#dovevo farlo o non andavo a letto
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greeneyed-thestral · 21 hours ago
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benzedrina · 4 years ago
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È sera. Non esco con amici da un botto di tempo. Hanno creato un loro minigruppo e sono stato escluso insieme ad altre persone. C'è la zona rossa. Loro escono. Anch'io esco. Fumetteria. Libreria. Solito giro. Negli anni mi sono accorto che quando vieni escluso da un evento o da un'uscita di gruppo, devi lamentarti. Devi dire il tuo "perché non mi avete avvisato?". Se non lo fai è perché te ne stai fregando e quindi non ti interessa. Il minigruppo si unisce. Ti esclude. L'ho provato con diverse persone. La mia reazione è più un non attaccarsi ai coglioni della gente. Mi è capitato molte volte. Stavo zitto. Andavo avanti. Perdevo amici.
Non posso fare a meno di pensare che sia io quello "strano". Quello che se ne frega. Se a qualcuno di loro venisse chiesto di definirmi direbbero che sono menefreghista, forse un po' egoista. Forse è vero. Forse no. Ci badavo. Stavo male. Ora non ci bado più di tanto. Le amicizie vanno e vengono. Poche rimangono. Me ne sono accorto crescendo. Dopo le lauree e alla ricerca del lavoro cambia la concezione del mondo sociale. Hai altri cazzi a cui pensare. Ci sono amicizie fatte durante quel mondo nuovo che continuano a durare. Ci chiamiamo al telefono. Ci aggiorniamo. Ci ascoltiamo. Sono poche. Meglio così.
Sto partecipando a un concorso dove si doveva mandare in incipit. Non tanto per il risultato. Sì, mi piacerebbe essere pubblicato. In libreria sogno il mio nome su un Adelphi, su un Einaudi, su un Feltrinelli. Immagino la copertina.
Quando ti metti in moto per capire come essere pubblicati ti ritrovi sui forum. Migliaia di persone commentano. Migliaia di persone dicono la loro. Hanno i loro libri completi. Hanno le loro proposte. Hanno le loro idee. E io mi sento piccolo. Se loro non ci sono riusciti (anche andando per l'autopubblicazione) perché dovrei riuscirci io? Perché dovrei emergere? Perché la mia voce dovrebbe essere ascoltata? Sono un signor nessuno. La mia è una flebile voce. Piena di complessi. Piena di noie emotive.
Il concorso è strano. Chi scrive deve leggere anche gli altri incipit (da 30000 a 60000 battute). Ne ho avuti 10. Li ho letti. Ho letto un sacco di libri. Potrei giudicarli confrontandoli. C'è chi si è ispirato a Il fu Mattia Pascal, chi a I love shopping, chi a Altered Carbon. Alcuni hanno plagiato allegramente ma dovremmo essere tutti esordienti. C'è solo uno che m'ha colpito. Colpito nel cuore. Penso che sia già uno scrittore affermato. Ha partecipato per divertimento. Chi mi giudicherà avrà da ridire su un sacco di cose. Mi arriveranno i commenti. Ho partecipato per quelli. Sapere cosa ne pensa la gente estranea. Che non mi conosce. L'incipit l'hanno letto in 3. È piaciuto.
Tutti noi abbiamo la capacità di scrivere. Conosciamo la lingua. Abbiamo delle idee. Le proponiamo. Qualcuno emerge. Io ci spero. Finisco questo "libro". L'ho chiamato Bla (ha un titolo ma non ci tengo molto ai titoli). Poi forse ne scrivo un altro. Lo chiamerò Cra. Sarà un sentimentale. Ho già deciso. Poi un altro ancora. Poi un altro ancora. Da questo lato mi sono sbloccato. Dovevo farlo prima.
Le CE (case editrici) più importanti accettano i manoscritti ma sono molto attenti con gli esordienti. Ne arrivano migliaia a loro. Dovrebbero leggerli tutti. Non ti dicono quanto tempo ci vuole per sapere una risposta. Alcune dicono che ci mettono 6 mesi. Se non rispondono non è piaciuto. Quelle più piccole hanno linee editoriali più tracciate. Puoi anche pubblicare. Dove finisci? Non si sa. Forse nel ciarpame contemporaneo. Scriviamo tanto. Pubblichiamo tanto. Ricordiamo poco.
Vorrei essere deciso come alcuni di loro. Usare una grammatica consona (e qui scrivo a frammenti. Pieno di punti. Figuriamoci nell'incipit). Sono pigro. Mi sono accorto che abbondo di punti perché mi scocciano le frasi, le virgole, le metafore, i periodi lunghi. Io penso brevemente. Certe volte non penso neanche. Vado di getto. Perché dovrei fingere? Perché dovrei sforzarmi?
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yellowinter · 5 years ago
Note
Da cosa è iniziato questo tuo "malessere"?
Non lo so, non c’è stato un evento scatenante, a 15 anni ho iniziato a sentire il bisogno di farmi del male, a non avere la forza per uscire, a desiderare di morire. Da bambina ero molto strana, sono andata in coma quando avevo 3-4 anni e ho passato parecchio tempo in ospedale, non sono andata all’asilo, stavo sempre a casa sola con mia madre che sclerava male per qualsiasi cosa. Lei è sempre stata molto instabile, tipo che urlava e lanciava coltelli, mio padre lo vedevo solo di sera, loro litigavano sempre e io avevo paura. Mi sedevo al fianco del letto e pregavo che andasse tutto bene, perché loro andavano davvero fuori controllo. Andavo in una scuola di suore quindi mi dicevano di pregare e io lo facevo ma non funzionava. Fino alla terza elementare non parlavo, cioè sapevo parlare ma non parlavo con nessuno. Mi ricordo che i miei compagni di scuola mi chiedevano sempre di parlare, ma io non parlavo. Voi non avete idea di quanto era difficile vivere a quell’età, con il diabete e mia madre. Era una combinazione letale e io ero solo una bambina, non avevo le capacità per capire e gestire la situazione. La cosa più traumatica di tutte era quando mi dovevo cambiare il catetere. Non ero in grado di farlo da sola ovviamente e avevo paura degli aghi e quindi piangevo, credo che sia una cosa normale se sei piccola e devi affrontare cose di questo tipo. Ma mia madre anziché consolarmi o comunque aiutarmi a superare la paura, mi sgridava, tantissimo, mi urlava e mi bloccava e mi bucava a forza e io mi sentivo morire. Una volta deve avermi anche toccata tra le gambe per tipo convincermi, ma è tutto molto sfocato su quella vicenda e sinceramente non mi va neanche di sapere altro. Comunque ero una bambina molto dolce ed educata, cioè non ero ribelle e iperattiva, ero calma, vivevo nel mio piccolo mondo da sola, parlavo alle piante e ai colombi alla finestra, disegnavo tantissimo e costruivo cose. Ma era come se fossi lo spettatore di un film che però era la mia vita, non avevo coscienza, era come se fossi finta. Come se non esistessi, cioè io non sentivo niente. E questo sono piuttosto sicura sia dovuto al fatto che i miei sono stati genitori anaffettivi, niente abbracci o baci, nessuno mi ha mai chiesto come stavo e quindi non ho mai imparato a riconoscere le mie emozioni. Mi ricordo benissimo quando è morta mia nonna, ero sempre piccola, e ho visto al funerale che la gente era triste e mi ricordo che mi chiedevo “ma perché piangono?” e non mi veniva da piangere, perché non sentivo assolutamente nulla, io comunque ci tenevo a mia nonna. Non è che i miei non ci tenessero a me, sicuramente mi hanno sempre amata, ma non mi hanno mai dato quelle attenzioni che secondo me sono molto importanti per un bambino. Di giocattoli ne avevo tanti, mi hanno sempre dato da mangiare e non mi sono mai mancate le cose concrete. Però non si basa solo su questo il crescere un figlio. Poi arrivata all’adolescenza è esploso tutto, come succede a tutti. Però erano emozioni, sentimenti, cose estranee per me, di cui io non conoscevo nemmeno l’esistenza. Quindi forse è stato piuttosto inevitabile quello che è successo dopo. Anche perché ora, conoscendo meglio il disturbo, sono piuttosto convinta che mia madre ne soffra o abbia comunque dei tratti. Se cresci con un genitore così, hai molta probabilità di sviluppare gli stessi problemi. Però cazzo se qualcuno se ne fosse accorto prima forse ora non sarei devastata così tanto, cioè devi avere proprio i paraocchi per non accorgerti che tua figlia sta male e la cosa era evidente, i segnali ci sono stati. Nessuno ci ha fatto caso.
