, non voglio un altro pezzo di torta. Guardò il telefono. Mamma mia che ansia, ma perché non risponde? E se è successo qualcosa? No grazie mille, Alex, niente sigaretta, ho smesso da quando ho ripreso gli studi. Eh sì, adesso mi drogo direttamente, vero, che ridere. Ma che diavolo succede? Perché non risponde?
Liz stava diventando paranoica, quindi decise di spegnere il telefono e provare a godersi la serata, senza pensieri. E se mi ha dato un numero falso? No basta, via ogni pensiero.
Al suo rientro a casa andò a dormire, senza controllare il telefono. Nei giorni successivi continuò a controllare i messaggi, ma niente. L'applicazione non rivelava l'accesso di Joe e lei non poteva guardare il suo profilo, perché non era stata aggiunta ai contatti. Probabilmente era stata dimenticata, un ennesimo incontro durante un viaggio per lui, inutile sperare di essergli sembrata simpatica o piacevole. Non era possibile che un ragazzo come lui, che usava il telefono per ascoltare musica e aveva costantemente le cuffie alle orecchie, non accedesse al suo stesso smartphone da giorni. Probabilmente l'aveva ignorata volontariamente, sempre se non le aveva dato un numero falso. Che cretino, pensò lei, si fotta. Io sono in pensiero da giorni, perché magari gli è successo qualcosa e lui mi sta bellamente ignorando. Che se ne vada a fanculo. Chissà che stava facendo mentre io ero alla festa, ad aspettare una sua risposta, magari era a casa a farsi gli affari propri o era andato in qualche pub a fare il finto alternativo e trovare amici interessati a musica indipendente o progetti underground. Io intanto ero preoccupata e chissà lui...
Già, come mai Joe non le aveva risposto? Sembrava un ragazzo molto educato e sensibile, non è da tutti fermarsi a parlare con una sconosciuta impanicata su un volo per tranquillizzarla, per poi seguirla fino al deposito bagagli. Cosa era successo? Possibile che le avesse dato un numero falso o che la stesse ignorando? Tutto era possibile nella mente di Liz, che vedeva solo la sua delusione e l'amarezza di aver incontrato qualcuno di interessante per poi perderlo.
Ciò che però non aveva visto era proprio Joe, che, mentre lei stava salendo sull'auto del padre, cercava disperatamente nello zaino il proprio telefono per chiamare un taxi. Mentre lei era a casa a fare una doccia, lui era disperato in aeroporto, alla ricerca del proprio smartphone nel bagno, dove lo aveva dimenticato e dove non lo ritrovò più. Mentre lei era alla festa, a bere vino e rifiutare fette di torta, Joe era in aeroporto a denunciare il furto del cellulare e a cercare aiuto da parte di qualcuno per chiamare un taxi e andare a casa, nella sua nuova casa, dove sarebbe stato solo per la prima volta, senza un telefono per chiamare la famiglia, senza un modo per comunicare, prima di un colloquio di lavoro. Mentre Liz pensava che lui fosse impegnato a ignorarla, lui aveva passato la serata a cercare di chiamare la madre, per dirle che tutto era andato bene, ma aveva avuto problemi a contattarla ed era stato difficilissimo per lui resistere senza crollare a pezzi. Passò la nottata a piangere, a pentirsi di essersi trasferito, a chiedersi se quello fosse un segnale: fu una nottata devastante per lui, quasi dimenticò persino l'esistenza di Liz, che invece pensava di essere ignorata volontariamente. Il mattino dopo, mentre lei era ancora in balia delle proprie domande, Joe si rese conto che continuare a disperarsi non aveva senso e si diresse in un negozio di telefonia: avrebbe cercato di recuperare almeno alcune password dei suoi social, pregando che l'ultimo backup fosse stato recente e che un nuovo cellulare non gli costasse un patrimonio. Ne acquistò uno economico, che potesse dargli accesso alle applicazioni principali, senza intasare completamente la memoria. Il suo nuovo acquisto fu inutilizzabile per delle ore, mentre il backup dei dati e il recupero delle mail lo tenevano tecnologicamente in scacco.
Quando finalmente fu in grado di funzionare, non c'era nessun nuovo messaggio. Joe non poteva sapere infatti che, nel frattempo, Liz aveva preso una decisione: non l'avrebbe più cercato.
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PASTICCERIA SICILIANA - PASTE DI MANDORLA
L’INGORDO MANIACO - AMARE E NON ESSERE AMATI
Nel mio post precedente (l’amore visto da dietro) ti ho raccontato di come il mio modo attuale di pensare all’amore e determinato da alcune mie vecchie vicende. Ora tenendo conto di questo punto, per me importante e per farti comprendere i miei futuri post, devo parlarti di Provvidenza che si definisce essere la mia “facente funzione di zita”o meglio ancora, la mia “zita virtuale”. In realtà non ci amiamo né abbiamo mai pensato di amarci, ma alle volte, per convenzione sociale, o solitudine sentimentale o per semplice sfogo sessuale agiamo in pubblico e in privato come se lo fossimo anche se, devo sottolinearlo ancora una volta, non siamo innamorati. E’ in questo modo, simulando l’amore che non abbiamo, che vinciamo le nostre solitudini nate dal non essere accettati o considerati o compresi. Per questo non pensare che il senso di questo mio racconto sia nelle scene più o meno scabrose che descrivo; in fondo tali scene, così come i dolci, sono solo un rifugio in cui per un attimo dimentichiamo questi sentimenti che ci comandano e che non capiamo del tutto. Chi mi ha fatto incontrare Provvidenza, fu il mio grande amico Marcellino con cui ho diviso il mio banco scolastico alle superiori e la disastrosa carriera scolastica essendo entrami, molto francescanamente, ultimi tra gli ultimi. Se vuoi immaginarti fisicamente Marcellino devi pensare ad un orso grosso e buono, capace di alzare una Fiat 500 del vecchio tipo ed incapace di uccidere una formica; un orso che che nello zaino portava sempre, insieme a tre o quattro merendine, la figurina della panini di Schillaci. Io ero l’unico amico di Marcellino perché lui aveva un piccolo difetto che solo io sopportavo: era molto emotivo! Il che detto così non vuol dire niente, ma in Marcellino questa accentuata emotività, si trasforma in grandi movimenti intestinali e nella susseguente emissione di gas tossici. Per questo motivo ogni volta che avevamo un compito in classe ed era inverno, dovevamo portarci i cappotti per stare con le finestre aperte, e dovevamo procurarci i ventilatori in estate per allontanate la densa aria calda, umida e nauseante che persisteva in classe. Per le interrogazioni alcuni professori lo facevano andare fuori dalla finestra per isolarne i gas e sopravvivere, ed anche all’esame di stato, la commissione per il suo esame orale si spostò in cortile. Marcellino, con il mio aiuto aveva superato questa sua difficoltà e si era fatto zito con Alessandra, una bravissima ragazza molto carina che vedendomi sempre solo, organizzò un’uscita a quattro con la sua nuova amica Provvidenza. Uscimmo un sabato sera andando nei locali sulla spiaggia verso il Faro ed io scoprii con grande sorpresa che Enza, come la chiamavano tutti, era un’esperta di dolci. La sua figura poteva apparire poco femminile perché più alta di me di qualche dito, con due spalle larghe da nuotatrice ed ormai, da quando non faceva più pallanuoto, un po’ rotondetta nei punti dove secondo me le donne devono esserlo. Aveva capelli corti e corvini poco curati, ed enormi occhialini con la montatura nera che a me ricordava un personaggio del grande Andrea Pazienza. Vestiva con jeans e una camicetta bianca che nascondeva il suo seno ed appariva da lontano un maschio effeminato o una femmina molto maschile. La sua originale figura non faceva trapelare questa sua passione per la piccola e grande pasticceria che presto scoprii essere degna della mia. Incominciammo quindi a parlare delle varie pasticcerie messinesi ed eravamo tanto concentrati nella discussione che ad un certo punto Enza si voltò chiedendo ad Alessandra dove fosse un certo negozio e solo allora ci accorgemmo che i nostri amici erano scomparsi e subito li pensammo imboscati per fare quello che gli innamorati fanno, o forse rimasti indietro per darci modo di affiatarci. In realtà il giorno dopo Marcellino mi confesso che Alessandra gli aveva chiesto di andare a mangiare a casa sua e al solo pensiero di incontrare i suoceri fu preso dal panico e perse ogni autocontrollo: intorno a lui d’improvviso si creò il vuoto! Una signora in stato interessante si senti male e quasi svenne: nella confusione che si creò, Marcellino ormai nel panico totale pensandosi due volte omicida, mentre sosteneva la signora incinta si dimenticò completamente di noi. Io però, non vedendoli più mi seccai moltissimo, quasi ci volessero far stare insieme per forza e chiesi scusa a Provvidenza per loro mentre inutilmente li cercavamo. Lei stranamente appariva molto triste come se la loro scomparsa le avesse fatto provare un grossissimo dispiacere dentro. Colpito da questo suo atteggiamento le proposi di andare a prendere dei cornetti caldi in una nota pasticceria e ci avviammo comprandoci un cornetto di ogni tipo: alla nutella, alla crema, e alla marmellata, ai pistacchi e alla ricotta ; dalla pasticceria andammo in un posto in collina da dove si vedeva tutto lo stretto di notte con la costa calabrese e quella siciliana piene di luci il mare con tante barche con le lampare che pescavano. Era il tipico posto dove portare la zita e approfittando della visuale romantica, saltarle addosso; io invece spiegai la sosta in quel punto con l’aria fine che mi faceva venire sempre un po di fame necessaria a mangiare tutti quei cornetti. In fondo sono stato sempre un grande bugiardo. Mentre stavamo facendo fuori i cornetti, cercavo di fare il brillante, ma lei si capiva che era come lontana, presa dai suoi pensieri. Ci ragionai qualche secondo ed ebbi un’intuizione. Le chiesi se era dispiaciuta perché i nostri amici ci avevano lasciata e lei rispose di si. Mangiai un boccone e quindi feci partire l’affondo “Ma sei dispiaciuta perché non c’è Alessandra, non è vero ? sei innamorata di lei?” Lei mi guardò stupita “ma che dici….” “Dico che ti piace, sorridevi felice ogni volta che ti parlava, le guardavi sempre il sedere e le minne, te l’abbracciavi ogni volta che potevi, a me puoi dirlo: non sono il tipo che racconta in giro cose. Anch’io ho i miei altarini” lei abbassò la testa e diede un piccolo morso al cornetto. “Io, sono confusa – esordì guardando il pezzo di dolce che aveva in mano – io mi innamoro delle donne e faccio l’amore con gli uomini. A me Alessandra piace e me la sogno di notte. Ma ormai lei è con Marcellino, poi ho questo corpo da Fighter e nei rapporti con gli altri sono imbranata, grezza: tutte quelle di cui mi innamoro alla lunga mi evitano accuratamente. Amare senza essere amati fa solo male e forse, se non hai nulla in ritorno è come non amare. Essere amati vuol dire ricevere tutto quello di cui abbiamo bisogno, senza dover chiedere nulla. Invece io mi trovo solo a dare senza avere mai qualcosa indietro, ne considerazione, né un gesto o una carezza. Mi trovo solo a sognare ad occhi aperti cose che non accadranno mai. Ma nella vita non puoi solo sognare e sperare, sentendoti diversa o incapace di essere felice perché nessuno condivide con te quello che provi. È come guardarsi allo specchio e non vedere nessuna immagine di ritorno, quasi si fosse un vampiro, qualcuno che non vive e non è morto” “ e gli uomini ?” chiesi con indifferenza “loro sentimentalmente non li capisco. Forse perché dentro di me sono un uomo anch’io – sorrise – ma alla lunga non mi emozionano, mi stancano. Però visto che sono un controsenso ci faccio l’amore e ci sto insieme. Anche qui. da grezza quale sono mentre faccio l’amore, li distruggo fisicamente, così scappano tutti, anche loro – alla fine si voltò verso di me con un mezzo sorriso – in conclusione non so cosa sono e di quello che voglio non ho mai niente….” “Nessuno di noi sa bene chi è…” commentai “Eh tu ? che altarini hai? sei gay? bisessuale?“ “No io sono un ingordo maniaco – dissi con malcelato orgoglio. Lei mi guardò senza capire così aggiunsi – ecco a me piacciono i dolci e piacciono le donne ed io faccio spesso l’amore con entrambi”. Sorrise “non capisco! cosa sei un feticista o cose del genere” sorrisi anch’io. “Ecco…per esempio … c’era una mia amica, Filippa, che ogni volta che voleva fare l’amore con me mi offriva sempre dei pasticcini alle paste di mandorla.” Provvidenza mi guardò sbattendo gli occhi “ e che c’è di strano in questo ?” alzai gli occhi al cielo “bhe lei se li metteva dentro le mutandine e poi me le offriva li dove erano, amava imboccarmi spingendo la mia testa contro le paste, e poi tenerla li perché mangiassi anche lei e al gusto dolce della pasta aggiungessi quello suo più intimo” mi guardò golosamente stranita “Davvero!!! e tu che facevi ?” “Io mangiavo, sia i pasticcini che lei, e poi dopo quell’antipasto il gioco continuava in modo più o meno tradizionale” sorrise “le avrei mangiate anch’io…” “vedi che abbiamo molto in comune” sorrise ancora e chiese “e non mi chiedi nulla” “In che senso ?” “come mai mi piacciono le donne, la prima volta e così via: gli uomini si eccitano con queste cose” feci la faccia annoiata “sono cose morbose da voyeur, se ne hai voglia e se per te è importante me lo racconterai” mi guardò “tu sei strano” “anche tu – le risposi – ma a me non importa, anzi tutte le mie donne sono state strane: è per questo che mi piacciono” Per la prima volta sorrise sinceramente, mostrando un po’ di luce sul volto oscurato dallo sconforto “ e perché non hai una fissa….?” “ ho avuto una brutta esperienza sentimentale e ho deciso di lasciar perdere l’amore: faccio solo sesso onesto e puro con qualche dolce per contorno” sorrise ancora “ hai fatto altre cose strane con i dolci e le donne?” “più di una : ho una lunga lista…” “Interessante – fece lei sorridendo e facendosi passare la lingua sulle labbra forse per levare lo zucchero dei cornetti, forse perché ci stava veramente pensando - già quella delle paste di mandorle mi è piaciuta molto” “Se vuoi qualche volta la proviamo… anche se per il tuo fisico andrebbe meglio il gioco della scatola di dolci a forma di cuore…..” Le brillarono gli occhi di voglia e curiosità ed io ne approfittai per baciarla, un bacio casto e diplomatico a cui lei rispose con uno pieno di lingua e desiderio. “credo che andremmo molto d’accordo…” disse alla fine quando si staccò da me ed io con indifferenza le slacciavo i bottoni della camicetta, poi si fermò e guardandomi severa disse con enfasi “ma niente amore…sia chiaro, io non ti amerò mai, devi saperlo fin da ora!” la guardai sorridendo “quando non mi vedrò più allo specchio vorrà dire che ti lascerò: l’amore per me ha un gusto amaro, io faccio l’amore solo con chi è dolce, e dopo tutti cornetti che ti sei mangiata, ora sarai dolcissima – e mandando in esplorazione la mia mano nel suo seno aggiunsi – e poi sei calda e morbida come un bignè alla crema” dissi stringendo con determinazione; mi guardò sorridendo e mi ribaciò con ancor più voglia, mentre la sua mano scendeva decisa verso il mio coinquilino del piano inferiore per farne una vigorosa conoscenza con una stretta ancor più determinata della mia. Per un attimo pensai che a causa della sua irruenza, forse sarebbe stata la mia ultima notte d’amore e la cosa fece battere il mio cuore più velocemente pensando di poter morire avvolto nel profumo di vaniglia dei cornetti e quello di Provvidenza: che morte perfetta per un ingordo maniaco! In quel momento e per quel istante fui felice. Ingenuamente felice perché l’amore non si fa mai comandare e si vendica sempre delle stronzate che dici. Comunque, l’ho sempre detto che presentarsi con le paste di mandorle fa fare sempre una bella figura.