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ecodelmare · 4 years ago
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memoria #31
In questi giorni ho avuto occasione di pensare alle mie prime volte col sesso, leggenda metropolitana sul sesso vuole che ogni donzella di tradizione la prima volta si conceda all'amore. Ma sappiamo bene che qui a casa mia l'amore stesso trattasi di leggenda. Quindi io a chi cazzo l'ho data la prima volta? Eh me lo son chiesto nei giorni scorsi, me lo son dovuto chiedere perchè me lo hanno chiesto e alla fine mi son detta, ma io? Cos'è che mi convinse? Ecco. Vi posso rincuorare dicendo che non la diedi al primo che passava, anzi. Anzi. Quello l'ho fatto mille volte poi. Era un amico, so che mi voleva bene perchè so che ancora me ne vuole e a suo a nostro modo siamo ancora amici, eccome. Insisteva, mi chiedeva di cosa avessi paura, io avevo diciotto anni, precisamente lui la corte (la corte!) inizò a farmela quando io ancora di anni ne avevo diciassette e di cazzi ne avevo visti, ma ne avevo preso in mano solo uno, in bocca ancora nessuno e non lo feci nemmeno col suo. Mi invitava ad uscire e io ci uscivo con lui, devo sottolineare che mio padre benediva la situazione, lui gli piaceva, se veniva a prendermi lui e a portarmi lui i miei dormivano tranquilli, non consci del fatto che in realtà era alla mia purezza che ambiva forse lo sapevano pure e gli andava bene, ammetto che ci vedevano lungo, perchè è vero che mi si voleva scopare però è pure vero che anche dopo avergliela data poi fui io ad allontanarmi, non lui, che ambiva ad un futuro insieme, come si diceva nel periodo dell'adolescenza: lui mi voleva proprio. Mi diceva che voleva stare con me anche a distanza, chè io sarei partita per l'università, me ne sarei andata lontano, ma a lui andava bene lo stesso, che poi sarei tornata e avremmo avuto dei bambini e che gli piacevano anche altre ragazze, ma che io ero quella che lui preferiva (che tenero). Come scusa per farmi cedere al suo desiderio veniva a casa mia a studiare inglese, senza nessuna intenzione di farlo sul serio, finiva che si pomiciava sul letto di mio fratello mentre i miei guardavano la tv in soggiorno, che ne so, i miei hanno sempre avuto una mentalità troppo aperta per ‘ste cose, sarà anche per questo che io ho vissuto con una libertà quasi ostinata la mia sessualità. Dopo un po’ di volte che veniva a far finta di studiare io mi ero già stufata di questa cosa e costrinsi uno dei miei fratelli a venire a disturbarci insistentemente in modo da evitare che lui ci provasse. Fu l'ultima volta che venne e fu anche l'unica in cui riuscìì a fargli fare qualcosa di inglese. La prima volta che mi baciò fu in treno, andando a scuola, mi chiuse in uno scompartimento, mi accostò al muro e mi baciò, mi piacque, mi fidavo di lui, ci conoscevamo da anni e sapevo non mi avrebbe mai fatto del male. Ma eravamo diversi, lui immaginava la famiglia, una casa e un lavoro sicuro. Io no. Io volevo solo andarmene in giro senza aver intenzione di fare niente. Di fatti. Sono sempre stata sincera, in fin dei conti non sapendo quel che voglio dall'alba dei tempi non potevo e non posso permettermi di promettere qualcosa a qualcuno, tutto pur di non far soffrire, tutto pur di tenerli distaccati, tutto pur di non assumermi responsabilità, voglio aver torto, ma non voglio aver rimorsi. Decisi di farlo con lui, che poi possiamo star qui a dircene di ogni, ma avevo anche paura, quella paura cattolico cristiana, quel timore di far il passo e non poter tornare indietro, o tesori miei se si può tornare indietro, eccome se si può, l'amore si può far mille volte per la prima volta e ogni volta può esser più bello. ogni volta si può morire e rinascere, mille volte sarà la prima e altre mille sarà l'ultima. Ogni volta che io faccia sesso o che faccia l'amore so che ce ne saranno altre sempre più belle e mai mi son pentita di averlo fatto per la prima volta. Nè con lui. Nè in quel momento. In macchina, che scomodo gesù che scomodo, è il ricordo più forte che ho, la scomodità, io sopra non si poteva non avevo il coraggio, ci provai, ma non mi sarei mai trafitta da sola. Lui sopra, ok, ma già la situazione era di due ragazzetti alle prime armi, poi pure in macchina, insomma fu piacevole, nel senso che fu un'esperienza che mi rimase e non mi sconvolse negativamente, assolutamente, io gli piacevo e lui non faceva che farmelo capire. Ma con lui fu la prima e l'ultima volta. Mi rimase un senso di colpa nei suoi confronti, io non lo volevo e lui sì. Fu un senso di colpa che mi portai dietro per un po’ di tempo e ancora a tratti mi pervade, quando mi sento fredda e solitaria, lontana e immeritevole di amore, io mi sento in colpa verso chi mi ama. Sapevo che mi dovevo allontanare e così feci, lui tentò invano ancora qualche mese, ma poi io partìì e finì tutto lì, non proprio a dire il vero, lui mi rimase vicino anche nei periodi in cui andavo in giro a scoparmi tutto il paese e dintorni, a momenti rimproverandomi a momenti abbracciandomi quando mi vergognavo di me stessa. Mi prendeva e mi portava a fare un giro senza mai riprovarci, colpevole lui stesso di farmi sentire colpevole per la mia natura libertina, ma in buona fede, sapevo allora come so adesso che l'insulto puttana non vuol dir nulla, ma sapevo pure che mi voleva bene e che non potevo chiedergli certe finezze mentali, dopo tutto era un motivo per cui non stavamo insieme. Puttana. Chè di fatti lui mi diede il via. Poi dopo qualche mese mi feci il suo migliore amico, il primo che mi poggiò la lingua sulla fica, che il cielo lo benedica, il primo che ha cercato di prendermi il culo mortacci sua, il primo che mi disse che al posto del cuore avevo una pietra, ne seguirono altri. Dopo due mesi di sesso mollai anche lui e da quel momento, salvo pochi casi, pochissimi, è stato sempre un mordi e fuggi. Qualche giorno fa mi hanno chiesto dei miei amanti e mi sorprende il fatto che non son riuscita ad elencarli tutti subito, a tratti mi sovvengono dei ricordi e me ne viene in mente qualcuno in più a tratti mi intenerisco e poi mi son ricordata la mia prima volta e mi è piaciuta. E me la son voluta scrivere.
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nubesnoctis · 6 years ago
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Lettera a un razzista.
Durante il primo anno della Triennale in Scienze e Tecniche Psicologiche, mentre mi sentivo una donna vissuta perché “andavo all’università” ed ero uscita dal liceo con tutte le mie innumerevoli esperienze e conoscenze, sono state proiettate sulla lavagna le definizioni di pregiudizio e stereotipo. Forse proprio da quel momento, ho cominciato a interessarmi in modo particolare alla Psicologia Sociale, perché aveva permesso che tutto ciò che ero certa di sapere e tutte le mie sicurezze cadessero. Il pregiudizio, secondo la definizione all’interno del manuale che avevamo all’epoca, di M. A Hogg e G. M. Vaughn, è: “un atteggiamento sfavorevole e talvolta ostile verso un gruppo sociale e i suoi membri e un atteggiamento dominato da tendenze sistematiche cognitive e dall’abbondate utilizzo di stereotipi.” Da qui, si arriva alla discriminazione che, sempre secondo gli autori, è definibile come un “comportamento basato sul trattamento ingiusto di determinati gruppi di persone e non deriva sempre da un pregiudizio di fondo.” Nel libro dal pregiudizio si arriva alla deumanizzazione, fino ad arrivare al genocidio, fino a toccare il razzismo. Eccoci al punto. Ho fatto tutto questo preambolo per arrivare qui, a un argomento ormai quasi scontato perché tutti ne parlano e allora dato che tutti lo fanno, ho deciso di farlo anche io.
Sempre secondo ciò che v’è scritto sul manuale di psicologia sociale, il razzismo è “una forma di pregiudizio e di discriminazione verso le persone sulla base della loro etnia o della loro razza”. Dopo le elezioni europee, mi sono sentita in dovere di fare un po’ di pulizia di “Amici” su Facebook: per fortuna le persone che ho eliminato non sono miei amici stretti, ma solo amici di social. Ho avuto modo di parlare, per mia sfortuna aggiungerei, con persone che fanno del loro ostinato razzismo, un vanto e non una vergogna. Ciò che mi ha colpita (sì perché ho quel difetto di rimanere ancora basita di fronte a determinate affermazioni) è, principalmente, l’incoerenza di queste persone.
Parto con un altro preambolo: quando ero alle elementari, i bambini stranieri nella mia classe erano pochi, quattro o cinque. Addirittura, se non ricordo male, nell’altra sezione erano tutti italiani. In ogni caso, non so perché, non mi sono mai posta il problema, né tanto meno mi è stato mai rimproverato il fatto che fossi una bambina solare e disponibile verso tutti, le mie migliori amichette all’epoca erano tutte di colore. Andavo d’accordo con tutti, maschi, femmine, alti, bassi, biondi o mori; non c’era un bambino che mi stesse più antipatico di un altro, ma quelle con cui passavo più tempo erano bambine di colore. Un giorno è successo un evento che ricordo ancora oggi in modo cristallino: eravamo in terza o quarta elementare e doveva essere più o meno la fine dell’anno. Un giorno due compagni hanno litigato, una di questi era una delle mie amichette del cuore. Ricordo che gli insulti piovuti su quella bambina erano da considerarsi troppo già per un adulto, figurarsi per qualcuno che non lo è. Ricordo le lacrime della mia amichetta e che, in sua difesa, avevo scritto molti biglietti con delle parolacce (completamente a caso) che avevo poi fatto recapitare al compagno che aveva insultato la mia amica. Senza contare che quel giorno, ci sarebbero stati i ricevimenti genitori – insegnanti. Ma questa è un’altra storia.
Questo per dire che già da bambina, io non vedevo differenze tra colore della pelle. Vedevo differenze tra me e altri, che non avevano proprio nulla a che fare con il colore della pelle. Non voglio che mi si dica che ero una brava bambina, egoisticamente so già di esserlo stata. Quello che vorrei, però, è una risposta alla seguente domanda: se più o meno tutti noi (nati negli anni ’90) siamo stati in classe con persone straniere, con cui abbiamo giocato, parlato, con cui siamo cresciuti, perché adesso quelle stesse persone straniere sono additate come stupratori, spacciatori, ladri eccetera, eccetera? Mi spiego meglio. Quando ho parlato con le persone che citavo prima, mi è stato detto che i migranti non possono essere tutti accolti da noi e che vengono qui, appunto, a spacciare, a stuprare, a uccidere e a rubarci il lavoro. Quando io, in risposta all’ennesima: “Ah sti n***i di m***a vengono qua a rubarci il lavoro”, ho detto “Ma scusa, allora non dovresti essere amico di Pinco Pallo perché è di colore…”, la risposta è stata “Eh no perché lui lavora. È regolare.” Eh no. Non funziona così. Perché se lavora, quel posto di lavoro, secondo il discorso fatto fin qui, spetta a un italiano. O no? Senza contare che sempre nero è, o no? Cioè tu che sei mio amico puoi stare sereno anche se il colore della tua pelle fa schifo, tu invece che non ti conosco e stai lì a chiedere l’elemosina e sei pure nero meriti di tornartene da dove sei venuto. Uno di questi individui, inoltre, alla mia domanda “Scusa… Tu dici che ci rubano il lavoro, ma tu ci andresti a lavare i patti, pulire i cessi, raccogliere pomodori per due euro l’ora?” ha risposto: “Io? A pulire i cessi? Ma per chi mi hai preso?” Già, come immaginavo. Questa persona sta a casa, sulle spalle di mamma e papà, non studia, non lavora ma va in giro con il suo scintillante ultimo modello di cellulare che ti passa la carta quando sei sul water e ti accende la sigaretta senza bisogno dell’accendino, mentre mamma e papà vanno a lavorare per mantenerla. Però pulire i cessi no.
Ma andiamo avanti. Un’altra che sento spesso dire è “Vengono qua e stuprano e uccidono!” e giù una valanga di stupri e omicidi commessi da stranieri. È ovvio che non sto difendendo gli stranieri che stuprano, né quelli che uccidono. Eppure l’altro giorno, apro Facebook, e sul Secolo XIX appare la notizia “Violenza sessuale su una ragazzina: arrestati padre, madre e patrigno”, corro a leggere, mi chiedo come mai non ci sia nessuna specifica sull’etnia e, sgomenta, mi rendo conto: sono italiani. Ancora, qualche sera fa, nemmeno tanto lontano da dove abito, vengo a sapere che un uomo ha messo le mani addosso alla fidanzata. Vado in cerca della notizia per saperne di più: italiano. Questo per dire che, come ci sono gli stranieri che stuprano, incredibilmente, anche gli italiani non sono degli angeli venuti dal cielo che trattano le proprie donne come principesse. O almeno, non tutti... Proprio come non tutti gli stranieri violentano le “nostre” donne.
Proseguiamo. Un’altra frase che sento dire è: “Allora mettiteli in casa tu.” Resta una delle mie preferite. La mia risposta a questa affermazione è no. Perché, a meno che io non conosca quella persona (un amico in difficoltà, un parente), non mi metto in casa né italiani né stranieri e non so quanti di voi effettivamente se arrivasse uno sconosciuto italiano ve lo mettereste in casa, sbaglio?
Un’altra questione sollevata è stata “Sì, ma dobbiamo prenderli tutti noi! Gli altri stati cosa fanno? Perché noi sì e loro no?” Io non lo so, sarà che mia madre quando dovevo andare a una festa o in discoteca, la scenetta che mi propinava ogni volta era sempre questa:
“Mamma vorrei andare a ballare sabato sera.” “No.” “Perché no? Anastasia e Genoveffa ci vanno!” “A me non frega niente di Anastasia e Genoveffa, a me frega di te. E tu non ci vai.”
Punto. Fine. Per questo dico che, io non voto negli altri stati, voto in Italia e del futuro di questa mi devo preoccupare. Nel senso che se lo Stato X decide di uccidere tutti i cuccioli di cane, posso essere in disaccordo e dire la mia, sostenendo che comunque mi sembra una scelta da trogloditi, però io Italia non scelgo di seguire questa corrente di pensiero, dato che ho le capacità cognitive per farlo, e cerco di rendere l’Italia uno stato civile senza uccidere cuccioli innocenti, dico bene o dico giusto?
Arriviamo a due terribili eventi successi in questi giorni. La vicenda del padre e della bambina morti annegati nel Rio Grande per cercare una vita migliore e i migranti sulla Sea Watch. Qui, i commenti davvero si sprecano. Quante parole meravigliose per i primi due, commoventi alcune, davvero. Il padre e la bambina stavano attraversando il Rio Grande, il confine tra Messico e USA, proprio per raggiungere questi ultimi per cercare di ottenere una vita migliore. La bambina non aveva nemmeno un anno. Eppure ho letto dei commenti, dagli stessi che affermano che quelli sui barconi devono essere aiutati a casa loro, che erano rammaricati per la morte di padre e figlia. Ancora una volta, l’incoerenza e l’ignoranza regnano sovrane. Bruce Springsteen, nella sua Matamoros Banks contenuta nell’album Devils and Dust, è stato, purtroppo, profetico.
“Each year many die crossing the deserts mountains, and rivers of our southern border in search of a better life here I follow the journey backwards from the body at the river bottom to the man walking across the desert towards the banks of the Rio Grande.
For two days the river keeps you down then you rise to the light without a sound past the playgrounds and empty switching yards the turtles eat the skin from your eyes so they lay open to the stars”
Ossia:
“Ogni anno molte persone muoiono attraversando deserti montagne e fiumi dei nostri confini meridionali in cerca di una vita migliore qui seguo il viaggio al contrario dal corpo sul letto del fiume all’uomo che cammina per il deserto verso le rive del Rio Grande.
Per due giorni il fiume ti tiene giù poi sali alla luce senza un suono passi i luoghi di villeggiatura e vuoti scali di smistamento le tartarughe mangiano la pelle dai tuoi occhi così giacciono aperti alle stelle”
La Sea Watch è stata quattordici giorni in mezzo al mare con 42 persone a bordo. Il 26 giugno il capitano della nave Carola Rackete ha deciso di entrare, nonostante il divieto, in acque italiane per portare queste persone in salvo. Già: persone. Perché a volte ci dimentichiamo proprio questo.