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METAMORO PIZZA!AU
AKA THE ONE WHERE FABRIZIO HA UNA PIZZERIA E ERMAL è SUO CLIENTE CAGACAZZO
Fabrizio ha una mini pizzeria in uno di quei quartieri di Roma non dico San Basilio ma una cosa del genere
Ermal è in città da meno di un mese ed è la quinta città che si gira in cinque anni. Pace? si mangia la pace?
Un giorno scopre la pizzeria di Fabrizio e vede che fanno l’impasto con il lievito madre e si gasa un sacco perché viene molto più leggera, se lo sai usare
Fabrizio lo sa usare. ECCOME *wink wink*
hem
Quindi, Ermal si gasa un sacco e inizia col prendere ogni volta un cosa diversa perché una volta che digerisci l’impasto ti si aprono le porte dei condimenti (provato sulla mia pelle)
ma il listino di Fabrizio è molto scarno
a sto punto, è quasi un mese che Ermal va là ed essendo solo Fabrizio a fare sia cucina che cassa vuoi che non abbia attaccato bottone e preso confidenza?
Fabrizio is: amused ma non lo da troppo a vedere
(è timido okay capitelo)
comunque un giorno arriva, si guarda la lista da cima a fondo e poi esclama;
“ma una pizza peperoni e fragole non me la vuoi fare?”
Fabrizio è sicuro di avere le allucinazioni uditive perché non è possibile che gli abbia chiesto una cosa del genere
e invece si
Quindi, con molta calma, Fabrizio gli indica il listino delle pizze sperando che il messaggio passi chiaro
Well
Per quella volta Ermal lascia perdere
Ma ogni volta che torna gli propone cose diverse e assurde
Tipo la pizza con l'uva e il miele
O ananas e pancetta
Banana e curry
Fin quando Fabrizio non si rompe i coglioni
"senti coso, vieni qui, portati gli ingredienti e te la cucini tu"
Ermal non se lo fa dire due volte e un giorno lo fa veramente
E accade la magia, a spese della pizza sadly
Perché si mettono a parlare, no? Mentre la pizza cuoce e Fabri fa le altre per i clienti non cagacazzo
E Ermal ruba un po' di mozzarella e cibo a caso e si rende conto che è quella buonaTM non quella dell'Eurospin
E rimane shock perché così gli ingredienti vengono a costare di più e comunque il suo era un piccolo business cioè una pizzeria 10x10
E Fabrizio gli spiega:
"il fatto è che se ci metti attenzione, amore, nelle cose che fai, quello ti torna. C'ho dei clienti che ho visto crescere, praticamente, sono venuti qua la prima volta che avevano 13 anni, ora ne hanno 24, stanno in giro a fare cose ma passanl sempre a prendersi un pezzo di pizza e fare una chiacchiera. Praticamente sono di famiglia"
Ermal.exe stopped working
Perché per lui che si era rassegnato a non trovare mai un posto sicuro da dire casa e con il suo voler diventare un cantante si trova costretto anche a piegarsi alla corrente e farsi trascinare, no?
L'idea che invece passa Fabrizio è di costanza, pazienza, routine. Parole che per lui avevano quasi perso di significato.
Quello, e il fatto che Fabrizio stesse farcendo la pizza in canotta e retina per capelli, capite che il povero ragazzo ha avuto un po' di problemi
Nel mentre, la pizza si cuoce e Ermal può assaggiare il suo operato e well
Well
Faceva popo schifo al cazzo
E Fabri ride sotto i baffi ma Ermal fa lo stoico e "mmmmmmhhh la pizza più buona del mondo!!!! Alta cucina!!!! Cracco chi"
Ne mangia 3/5 prima che Fabrizio si prenda a pietà e gli dia un po' di diavola per aggiustarsi la bocca
Va beh queste sono le esperienze che legano come il Troll per Hermione Ron e Harry
E a fine serata Ermal gli propone un accordo
"io porto gli ingredienti, cuciniamo la pizza e se è buona la aggiungi nel menù"
Fabrizio, memore delle pessime accoppiate proposte, accetta tranquillo che non avrebbe mai detto di si
Ma Ermal lo frega perché la prima volta si prendeta con pesto e patate e È BUONA
!!!!!
Fabri is shock
Comunque cominciano questa strana collaborazione che risulta in Ermal che mangia a sbafo, con la promessa di Fabrizio che prima o poi gli farà pagare tutti i pezzi che ruba
Credice Fabbrì
E piano piano Ermal comincia a fargli tipo da manager/assistente/manco loro lo sanno
Gli crea anche la pagina instagram e oh boi
Cioè Fabrizio totalmente clueless su cosa succeda sul web i social non sono roba per lui okay
Ma Ermal troppo tardi comprende che nel suo magico piano c'è una falla
Perché quando comincia a fare le stories per pubblicizzare la pizza praticamente fa i video a Fabri che fa le CoseTM da pizzaiolo tipo farla volare ecc
Mette i condimenti la mette in forno tutto normale
Eccetto che è mezzo nudo mentre lo fa eccetto per la canotta (norme della sanità who) e le possenti braccia da impastatore
Fabrizio diventa una piccola instagram sensation
Long story short si ritrovano il doppio della clientela e Ermal si mette a lavorare seriamente (visto che è colpa sua) e non sono lì per la pizza. Well, non solo.
E via di mance esagerate e occhiolini e numeri che, casualmente, finiscono nel cestino.
Fabrizio, che c'ha almeno trent'anni, non è scemo e se la vita ti da limoni te lo limoni FAI UNA LIMONATA
Quindi un sorriso, un'ammiccata e via
Ermal che "eh ma non me non facevi il carino"
"ma te stavi qua un giorno si e l'altro pure, i guadagni di un mese sono solo per te. Loro devo convincerli a tornare"
Ermal is rethinking everything in his life
Però manco lui si lamenta troppo perché saranno pure venuti per il bonazzo, ma sono rimasti per la pizza
Almeno quello
Alcuni chiedono anche le pizze di Ermal!
(Ermal fa sempre gli smile snervanti sugli ordini quando li passa in cucina perché he is an ass like that)
E quindi Fabri non c'ha più lo spazio manco per vivere, le persone si prendono la pizza e si accampano fuori e decide di prendere anche un vero aiuto cuoco
(che potrebbe, o non potrebbe, essere Ultimo)
Ma ora Ermal è costretto a rimanere in cassa e vuoi che non asfalti gente a destra e manca perché vengono a cercare Fabrizio?
"vorrei pagare con il pizzaiolo, il mio ordine è molto...particolare AMMICC AMMICC"
"NICÒ ESCI TE VOGLIONO"
(non che Niccolò non sia bellino ma era più piccolo e sicuro non era Fabrizio quindi capì la delusione della tizia)
Tra una cosa e un'altra arriva Maggio, Fabrizio sta considerando l'idea di comprare tavolini da mettere fuori e Ermal c'ha anche un lavoro fuori da quella pizzeria CAN YOU BELIEVE THAt
Il lavoro, che prima lo teneva impegnato pranzo/pomeriggio a piano bar a suonare in un locale, diventa "stai qua dal pomeriggio alla sera tranne quando non abbiamo qualcuno di più figo di te a suonare"
Che okay, sono più soldi, ma tra una cosa e un'altra alla pizzeria va una volta a settimana
The disrespect
Cioè immaginate dal vedersi ogni santo giorno al vedersi una volta a settimana e pure male perché stanno stanchi
(e non stanno neanche assiene perché lmao chi c'ha il tempo di vivere)
Quindi un giorno Ermal scopre che ha il pomeriggio libero e senza manco pensarci vola alla pizzeria
Ma BAM! SHOCK! CHAOS! DRAMA!
Trova Fabrizio che abbraccia una ragazza
Ermal è campione del mondo di salto alle conclusioni e un po' quello un po' lo scazzo della vita decide di girare i tacchi e andarsene a fanculo
(i cellulari in questa AU non sono molto cagati quindi fate che questi hanno zero contatti a parte quando si vedono)
E per farvi capire quanto FUORISTRADA sta Ermal, Fabrizio sta facendo uscire pazzo Niccolò perché parla a Ermal e Ermal non c'è e lui se ne dimentica e la situazione sarebbe drammatica se non fosse che sono due patate
Quindi niente, Ermal è uno scemo ma fortunello perché Fabrizio lo chiama due giorni dopo e gli fa "senti oggi so che il tuo posto c'ha una serata, e io rimango chiuso, quindi se passi proviamo qualche pizza nuova"
Ermal è !!!!!!!!!!!! Ma irl roba che il sole era di troppo
Anche perché in quei due giorni Ermal si è fatto delle pare che il Tour de France al confronto è un giro in triciclo
Ed era giunto alla conclusione che qualsiasi cosa avesse scambiato per flirt da parte di Fabrizio chiaramente non lo era (e invece si) e che l'altissimo purissimo innocentissimo (SEH) Fabrizio non aveva colpe
(così innocente che metteva il peperoncino nella salsa così che Ermal avesse caldo e si spogliasse occhei)
Ma cerca di fare il vago tipo "mmm si non lo so,,,,ma non hai qualcun'altro con cui passare il tuo giorno libero?"
Quello fu il momento in cui Fabrizio comprese di essersi andato a impicciare con un cretino
"No, se te lo sto dicendo a te e v i d e n t e m e n t e no."
Ermal è abbastanza dritto da non replicare
Arriva la sera alle sei e sebbene sia felice perché erano otto giorni che non si vedevano (but who is counting?) (Both of them.) Era comunque un po' wary perché non è bello innamorarsi e scoprire che l'altra persona non sta al tuo stesso piano
(almeno aveva fatto pace con i suoi sentimenti)
Eeee io mi fermo qui perché il limite è 100 ma non voglio mollarvi in the middle of the action, quindi rebloggo e scrivo il resto sotto okay? Daje che si sistema tutto, a ignoranza come tutta questa AU (vi volevo mettere il link alla seconda parte ma non sono capace COMUNQUE sta nel reblog che comincia con “DICEVAMO”)
#metamoro#ermal meta#fabrizio moro#pizza!au#fabrizio ha una pizzeria#pizzaiolo!fabri#cliente rompipalle!ermal#la au che tutti meritano ma nessuno necessita#o viceversa?#ignoranza is the way#metamoro ff#metamoro is love metamoro is life
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L’incastro perfetto
Mi sono spesso fermata a pensare cos'è che lega effettivamente due persone. Cosa ci spinge a memorizzare un determinato volto nella nostra mente e lasciarlo lì immobile, ed arrivare al punto di non riuscire più a toglierlo.
È strano, davvero molto strano come si possa passare dall'essere capace di "stare da soli" e bastarsi all'essere estremamente fragili e senza un pezzo. Un pezzo capace di modificare la tua intera struttura, una volta inserito però non si torna indietro, sarà sempre evidente la mancanza di quell'ingranaggio perfetto ed a quel punto tu, tu non sarai più la stessa, non funzionerai al 100%, andrai magari un po' più lenta, un po' meno energica, un po' più apatica.
E stavo lì, nel posto dove di solito mi nascondo per scappare dai mille pensieri e mille problemi che fanno da sfondo alla mia quotidianità, per pensare se potesse effettivamente esistere un sostituto di questo pezzo. Si insomma, un altro incastro che potesse essere inserito e dar modo alla "macchina" di poter funzionare come prima, dar modo a me stessa di poter sprizzare energia da tutti i pori come prima.
Eppure a questo interrogativo una risposta l'ho data ma è dura da accettare.
È dura da accettare perché a saperlo prima non permettevo ad uno stupido pezzo di cambiarmi, di rendermi più fragile e vulnerabile. Si insomma, dov'è finita la corazza che tanto mi caratterizzata ? Quella corazza che mi sono costruita nel tempo, tra una delusione e l'altra.
Ero una persona semplice e forse un po' troppo materialista. L'amore ? Quasi non ci credevo più.
Erano tutti uguali, tutti gli stessi, tutti con un medesimo scopo e nessuno di loro risvegliava in me niente, persino il più banale dei discorsi mi sembrava vuoto.
Ed è brutto quando le aspettative non rispecchiano la realtà, quindi ho cominciato a crederci sempre meno, a preferite la fisicità, l'amore carnale, il semplice e puro piacere fisico.
Stavo bene, non mi mancava niente. Mica le capivo tutte quelle ragazze che perdevano tempo dietro ad un cuore solo, dietro ad una sola persona che per giunta le trattava come non meritavano sicuramente.
Anzi, le prendevo in giro, dicevo sempre "ci sono tanti pesci nel mare", come se l'uno valesse l'altro. Ma loro no, continuavano imperterrite a sbatterci la testa, ad inseguire quell' "amore" tanto impossibile quanto stupefacente.
"È innamorata che ci vuoi fare", "ci ha perso la testa, ormai non c'è più niente da fare". Queste erano le consuete frasi che sentivo, che mi venivano dette ed io non lo accettavo, non lo credevo possibile!
Le definivo solo poco intelligenti e senza dignità, a correre dietro a qualcuno che non fa altro che allontanarti.
Si insomma, non prendiamoci in giro, non è possibile arrivare al punto in cui ti senti vuoto e percepisci un peso dentro se una determinata figura non è più presente nella tua vita. Non è possibile avere semplicemente voglia di perderti nei suoi occhi che magari non hanno granché di speciale eppure sembra covino dei piccoli infiniti tutti da scoprire.
Non è possibile che nella tua testa riecheggi costantemente il dolce suono della sua risata, un po' buffa, un po' strana, unica nel suo genere che al solo pensiero ti scappa un sorriso grande quanto una casa.
No che non è possibile, pensavo io.
In realtà, fino ad oggi, fino a questo pomeriggio non lo avevo realizzato fino in fondo.
Eppure é successo, mi è successo.
È successo che così, un pomeriggio per caso mi sia trovata davanti quel pezzo, quell'ingranaggio che tanto aspettavo e che credevo effettivamente non esistesse.
Ed ecco scendere le lacrime da sole, ma perché ? Non sono triste eppure le sento scivolare pian piano e non riesco a farle smettere.
E dicevo, era proprio lì, davanti a me. Non che io me ne fossi accorta, però, al momento del bacio, lì si che mi sono sentita un tutt'uno con me stessa. Funzionavo bene, sprizzavo energia come mai credo e sentivo un vortice farsi strada nella mia pancia e mettermi lo stomaco sotto sopra. Credo fossero quelle che tutti chiamano "farfalle nello stomaco", una grandissima fesseria credevo io, eppure quant'era bello quel piccolo mal di pancia fastidioso ?
E mi sentivo nuova, cambiata, diversa e più felice. Non so cosa sia la felicità, come l'amore del resto, però so per certo che c'ero molto vicina.
E fu così che inaspettatamente, un pomeriggio per caso, avevo completato il mio puzzle, avevo incontrato il mio pezzo.
La cosa assurda ? Che ho impiegato una vita a cercarlo senza mai trovarlo e nel momento in cui stavo davvero cambiando modo di pensare e agire, eccolo lì che piomba all'improvviso nella mia vita, repentino e travolgente. E ti senti al settimo cielo. E conservi ancora il sapore di quelle labbra, ed il tocco di quelle dita che al solo minimo sfioro facevano venire la pelle d'oca.
Eppure avevo un po' di paura perché se mi sentivo completamente nuova, allo stesso tempo mi sentivo più fragile, come se chiunque in quel momento potesse farmi del male, farmi soffrire. Non ci voleva molto, bastava levarmi quel pezzo.
Però non è stato così, per i primi giorni non è affatto andata così.
Era un continuo susseguirsi di risate, sorrisi, frasi smielate e milioni di canzoni dedicate.