Ci dimentichiamo di essere empatici. Anche questo è un concetto che ho potuto conoscere meglio negli anni dell’università: l’empatia. Ossia la capacità di immedesimarsi in un’altra persona, provare le emozioni di un altro, cercare di comprendere lo stato d’animo altrui. E allora, un’altra cosa che non riesco a comprendere e che mi chiedo continuamente è: perché una persona dovrebbe salire su un barcone, insieme a migliaia di altre persone, senza nemmeno la certezza di arrivare viva a destinazione? Perché una donna incinta dovrebbe salire su quei barconi? Magari portandovi anche un bambino piccolo. Io, se mi immedesimo in una donna incinta, mi dico “Piuttosto che salire su quella maledetta barca, sto dove sono.” Poi, però, se ci rifletto meglio sono costretta a pensare che, effettivamente, per arrivare a fare una scelta così tragica e pericolosa, il rischio che si corre a restare dove si è, dev’essere per forza maggiore che quello di mettersi su una barca con la stabilità di un materassino. E, a proposito di donne, vorrei sprecare due parole per la capitana della Sea Watch 3: Carola Rackete. Bene. Allora a tutte le bambine, a tutte le ragazze e donne io auguro di essere sbruffoncella, coraggiosa e umana un quarto di quanto lo è stata Carola, la quale una volta accortasi della fortuna che aveva, ha deciso di mettere questa sua buona sorte a servizio di chi non sapeva nemmeno che cosa volesse dire. I commenti per lei sono rivoltanti, poche volte ho letto parole così becere e disgustose nei confronti di qualcuno, per questo motivo non le riporterò, perché solo ripensare a quei commenti mi fa venire un travaso di bile. Mentre ci sono, per fortuna, donne come Carola Rackete, ci sono altre donne che la insultano e le augurano le peggiori cattiverie. Donne che insultano donne. Donne che sanno che lo stupro è la cosa più aberrante, scioccante e disgustosa che possa accadere a un'altra, inneggiano alla violenza carnale da parte dei "ne**i" nei confronti di colei che li ha portati in salvo.
Io non sono un membro del governo, né mai farò parte di esso, ma sono una libera cittadina e sono anche libera di esprimere la mia opinione riguardo a fatti che mi toccano da vicino. E quando a chi protesta viene tolta la possibilità di dire la sua su qualsivoglia argomento, io mi arrabbio.
Sarà che anche io ho fatto parte, in qualche modo, di “minoranze”, per così dire: alle elementari venivo presa in giro perché ero una delle poche a essere già formata, perché portavo gli occhiali e perché avevo un apparecchio per i denti che mi impediva di parlare (ma non di pensare!), per non parlare delle mie amicizie. Alle medie non ero di certo presa in considerazione dai miei compagni maschi, non ero affatto carina: avevo i brufoli, gli occhiali, la coda di cavallo, per questo meritavo di essere bullizzata e non rientravo nei canoni di bellezza ed, evidentemente, rispetto in cui erano le altre bambine. Anche in questo caso non ho bisogno di sentirmi dire “Oh, poverina. Tutti abbiamo avuto un’infanzia difficile.”, la mia non è una richiesta di attenzione. Perchè io, al contrario di altri, non sono stata costretta a vedere mia madre che veniva stuprata di fronte ai miei occhi, oppure a vedere il cadavere di mio fratello ridotto a un colabrodo a causa dei proiettili. Quindi benvengano le prese in giro. In ogni caso questi affronti non mi sono mai piaciuti, mi davano estremamente fastidio, nonostante fossi consapevole che erano delle “bambinate”, perciò se mi davano fastidio quelle scemate, figuratevi come mi sento quando leggo che 42 persone sono rimaste in mezzo al mare, sotto il sole cocente di questi giorni. Mentre noi ci lamentavamo del caldo, loro riflettevano su quanto si dovessero sentir male per poter essere trasportati a terra. Eppure devo ancora stare a guardare persone che sostengono che questi poveretti arrivano con le nike ai piedi, che le donne incinte sono usate per delinquere (sì forse questa è nuova, ma hanno avuto il coraggio di dirla davvaro), che hanno i cellulari! Sarà, forse, a causa della facoltà che ho scelto dove la persona è proprio il mio oggetto di studio. Sarà che mio papà mi ha fatto guardare, fin da piccola, tre telegiornali a pranzo e tre a cena, perciò volente o meno le cose mi entravano in testa e mi hanno formata. Sarà che mi è stato insegnato a non essere superficiale e a conoscere una persona, prima di giudicarla solo dal colore della pelle. Mi hanno insegnato anche che la violenza ha migliaia di sfaccettature e di modi di mostrarsi, comuni a tutti gli uomini. Non so perché sono cresciuta così e so che a non spendere tempo nello studio, nel non documentarmi, nel non leggere, avrei molto più tempo per pensare ad altre cose, magari più divertenti e allegre, senza stare a preoccuparmi della gente che muore scappando dall’inferno che tanto, mica li conosco. Sì forse starei meglio, ma forse non sarei a posto con la mia coscienza. In conclusione, so benissimo che chi dovrebbe riflettere e documentarsi su questi temi non verrà di certo a leggersi questo articolo, soprattutto perchè è molto lungo. Perché, diciamocelo, citando i Beatles, “Living is easy with eyes closed”, “Vivere è facile con gli occhi chiusi”; ed è questo ciò che dovrebbe spaventare di più: il fatto di girarsi dall’altra parte, di chiudere gli occhi di fronte a queste tragedie, di fronte ad altri esseri umani, ché tanto il pensiero predominante è quello dell’ “Eeeh vabbè”. Quando espongo questi miei pareri ad altri, chiacchierando in un bar nella mia tranquilla cittadina che non conosce i bombardamenti o la paura di non riuscire ad arrivare al giorno seguente, alcuni mi dicono: “Eh ma cosa ci vuoi fare? Dobbiamo prenderne atto. Passerà.” Sì, passerà, nel migliore dei casi, ma quando? Per quanto ancora dovrò svegliarmi la mattina, aprire l’app di Facebook e vedere la foto di un bambino a faccia in giù nell’acqua? Quante volte dovrò vedere che a coloro che manifestano è stato tolto il diritto stesso di manifestare? So che posso lamentarmi quanto voglio e che i dati parlano chiaro, ma niente e nessuno mi potrà impedire di dire che non mi sta bene, perciò vi lascio con una domanda:
“Che cosa farei io, se fossi al posto loro?”
Se fossi su quel barcone, stremata dal caldo, dopo giorni di viaggio, non vorrei essere salvata? Non vorrei solo mettere i piedi sulla terra ferma e avere un letto dove dormire? Siamo davvero arrivati al punto (di non ritorno, per quanto mi riguarda) di voltare le spalle a chi chiede aiuto? Siamo davvero diventati così cattivi da non vedere sul volto di una persona, la sofferenza? Dicono che la speranza sia l’ultima a morire. Mi chiedo quale sia il momento preciso in cui le persone sui barconi perdono la speranza o se, quando salgono, non la abbiano già più. La perdono quando uno di loro cade in mare e magari non sa nuotare o quando sentono i loro compagni urlare dalla stiva per cercare di uscire perché là sotto non c’è aria e non c’è spazio per tutti, finchè dopo un po’ le urla terminano e non c’è più alcun rumore? O forse, la perdono quando un bambino non è accompagnato e sta lì seduto, da solo e impaurito? Io non so se chi detta legge si sia mai posto queste domande, se chi urla a Carola Rackete che deve essere stuprata abbia mai provato a immedesimarsi in qualcun altro. L’unica arma per combattere questa freddezza, questa cattiveria che sta dilagando è la divulgazione della cultura. Per questo ho scritto questo articolo, per cercare di far aprire gli occhi a chi preferisce non vedere ciò che gli accade intorno. Finchè si vivrà pensando di valere qualcosa in più di un altro solo perché si è nati dalla parte giusta del mondo, si tornerà solo indietro.
Bibliografia:
M. A. Hogg, G. M. Vaughn, Psicologia Sociale: Teorie e applicazioni. (2012), Pearson.
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ginevrabarbetti · 6 years ago
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Dario Argento: “La solitudine non è un film dell’orrore”
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Di certi momenti conservo foto scattate senza macchina, immagini ben impresse nella pellicola della mia testa. L’ultima aggiunta all’album dei ricordi è quella di Dario Argento oggi sul portone di casa, al primo piano di un bel quartiere residenziale, che m’invita a entrare. Con gli occhi che ridono e un fare gentile, si scusa per il disordine che invece non c’è. Tanti invece, e ben disposti tra gli scaffali della libreria, i premi di una vita e i dvd in doppia fila. In ogni angolo il sole a mezzogiorno entra dalle finestre, senza chiedere il permesso. “Di respirare questo silenzio non potrei farne a meno, mi riporta al centro delle cose, è così mio” dice, mentre aspetta che mi sia seduta, per poi farlo anche lui.
In questo momento immagino di avere lo stesso stato d’animo di quando lei, più o meno alla mia età, ha intervistato i Beatles.  
Emozionata tanto da non riuscire a mettere insieme le parole?
Esattamente. Cosa ricorda di quando faceva il giornalista? 
È stato uno dei momenti più significativi della mia vita, un crescendo veloce che ricordo con piacere. Ho imparato la scrittura rapida, d’impulso, quel pensare che nasce e si traduce immediatamente tra le righe di una pagina. Poi, per una serie di circostanze fortuite, sono diventato prima critico cinematografico e poi sceneggiatore. Le mie storie funzionavano, venivano scelte anche da registi importanti, come Leone e Bertolucci.
Le capitava di andare sul set? 
Spesso, e quella confusione delirante non mi piaceva per niente. Preferivo di gran lunga stare da solo sul mio foglio, e scrivere. Mi son detto che mai avrei fatto il regista, e invece.
E invece, fortunatamente è andata come è andata. 
Avevo scritto la sceneggiatura de L’uccello dalle piume di cristallo. Mi pareva potesse funzionare, e in effetti andò bene. Pensi che l’idea è nata al caldo torrido di una spiaggia tunisina, dove mi ero beatamente addormentato con la testa al sole. Al risveglio sono rimasto in una sorta di torpore, dove visualizzavo il susseguirsi delle scene. È proprio in quel preciso istante, tra sogno e realtà, che vengono fuori le intuizioni migliori.
Quel film ebbe il successo che si meritava e giornalisti iniziarono a interessarsi a quel ragazzo così geniale. Il primo che scrisse di lei fu un giovanissimo Luigi Cozzi, che poi è diventato suo sceneggiatore.
M’intervistò vestito da militare, era in servizio qui a Roma. E ancora oggi è uno dei miei più stretti collaboratori.
Chi sono gli autori fondamentali che un suo braccio destro deve assolutamente aver letto? 
Senza dubbio Edgar Allan Poe, per quello spirito unico e fantastico con cui riesce a toccare tematiche tanto spaventose. Poi H.P. Lovecraft e la sua fantasia sfrenata, rarefatta, ovattata. Era capace di creare un’atmosfera onirica unica. Il sogno torna, ed è molto importante, anche nei miei film, dove spesso gioco con le lentezze, intervallate da velocità improvvise.
Il sogno è importante tanto quanto la solitudine?
Amo la solitudine. Quando ne sento parlare in senso negativo, non riesco a comprendere come possa essere motivo di disagio. Pensi, ti lasci andare alla fantasia. Stare da soli è tanto fondamentale quanto meraviglioso. Quando scrivo i miei film, mi ritiro in alberghi piccoli e anonimi, dove spero nessuno si accorga che esisto, e lì rimango il tempo che serve. Cerco una chiusura con il mondo, quasi fosse una prigione. Trovo invece tanto ossigeno creativo. Profondo Rosso è nato in una villetta di famiglia vicino a Roma, dove nessuno andava più da anni. Avevano anche staccato i fili elettrici, non c’era più niente. Solo la scrivania e una finestra grande con un bel panorama: ho ancora negli occhi quelle valli, m’incantavo a guardarle.
Mi sta dicendo che il film più pauroso di sempre è nato in questo scenario bucolico?
Quando si abbassava il sole e rimanevo al buio, solo con una candela a scrivere le scene più cruente, non le nego che avevo una discreta paura.
Dev’essere fantastico riuscire a terrorizzarsi in totale autonomia. Scommetto che le piace viaggiare senza compagnia. 
Adoro farlo, è sempre stata la mia passione. Ho girato il mondo: Sud America, Oriente, India. Partivo e rispondevo solo a me, vedevo il bello e non dovevo necessariamente verbalizzare, ché poi a parlarne si riduce tutta la magia dell’esperienza. In India mi sono avvicinato alla dimensione spirituale dei guru, veri medici dello spirito, e al fascino nella trascendenza. Di Haiti ricordo invece i riti voodoo, alcuni impressionanti, altri meno. Sento ancora il calore delle fiamme che si levavano altissime dalle cataste di legno e le “maman" che gridavano come degli ossessi.
Lei si fida delle predizioni? 
No. Però una volta, in Brasile, mia madre incontrò una santona, che con un sigaro stretto tra i denti le chiese come stesse mio padre. Dopo poco arrivò una telefonata, l’avvertivano che Salvatore si era rotto una gamba in un incidente a Roma.
E agli alieni, ci crede? 
Certo, esistono eccome. Fortunato chi ha l’apertura mentale e la sensibilità così spiccata da saperli vedere, riconoscere e accogliere. Credo fortemente nell’anima, nel contatto speciale che si crea tra certe persone.
Allora sicuramente avrà visto qualche creatura tanto strana da esser degna di nota. 
Una volta ero in Messico, nella biosfera, la zona più fitta di vegetazione. Guidavo, e a un certo punto un essere non ben definito attraversò la strada, proprio davanti a me. Era altissimo, coperto di peli, mi guardò fisso negli occhi per poi scappare nella foresta. Dopo qualche minuto di comprensibile disagio, chiesi agli abitanti del vicino paese se sapessero qualcosa di quella spaventosa creatura. In effetti mi confermarono che una sorta di yeti, mezzo animale e mezzo uomo, si aggirava da quelle parti. Peccato che nessuno l’avesse mai visto. Io sì però, e anche bene.
Non posso fare a meno di pensare a quante storie meravigliose abbia raccontato la sera prima di dormire a figlie e nipoti. Cosa conserva e ritrova umanamente, invece, di sua madre e suo padre? 
Mia madre Elda faceva la fotografa, era specializzata in ritratti femminili, tutte le più grandi attrici di un tempo sono passate dal suo obiettivo. Andavo a scuola vicino al suo studio e finite le lezioni, correvo da lei. Ho ancora nel naso l’odore dolciastro di un cerone particolare che usavano sul viso, per il trucco. Me ne stavo buono a aspettare che finisse di lavorare, in una piccola stanza in fondo al corridoio.
Lo stesso corridoio che torna in molti suoi film. 
È vero. Insieme alle scale, alle finestre, ai teatri. In una scena di Suspiria c’è un carrello che corre lungo un corridoio, senza che succeda niente, avanza e basta. E pensare che proprio quella è la scena che crea nel pubblico più inquietudine. Ci sono spesso dei richiami alla psicoanalisi di Freud, agli aspetti più profondi del subconscio, a quando eravamo feti nel ventre materno, prima di nascere. Girare film è anche un modo di fare analisi.
E in fondo al corridoio, nello studio di sua madre, chi erano le attrici che si facevano ritrarre? 
Le più importanti: Cardinale, Loren, Lollobrigida. Stava ore a regolare le luci per illuminare quei volti meravigliosi, e metterne ancora più in evidenza i pregi. Questo aspetto l’ho ritrovato nei miei film, una sorta di attenzione constante nel capire le donne, nel descriverle. Mentre cerco di tradurle mi trovo molto a mio agio, mi piace farlo. Rivedendomi, ho visto anche lei, il suo lavoro.
Di suo padre Salvatore, che ricordi ha? 
Faceva il produttore, un lavoro che lo portava spesso lontano. Eravamo grandi amici, andavamo al cinema, a cena, parlavamo di tutto come si fa con gli affetti più cari, era prezioso ed estremamente importante per me.
Lei ha una grande passione per l’opera, che spesso sa far paura più di un film horror. 
Dice bene, ci sono delle azioni sceniche terrificanti. Ho lavorato al Macbeth, alla Lucia di Lammermoor, esperienze bellissime. È stata mia nonna ad avermi trasmesso questa passione. L’accompagnavo al Teatro dell’Opera di Roma, spettava a me in quanto nipote più grande, seppur piccolissimo. Ne ho viste tante. E le ho amate molto, anche il balletto, con quei corpi. Le sono profondamente grato, ed è un pensiero che ritorna spesso.
In Horror. Storie di sangue, spiriti e segreti racconta episodi fantastici legati ai posti in cui è stato. 