Era l'attesa di vedersi il giorno dopo e la voglia di scambiarsi quello sguardo magnetico celando la verità a tutti.
E da qui poi gli incontri fortuiti in bagno, lì si che saliva l'adrenalina per la paura di poter essere scoperti, ma allo stesso tempo la voglia di scoprirsi e di amarsi.
"Amarsi", non so ancora cosa significhi questo termine. Credo però che includa molte e molte responsabilità.
Amare un persona non è un'azione e basta, è un vero e proprio modo di vivere.
Non ti fermi ai semplici baci, a quei "ti amo" detti a raffica e alle mille smancerie che potrei elencare infinitamente. No.
Amare una persona significa farsi carico della sua felicità.
Da quel momento in poi, è tuo compito non farle mai mancare il sorriso, non farle mai pesare i problemi ed i vari ostacoli che la vita vi pone e regalarle i sorrisi più belli di sempre.
Amare una persona richiede dedizione, richiede alchimia, complicità di sguardi, richiede amore insomma.
Per amare una persona serve solo questo: l'amore. Non esistono delle qualità particolari, semplicemente perché esse stesse sono implicite nel concetto di amore.
Perché l'amore é così, quando ti attraversa fino in fondo ti cambia tutta, a tal punto da non riconoscerti più. E puoi essere stronza, fredda, cinica, apatica quanto vuoi, lui avrà sempre la meglio e demolirà e prosciugherà il tuo anti-sentimentalismo.
Non ti puoi opporre, neanche volendo. Arriva all'istante e ti stravolge e tu resti lì in silenzio ed aspetti e vivi il tuo cambiamento.
L'amore ti cambia tutta, e sfido chiunque a dire che ti modifica in peggio perché non è così.
L'amore ti da modo di vedere le cose sotto nuovo punti di vista, ti da la possibilità di tenere ad una persona e rendere questa indispensabile nella tua vita.
Certo che ti fa soffrire, certo che ti fa stare male, che ti fa sentire come se tutto ti stesse crollando di sopra all'improvviso, certo, ma ne vale la pena.
Eccome se ne vale la pena.
Ne vale la pena di soffrire per qualcuno, di soffrire per amore.
È fantastico no? Come all'improvviso tu possa entrare e vivere in una vera e propria favola, scordandoti un po' della realtà circostante.
Quindi ricapitolando, quel pomeriggio mica mi ero resa conto di averla trovata, sapete la persona giusta.
Non te ne accorgi subito è questo il problema, ed il mondo nel quale vieni immerso ( estraneo alla realtà ) ti fascia gli occhi e non ti da modo di analizzare tutti i contro fino in fondo.
Si insomma, ci saranno sempre pro e contro in qualsiasi situazione della nostra vita, ed io sono quella persona che cerca sempre disperatamente di fare la scelta giusta analizzando tutte le possibilità e non sbaglio mai eh.
Sono sempre stata equilibrata, ci ho sempre ragionato sulle cose e poche volte ho avuto dei riscontri negativi.
Ma questa volta, questa volta sono stata una vera e propria pazza.
Un'incosciente ed irresponsabile che ha deciso di aprire il suo cuore in circostanze assurde. Ma come ho potuto? Rischiare così tanto ? Sono una pazza.
Perché solo una pazza si mette dentro questa situazione, solo una pazza si arroga il diritto di farsi del male.
Solo una pazza decide di innamorarsi convinta di poter portare avanti una lotta già persa in partenza. Solo una pazza.
Ed ho sofferto, eccome se ho sofferto.
E per la prima volta, dopo tanto tempo, ho pianto per qualcuno.
E non erano semplici lacrime. Perché lo senti quando quel pezzo si allontana per un po', quando fa per andarsene. Lo senti. E ti senti vuota ed ad un certo punto non ce la fai più e scoppi e tiri fuori tutto ciò che hai dentro ma non ce la fai ad esprimerlo a parole e allora piangi. E lasci che fluisca via tramite delle goccioline, nessuno saprà mai niente così.
Ma quanto è stato bello potere anche solo dire "ti amo", con tutta la sincerità di questo mondo. Un "ti amo" carico di emozioni, di sorrisi e di energia.
Era quasi soddisfacente, era come se fosse la soluzione ad un enorme enigma quel "ti amo".
Oppure quanto è stato bello perdersi nel suo profumo e dormire intrecciati fino al mattino seguente?
E quegli sguardi, cazzo quegli sguardi carichi di elettricità che potevano dare una scossa talmente potente da far crollare un palazzo.
E tutte le ore passate a pensarci, a mancarci, a desiderare di scoprirci sempre più.
E le pazzie fatte, le punizioni subite ed i treni mancati.
E quel bellissimo pezzo di spiaggia, tutto contornato di sassi, frastagliato che visto con la luna piena che riflette sul mare è uno spettacolo.
Il posto in cui sono bastati un anello ed una domanda ad accendere in me un turbine di emozioni talmente forte da non saperlo spiegare davvero a parole. Eccole di nuovo che scendono, ma perché piango? É stato uno dei giorni più belli della mia vita e sono qui a piangere. Perché ? Non lo capisco.
E tutti i progetti per il futuro, ritornare bambini per un attimo e fantasticare sul domani aspirando a tante tante cose,
come una casa che pullula di bambini, un giardino con gli animali, un gatto ed una scimmia cappuccino.
Si insomma, non ho mai amato nessuno come ho amato te e credo che solo una volta nella vita si possa amare così intensamente.
Credo non smetterò mai di farlo sai? Perché nonostante io stia cercando di allontanarti da me perché "è giusto così", dal mio cuore e dalla mia mente non ti smuovi di un passo. Sei lì, indelebile e credo rimarrai lì per sempre.
So per certo che col tempo questo piccolo dolore che sento nel petto andrà a scemare e forse crederò di non amarti più o mi auto convincerò di questo.
Mi basterà però anche solo il più piccolo ed insignificante dettaglio per tornarmi in mente più bello che mai.
Non so dirti perché tu sia arrivato adesso ed in queste circostanze. Non so dirti perché ci abbiano fatto assaporare la felicità per un attimo per poi spazzarla via come fosse niente facendoci rimanere con la disperata necessità di volerne ancora seppur consapevoli che non era possibile.
Non so dirti perché ci siamo cacciati in questo casino immenso e perché alla fine dei giochi ci siamo dovuti allontanare, non te lo so dire. Sono tante le cose che non mi spiego.
Però ti porterò dentro di me per sempre ed avrò di te dei ricordi stupendi, ricordi del mio primo amore che seppur breve mi ha cambiata tutta ed in meglio, accendendo in me la voglia di amare e donare amore.
Ti porterò sempre dentro di me con quel sorriso immenso che hai e quella risata un po' stravagante, e quella stronzaggine e quel l'arroganza che in fin dei conti erano e sono solo apparenza perché ho avuto modo di leggerti dentro e c'è un mondo da scoprire dentro di te.
Fragile e sensibile, hai dovuto affrontare tanti problemi nella tua vita e chissà quanti altri dovrai fronteggiare.
Ma stai tranquillo, io sarò lì tutte le volte, silenziosamente e senza farmi notare. Le
Promesse le mantengo e come detto e ridetto per te ci sarò perché ormai mi sono fatta "carico della tua felicità" e non mi tiro indietro.
Nonostante io abbia sofferto ed anche parecchio non mi pento di nulla. Sei e sarai sempre "lui", l'unico credo che possa farmi accelerare i battiti del cuore come nessuno. L'unico credo che con un sorriso era in grado di rendermi la persona più felice del mondo.
"Ciao, come stai?", te la ricordi questa frase eh?, la nostra frase.
Sarà così che in un futuro lontano forse mi rifarò viva, con questa frase, con questo semplice "ciao, come stai?", che poi semplice appare solo agli occhi degli altri perché noi la risposta la sappiamo, e non è affatto semplice come domanda anzi si deve stare attenti, perché è da questa che è iniziato tutto per me, da quando ho visto i tuoi occhi luccicare, da quando ho azzeccato quella dannata risposta, da quando sei entrato nella mia vita per non uscirne più.
Ripeto e ribadisco, non so cosa spinga due persone a legarsi, so solo che sarai sempre tu l'incastro perfetto per me.
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Domenica, 4 ottobre 2020
Sento la necessità di isolarmi. Ho bisogno di uno spazio privato, un posto dove rifugiarmi, lontano da occhi che possano vedere, da bocche che possano parlare, giudicarmi, consigliarmi, criticarmi o semplicemente commentare chi sono e cosa decido di essere.
Sento il bisogno di scrivere, di scaricare la mia rabbia premendo le lettere su una tastiera, di impugnare una penna come fosse la spada con la quale mi difendo e da cui mai mi separo, di tornare a far scorrere l’inchiostro sul vuoto di un foglio e tracciare i battiti del mio cuore con le parole, per rendermi conto in qualche modo che ci sono, che provo qualcosa, che sono ancora viva.
Ho comprato un quaderno due settimane fa, non sono riuscita a scriverci più di due pagine che le ho strappate in mille pezzi facendone coriandoli.
Nemmeno se vestissi i panni di qualcun altro raccontando una storia che ho in mente da mesi riuscirei a tenere un ritmo. Non scrivo più. Non parlo più. Vivo perché devo e devo fare di questi giorni qualcosa di utile e di produttivo. Ma vivo come un elettrodomestico funzionante che svolge i compiti che deve svolgere e poi non gli interessa più nient’altro.
L’unica cosa che mi ricorda che siamo umani che non vivono come elettrodomestici è la musica. Ma quella, si sa, ogni tanto fa male. In un testo di quattro minuti – poco più, poco meno – ci ritrovi sentimenti e spesso quei sentimenti non li hai mai provati.
Nella prossima vita, sarò più utile se rinascessi nelle vesti di una lavatrice. O di una lavastoviglie (di recente mi è venuta voglia di volerne una nella mia casa del futuro).
Quindi, accompagnata dalle note di una cover di “En & Xanax” inizierò questo diario che spero di non abbandonare.
Mi chiamo Lavinia, ma non è il mio vero nome. Mio padre voleva chiamarmi Lavinia, ma ho deciso che sarà il nome di mia figlia, nel caso in cui dovessi averne una. Io vorrei un maschio però, e vorrei chiamarlo Giulio.
Il nome definisce una persona, si sa, quindi mi chiedo: se mi fossi chiamata Lavinia, chi sarei oggi? Sarei la stessa persona che sono adesso o sarei stata qualcun altro? Cosa avrebbe scelto Lavinia? Avrei fatto le stesse scelte, frequentato gli stessi posti, conosciuto le stesse persone, frequentato la stessa scuola, presa una laurea diversa? Non so. Mi piace immaginare che in un universo parallelo il mio nome è Lavinia. E quindi lo sarò anche in queste pagine.
Ho 24 anni, il ventitré dicembre saranno 25.
Sono laureata in Scienze Politiche e tra qualche mese inizierò la specialistica in Storia che avrei dovuto finire quest’anno e invece devo ancora iniziare. Sono sempre in ritardo. Non a caso da piccola amavo il Bianconiglio di Alice nel Paese delle Meraviglie.
Dieci anni fa credevo che a questa età avrei avuto già un mutuo sulle spalle, una mia macchina, dei pomeriggi liberi da passare a comprare cose per arredare la mia piccola casa, magari avrei avuto anche un compagno che tra due anni sarebbe potuto diventare mio marito. La gente si sposa a quest’età, mi dicono tutti.
Si passa in fretta dall’età in cui immagini di essere qualcuno all’età in cui ti eri immaginato e scopri di non essere chi avevi pianificato di essere.
Ho 24 anni, ma continuo ad averne 14 e a sognare ancora di poter cambiare quello che ho fatto perché non mi piace, nemmeno un po’ e fingere di essere soddisfatti per non soffrire è la cosa più difficile che io abbia mai fatto.
Una cosa però l’ho fatta: ho un cane. Ed è l’unica cosa che mi dà felicità.
Il mio colore preferito è il verde. Io lo associo all’Irlanda, tutti lo associano alla Speranza.
Forse non è male associarlo alla speranza. Spero sempre che nonostante tutte le avversità alla fine della corsa il mio epilogo sarà bello, malgrado arrivarci sia stato difficile come riemergere dalle sabbie mobili. Però spero comunque di scriverlo dalla mia casa a Dublino.
Attualmente vivo in Sicilia. Ho ristabilito un contatto con la mia terra.
Da bambini ci insegnano che dobbiamo andare via da questa terra, che tanto non ci offre niente. Impari a crescere distaccato dal luogo in cui nasci e cresci, forse per preparati all’abbandono che un giorno dovrai affrontare. Ho sempre odiato la mia città.
Finché non ho imparato a conoscerla. Questo è il traguardo dell’anno bisestile più catastrofico della mia vita di cui vado più fiera. Ricostruendo le mie radici, ho ritrovato il mio percorso.
Andare in città mi salvava. Sono una persona che vive di metodo e routine.
Ho bisogno di dare un senso alle mie giornate ed in città, rispetto al paese, di cose da fare ne trovavo. Ho trovato degli amici. Avevo un rimo e una disciplina nelle mie giornate.
Mi sentivo utile.
Finché non è scoppiata una pandemia mondiale. Ero finalmente felice e soddisfatta ed avevo pianificato di andare ad un concerto in estate con una delle mie più care amiche.
Qualcosa doveva pur andare storto, in un anno bisestile.
A rimetterci è stata anche la mia relazione. Forse, il lockdown di positivo ha avuto l’isolamento forzato. Il fatto di potermi fermare e rimettere in discussione cose che fingevo mi andassero bene perché mi mancava il coraggio di fermarmi ad esaminarle.
Non sono innamorata, ma so cos’è l’amore. L’ho dato e chi non è stato capace di custodirlo e adesso mi sento derubata di qualcosa. Dentro ho un buco profondo come un pozzo. In realtà c’è sempre stato ma in questo pozzo c’era dell’acqua che serviva per coltivare attorno quei sentimenti che avevo curato per tanti anni in attesa di darli a colui che li meritava.
Ma lui ha bevuto dal mio pozzo tutta l’acqua fino all’ultima goccia, il mio giardino è stato distrutto dal vento della mia rabbia e nessun fiore del sentimento cresce più.
Ci sono solo io con i piedi ciondolanti dentro al pozzo profondo dove vorrei buttarmi e, inghiottita dal buio, scomparire. Ho permesso io a lui di prendersi tutto. Non lo meritava.
Potessi tornare indietro lo farei. Non mi manca. Forse ho provato affetto per lui, un affetto forte, quanto bastava per prendere un aereo al mese, per regalargli cose che amava con su scritta la mia firma, per renderlo felice. E lui in cambio mi ha lasciata sola.
Avrei dovuto decidere io l’ultimo atto della partita. Ho temporeggiato per non ferire i suoi sentimenti. Non lo amavo più perché mi aveva svuotata già mentre stavamo insieme e in quel momento desideravo qualcuno che mi salvasse e mi facesse capire che quello non era amore.
Mi sono sempre salvata da sola e ho immaginato un qualcuno attraverso la musica ed i libri. Gli ho dato un nome, gli ho costruito una storia. Volevo arrivare a fine giornata per scrivere di lui.
Io sono invisibile. Nessuno mi noterebbe mai in mezzo ad una folla. Sono quella che non guarderesti, quella a cui non scriveresti canzoni, quella per la quale non piangeresti e che se se ne andasse, poco importa, ce ne saranno altre perché per loro io non sono mai stata l’unica, ma solo una delle tante e quella che non era poi così indispensabile.
Mi hanno detto di abbassare i miei standard. Ero troppo esigente, l’amore richiede compromessi.
Allora l’ho fatto e ho trovato qualcuno che mi ha fatto pentire di essermi accontentata.
Ed è stato tutto quello che sapevo non avrei mai voluto e speravo di evitare.
Ho cambiato casa e ho impacchettato tutte le mie cose e i ricordi accumulati in quindici anni passati fra le mura che mi hanno visto crescere ed è stata la cosa che mi ha più destabilizzata.