Sono città che mi hanno colpito, lasciandomi qualcosa dentro l’anima. Nel primo capitolo, dove sono protagonista, la storia si svolge agli Uffizi. Sale che mi sono rimaste nel cuore mentre giravo La Sindrome di Stendhal: prendevo la torcia, in piena notte, e approfittavo per vedere tutta quella maestosità pittorica. Provavo una grande emozione, quasi soggezione.
Sono racconti che si tradurranno poi in film? 
Forse quello ambientato a Merano. Il bambino fantasma è un ottimo punto di partenza per una pellicola.
Come darle torto. Dove le piacerebbe vivere, se non a Roma? 
A Parigi. Mi ci trovo ancora molto bene, si respira costantemente aria di cultura. Ho iniziato proprio lì ad amare il cinema, mentre studiavo al liceo. Andavo sempre alla cineteca, dove vedevo almeno due film al giorno. Sono stati il mio pane: l’espressionismo tedesco, Bergman, gli horror americani degli anni ’40 e ’50.
Nella sua autobiografia Paura, racconta le esperienze di una vita. Quali sono stati i momenti emotivamente più faticosi da ricordare e trascrivere?
Probabilmente gli anni in cui avevo tendenze suicide. Rievocando certi passaggi sono riaffiorate diverse cose di quel periodo, che effettivamente è stato doloroso da rievocare. E pensare che volevo uccidermi in un momento apparentemente sereno, sentivo forte una sorta di attrazione verso la finestra della mia stanza, mi chiamava. Un amico medico mi consigliò di metterci un armadio davanti: “se devi pensare a spostarlo ogni volta, nel frattempo ti passa la voglia”, disse. Così è stato, e sono ancora qui. Ho sofferto anche nel ricordare la mia prima storia d’amore per un acuto senso di dispiacere, o quando mi sono separato.
Quello che riscriverebbe mille volte, invece? 
Senza dubbio quando le mie figlie sono venute a vivere con me, quella sì che era felicità.
Ginevra Barbetti 
Foto Alex Astegiano 
MarieClaire.it 
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sciatu · 6 years ago
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L’INGORDO MANIACO - TRISTEZZA E TENEREZZA : PANNA ACIDA E CREMA AL CIOCCOLATO.
Marcellino entro nel negozio di materiale elettrico di mio padre dove lavoravo e levandosi gli occhiali da sole mi guardò; alzando il braccio con un dito teso disse perentorio “Alfiuccio t’haiu parrari” Quando faceva così voleva dire che la cosa era seria e che dovevo dargli retta. Uscimmo e andammo nel bar pasticceria accanto al negozio . Sicilianamente incominciò il discorso partendo da lontano “Alfiuccio ma dimmi na cosa, come va con Enza, ti trovi beni? Vi divittiti?” “Marcello ma lo sai che per come siamo messi andiamo bene! Ma se anche andassimo male andiamo bene lo stesso perché non è chi c’è cosa!” “ come nun c’è cosa….. ma si futtiti comi cunigghi!!” “Marcello: futtiri è na cosa, vuliri beni e n’otra. Si futti sulu e nun c’è u vuliri beni, una vali l’otra” “ e tu cu Enza …. – e fece il gesto di uno stantuffo – e basta” “E basta Marcello…” “E si idda – gesto del pistone – cun n’otru o n’otra a tia nun ti ni frega nenti?” “Nenti!” Mi guardò e fece la faccia scettica disse un “MAHHH!” e fece per alzarsi. Lo bloccai trattenendogli un braccio. “Marcellu, parra mi ti sentu, nun ti mentiri a girari chi paroli” Lui si sedette tutto serio. “Da quanto è che non la vedi?” “Quasi dieci giorni” “E non l’hai cercata per chiederle cosa stava facendo?” “Lo so cosa sta facendo, è dietro a una che le piace al suo solito” Marcello restò sorpreso “E comi u sai?” “ mi ha mandato un messaggio dieci giorni fa” “Tu dissi…?” Fece lui ancor più stupito “Marcello ci diciamo tutto, ogni tanto qualcosa dobbiamo dire tra una fottuta e l’altra” “Ma tu u sai cu è chista?” “No Marcello non sono cazzi miei” Sorrise, aveva riacquistato il vantaggio che aveva quando era entrato in negozio: sapeva qualcosa che io ignoravo! “ ieri al centro estetico di Alessandra è venuta Annarita, l’ex di Provvidenza..” “Pilu russu?” “Chi?” “Marcello : Pelo Rosso, così la chiama Providenza…” “Ma se è mora…” “Marcello è rossa dove serve e quando serve, vai avanti” “ sa pitta ? Chi maiaaaala…?” “Ma lassa stari, vai avanti” “Minchia ma non mi dici mai nenti! Comunque, è venuta Annarita e a detto ad Alessandra che Provvidenza si era messa con Ellen R la regista del teatro , una che ha più di quaranta anni…” “ e allora ? “ “ questa dove va va si fa sempre le ragazzine, le usa e le getta, tu la conosci Provvidenza, lei si innamora sempre con chi si mette e poi quando la lasciano ci muore o fa qualche stronzata!! Devi dirle di lasciarla stare, quella la farà piangere, è una stronza nata” “Marcello non è cosa che mi deve interessare: tu conosci Enza, sai bene che quando è in amore non sente nessuno” “Ma va a sbattere il muso Alfio, ne soffrirà più delle altre volte, questa le ha promesso che la porta con se a Londra!” Questa notizia mi turbo, il solo pensiero di non saperla a Messina mi fece venire il bruciore allo stomaco come quando quella bottanasucaminchia della prof di latino mi chiamava per una interrogazione a sorpresa. “Marcello sinceramente, se la vedo gliene parlo, ma non voglio chiamarla e parlare io per primo della cosa. Capiscimi: noi stiamo insieme solo perché nessuno dei due entra nella vita dell’altro” “Ma qui non si tratta di vita qui si tratta che questa volta farà un botto che si farà veramente male” “Cosa vuoi che ti dica….se l’incontro gliene parlo” “Io nun ti capisciu, e quannu fai accussì non ti vogghiu capiri!” “Si alzò seccato e si stava allontanando “Marcello – lo chiamai e lui si voltò – grazie” Fece la faccia scura “A to cuscina ci ha dire grazie, a n’amicu nun c’è bisognu si no chi minchia d’amicu è”   e se ne andò mandandomi a quel paese con la mano e profondamente offeso.
Restai nel bar qualche minuto a pensare a quello che aveva detto Marcello. Poi tornai nel negozio e nel magazzino mi cambiai indossando la tuta e le scarpe per correre “Qualche problema?” Chiese mio padre vedendomi scuro in volto “No, vado a correre in po'” ed uscii “Corri, corri tanto i problemi sono più veloci di te e ti raggiungeranno” Mi disse mentre gli passavo davanti e lo vidi seccato perché a metà pomeriggio me ne andavo dal negozio. Incominciai a correre ed imboccai la circonvallazione; quando arrivai al piazzale del Santuario di Cristo Re, mi sedetti sul muretto che circondava il piazzale da cui si vedeva tutta la città nel suo degradare verso il porto e il mare. La testa mi girava a mille pensando a quello che aveva detto Marcello. Io però non gli avevo detto tutto. Quando Provvidenza mi disse di Ellen andai a casa sua a parlarle, non c’era e l’aspettai. Arrivò dopo qualche ora con una grande macchina scendendo con Ellen e abbracciandola. La vecchia le fece una carezza con tanta tenerezza e se la strinse. Dentro il portone , nella penombra dell’ androne, vidi che si baciavano con quell'intensità e passione che solo Provvidenza ha. Era felice. Quando passeggiava con me non l’avevo mai vista così felice. Inoltre cosa potevo fare? Su di lei o sul suo cuore, non potevo reclamare nessun diritto. Se avessi detto qualche volta che l’amavo, avrei potuto raggiungerle e mandare via quella vecchia. Ma Enza era felice, e la vecchia aveva con lei una tenerezza che io non avevo. Non le avevo mai detto se l’amavo o no dicendomi che quanto provavo non era quello che sentivo per Giovanna, ma anche una carezza a volte è la confessione di un amore che non si riesce a dire o non si sa di avere ed io, quella carezza, nella mia superficialità ed attaccamento ad un ricordo sempre più lontano, non l’avevo mai fatta. Mi sentivo stordito; io e lei eravamo due persone sole, chiuse nella nostra diversità, che non era l’essere l’ingordo io e amare le donne lei, ma nel aver bisogno di un amore che non riuscivamo a trovare per come volevamo. Insieme però non eravamo più soli, trovavamo in parte quello che ci mancava ed ora senza lei ero nuovamente e semplicemente, disperatamente solo. Per la prima volta, per il vuoto che sentivo, l’abbandono che provavo, la solitudine che mi mordeva l’anima, capivo che in fondo io amavo Provvidenza, ma di un amore diverso da quello che provavo per Giovanna e non poteva essere cosi perché lei non era Giovanna: non si misura l‘altezza di una montagna con i chili, ma io così facevo. In Provvidenza cercavo la purezza di Giovanna, ma stavo con lei proprio perchè lei non aveva quella purezza, un po datata e stantia. Sentivo una tristezza enorme perché ad essere più onesto con lei e con me stesso, superando quell’amore in cui mi ero sepolto, avrei potuto esserle più vicino, esserle di maggior aiuto, come lei lo sarebbe stata per me. Le navi entravano ed uscivano dal porto, le macchine correvano sulla strada intorno al Sacrario e lentamente diventava buio, facendo aumentare la tristezza che diventò soffocante, trasformandosi in una repulsione per tutto quasi che il tutto che mi circondava e che rifiutavo fosse panna acida, quella che trovi nei bignè vecchi e che se l’assaggi ti resta in bocca per tutta la giornata con il suo senso di prelibatezza andata a male, di possibilità che muore, di una vita diventata inutile. Una Tristezza più che amara: terribilmente acida.
Capivo anche che per Provvidenza, io ero solo un’eccezione mentre lei cercava il vero amore altrove, con me poteva essere forse temporaneamente felice, ma non secondo la sua natura e interesse. Però, mi dicevo che anche se non avremmo avuto un futuro, se avessi capito di amarla e glielo avessi detto, avremmo avuto un sereno presente che ci avrebbe permesso di non cadere nelle braccia della prima che passava, illudendoci, sognando e sperando. E alla fine, soffrendo. Tornai in negozio ed aiutai mio padre nella contabilità, poi, quando fu l’ora di chiudere prendemmo un po’ di focaccia e andammo a casa a mangiare. Mangiammo in silenzio, da quando mamma è morta io cerco sempre di far parlare mio padre per non farlo intristire, ma quella sera eravamo due vedovi che nelle parole non avrebbero trovato nessuna consolazione. Mi coricai presto con un libro in mano, dopo un po lo misi da parte e mi misi a guardare la foto di quando con Giovanna eravamo con la scuola a visitare il teatro greco di Siracusa. Mi addormentai sul tardi pensando che mi mancavano tutte e due, Giovanna e Provvidenza, di una mi mancava l’amore angelico, dell’altra la passione diabolica ed in assoluto mi mancava tanto l’amore che mi davano quanto quello che a loro donavo.  Ed era il fatto che non avrei più potuto farle felici la parte più disgustosa di quella montagna di panna acida in cui stavo, sempre di più affondando.
Nel sonno senza sogni in cui ero finito, Sentì suonare il cellulare e guardai l’orologio stupendomi che erano le tre di notte “Pronto” “Pronto sei Alfio? “ – chiese una voce femminile con un accento straniero “Si chi parla?” “ buonasera, sono Ellen R. – improvvisamente mi svegliai completamente -  per favore, vada a prendere Provvidenza all'Oasi Rosa a Giardini Naxos. Faccia presto per favore.” “Le è successo qualcosa?” Chiesi preoccupato “No niente di grave, ma faccia presto e…. le dica che mi dispiace!” Chiuse la telefonata. Era successa qualcosa di grave. Sicuro come era sicura la morte! saltai dal letto e mi vestii in fretta. Nell'uscire, mio padre dal letto mi chiese se era successo qualcosa, risposi che il mio amico Pippo era rimasto in autostrada senza benzina e che andavo a prenderlo. Corsi come un dannato in autostrada ed uscii a Giardini con la macchina che quasi fumava. Trovai la discoteca con qualche difficoltà perché era nascosta in una pineta verso Catania. Quando finalmente arrivai al suo ingresso, con la mia solita perspicacia da bradipo capii che era una discoteca per Gay dal fatto che i buttafuori avevano il rimmel. “ Sto cercando una ragazza alta, robusta, mi hanno chiamato per prenderla..” “Ah, finammenti rivasti – disse il buttafuori con una voce baritonale – vai sulla destra, c’è una porticina con un corridoio che da sui Prive, entra nella terza porta e fai presto che se fa ancora incazzare il capo a rivota comi nu guantu”  e mentre mi avviavo lo sentii dire al microfono “Dite al capo che sono venuti a prendere la pazza’ La cosa mi inquietò. Trovai una porticina con una telecamera posta in alto che mi osservava fredda e minacciosa; , dopo qualche secondo che ero li sentii uno scatto e la porta si aprì. Percorsi un corridoio dove le pareti erano coperte di velluto color porpora e pannelli con sottili tubi fluorescenti che disegnavano corpi androgeni e coppie dello stesso sesso in amore. Passai una prima porta coperta da un pesante tendone da cui fuoriuscivano delle risate e il suono di una bottiglia di spumante aperta , nella seconda porta c’erano due della sicurezza con basettoni ed occhiali da sole malgrado la luce fosse fioca. Passai  nella parete opposta alla loro dicendo educatamente “buonasera” al che fecero una faccia ancor più truce. Finalmente arrivai alla terza porta e dopo aver lottato con il pesante tendone riuscii ad entrare. Quando mi abituai alla luce rossa della stanza vidi solo un grande casino, tavolini per terra, divani rovesciati, cuscini rotti sparsi da per tutto, bicchieri e bottiglie di spumante buttate ovunque e versato sul velluto di una poltrona e per terra, quello che sembrava una lunga scia di zucchero al velo. Percepii in un angolo un movimento e guardando tra due divani vidi che c’era qualcuno. Avvicinandomi, vidi dei pantaloni di velluto e una camicia di seta e finalmente la riconobbi “Provvidenza.” Dissi stupito. Lei mi guardò e vedendomi si mise a ridere. “ Uh me zitu,”  disse con una risata ebete “Ciao amore i puttasti i pasti?” E continuò a ridere L’aiutai ad alzarsi sentendo una puzza terribile di whisky e vodka provenire dalla sua camicia. Non riusciva a stare in piedi e mi mise un braccio intorno al collo. Pensai che la cosa giusta fosse andarsene cosi imboccai la porta ed uscii ne corridoio. Mi trovai davanti un tipo grosso con la barba, un vestito gessato con una piccola rosa all’occhiello della giacca costosa e lo sguardo da boia. “Giustu attia ciccava: u sai quanti danni  mi fici l’amicuzza toi? Ammenu ammenu trimila euri i dannu fici! E i buci chi ittoi  quannu visti a ‘nglisa ca carusa! Na pazza era in tri nun cia faciumu ma tinemu! A mumenti vinniru puru i sbirri! E non ti dicu chi non rumpiu!  E ora cu mi paga?” “basta che raccogli la cipria bianca che c’è sul pavimento e ci guadagni puru” Risposi per nulla intimorito “si, si facemu u spiritusu, attia e a to zita ca non vi vogghiu vidiri chiù chi a ‘nglisa pagava bonu e ora piddì u sceccu chi tutti i carubbi.,. Capisti ahh? Si ti vidu girari ca attonnu ti scippu i paddi e ti fazzu manciari!! Vatinni, pottati a sa pazza fora i ca chi avi ringrazziari a ‘nglisa si nta facci non ci fici n’occhiellu laggu quantu a so bucca !!! U capisti ahhh? O taiu fari nu disegnu cu liccasapuni? Fora nativvinni!!” Mi tirai dietro Provvidenza raggiungendo l’ingresso e da li la macchina. Partii di corsa con Provvidenza che seduta sul sedile sembrava un sacco vuoto. Neanche avevo fatto qualche centinaio di metri che sul lato della strada vidi una macchina dei carabinieri con un milite davanti che mi chiese di fermarmi facendo segno con la paletta. “Documenti e libretto…” Fece guardandomi negli occhi per vedere se erano fatti di alcool o droga. Feci il sorriso più rassicurante che avevo e passai i documenti. Mentre li guardava osservò ad Enza “Sta bene signorina?” Lei lo guardo e fece un sorriso a trentadue denti e subito dopo la sua bocca si gonfio e voltandosi verso il finestrino vomitò di tutto e di più. “Pruvvidenza a machina….” Gridai mentre la macchina si riempiva di schizzi di vomito. Lei restò qualche secondo affacciata alla macchina e rincominciò “È meglio se la porta casa mi sembra che abbia bevuto troppo” “È che non è abituata – mentii spudoratamente – sono andato a prenderla ad una festa universitaria – e rivolta a lei – ora vedi, la mamma non ti farà più uscire per un mese…” “Vada vada - fece il milite e rivolgendosi al collega – Caccamo spostiamoci che qui non si può più stare”.