Almeno in casa nuova ho la camera verde acqua ed il mio colore preferito alle pareti mi rilassa.
Lo stesso giorno in cui ho terminato il trasloco, anche la mia relazione ha avuto fine.
Sembrava una strana coincidenza, ma in realtà la vita manda segnali molto chiari che a volte facciamo solo finta di non vedere. Il cambiamento radicale e più difficile lo avevo già affrontato.
Chiudere due anni di relazione in confronto ad impacchettarne e spostarne quindici era un gioco da ragazzi. In realtà ha deciso lui di chiudere tutto. Richiedevo troppo impegno a suo dire. Strano, credevo che l’amore fosse molto naturale. E invece no. Succede quando una persona prende tutta l’acqua del tuo pozzo e poi si accorge di averla finita. Ha sete, ma tu non puoi dargliela più. Perché lui l’ha presa tutta e tutta in una volta. E non ne meritava altra.
Adesso il mio pozzo si sta ricaricando lentamente. Ma non è lui che il mio amore deve dissetare.
Gli avevo chiesto di scegliere. Coltivare quel giardino insieme a me o mollare. Lui ha fatto la sua scelta e un macigno nel mio cuore si è infranto. Speravo se ne andasse via da solo. Andavo a dormire sperando mi lasciasse ed il giorno dopo ricevevo i suoi messaggi che mi infastidivano. Ormai di lui mi infastidiva tutto. Anche farmi toccare.
Sono l’unica persona felice per la fine di una relazione.
Ma di botte ne ho prese molte. Il cuore me l’hanno già spaccato una volta, le altre volte bruciava un po’. Stavolta ho semplicemente raccolto l’ennesimo pezzo senza sentire niente.
In questo spazio non parlerò più di lui. Non voglio più parlarne. Voglio lasciarlo morire nel mio passato come se non fosse mai esistito, ma per renderlo tale – invisibile, intendo – devo farlo sparire con l’inchiostro, come ho sempre fatto con le cose che voglio dimenticare.
L’amore non lo capirò mai ed inizio ad accettare il fatto che non mi appartiene.
Credo di non trovare la mia “parte tollerante” in questo mondo fatto di cose che non tollero.
Vorrei vedere il mondo bruciare ma a volte incontri qualcuno che invece ti dà l’ispirazione per vederlo migliorare. Ma non credo che io sia tagliata per questo.
Non so a cosa sono destinata. Ma voglio tenere un diario per tornare indietro un giorno e ricordarmi da dove sono partita.
Un posto che mi aiuterà a ricaricare quel pozzo senz’acqua.
Un posto che mi aiuterà a ricostruire quel giardino bruciato dalla rabbia e far crescere nel terreno, che ora è arido, mille splendidi fiori.
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.༗. ༺་𝐿𝑒𝑎𝑛𝑑𝑒𝑟 & 𝐺𝑖𝑛𝑛𝑦 #𝑅𝑎𝑣𝑒𝑛𝑓𝑖𝑟𝑒𝑟𝑝𝑔 𝐺𝑖𝑛𝑛𝑦's Home• #𝑚𝑎𝑦𝑡h𝑒4𝑡h𝑏𝑒𝑤𝑖𝑡h𝑦𝑜𝑢 4~5~2019 Pomeriggio 𝑁𝑜𝑟𝑚𝑎𝑙𝑅𝑜𝑙𝑒༻
*Il cinema pullula di anime. Per l’evento tutte le strade che intersecano la zona sono state chiuse ai mezzi così da permettere l’apertura di chioschi provvisori adibiti alla vendita di gadget, cibo ed alcuni perfino intrattenere con dei giochi. Tutto a tema Star Wars. La città sembra aver apprezzato fortemente l’evento, tanto da diventare quasi un giorno di fiera. L’età media è variabile. Molti addirittura indossano dei veri e propri cosplay dei personaggi amati. Leander e Ginny lasciano la moto poco distante, raggiungendo la massa a piedi. Il sole è complice di una giornata meravigliosa.* Non ci credo, hanno messo gli stand con i gadget.. *Le dice sorpreso mettendo a fuoco i contenuti dei gazebo in fila. I due camminano l’uno affianco all'altra e Leander sembra accelerare un minimo il passo. Nell'aria il profumo di carne, fritti, salse fa venire l’acquolina in bocca. Ovunque si vedono bambini rincorrersi con almeno una spada laser giocattolo tra le mani. I più temerari si arrischiano ad usarne due. I colori delle spade sono i tipici: rosso, verde o blu ed emettono suoni metallici di tanto in tanto. Se fosse per lui comprerebbe ogni cosa, dai peluche ai portachiavi. Persino il copri tazza del cesso.* Ci fermiamo a guardare qualcosa dopo i film? *Le chiede girandosi a guardarla. Adesso sono costretti a muoversi più lentamente, essendo del tutto entrati nel cuore della fiera.*
Ginny R. Océane Lagarce
Ancora non riusciva a credere di essere lì, in mezzo a tutte quelle persone che sembravano realmente appassionate a quella saga cinematografica. In ogni dove v'erano capannelli di persone che parlavano e disquisivano su teorie e quant'altro, ma soprattutto ciò che aveva colpito profondamente Ginny era il fatto che fossero presenti così tanti bambini. L'allegria che si respirava in quell'angolo di città era contagiosa, e mentre i due veggenti s'avvicinarono al cinema, destinazione del loro appuntamento, la bionda sentì la voce di Leander meravigliarsi come un bambino. Il sorriso che comparve sulle di lei labbra nell'osservare l'amico così felice fu un buon modo per essere ripagata per essere lì. « Mi rifiuto di andare in giro con te che fendi l'aria con la spada laser del momento... » Ancora una volta prese in giro l'amico ma senza nemmeno pensarci lo prese sotto braccio camminando lentamente ed osservandosi attorno. Era incredibile come un solo tema potesse unire così tante persone, ma era la realtà. « Però un giro possiamo farlo... Che ne dici che prendiamo pop corn e coca cola? Se hai intenzione di tenermi là dentro tutto il tempo ho bisogno di energie, e sono contenta che qui in mezzo non sembro una matta vestita così. »
Leander D. Wescott
*”Ci andrai in giro fendendo una spada laser. Eccome se lo farai..”, si dice mentalmente, sicuro che la saga entusiasmerà di certo l’amica. O almeno lo spera così ardentemente da non considerare affatto altri possibili risvolti.* Sì, facciamo scorta. Per il giro mi sa che è meglio dopo.. *Osserva l’orologio al polso sinistro indicare dieci minuti alle sei. Poi il marasma in fila aldilà delle grandi porte di vetro del cinema. Poi gli occhi di lei.* ..abbiamo dieci minuti più qualche altro minuto di pubblicità prima che inizi il film. e in fila c'è già un casino. *Stringe un occhio per l’intensità di luce dopo essere entrati in una zona totalmente illuminata e d’istinto solleva una mano per deviare i raggi. Il tono di voce è leggermente più alto del solito per permetterle di sentirlo in tutto quel can can di corpi, musica, odori ed allegria.* Tanto ho detto a tua madre che se facevamo tardi stasera restavi da me ed ha detto che è ok. Mh? *Le sorride alzando solo la rima labiale di sinistra, con in volto l’ombra di cinque dita, e cerca nel suo viso conferma che vada bene.*
Ginny R. Océane Lagarce
Quel sorriso furbo che la veggente aveva intravisto sul volto dell'amico nascondeva qualcosa che sicuramente lei non avrebbe di certo approvato. Era strano riuscire a trascorrere un po' di tempo in compagnia di Leander quando i loro impegni il più delle volte li portavano a rimanere distanti per parecchi giorni. Lo studio fotografico, il college, l'ospedale erano tutti ostacoli che avevano imparato a superare nel corso del tempo, anche quando spesso tendevano a litigare. Più e più volte aveva passato giornate al cinema con lui, ma questa volta v'era qualcosa di diverso nell'aria, qualcosa che andava oltre alla loro amicizia, e scendeva nel profondo. « Non guardarmi così, niente spada laser... » Lo ammonì la Lagarce, ma senza nascondere uno sguardo divertito e assolutamente giocoso. Sbatté un paio di volte gli occhi per via del sole che illuminava tutta quella parte della città e solo quanto sentì le sue successive parole il sorriso divenne più ampio. « Sono tornata da avere quattordici anni che devo chiedere a mia madre il permesso di dormire fuori? Non sono più una bambina, Lee... » Sbuffò Ginny scuotendo appena il capo. Ancora una volta l'amico l'aveva considerata una bambina, probabilmente l'aveva fatto in modo innocente, eppure un poco quell'atteggiamento di campana di vetro la faceva arrabbiare. Inspirò sonoramente prima di poter replicare e lasciar andare quel suo caratterino che spesso l'aveva differenziata. « Non ho bisogno del suo permesso, ma sì... E togli il se, faremo senz'altro tardi, mi hai portato fin qui per cui godiamoci tutta la giornata, ed è fin troppo che non trascorriamo un po' di tempo insieme. Vieni non voglio rischiare di trovare qualche pazzo squinternato davanti a me e non riuscire a vedere i film... »
Leander D. Wescott
*Lega le labbra per trattenersi dal sorridere. Adora le linee d’espressione che Ginny sta esasperando. Le rughe del risentimento. Quel broncetto che corruga il mento e stringe le sopracciglia portandole a scontrarsi. Nonostante lei sia cresciuta, maturata anche fisicamente, nonostante sia diventata una giovane donna, Leander continua a vederla come una bimba da tutelare. Ed a trattarla come tale. La sorellina che non ha avuto. O meglio, il rapporto tra fratelli che non ha mai avuto. C’era Chelsea con cui condivideva lo stesso sangue ma crescendo separati non si era creata la stessa condizione. Lo stipo tipo di sentimento.* Ecco perché sono stato io a chiederlo al posto tuo. *La stuzzica ancora, provando un forte slancio d’affetto per la biondina arrabbiata. Quindi cerca il contatto fisico e, liberandosi dalla posizione precedente a braccetto, le afferra la spalla sinistra col braccio destro, spingendosela addosso. Non desidera che quel piccolo screzio possa in qualche modo rovinar loro la giornata, conoscendo il carattere permaloso dell’amica, perciò lui assume un tono rassicurante e le giustifica il proprio comportamento.* Lo sai che Gwen preferisce essere informata di quello che ti succede, ed io non voglio che si preoccupi. Ma nessuno qui ti considera una quattordicenne, scema. *Le stampa un bacio sulla tempia prima di sciogliere del tutto il contatto già fin troppo intimo e guidarla davanti a se dentro le porte del cinema. Si assicura che siano vicini e compra i biglietti per entrambi, dirigendosi poi nella sala citata sul pezzo di carta. Fila M posti 22-23. Leander sorride nell'occupare chiaramente il posto che gli compete. Le luci sono soffuse e lo schermo ancora spento. Le poltrone di pesante stoffa rossa, in parte reclinabili, sono disposte a semicerchio. Ad anfiteatro. La sala è gigantesca ed in parte già piena. Nella fretta entrambi dimenticano di prender da mangiare.*
Ginny R. Océane Lagarce
Quell'espressione contrita velava ancora l'angelico volto della Lagarce, le labbra appena increspate, e quel broncio che ricordava così tanto la bambina piccola che aveva conosciuto l'amico tempo addietro. Ancora una volta la veggente veniva considerata nient'altro che una ragazzina, ma cosa avrebbe dovuto fare per essere presa sul serio? Incrociò le braccia appena sotto il seno, poggiandole così all'addome mentre quell'espressione corrucciata a poco a poco stava scemando. Non riusciva a tenere il broncio troppo a lungo, soprattutto non con Leander. Abbassò per un momento la di lui mano poggiata sulla spalla, e ancora una volta fu lui a cercare quel semplice contatto fisico che ormai era diventato all'ordine del giorno. Non sapeva come giudicarlo, eppure c'era qualcosa di diverso nelle ultime due volte in cui s'erano incontrati. « Mia madre non dovrebbe sapere nulla, e tu non dovresti fare la spia lo sai? » Domandò lanciandogli un'ultima occhiata arrabbiata prima di scuotere il capo. Leander era sempre stata una presenza costante nella vita della veggente, una presenza diventata il suo punto di riferimento, ma quel suo fare protettivo, ora che era cresciuta, stava cominciando a starle fin troppo stretto. Una volta entrati ed acquistati i biglietti, il malumore della veggente sembrò essere scemato. Tutto sembrava essere tornato alla normalità, ma quella punta di apprensione rimase nella mente di Ginny. Si sedette nei posti indicati sui biglietti e una volta che l'oscurità avvolse i loro corpi appoggiò il capo sulla spalla dell'amico. « Prima o poi andrò a vivere da sola, anzi presto... e tu non sarai più costretto a fare da intermediario... Ora spiegami un po', chi è lui? Fa parte dei buoni o dei cattivi? » Mormorò con voce bassa, prendendo posto con una posizione scomposta che la vedeva mezza addossata al ragazzo. Se fossero stati a casa molto probabilmente si sarebbe messa comoda incrociando le gambe sotto di sé, come ogni volta che si vedevano per guardare un film in televisione, ma ora tutto sembrava diverso.
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Una cosa che mi è successa.
L’estate scorsa ho scritto il mio primo articolo per Internazionale. Ero molto felice. L’articolo era una storia personale, e raccontava, in breve, una cosa che mi era successa: un incidente di percorso con la polizia ferroviaria in una delle stazioni di Milano.
Il pezzo ha fatto 500.000 visualizzazioni in meno di tre giorni.
Questa è la storia della settimana in cui, per una settimana di fila, mi hanno rovesciato addosso delle grandi secchiate di sangue. Forse la conoscete già, l’avete vista succedere da fuori, ma non avete sentito la mia versione. Sono stata molto attenta a non dire niente fino a qui.
Andiamo.
Prologo. Le conseguenze materiali.
Nella mia vita di tutti i giorni non è cambiato assolutamente niente. Non ho perso o guadagnato collaborazioni — dopo qualche mese ho ripreso a scrivere per Internazionale, ma a parte quello, no loss, no gain. Non mi sono mai trovata il matto davanti a casa (importantissimo questo) e non ho avuto problemi durante nessuna delle faccende pubbliche a cui ho preso parte (festival, presentazioni, varie). Le vendite dei miei libri precedenti non si sono impennate e non sono crollate. L’editore che mi aveva appena messo sotto contratto per il libro nuovo non ha ridiscusso i termini del nostro accordo. Ero libera di camminare per strada, andavo a dormire all’ora che preferivo, mangiavo, facevo la spesa e ricevevo telefonate disponendo pienamente del mio tempo.
Per un po’ di tempo, però, non ero libera di scrivere quello che volevo.
Il primo vero problema sono stati i numeri. Io non avevo scritto un articolo da mezzo milione di visualizzazioni: ne doveva fare 10/15.000, al massimo, considerando la grande vetrina offerta da una testata prestigiosa e riconoscibile; se la stessa storia fosse apparsa su Abbiamo le prove, la rivista di nonfiction che ho fondato e curato per due anni, avrebbe fatto 5.000 visite. Era un racconto volutamente piccolo e personale, non un’inchiesta. Era stato taggato come “reportage”, cosa che mi è stata rinfacciata a più riprese — come se un autore decidesse tag e illustrazioni dei propri pezzi. Ma il dibattito sull’etica del giornalismo dev’essere durato trenta secondi. Poi è scattato il gavettone di sangue.
Il mio unico vantaggio, in tutto quanto segue, è stato che avevo 38 anni quando ho scritto quell’articolo, ora ne ho 39, quindi potete essere certi che sto su Internet da più tempo di molti di voi, e so in alcune situazioni la cosa giusta da fare è allontanarsi dallo schermo. Di tutto quello che mi è stato buttato addosso, quindi, io so il giusto: non mi ci sono lasciata tirare dentro, nel bene e nel male. Però so com’è andata.
I tre cicli del danno.
Il primo giro è partito pochi minuti dopo la messa online del pezzo. Hanno cacciato fuori la testa alcuni hater di vecchia data, e un consistente numero di commentatori che, come ho avuto modo di scoprire nelle settimane successive, si fanno vivi ogni volta che qualcuno scrive cose non positivissime sulle forze dell’ordine. Questo è stato il giro in cui, per un arco di tempo tra le 24 e le 48 ore, ricevevo i messaggi d’insulti delle guardie giurate di (…), in cui mi si diceva che erano persone come me a rovinare l’Italia, mi prendevo della femmina isterica e mi si suggeriva di ricominciare a bere. Penso che in questo gruppone ci fosse un buon numero di hater di Internazionale, quelli che mettono il “mi piace” alla pagina per poter insultare il giornale in fretta. Non lo sapevo, adesso lo so.
Il secondo giro, molto più rilevante, ha avuto al centro un gruppo di persone, quasi tutti maschi, addetti ai lavori o aspiranti tali, che gravitano intorno alle piccole riviste culturali e alle case editrici indipendenti. È successo un po’ di tutto, ma io ho capito quanto, di preciso, si stava mettendo male dalla valanga di mail e messaggi privati che contenevano le parole “solidarietà” e “mi dispiace”. Quasi tutti venivano da femmine. Tutto mi veniva detto in privato. Venivo avvisata più volte di non dare corda alle provocazioni di uno che mi stava addosso con accanimento particolare, un redattore di Rivista Studio: non lo conosco, ma per la rivista ho scritto per più di due anni, tutti i lunedì, occupandomi molto spesso di gender. (L’ironia.)
Non è questo il momento adatto a raccontare la ragione per cui ho interrotto io quella collaborazione, ma sta di fatto che dopo aver smesso di scrivere per Rivista Studio non ho mai scritto niente di negativo sulla rivista o sulle persone che la fanno, pensando, erroneamente, che il silenzio fosse la scelta migliore.
Altro uomo bello accanito è stato il social media manager di una casa editrice molto chic, che dal suo profilo riprendeva la cosa anche settimane e addirittura mesi più tardi. Cosa ne guadagnasse, lo ignoro, se non fare il figo con gli amici a scapito mio. (Ma è possibile, per tanto poco?)
Nel frattempo, una giovane scrittrice di cui ero appena stata editor per un’antologia prendeva le distanze dal mio articolo parlando di me in terza persona su Facebook. Ai miei tempi le madri si ammazzavano in guanti bianchi.
Il terzo giro è partito dalla bacheca di un fumettista romano che ricordavo di aver incontrato una volta parecchi anni fa a Lucca Comics, e mi risultava essere diventato nel frattempo molto produttivo e molto popolare. Come mai un fumettista famoso volesse fare caciara a proposito di un articolo mio apparso su Internazionale, non lo so, però è stato quello il momento in cui ho cominciato a essere chiamata puttana e cagna in calore, ed è stato detto che il mio più grande desiderio era venire stuprata dalla polizia.
Tempo dopo mi sono ricordata che c’era stato un periodo in cui io e il fumettista eravamo stati in contatto — forse tramite social? Ah, no. Ci eravamo scritti delle mail. L’avevo intervistato per un articolo sul bullismo, in cui raccoglievo un po’ di testimonianze di persone che, come lui, il bullismo l’avevano subito da bambini o da ragazzini. In altre mail mi faceva i complimenti per gli articoli su Rivista Studio.
Comincio a pensare che una parte della mia vita professionale sia stata costruita su un antico terreno di sepoltura indiano.
Conclusioni.
Un mese dopo raccontavo questa storia a un ragazzo che era mio allievo durante una summer school, e lui sentenziava, secco: “è invidia”. Ma magari, aggiungevo io. Vorrei che fosse così semplice. Perché, vedete, ci provo, ma non posso credere che sia stata una cosa semplice come l’invidia a scatenarmi addosso un tale casino. (E poi: invidia per numero uno — 1 — articolo apparso su una testata, per quanto la testata sia… seguita? Ben fatta? È possibile essere invidiosi per un traguardo minore?)
Non ho dubbi che un bel po’ di gente ci sia finita in mezzo per il gusto del flame, come non ho dubbi che a un certo punto quanto mi è successo è stato un attacco di genere. Ho avuto a che fare con tre gruppi di maschi, quelli che mi davano della troia, quelli che mi auguravano uno stupro e quelli che si fregavano le mani pensando che nessuno mi avrebbe fatto scrivere mai più, perché tanto io non sono una vera scrittrice. In tutti e tre i casi, il desiderio non era contestarmi come autrice dell’articolo o come persona: il desiderio era cancellarmi.
Personalmente ho trovato più disturbanti gli attacchi dei colleghi (si può dire colleghi? colleghi), che volevano farmi sparire dalla circolazione perché era inconcepibile che Internazionale pubblicasse un mio pezzo. Non ho mai davvero fatto parte del Mondo delle Piccole Riviste, ma per molte di loro ho scritto, nel corso degli anni, e per altre scrivo ancora: non sono stata scoperta nel Mondo delle Piccole Case Editrici, ma ho scritto racconti per alcune di loro, e alcuni dei loro libri li leggo e li consiglio, se mi piacciono. Non sono una compagna di cordata, quindi, per una certa categoria di persone, da nessun punto di vista: ma non uso il tempo che passo sui social per insultare il lavoro di qualcun altro, e soprattutto mai lo farei se nel frattempo mi presentassi come una mediatrice raffinata e di classe, in grado di presentare contenuti di prima scelta a un selezionatissimo pubblico di persone migliori.
Adesso sono a poche settimane dalla pubblicazione del libro che stavo scrivendo l’estate scorsa. Grazie a Dio avevo firmato regolare contratto, e per le regole immutabili che scandiscono il mio monologo interiore — hai firmato? hai preso i soldi? allora lavora. Bellocchio: lavorare — sono stata in grado di terminare il romanzo.
Mi chiedo cosa devo aspettarmi, a questo punto. Mi chiedo chi lo recensirà, e che trattamento mi verrà riservato. Mi chiedo chi lo leggerà. Chi sarà curioso di sapere cosa faccio, al netto di una situazione grottesca in cui mi sono ritrovata senza averne il minimo desiderio.
… e comunque c’è il lieto fine, perché a novembre stavo tornando in aereo da Londra dove Rolling Stone mi aveva mandato a intervistare Oliver Sim sbattendosene altamente dei problemi che mi aveva dato un articolo online, e stavo raccontando questa storia al mio vicino di posto che mi aveva detto “ma le donne su Internet vengono trattate diversamente?”, e la ragazza che stava seduta davanti a noi si è voltata e ha detto, “scusate, non voglio interrompervi, però complimenti”. Questa è per te, ragazza che mi hai riconosciuto in aereo. Ciao.
(anche su Medium)
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The one where they come out
"Sono ancora convinto che non sia una buona idea."
Ermal, seduto accanto a Fabrizio, sbuffò e appoggiò la testa al finestrino. "Eppure stai guidando verso Bari. Chissà come mai."
"Lo sto facendo perché me l'hai chiesto. Il fatto che abbia deciso di farti un favore, non vuol dire che io sia d'accordo" rispose Fabrizio mantenendo lo sguardo fisso sulla strada.
Ermal si voltò verso di lui.
Era teso, lo vedeva dall'espressione sul suo viso.
"Perché pensi che non sia una buona idea?" chiese.
Fabrizio aveva continuato a ripeterglielo da quando Ermal gli aveva chiesto di andare a Bari con lui per qualche giorno, approfittando della presenza di tutta la famiglia, per passare un po' di tempo tutti insieme. E per rivelare a tutti che Fabrizio non era solo un amico.
"Perché credo che sia meglio che tu faccia questa cosa da solo."
"Non posso farlo da solo, Bizio."
Fabrizio sospirò. "Ermal, è la tua famiglia. Io sono di troppo."
Ermal appoggiò una mano su quella di Fabrizio - appoggiata sul cambio - e disse: "Anche tu sei la mia famiglia."
Fabrizio sorrise rivolgendo per un breve attimo lo sguardo verso di lui. Poi tornò a guardare la strada e disse: "Per la tua famiglia, sarà una novità enorme. Dico solo che forse reagirebbero meglio se io non fossi presente. Si sentirebbero più liberi di farti domande, di capire la situazione."
"Io ti amo e tu ami me. Che altro c'è da capire?"
Già, che altro c'era da capire?
In realtà niente, ma Fabrizio c'era già passato e sapeva che ci sarebbero state domande e che magari non tutti avrebbero capito subito la situazione. E soprattutto, che una situazione del genere era troppo intima per essere affrontata in coppia.
***
Era successo un pomeriggio di febbraio, appena dopo il Festival di Sanremo.
Fabrizio era tornato a casa felice come non mai. Troppo felice, per essere uno che nemmeno aveva partecipato al Festival.
La prima ad accorgersene era stata Giada ma, almeno all'inizio, aveva attribuito quella felicità al fatto che Fabrizio fosse entusiasta di aver cantato con Niccolò alla serata dei duetti. Poi però i giorni erano passati e la felicità di Fabrizio invece no, così Giada aveva iniziato a farsi qualche domanda.
A Fabrizio però, non aveva detto nulla.
Qualche giorno più tardi - in un pomeriggio di febbraio, appunto - Fabrizio era andato a trovare i suoi genitori e a quel punto anche loro avevano notato quanto fosse allegro e quanto i suoi occhi si fossero illuminati quando gli avevano chiesto come fosse andata l'esperienza a Sanremo.
Fabrizio aveva esitato un attimo prima di rispondere, come se ci fosse qualcosa di cui avrebbe voluto parlare ma si sentisse bloccato.
"C'è qualcosa che vuoi raccontarmi?" chiese sua madre a un certo punto, quando ormai erano rimasti soli.
Fabrizio sospirò. "Vorrei. Ma non so come potresti reagire."
"Alla tua età ti preoccupi ancora di cosa penso?"
Fabrizio sorrise. In effetti, non si era mai preoccupato molto del parere degli altri e nella sua vita aveva fatto cose ben peggiori che innamorarsi di un uomo.
"Fabrizio, che succede?"
Fabrizio sollevò lo sguardo e in un attimo trovò il coraggio di dire tutto. Sua madre lo stava guardando in quel modo tipico delle mamme, come se qualsiasi cosa facesse il proprio figlio non fosse mai così grave da farle smettere di amarlo.
"A Sanremo è andata bene soprattutto perché c'era anche una persona con cui mi frequento da un po'. Purtroppo non riusciamo a vederci spesso, quindi sono stato felice di passare un paio di giorni in sua compagnia" disse Fabrizio senza sbilanciarsi troppo.
"E chi è?" chiese sua madre curiosa.
"Ermal."
Sua madre lo guardò stupita per un attimo. "Ermal?"
Fabrizio annuì con un cenno, poi disse: "Stiamo insieme da qualche mese ormai."
"Beh, mi sembra un bravo ragazzo" disse sua madre. Il tono era piatto, quasi privo di emozioni.
"Tutto qui?"
"Che devo dirti? Che mi spiace che frequenti qualcuno da mesi e me l'hai detto solo ora?! Fabrizio, che pensavi? Che avrei reagito male?"
"Non lo so che pensavo. Forse avevo solo paura che se te lo avessi detto, poi tu lo avresti detto a papà. E ci ho messo anni per recuperare un rapporto con lui, non voglio che si rovini ora" disse Fabrizio, sentendosi quasi ridicolo per mostrarsi così debole davanti a sua madre.
"Tuo padre ti vuole bene e, esattamente come me, vuole solo che tu sia felice. E non gli dirò niente di questa cosa, ma tu invece dovresti farlo."
A quella frase, Fabrizio ci aveva pensato ininterrottamente per una settimana e alla fine era arrivato alla conclusione che sua madre aveva ragione.
Aveva sempre avuto un rapporto difficile con suo padre e solo dopo la nascita di Libero le cose tra loro erano migliorate, quindi il timore di rovinare ciò che erano riusciti a costruire era sempre lì, in agguato.
Ma d'altra parte, sapeva che suo padre avrebbe solo voluto la sua felicità e in quel momento - e Fabrizio sperava anche per gli anni a venire - la sua felicità era Ermal.
Così, dopo una settimana di elucubrazioni mentali che lo avevano portato quasi sull'orlo di una crisi di nervi, aveva preso la sua decisione. Avrebbe parlato di Ermal alla sua famiglia.
L'occasione giusta arrivò una domenica pomeriggio.
Fabrizio era andato a pranzo dai suoi genitori insieme a Libero e Anita. Appena finito di mangiare, mentre erano ancora tutti seduti a tavola, Fabrizio si schiarì la voce e disse: "Dovrei parlavi di una cosa."
Sua madre sorrise, consapevole di ciò che il figlio avrebbe detto da lì a poco, mentre suo padre e i suoi figli lo guardavano curioso.
Si era preparato un discorso - anche grazie all'aiuto di Giada, che aveva cercato di consigliargli le parole migliori per spiegare ai loro figli quella situazione - eppure in quel momento gli sembrò di non ricordare più nulla.
"Che c'è, papà? Stai male?" chiese Anita preoccupata, allungando una mano verso suo padre nel tentativo di toccarlo.
Fabrizio sorrise. "No, amore, sto bene. Molto bene, in realtà."
Poi si voltò verso suo padre, rivolgendogli la sua completa attenzione. Anche se il discorso era rivolto anche ai suoi figli, gli sembrava più semplice parlare direttamente con suo padre che con due bambini.
"Sto frequentando una persona."
"Che vuol dire?" chiese Anita curiosa, inclinando la testa di lato.
"Vuol dire che ha una fidanzata" mormorò Libero, rispondendo alla sorella.
Fabrizio sospirò, cercando di raccogliere il coraggio necessario a continuare il discorso, poi disse: "Un fidanzato, in realtà."
Anita aggrottò la fronte, come se non riuscisse a capire la differenza, mentre Libero rimase a fissarlo senza dire niente.
Suo padre, d'altro canto, si irrigidì contro lo schienale della sedia. Non sembrava stupito, forse solo un po' contrariato.
"Chi è? Lo conosciamo?" chiese Libero dopo qualche secondo.
Fabrizio annuì. "Sì, è Ermal."
Anita sorrise e disse: "Ermal mi sta simpatico."
"Quindi sei contenta se stiamo insieme?" chiese Fabrizio, scompigliandole affettuosamente i capelli.
La bambina annuì con un cenno e Fabrizio sorrise, felice dell'approvazione di sua figlia.
Poi guardo Libero e chiese: "E tu, Lì? Che ne pensi?"
"Anche a me sta simpatico" rispose il bambino accennando un sorriso.
Fabrizio sospirò di sollievo, rendendosi conto solo in quel momento che in realtà il giudizio di cui aveva sempre avuto paura era quello dei suoi figli, non di suo padre.
Suo padre che, oltretutto, non aveva ancora detto una parola.
"Papà?" lo chiamò Fabrizio. Voleva comunque sapere cosa pensava, anche se ormai era certo di aver affrontato lo scoglio più grande.
L'uomo si alzò e afferrò il pacchetto di sigarette appoggiato sul ripiano della cucina. Poi lanciò un'occhiata a Fabrizio e disse: "Ne vuoi una?"
Fabrizio annuì, capendo che quella della sigaretta non era altro che una scusa per affrontare il discorso da soli.
Uscirono in balcone, sentendo improvvisamente il freddo di febbraio entrargli nelle ossa. Ma in quel momento Fabrizio aveva altri pensieri e il freddo non sembrava preoccuparlo.
Suo padre si accese una sigaretta, poi porse il pacchetto al figlio. Aspettò che anche Fabrizio avesse acceso la sua, e poi disse: "Lo sapevo già."
"Te l'ha detto mamma?" chiese Fabrizio.
Suo padre scosse la testa. "No. L'avevo capito da solo."
Fabrizio lo guardò stupito e suo padre si fece sfuggire una risata notando la sua espressione.
"Ti conosco meglio di quanto credi, Fabrizio. Magari a volte sembra che non sto attento alle cose che fai, ma in realtà non è così. Faccio attenzione a tutto, semplicemente poi non ne parlo. Il tuo modo di sorridere cambia quando c'è Ermal, l'ho notato fin da subito. E tu sei più felice quando passi del tempo con lui. Basta guardarvi per capirlo."
"Perché non me l'hai mai detto?" chiese Fabrizio.
"Perché volevo che lo facessi tu."
Fabrizio era rimasto in silenzio mentre finiva la sua sigaretta, riflettendo sulle parole di suo padre. Era stato preoccupato per la sua reazione, quando in realtà lui aveva capito tutto molto prima di chiunque altro.
"Com'è iniziata?" chiese suo padre a un certo punto.
E a quella domanda ne seguirono molte altre.
Suo padre sembrava essere interessato a ogni aspetto di quella storia: com'era iniziata, chi tra i due aveva fatto il primo passo, cos'aveva Ermal di così speciale da fare innamorare suo figlio...
E Fabrizio fu felice di rispondere a ognuna di quelle domande e di raccontare a suo padre quel pezzo della sua vita che, fino a quel momento, aveva sempre tenuto nascosto.
***
"Bizio?"
"Eh?"
"Ti eri incantato, non rispondevi più."
Fabrizio sospirò guardando per un secondo lo specchietto retrovisore e poi mise la freccia verso destra, entrando nel parcheggio dell'area di servizio.
Parcheggiò in uno dei pochi posti liberi e spese il motore, poi si voltò verso Ermal e disse: "Mio padre mi ha fatto un sacco di domande, quando gli ho parlato di noi. Ho risposto a ogni cosa senza problemi, anzi ero felice che lui mi facesse domande sulla mia vita. Ma non sono sicuro che, se tu fossi stato con me, avrei reagito allo stesso modo."
"Che vuoi dire?"
"Mi sono sentito libero di parlare di ogni cosa, di come mi sono innamorato di te, di come mi fai sentire... Se tu fossi stato presente, forse mio padre non mi avrebbe fatto tutte quelle domande e forse io non mi sarei sentito così libero di raccontargli tutto" disse Fabrizio. Poi afferrò la mano di Ermal e aggiunse: "Io sono con te, sempre e comunque. Però continuo a pensare che dovresti affrontare questo discorso con la tua famiglia in un momento in cui io non sarò presente. Per loro potrebbe essere già abbastanza difficile accettare la situazione, immagina se dovessero farlo mentre io sto lì davanti a loro. Si sentirebbero giudicati, messi sotto pressione, come se io fossi attento a ogni loro reazione. E sarà così, perché non posso evitare di stare attento a come reagiranno. Fidati, Ermal, è meglio per tutti se questo discorso lo affronti senza di me."
Ermal non rispose.
In fondo, sapeva che Fabrizio aveva ragione e sapeva che sarebbe stato meglio parlare con la sua famiglia in un altro momento. Eppure, da solo non era certo di farcela.
Era stata una novità enorme per lui. Quando si era accorto di essersi innamorato di Fabrizio, si era sentito prima di tutto spaventato.
Non aveva idea di come gestire la cosa, di come fosse anche solo possibile che si fosse innamorato di un uomo. Aveva impiegato mesi ad accettarlo - nonostante non avesse problemi a farsi baciare ogni volta che c'era l'occasione - e, quando Fabrizio gli aveva chiesto di stare insieme davvero, aveva impiegato altrettanto ad abituarsi all'idea di loro due insieme.
Era stato difficile per lui, poteva solo immaginare come sarebbe stato per la sua famiglia.
In teoria non doveva essere così difficile accettare quella situazione. Si era semplicemente innamorato, cosa c'era di così difficile? Ma la pratica è qualcosa di diverso, nella realtà le cose sono diverse.
Razionalmente era consapevole che sarebbe stato meglio affrontare il discorso in un altro momento, mentre Fabrizio non era con lui. Ma una parte di lui era convinta che, senza Fabrizio al suo fianco, non sarebbe riuscito nemmeno ad iniziare il discorso.
"Lo so, Bizio. Hai ragione. Ma ho comunque bisogno che tu sia lì."
Fabrizio annuì e gli strinse la mano.
Continuava a pensare che non fosse una buona idea, ma di certo non lo avrebbe lasciato solo.
Prima di quel giorno, Fabrizio non era mai stato a casa della famiglia di Ermal.
Anzi, in realtà a parte Rinald - che aveva avuto modo di incontrare piuttosto spesso - non conosceva nessun altro membro della famiglia.
Certo, aveva incontrato la madre di Ermal l'anno precedente al Festival di Sanremo, ma non si erano praticamente rivolti parola se non un breve saluto.
Quel giorno invece, nella casa in cui Ermal era cresciuto, era presente tutta la famiglia, compresa la sorella di Ermal con il marito e la figlia.
Fabrizio - il quale si sentiva intimorito già solo dal fatto di essere nella casa in cui Ermal era cresciuto, circondato dalle sue cose e da pezzi della sua vita che lui non conosceva - aveva cercato di apparire tranquillo, ma a giudicare dallo sguardo che la madre di Ermal continuava a rivolgergli non credeva di esserci riuscito.
Effettivamente, il semplice fatto che Ermal avesse deciso di portare con lui un amico a un pranzo di famiglia il giorno della festa della mamma, appariva abbastanza sospetto ed era più che normale che la sua famiglia si stesse ponendo delle domande.
L'unico che sembrava tranquillo era Rinald. Scontato, visto che era anche l'unico ad essere a conoscenza della verità.
Ermal glielo aveva detto un paio di mesi prima quando, dopo un litigio con Fabrizio, aveva sentito il bisogno di sfogarsi con qualcuno. Rinald era lì per lui, come sempre, ed Ermal si era fatto coraggio e gli aveva confessato tutto.
Rinald, d'altra parte, aveva sempre sospettato che tra suo fratello e Fabrizio ci fosse qualcosa di più profondo di una semplice amicizia, ma aveva ascoltato Ermal in silenzio, promettendogli di non parlarne con nessuno fino a quando non fosse stato lui stesso a decidere di farlo.
E quel momento, alla fine, era arrivato.
Per tutto il pranzo, l'atmosfera era stata leggera.
Sabina si era congratulata con Fabrizio per il nuovo album, dicendo di averlo comprato senza esitazione perché Ermal le aveva assicurato che le sarebbe piaciuto e in effetti era stato così. Fabrizio l'aveva ringraziata, seppur leggermente imbarazzato.
Mira gli aveva chiesto come stessero i suoi figli e Rinald aveva cercato di alleggerire le conversazioni riportando a galla aneddoti divertenti risalenti alle volte in cui aveva avuto modo di vedere Fabrizio.
Solo verso la fine del pranzo la tensione iniziò a farsi a sentire.
Ermal stava giocando con la sua nipotina, tenendola seduta sulle sue ginocchia e facendole il solletico sulla pancia, quando Sabina disse: "Ermal, smettila di farla agitare così."
"Non sto facendo niente" rispose lui, quasi senza degnare sua sorella di uno sguardo.
"Quando tu avrai dei figli e io sarò la zia che li fa agitare e loro non dormiranno per colpa mia, poi ne riparleremo" rispose Sabina.
Ermal si bloccò all'istante, consapevole che quella visione del futuro che Sabina aveva appena espresso non si sarebbe mai avverata.
Lui amava Fabrizio, contava di passare con lui il resto della vita e questo voleva dire che non avrebbe avuto figli.
Si voltò lentamente verso Fabrizio, il quale lo stava fissando in attesa di una sua reazione, poi sospirò e disse: "Devo parlarvi di una cosa."
Tutti gli sguardi furono subito puntati su di lui, escluso quello di Fabrizio che, consapevole di ciò che Ermal stava per dire e ancora convinto che non fosse una buona idea che lo facesse in sua presenza, aveva convinto la nipotina del suo fidanzato ad andare a guardare la televisione con lui in salotto.
Appena Fabrizio e la bimba uscirono dalla cucina, Ermal sospirò mentre sua madre preoccupata disse: "Che succede?"
Ermal lanciò un'occhiata a Rinald, l'unico seduto a quel tavolo che non sarebbe rimasto stupito dalla notizia che stava per dare, e suo fratello gli sorrise incoraggiandolo.
"Si tratta di Fabrizio. Cioè, di me e Fabrizio" disse Ermal.
Sabina lanciò un'occhiata stupita a suo marito, non capendo cosa stesse succedendo, e poi tornò a fissare suo fratello.
Lo sguardo di Ermal però era puntato su sua madre, come se fosse l'unica persona di cui gli importava davvero la reazione.
Mira sorrise e allungò una mano sul tavolo, prendendo quella del figlio e incitandolo a continuare il discorso.
"Stiamo insieme" disse Ermal a voce bassa, guardando prima sua madre e poi sua sorella.
"Da quanto?" chiese Sabina curiosa e un po' perplessa.
Lei era stata la prima a fare ipotesi su una presunta cotta di Ermal nei confronti di Fabrizio, era stata la prima ad aver creduto alle voci che giravano su di loro e ad avere dei dubbi quando suo fratello diceva di volergli bene ma non così tanto.
Eppure Ermal aveva sempre negato ogni coinvolgimento emotivo che andasse oltre l'amicizia, quindi scoprire che in realtà le sue ipotesi erano sempre stata giuste la stupiva parecchio.
Ermal abbassò la testa per un attimo - consapevole che la risposta che avrebbe dato avrebbe sicuramente fatto arrabbiare sua sorella - poi risollevò lo sguardo verso di lei e disse: "Quasi un anno."
Sabina aggrottò la fronte. Non poteva credere che suo fratello avesse una relazione da così tanto tempo e che non glielo avesse mai detto.
"E in tutto questo tempo, non hai mai pensato di dirmelo?" chiese lei. Non era arrabbiata, solo un po' delusa.
Aveva sempre raccontato tutto a Ermal e sapere che lui non riponeva in lei la stessa fiducia, la feriva più di quanto le costasse ammettere.
"Certo che ho pensato di dirtelo, ma non è facile" rispose Ermal.
Sua madre gli strinse la mano, facendogli capire che non c'erano problemi, che aveva fatto bene a non parlarne prima se non si era sentito pronto.
Sabina scosse la testa scocciata e si voltò verso Rinald. "E tu? Non sei arrabbiato perché non ce l'ha detto prima?"
Rinald guardò Ermal, indeciso se dire o no la verità a sua sorella, ma non ci fu bisogno di dire altro. Sabina aveva già capito.
"Tu lo sapevi" mormorò lei.
Rinald annuì. "Sì, ma non da molto. Un paio di mesi."
Sabina sospirò.
Si sentiva tradita, non poteva negarlo.
Aveva sempre saputo che Ermal e Rinald avevano un rapporto diverso da quello che avevano con lei. Non sapeva se fosse dovuto al fatto che lei era una femmina o che era la più piccola, ma era così.
Lei era sempre quella da proteggere, da difendere, da tenere lontana dai casini, mentre loro due nei casini ci finivano sempre insieme.
E per l'ennesima volta, Sabina si era sentita esclusa.
"Hai trovato il tempo di dirlo a Rinald e non a me" disse qualche attimo dopo. Poi si alzò e, appena Ermal cercò di fermarla, aggiunse: "Ho bisogno di stare sola."
Ermal la guardo uscire dalla cucina, sentendo gli occhi inumidirsi sotto il peso del senso di colpa.
Odiava discutere con sua sorella, anche quando era fermamente convinto di non avere colpe.
"Lasciale un po' di spazio. Ha solo bisogno di quello" disse Mira.
Intanto il marito di Sabina si era alzato e l'aveva raggiunta, lasciando in cucina solamente Ermal, sua madre e Rinald.
Ermal sollevò lo sguardo su sua madre, aspettandosi una reazione da parte sua per ciò che aveva detto. A parte rassicurarlo per la reazione di Sabina, non aveva detto altro. Ancora.
"Mami...?"
Lei sorrise e disse: "Non sono cieca, tesoro. Vedo come vi guardate. Me lo aspettavo, ma volevo che me lo dicessi tu."
"Quindi a te sta bene?"
"Certo! E anche se non mi stesse bene, chi sono io per dirti cosa devi fare? È la tua vita, devi sentirti libero di amare chi vuoi. Però una cosa te la devo dire."
Ermal la guardò interrogativo.
"Fabrizio mi piace e so che è una brava persona. Ma se ti farà soffrire, allora non mi interesserà più tutto il discorso del: questa è la tua vita e te la gestisci tu. Se ti farà soffrire, mi metterò in mezzo anche se ormai sei adulto."
Ermal sorrise e si alzò, facendo il giro del tavolo e andando ad abbracciare sua madre.
La sua approvazione contava più di qualsiasi altra cosa e sapere che lei sarebbe sempre stata pronta a proteggerlo nonostante tutto, gli scaldava il cuore come se fosse ancora un bambino.
Qualche attimo dopo Ermal uscì dalla cucina ed entrò in salotto, andando a sedersi sul divano accanto a Fabrizio.
"Com'è andata?" chiese il più grande, tenendo un tono di voce abbastanza basso da non svegliare la nipotina di Ermal che si era addormentata sulla poltrona.
"Poteva andare meglio. Sabina non ha preso molto bene il fatto che gliel'abbia tenuto nascosto per così tanto e che lo abbia detto a Rinald prima che a lei" rispose Ermal appoggiando la testa sulla spalla di Fabrizio.
Fabrizio gli circondò le spalle con un braccio e lo strinse a sé. Voleva fargli capire che non era solo, che in quella situazione c'era anche lui, e qualsiasi problema lo avrebbero affrontato insieme.
Anche se all'inizio non era stato d'accordo, anche se aveva pensato che fosse una pessima idea essere presente quando Ermal avrebbe deciso di dire tutto alla sua famiglia, ora non riusciva a pensare a un posto migliore in cui stare.
In fondo, era colpa sua se erano in quella situazione. Era stato lui a iniziare tutto.
Era stato lui il primo a baciare Ermal, la sera della vittoria a Sanremo. Era stato lui a dire che era stato solo un gesto dettato dall'euforia, la mattina seguente.
Ed era stato sempre lui a baciarlo dopo il concerto al Forum, ad andarsene senza dire nulla e poi a mandargli un messaggio strappalacrime in cui, tra le altre cose, gli confessava che l'euforia quella volta non c'entrava nulla. L'aveva baciato perché voleva farlo, perché non riusciva a smettere di pensare a lui.
E poi, meno di due settimane dopo, era stato sempre Fabrizio a invitare Ermal nella sua stanza con la scusa di bere qualcosa, finendo poi per fare l'amore sul letto della sua camera d'albergo.
E alla fine, era stato lui a dire a Ermal di volere qualcosa di più il giorno della Partita del Cuore. Era stato lui a dirgli che si stava innamorando e che non voleva più solo dei baci rubati nei camerini o nelle camere degli alberghi.
Ermal lo aveva semplicemente assecondato, ma era sempre partito tutto da lui.
"So cosa stai pensando" disse Ermal.
Fabrizio abbassò lo sguardo verso di lui e sorrise. "Ah, sì? Che sto pensando?"
"Ti stai colpevolizzando. Pensi che questa situazione sia solo colpa tua, ma in realtà ci siamo dentro insieme fin dall'inizio. Ho ricambiato ogni bacio che mi hai dato, anche il primo. Non è mai stata una cosa partita solo da te. Se c'è qualcuno che deve farsi delle colpe, quello sono io. Avrei potuto parlarne prima e magari ora Sabina non sarebbe così arrabbiata con me."
"Non credo sia arrabbiata. Un po' dispiaciuta, magari" disse Fabrizio.
Ermal sospirò, sistemandosi meglio tra le braccia di Fabrizio.
Sperava solo che la situazione con sua sorella si risolvesse al più presto.
A pomeriggio inoltrato, Sabina era ancora chiusa nella sua vecchia cameretta.
Dario, suo marito, aveva cercato di convincerla a parlare con Ermal e a non comportarsi da bambina - anche se con lei aveva usato altri termini, per evitare che se la prendesse anche con lui - ma Sabina era stata irremovibile.
Per un paio d'ore, Ermal aveva lasciato perdere. Le aveva lasciato il suo spazio, sapendo che in quelle situazioni Sabina preferiva restare sola.
Ma a un certo punto non aveva più resistito.
Era passato troppo tempo ed Ermal iniziava ad essere stanco di essere trattato in quel modo da sua sorella, quando l'unica cosa di cui aveva bisogno era il suo supporto.
Così, ignorando la vocina nella sua testa che gli diceva di lasciarla stare, bussò alla porta della sua stanza e senza aspettare il suo permesso abbassò la maniglia aprendo la porta.
Sabina era sdraiata sul suo letto, aveva gli occhi chiusi e sembrava stesse dormendo, ma Ermal sapeva che non era così. Lo vedeva dal torace che si alzava e si abbassava al ritmo del suo respiro irregolare, lo vedeva nei muscoli che si erano irrigiditi nel momento in cui era entrato in camera.
Anche se aveva gli occhi chiusi, Sabina si era accorta che qualcuno era entrato nella stanza e si era accorta di chi fosse quel qualcuno.
"Possiamo parlare?" chiese Ermal chiudendo la porta dietro di sé.
Sabina sbuffò scocciata, ma si spostò sul bordo del letto per lasciare spazio a Ermal.
Lui sorrise e le si sedette accanto.
"Mi dispiace non avertelo detto prima."
"Non è quello che mi infastidisce, Ermal" rispose Sabina, aprendo finalmente gli occhi e tenendosi leggermente sollevata sugli avambracci. "Io l'ho sospettato fin da subito che tra voi ci fosse qualcosa ma ogni volta che te ne parlavo, tu non facevi altro che dirmi che non era vero, che mi stavo sbagliando. E io ti ho creduto perché sei mio fratello e non ci siamo mai detti bugie. E invece oggi scopro che, non solo mi hai mentito guardandomi negli occhi più di una volta, ma ne hai parlato con Rinald prima che con me. Non pretendo di essere la prima persona a cui racconti ciò che ti succede, ma io con te l'ho sempre fatto e mi sono sentita messa da parte."
Ermal rimase in silenzio ad ascoltare lo sfogo di sua sorella, rendendosi conto di quanto lei stesse male per una cosa che all'apparenza sembrava una banalità.
Si sdraiò accanto a lei e, appena finì di parlare, la attirò a sé stringendola in un abbraccio.
Sabina gli circondò i fianchi con un braccio e appoggiò la testa sul suo petto, mentre sentiva le dita di Ermal incastrarsi tra i suoi capelli e cercare di tranquillizzarla.
"Scusa, so di avere esagerato" disse lei dopo qualche minuto di silenzio.
"Avrei dovuto parlartene" rispose Ermal. "Solo che non sapevo come fare. Nemmeno io sapevo come comportarmi all'inizio, era tutto nuovo anche per me."
"Mi prometti che non mi nasconderai mai più nulla?"
"Sabina..."
"Lo so che tu non fai promesse, ma questa non è tanto difficile da mantenere" disse lei, con il tono che ricordava vagamente quello che usava da bambina quando cercava di convincere Ermal a giocare con lei.
Ermal sorrise. "Va bene, te lo prometto."
Non amava fare promesse. Aveva il terrore di non riuscire a mantenerle e lui, meglio di chiunque altro, sapeva come ci si sentiva di fronte all'illusione di una promessa non mantenuta.
Ma sua sorella aveva ragione. Quella promessa non era poi tanto difficile da mantenere.
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Miraculous Heroes - capitolo 4
Indice dei capitoli: Miraculous Heroes
«Ma ti rendi conto?» sbottò Alya, alzando la testa verso il cielo e urlando frustrata, attirando l’attenzione degli altri studenti: «Ladybug e Chat Noir sono apparsi ieri sera. Ieri sera. Ed io ero a casa e non ho potuto riprenderli!» Marinette annuì, mordendosi il labbro inferiore e rimanendo in silenzio, mentre l’amica continuava a inveire contro la sua sfortuna: «Un nuovo super cattivo ed ho perso l’occasione! Sai da quanto non aggiorno il Ladyblog? Da mesi, ormai! L’ultimo aggiornamento riguarda quando salvarono le persone di quell’elicottero…» «Ma non sei felice? Vuol dire che Parigi era tranquilla.» «Sì, è bello questo ma…» Alya fece un gesto stizzito, scuotendo il capo: «Secondo te è tornato Papillon? Anche se mi hanno detto che Ladybug non ha fatto il suo solito rituale.» «Il suo solito rituale?» «Sì, sai quella cosa che fa con lo yo-yo e cattura quella specie di cosa nera che fa diventare cattivi.» «Ah.» la mora si picchiettò l’indice sulle labbra, incapace di rispondere: non poteva dirle che Papillon non centrava niente, in quanto Marinette non poteva saperlo e per il resto… Beh, ne sapeva veramente ben poco. «Buongiorno, ragazze!» Adrien le salutò, mentre scendeva dalla macchina argentata, che si era accostata al marciapiede e le raggiunse velocemente: «Ho parlato con Nino.» dichiarò subito, notando l’espressione cupa della ragazza: «Avrete la serata tutta per voi e sarà purrfe…voglio dire perfetto!» «E’ arrabbiata perché non è riuscita a registrare Ladybug e Chat Noir, ieri sera.» «Oh.» il ragazzo annuì, osservando l’amica: «Beh, non è la prima volta che non ce la fai.» «Ma era da tanto che non si vedevano in giro.» mormorò mogia Alya, avviandosi verso la scuola, imitata dai due: «Insomma, era tutto tranquillo e bam! Appare questo coso enorme di ghiaccio ed io ero a casa. A casa, capite? Non sono nemmeno potuta uscire e tentare di riprendere qualcosa, perché dovevo controllare mia sorella.» «Sono certo ci sarà qualche altra occasione e potrai filmare Chat in tutto il suo coraggio.» Alya ridacchiò, scuotendo il capo: «Ciò che voglio riprendere di Chat è quella meraviglia di corpo che si ritrova: sono innamorata di Nino, ma ogni volta che vedo tutti quei muscoli stretti in quella tuta nera…» sospirò sognante, mentre Adrien tossiva imbarazzato e Marinette cercava di non ridere: «Beh, la voglia di legarlo a un letto e fargli cose – tante cose – sale!» «D-davvero?» balbettò il biondo, allontanandosi leggermente dall’amica e provando a nascondersi dietro l’altra ragazza, che voltata di lato riusciva a stento a trattenersi dal ridere. «Già.» Alya scosse il capo, riprendendosi da quel sogno a occhi aperti: «In ogni caso, sto con Nino e non potrei mai tradirlo. Ok, lo tradirei solo con Chat Noir.» spiegò velocemente, prendendo il cellulare e guardando l’ora: «A proposito, se voglio stare un po’ con lui devo sbrigarmi. Ci vediamo dopo, Marinette.» La mora annuì, continuando a mordersi il labbro inferiore e osservando l’amica allontanarsi: «Non è stato bello. Per niente.» sentenziò Adrien, voltandosi e fissando torvo la ragazza: «Potevi dirle qualcosa.» borbottò, colpendola leggermente con il gomito. Marinette ricambiò il colpo, scuotendo il capo: «Dovevi vedere la tua espressione: era terrore allo stato puro.» dichiarò, mentre le spalle erano scosse dalle risate trattenute: «Povero piccolo micetto, Alya ti ha spaventato tanto.» Adrien le assestò un nuovo colpo con il gomito, provando a fissarla male ma non riuscendoci: «Devo sentire Plagg se può fare qualcosa per il mio costume. Una bella tonaca da prete. Che ne dici?» «Non per rovinare i tuoi piani, ma l’ultima volta che siamo uscite, Alya ha visto un gruppo di preti e…» «Non voglio sapere cos’ha detto. Seriamente.» mormorò Adrien, scuotendo il capo incredulo: «Nino, accidenti, dovresti farle fare qualche giro sul tuo amico dei piani bassi, invece di andare a fare il dj.» Incapace di trattenersi ancora, Marinette si accucciò, con il corpo scosso dalle risate e il volto nascosto fra le mani: «Marinette?» mormorò Adrien, chinandosi davanti a lei e cercando di scoprirle il viso: «Ti prego, non morire. Ho bisogno della mia adorata lady.» «Piantala, allora.» dichiarò la ragazza, schiaffeggiandogli il bicipite e continuando a ridere: «Non potrò più vedere Nino, gli scoppierei a ridere in faccia.» «Povero Nino, preso in giro dal suo primo amore…» «Guarda che sei tu che lo prendi in giro.» «Sempre a sottolineare…» sospirò il biondo, aiutandola a tirarsi su: «Parlando di cose serie, Nathalie mi ha chiesto se questo pomeriggio sei a casa.» «Perché la segretaria di tuo padre vuole sapere se sarò a casa?» «Beh, è una sorpresa e quindi mi è stato vietato dirti di più, altrimenti verrò akumatizzato.» dichiarò il ragazzo, alzando le spalle con espressione divertita: «Sinceramente non sono molto interessato di vedere la mia versione cattiva.» «La tua versione cattiva sarebbe…» Marinette si picchiettò l’indice sulle labbra, cercando di immaginare il ragazzo in versione supercattivo: «Mmmh, Chat Blanc.» «Il bianco non mi sta bene.» mormorò il giovane, massaggiandosi il mento: «Comunque pensavo, andiamo dal maestro Miyagi…» «Fu, si chiama Fu.» «…sentiamo quello che ha da dirci e poi andiamo a casa tua, così Nathalie ti dirà la sorpresa e poi io sarò ricompensato.» «Perché dovrei ricompensare te? Se centra Nathalie, e dato che sei stato minacciato, la sorpresa proviene da tuo padre.» «Odio il fatto che tu sia così intelligente.» «Lo so, sono geniale.» «Vola basso, coccinella. E comunque non puoi ricompensare mio padre…» si fermò, scuotendo il capo, mentre un’espressione schifata gli si stampò in volto: «Non voglio nemmeno immaginarlo. Brr. Meglio bloccare tutto e subito. Dicevo: dato che mio padre è off limits, la tua gratitudine dovrà ricadere sul sottoscritto e mi sacrificherò volentieri per la causa.» «Oh, povero piccolo Minou. Allora, vuol dire che farò la maleducata e non ringrazierò nessuno.» «Ah, no. Mio padre non deve pensare che sto con una ragazza che non sa cos’è l’educazione! No, no, no. Mi ringrazierai a dovere: possibilmente in un modo in cui centrino un letto e noi due. Nudi.» «Adrien!» Alya ridacchiò, sedendosi al tavolo e osservando l’amica posare il vassoio del pranzo e fare altrettanto: «Chi l’avrebbe mai detto che quel ragazzino pacato e tranquillo si sarebbe trasformato così?» dichiarò, scuotendo il capo mentre il viso di Marinette diventava rosso: «Alle volte, quando non inizi a balbettare cose senza senso, mi ricordate Ladybug e Chat Noir.» Forse perché siamo Ladybug e Chat Noir. «E comunque non capisco perché…» Alya si fermò, chinandosi sul tavolo e abbassando la voce, in modo che solo l’altra ragazza potesse sentirla: «Perché…beh, perché non potete farlo. Insomma, state insieme da parecchio tempo, ormai.» Marinette sospirò, prendendo la forchetta e iniziando a giocherellare con il cibo nel suo piatto: «Marinette, non c’è nulla di cui avere paura.» iniziò l’amica, allungando una mano e posandola su quella della ragazza: «Imbarazzante? Oh sì, tantissimo, soprattutto le prime volte, ma poi viene naturale.» «Per te, forse.» «Anche per te, Marinette. Basta che ti lasci andare.» Marinette gemette, spostando il vassoio di lato e poggiando il viso contro il tavolo, iniziando un monologo melodrammatico dove si parlava di cadute, incidenti mortali, arresti e ambulanze; Alya l’ascoltò ridacchiando: «Marinette, i tuoi film mentali dovrebbero essere da Oscar: mi spieghi come sei arrivata da una semplice prima volta a un arresto?» «Quando si tratta di me tutto è possibile.» sbottò la mora, alzando il viso e guardando l’amica: «Riesco a cadere dappertutto. E la volta che ho preso quel muro in faccia?» «Beh, sono certa che Adrien sia assicurato contro il Cataclisma Marinette.» «Alya.» «Mh?» «Guardami.» «Ti vedo.» dichiarò la ragazza, infilzando un pezzo di carne e portandolo alla bocca, mentre Marinette afferrava la sua borsa e tirava fuori una rivista di moda, sfogliandola velocemente: «E adesso guarda lui.» ordinò, mettendogli sotto il naso una foto di Adrien. «Ok. Lo ammetto: se non fosse il tuo ragazzo ed io non stessi assieme al suo migliore amico, ci proverei.» «Non posso. Semplicemente non posso.» «Ma perché, Marinette?» «Perché io sono io e lui è lui. Finché si tratta di botte e risposte, posso farcela: ho imparato ormai, ma…» «Questo discorso non ha assolutamente senso. Marinette, seriamente, hai solo paura e, più che dell’atto in sé, penso tu abbia paura di essere imbranata e goffa.» «Come sono sempre.» «Marinette, Adrien sa benissimo come sei fatta.» dichiarò dolcemente Alya, sorridendo: «E gli piaci così come sei, anzi è innamorato perso di te! Non lo chiamo il fidanzato perfetto per caso: si vede che ti adora e che farebbe di tutto; quindi non avere paura e lasciati andare.» «Tu non dovresti stare dalla mia parte?» «Io sto dalla parte di quello che ha più sale in zucca e, strano a dirsi, a questo giro è Adrien.» «Grazie tante.» bofonchiò Marinette, avvicinando nuovamente il suo vassoio e iniziando a infilzare la sua carne: «Alya?» «Mh?» «Davvero Adrien sembra innamorato perso di me?» «Giuro, prego che ci sia davvero un nuovo supercattivo e che, come Papillon, mi trasformi in cattiva, così ti apro quella testa per vedere cosa hai dentro!» «Quando eri…» Marinette si fermò, osservando l’ombra che era apparsa sul tavolo e voltandosi, incontrando lo sguardo sorridente di Rafael Fabre: il modello sorrise convinto, facendo vagare lo sguardo da lei ad Alya per tornare, infine, su di lei: «S-salve.» balbettò sotto lo sguardo scuro che la studiava. «Salve.» dichiarò il ragazzo, afferrando una sedia dal tavolo vicino e sistemandosi al loro: «Allora, stavo pensando di andare a fare un giro, dopo scuola e pensavo che voi due belle signorine mi potreste fare compagnia.» «Spiacente, siamo entrambe impegnate.» dichiarò decisa Alya: «E per impegnate, intendo “abbiamo il ragazzo”.» «Non sono un tipo geloso.» «Tu no.» borbottò la ragazza, spostando lo sguardo dietro al modello: «Ma il tuo collega lì e il suo amico sì.» Rafael si voltò, sorridendo ai volti scuri di Adrien e Nino che, fermi in mezzo allo spazio fra i tavoli, lo fissavano: «Ragazzi.» li salutò tranquillamente, alzandosi e rimettendo a posto la sedia che aveva preso: «Beh, signorine, se cambiate idea sapete dove trovarmi.» concluse, facendo l’occhiolino e andandosene come se nulla fosse. «Bro.» commentò Nino, osservando il tipo avvicinarsi ad altre ragazze: «Pensavo che queste cose succedessero solo ai tipi come, non anche a quelli come te.» «Queste cose cosa, Nino?» Il ragazzo si sedette, togliendosi il cappello e grattandosi la nuca: «Beh, Alya…» iniziò il ragazzo, abbozzando un sorriso: «Tu sei tu ed io sono io.» spiegò, indicando prima lei e poi sé stesso. «Anche tu?» sbuffò Alya, voltandosi verso Marinette: «Vi siete messi d’accordo per farmi ammattire?» Marinette sospirò, osservando il ragazzo che camminava davanti a lei con passo svelto: era arrabbiato, lo si poteva capire lontano un miglio e ciò era avvalorato anche dal fatto che Plagg aveva deciso di stare nella sua borsetta, piuttosto che nascosto addosso al suo partner; quasi chiamato in causa, il kwami nero si affacciò e la fissò con gli occhietti verdi: «Qualsiasi cosa hai in mente di fare, lascialo stare. Fagliela sbollire, è solo gelosia allo stato puro.» le spiegò velocemente, tornando poi al sicuro e Marinette fu quasi sicura di sentire Tikki dargli del fifone. Scosse il capo e, ignorando bellamente l’avvertimento del kwami, accelerò il passo e posò una mano sul braccio del giovane: «Adrien…» «Mai nessuno che ascolti il kwami della sfortuna.» sbuffò Plagg, dall’interno della borsetta. Il biondo si voltò, fissandola male: «L’avevo detto, no? L’avevo detto! Quel pezzo di…» si fermò, scuotendo il capo e fermandosi in mezzo al marciapiede: «Se non c’era Alya che gli diceva no, che avresti fatto? Avresti accettato, perché non sai dire di no a nessuno, tranne che a me.» «Non è vero…» «Quante volte ci ho provato nei panni di Chat e mi hai snobbato, eh?» «Questo perché…» «Ti rispondo io: sempre. Poi arriva quest’idiota e tu non riesci neanche a dirgli no.» «Te l’ho detto!» sbottò Plagg, facendo capolino dalla borsa: «E’ geloso! E quando è geloso diventa stupido.» «Plagg, vuoi ancora mangiare Camembert?» «Ehi, signorino. Vuoi ancora essere l’eroe di Parigi?» «Siamo arrivati!» trillò Tikki, mettendo fine a ogni discussione e indicando l’insegna di un centro massaggi cinese: «E lì che dobbiamo andare.» «Ma Tikki quello è…» «Esatto, Marinette.» «Ci siete già state?» domandò Adrien, voltandosi verso la ragazza e studiando sia lei che la kwami. «Una volta sola, Tikki si era sentita male e mi aveva detto di portarla da un medico per kwami.» Marinette si bloccò, portandosi una mano alla bocca: «Il vecchietto! Era lui, il medico per kwami!» Il ragazzo sospirò, guardando la porta e notando che l’anziano stava facendo capolino dalla porta e li fissava divertito: «Ladybug e Chat Noir. Siete arrivati finalmente.» «Questo caffè fa schifo.» commentò la ragazza, poggiando la tazzina e osservando male il contenuto: «E’ acqua colorata, senza sapore.» «Pretendevi di trovare del vero caffè italiano a Parigi?» le domandò il kwami arancio e dalle fattezze volpine, nascosto nella tasca della sua felpa: «Sei stata solo una povera illusa.» «Molto divertente, Vuxi.» borbottò l’umana, prendendo il proprio tablet e tornando a studiare il Ladyblog. Fu osservò i due giovani seduti davanti a lui, sorseggiando il thé tranquillamente: «Bella giornata, vero?» domandò, osservando la ragazza abbozzare un sorriso imbarazzato e il suo compagno sbuffare. «Perché ovviamente siamo venuti a parlare del tempo…» bofonchiò quest’ultimo, incrociando le braccia al petto e fissandolo. «Noto che ho scelto bene il possessore dell’anello del Gatto Nero.» commentò Fu, posando la tazza e sorridendo al giovane: «Sei impaziente come Plagg…» «Io non sono impaziente.» borbottò Plagg, volando fuori dal suo nascondiglio e accomodandosi sulla spalla di Adrien: «Non mi piace attendere quando non è necessario.» «Quello vuol dire essere impazienti, Plagg.» Marinette e Adrien si voltarono verso il grammofono, trovandosi davanti un esserino verde, molto simile a una tartaruga, che li salutò: «Buonasera, sono Wayzz.» «Il famoso Wayzz…» mormorò Adrien, mentre il kwami verde volava vicino Fu. «E’ un kwami?» «Sì, signorina.» dichiarò Fu, annuendo e mostrando loro il braccialetto che indossava: «E’ il kwami del Miraculous della Tartaruga.» «Non pensi di stare tirando un po’ troppo la corda?» Il ragazzo sorrise, voltandosi verso l’esserino blu, picchiettandogli l’indice sulla testa: «Tu dici, Flaffy?» «Io dico.» sbottò stizzito il kwami del Pavone, aprendo la coda e fissando male il suo protetto. «Mi sto solo divertendo.» «Non dovresti divertirti. Abbiamo una missione da compiere.» Adrien si fermò davanti la vecchia scuola, proprio nel punto esatto in cui, parecchio tempo prima, aveva aiutato un anziano signore a raccogliere il suo bastone: «Sai, non pensavo che quel giorno avrebbe cambiato così tanto la mia vita…» mormorò, fissando la ragazza a pochi passi da lui: «Ero riuscito a scappare di casa e stavo venendo a scuola, Nathalie e il gorilla mi avevano raggiunto, sarei riuscito a entrare, ma poi vidi quel signore e nessuno che lo aiutava…» «Anche per me fu lo stesso: ero uscita di casa e c’era questo vecchietto che attraversava con il rosso, stava quasi venendo investito da un auto e…» alzò le spalle, scuotendo il capo: «Fra tutti ero proprio la meno adatta a diventare Ladybug.» «Sicura? Secondo me ha fatto una scelta ottima.» dichiarò Adrien, offrendole il braccio e avviandosi poi verso la boulangerie dei genitori della ragazza: «Allora, cosa ne pensi?» «Del fatto che, secondo la leggenda che gira attorno ai Miraculous, Ladybug e Chat Noir sono anime gemelle? O riguardo al fatto che tale Coeur Noir vuole avere il potere assoluto e per questo sta cercando i Miraculous?» «Dato che abbiamo provato personalmente la questione delle anime gemelle, direi su Coeur Noir.» La ragazza sospirò, scuotendo il capo: «Che non c’è mai pace per i supereroi?» «E riguardo agli altri Miraculous?» Marinette strinse leggermente la presa sul braccio del ragazzo, mentre si fermavano in attesa che il semaforo diventasse verde: «Secondo il maestro Fu dovremmo trovare gli altri.» mormorò, poggiando la testa contro la spalla di lui. «Però...» Adrien sospirò, alzando il volto verso il cielo che si stava imbrunendo: «Siamo realisti, guarda cos’è successo a mio padre: chi ci assicura che anche gli altri siano tutti buoni? Seriamente, altre tre persone con superpoteri come i nostri che pensano al bene? E’ possibile?» «Noi l’abbiamo fatto.» «Sì, ma…» «Vediamo come andrà avanti questa storia, ok?» «In fondo siamo Chat Noir e Ladybug.» «Ladybug e Chat Noir, è differente.» «Come desidera la mia signora.» dichiarò Adrien sospirando e portando lo sguardo verso il negozio, notando la macchina argentea ferma davanti: «Andiamo, devi ancora scoprire la tua sorpresa.» «Così che potrò ringraziarti?» «Oh oh.» «Ti dirò semplicemente “Grazie”» dichiarò Marinette, puntandogli il dito contro il naso e attraversando velocemente la strada: «Non quello che pensi tu, gattaccio maniaco.» «E’ solo questione di tempo, my lady.» commentò Adrien, superandola e aprendole la porta della boulangerie: «Buonasera, Sabine!» «Oh, Adrien!» la mamma di Marinette gli sorrise, avvicinandosi con un vassoio di croissants: «Tom sta facendo un po’ di prove, vuoi assaggiare? Nathalie…» si volse verso la segretaria austera degli Agreste: «…ha dichiarato che quelli al caramello sono i migliori.» «Assaggio più che volentieri.» Adrien osservò il vassoio, leccandosi le labbra poi, ricordandosi di un certo evento del passato, si voltò verso Marinette, guardandola serio: «Tu non dire niente. Nulla. Zitta.» «D’accordo, d’accordo!» sbuffò la ragazza, superandolo e alzando gli occhi al cielo: «Per quanto intendi rinfacciarmelo ancora?» «Mi hai portato via un vassoio di croissants e uno di biscotti. Sono cose che non si dimenticano facilmente.» «Ma è successo quattro anni fa!» «Buonasera, Marinette.» s’intromise Nathalie, mettendo fine al diverbio e attirando su di sé l’attenzione della ragazza: «il signor Agreste mi ha detto di consegnarle questo, sperando che possa accettare ed essere presente.» La ragazza prese la busta bianca che le venne offerta e l’aprì: «Oh…mio…ah…eh..io…cioè…non…io…» «Sta dicendo “grazie”, Nathalie.» tradusse Adrien, pulendosi la bocca dalle briciole del croissant e avvicinandosi: «Papà pensava ti potesse interessare…» «Interessare? Interessare? L’apertura della settimana della moda è…oooh. Non posso crederci. Ci saranno tutti i più grandi stilisti! Ci sarà Gabriel Agreste!» «Ma va?» borbottò Adrien, prendendo un'altra brioche: «Questa a cos’è?» «Penso sia all'uva passa.» gli rispose Sabine, studiando il cornetto: «Adrien, ringrazia tuo padre per questo invito.» «Presenterò.» «Il signor Agreste…» continuò Nathalie, sistemandosi gli occhiali: «Ha chiesto se ha un modello adatto all’occasione, in modo da fornirlo ai sarti della nostra maison e realizzarlo.» «Un mio modello? Per la festa?» «Sì, possibilmente qualcosa di elegante. Un vestito lungo sarebbe ideale.» «Non ho mai disegnato niente del genere…» «Sì, invece.» s’intromise Adrien: «Ce n’è uno che va bene.» «Che succede?» domandò Tom Dupain, uscendo dal laboratorio del negozio e sorridendo ai presenti: «Adrien! Assaggiato qualcosa?» «Ho provato quello alla mela e adesso questo.» rispose prontamente il ragazzo, alzando la brioche che teneva in mano e poi tornando a fissare la ragazza: «Il blocco da disegno, Marinette.» «Tesoro, il padre di Adrien ha invitato nostra figlia all’apertura della settimana della moda.» lo informò velocemente Sabine, avvicinandosi al marito e sorridendo, mentre Adrien prendeva l’album e sfogliava le pagine finché non trovò quella che cercava: si allontanò mostrando il modello a tutti e addentando soddisfatto il croissant. «Ma è bellissimo, Marinette.» «No, questo no.» «Perché no?» chiese il ragazzo, avvicinandosi e studiando il disegno: «E’ un abito da sera, no? E poi a me piace.» «La schiena. Guarda la schiena.» Il biondo osservò il modello: «Ok, è scoperta. E allora?» «Non va bene.» «Va benissimo.» dichiarò deciso lui, passando il blocco a Nathalie e sorridendo allo sguardo di disapprovazione di Marinette: «Questo.» «Adrien, non posso metterlo…» «Perché no, tesoro?» domandò Sabine, abbracciando la figlia e sorridendo: «E’ un bel disegno e sono certa che sarai bellissima.» «Quello che dico anch’io.» assentì Adrien, osservando il vassoio di croissant: «Nathalie, quali sono quelli al caramello?» «Quelli con la granella di zucchero sopra.»
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LA CITTÀ DELLE QUAQQUERE
Ci sono città che non hanno un particolare valore, ma nella loro semplicità sono in grado di trasmettere delle emozioni meravigliose anche se ognuno di noi le percepirá sempre a modo suo.
Lei Il mio Lui ed io amiamo davvero molto visitare città e scoprire posti nuovi e così un sabato in cui non avevamo nulla da fare andammo a Pavia.
Eravamo già stati in quella cittá ma a causa del poco tempo a disposizione non riuscimmo a visitarla bene e quindi decidemmo di tornarci.
Appena scendemmo dal treno la prima cosa che ci venne in mente fu di cercare del cibo.
Andammo da Queen’s Chips che è quel posto dove fanno le patatine buonissime e prendemmo quasi un kilo di patate fritte con due salse davvero deliziose.
Dopo aver mangiato e chiacchierato per un pó all’ombra in un parco ci avviamo verso il Ponte Coperto.
Se non ricordo male prima di arrivare al Ponte ci fermammo a fare un giro al mercato e fu davvero tanto divertente perchè c’erano in vendita un sacco di cose assurde.
Arrivati al Ponte, come nostro solito, impiegammo un’infinità di tempo per attraversarlo perchè ad ogni apertura ci fermavamo a guardare il fiume e le paperelle che a noi piace chiamare “quaqquere”.
Una volta che arrivammo sull’altra sponda scendemmo fino al fiume.
Sul posto c’era già il “Signore delle quaqquere” che è un uomo che tutti i giorni porta il pane alle papere, chiacchiera con loro, le accudisce e le protegge da tutta la gente incivile che c’è al mondo d’oggi.
Ci avvicinammo a lui e ci presentó gli ultimi due arrivati nel gruppo due cigni maestosi e bellissimi che lui soprannominó Max e Lady.
Ci insegnó a dar loro da mangiare e ci spiegó come avvicinarci senza spaventarli. Fu davvero un’esperienza bellissima anche perchè questo uomo chiacchieró tanto con noi raccontandoci delle storie della sua vita e tutto ciò che la gente dice alle sue spalle.
Poi infine condivise con noi delle fotografie molto belle che fece fare ad un suo amico ai cigni e alle papere che oramai sono la sua famiglia.
Si fece tardi e il mio lui dovette trascinarmi via perchè volevo restare ancora un pó ad ammirare quegli splendidi animali.
Tornammo a casa con il cuore felice con la consapevolezza che quella giornata era stata una delle più belle di sempre.
Lui
Un giorno, sempre non sapendo cosa fare decidemmo di farci un bel giretto in una città vicina che avevamo già visitato ma che ci eravamo ripromessi di andare a rivedere. Cercammo su Maps dove andare a mangiare e trovammo un negozio che vendeva patatine fritte del tipo di quelle olandesi. Buonissimo e dal prezzo molto contenuto.
Come al solito andammo un po’ a zonzo nel centro fino a raggiungere il Ponte più famoso della cittá perchè ha la caratteristica di essere coperto.
Appena sotto al ponte c'era la riva del fiume nel quale sguazzavano allegramente tante papere e cigni.
Dato che la mia Lei ama le papere la portai a farci un giro.
Scesi giù dagli scalini trovammo un signore anziano che incontrammo anche la volta precedente. Questo signore è da diversi anni che tutti i giorni va a dar da mangiare alle papere e ai cigni tanto che gli ha dato dei nomi e loro effettivamente si fidano a mangiare dalle sue mani.
Siccome Lei era tutta entusiasta della situazione chiesi al signore se ci poteva dare un pezzo di pane da dare alle sue amate “Quaqquere”(termine che noi usiamo per chiamare simpaticamente le paperelle dato che il loro verso è quack quack).
Mi divertii un sacco, e scoprimmo che i cigni che venivano a mangiare lì erano una coppia e che il Signore li aveva chiamati Max e Lady… e stavano sempre assieme!
La cosa che mi colpì è che quando il Signore dava da mangiare alla femmina Lady, il maschio Max si avvicinava per controllare che non succedesse nulla… Che gelosone ahah.
Da quel giorno, ogni tanto, per scherzare noi ci chiamiamo cigno e “cigna"haha.
Lei è solo mia! E come Max sto sempre attento a chi ronza attorno alla mia Lady.
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