Aveva ragione c’era una puzza terribile che era rimasta anche in macchina. Tornammo a casa con i finestrini abbassati e lei che ripeteva “Sto male, sto male…” a casa le lavai la faccia e spogliandola, la misi a letto. Misi a lavare i vestiti che avevano l’odore di quella panna acida che era stata la mia solitudine, come se con Enza così vicino eppure così lontana, quel senso di vuoto ed abbandono fosse ancora più grande e tangibile. La casa non era meglio del prive della discoteca, al suo solito Provvidenza doveva aver distrutto Ellen. Mandai un messaggio a mio padre dicendo che dormivo a casa di Pippo. Mi rispose lapidariamente che sperava che prima di morire gli dicessi almeno una volta una mezza verità. Era impossibile dire bugie a mio padre, lui faceva sempre la radiografia della mia anima e la leggeva in trasparenza capendo sempre tutto. Lei si lamentava per il mal di testa e regolarmente quasi ogni ora doveva vomitare. Solo nelle mattinate si addormentò. Mi sedetti sulla poltrona che avevo portato vicino al suo letto; non mi andava di sdraiarmi accanto a lei su, quel letto dove c’era ancora il profumo da ‘nglisa.  Caddi in un sonno profondo da cui mi svegliai solo perché sentii qualcuno singhiozzare. Aprendo gli occhi vidi che era lei che piangeva, sdraiata di lato e con gli occhi chiusi. Mi alzai ed andai ad abbracciarla sul letto, dicendole di non pensarci più e di lasciar stare. “Non ho fortuna - disse tra le lacrime – tutte quelle che incontro prima o poi scappano… sono tutta sbagliata” Io l’abbracciai più forte. “Lo sai che l’altro giorno vi ho viste?” “Dove?” Chiese sorpresa “scendevate dalla macchina ed io vi ho visto. Lei era bellissima e tu con lei ancora più bella; bastava guardarvi per capire che vi amavate” “Si è visto il grande amore, appena ho girato gli occhi  lei aveva già la mano tra le cosce di una ragazza” “Si, ma in quel momento, a vedervi eravate felici, sia tu che lei che abbracciandoti, guardandoti, accarezzandoti ti riempiva di tenerezza che è l’evidenza più semplice dell’amore. La tenerezza è bellissima, è come la crema di cioccolato dei cannoli: soffice, delicata, una seta in bocca – sentii lo stomaco di lei gorgogliare – e mi sono detto che io non te l’avevo mai data e che solo quella tenerezza, quella complicità che avevate, quella felicità nascosta che bruciava dentro di voi era qualcosa di bellissimo e valeva l’eternità di in amore” Restai qualche secondo in silenzio rivedendole insieme “io sono stato geloso di Ellen…” “davvero” “si perché ti aveva reso cosi felice con così poco. Io non ti ho mai detto che, per come posso e per come so, ti voglio almeno un pochino di bene. Non è molto rispetto a quello che tu cerchi e meriti, ma ora ho capito che può essere un inizio. E se hai tanti che ti vogliono bene per quello che sei, non puoi essere sbagliata, non puoi essere sfortunata: l’amore è un seme piccolo e prezioso, testardo e determinato, ha dentro il fuoco della vita e sicuramente prima o poi germoglierà e tu troverai quello che cerchi” “anche se non sarà con te?” “perché fai delle domande serie ad un bugiardo?” Le dissi sorridendo e le diedi un bacio sulla fronte stringendola. Lei mi abbraccio appoggiando la sua fronte contro la mia tempia. Resto con gli occhi chiusi per un minuto poi senza aprirli disse sottovoce “Io ho bisogno di te. Sempre” Restammo li ascoltando il tempo passare, e lei mi raccontò tutto il casino che aveva fatto in discoteca, ed io gli raccontai la mia corsa fino al piazzale di Cristo Re, ed il mio sentirmi solo e il capire che ogni donna deve essere amata per quello che è, non per quello che qualcheduna altra era stata.  Ci venne fame, erano quasi le tre, così uscii per prendere qualcosa. Quando rientrai lei si era appena fatta una doccia ed era con l’accappatoio in bagno. “Ti ho preso un regalo” le gridai dalla cucina appoggiando i vassoi della rosticceria sul tavolo “davvero? Cos’è?” e corse raggiungendomi in cucina Le mostrai una scatola rossa a forma di cuore “Ti ricordi? È il dolce che secondo me è più adatto a te” “Ma cos’è?” Chiese aprendola Dentro c’era una sacca da pasticciere circondata da ghiaccio secco per tenerla al freddo “È la crema al cioccolato dei cannoli” dissi prendendola in mano pronto a riempire i cannoli “E le bucce? – chiede guardandosi intorno. – le hai lasciate in macchina” “No – risposi con un tono naturale – di bucce ne basta una sola” E la guardai “Sei tu – e fissandola negli occhi sorridendo aggiunsi – perché non ti spogli?” Lei mi guardò un secondo ed i suoi occhi si illuminarono come quelli di una bambina che sta per fare una monelleria, con la stessa velocità del suo battito di ciglia il suo accappatoio finì per terra. La crema al cioccolato è l’apoteosi della tenerezza e su Provvidenza aveva un sapore ancora più buono e tenero, mi penti di non aver preso due sacche di crema, in fondo la tenerezza, non basta mai.
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lilsadcactus · 6 years ago
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Non per farmi giudicare, non per farti pena, non per farmi perdonare ma per farmi conoscere. Un giorno ti dirò delle giornate passate a letto pensando che non potevo farcela e che da un momento all'altro avrei guardato le mie mani e le avrei viste scomparire come quando si spegne una candela coperta da un bicchiere. Ti dirò del suono che aveva la mia solitudine da bambina, del sapore che aveva la mia tristezza. Ti chiederò se anche tu te lo ricordi.
Forse a un certo punto ti racconterò anche di quella volta che litigai con le mie cugine e una di loro mi disse "tanto io lo dirò alla mia mamma. E tu non ce l'hai. Tu non hai nessuno a cui dirlo"; aveva ragione, i bambini hanno questa capacità che poi molti una volta cresciuti dimenticano: ti dicono la verità anche se fa male. Non avevo una mamma, non avevo un papà, non li ho mai avuti. Ho conosciuto mia madre ma è una donna come tante, una sconosciuta che per puro caso mi ha partorito una sera del 1999. A inizio dicembre, tra il 2 e il 5, neanche lei lo sa con certezza. Il mio compleanno ufficialmente è il 3 dicembre. Non poteva essere il 5, apparteneva già a mio fratello. Il 2 diceva "non me lo hanno concesso i medici" e il 4 era troppo vicino al 5. Così ha fatto scrivere sul certificato di nascita 3 dicembre 1999, niente orario. Meraviglioso il sud America.
Quando avevo 14 anni mi arrivò una richiesta di amicizia su Facebook: era mio padre. Accettai e con la spavalderia di una giovane incazzata col mondo gli scrissi qualcosa come "pezzo di merda non mi hai mai cercata o proclamata tua figlia e adesso con che faccia mi chiedi l'amicizia su Facebook?" Sono quasi sicura di avergli augurato la morte. Sono sicurissima di essermi messa a piangere. Non che mi mancasse in fondo non avevo mai conosciuto mio padre. Ma era lì adesso, l'altro genitore, lo sperma che aveva generato la ragazzina problematica che sono sempre stata era lì e mi chiamava "Mabellita". Con quale coraggio, con quale diritto si permetteva di ricordarmi che non avevo mai avuto una famiglia. Te lo racconterò così capirai perché non so mai come comportarmi con i genitori degli altri.
Quando mi chiederai perché non voglio bene a mio fratello ti racconterò delle mattine fredde in cui andavo ad aprirgli la porta di casa così da farlo entrare senza che gli zii o la nonna notasse che aveva passato la notte fuori a bere con i suoi amici. Avevo 6 anni e passavo le notti sveglia, in attesa che tornasse per mettermi una giacchetta, aprire la porta senza fare rumore, fare le scale, aprire la porta di metallo che faceva un rumore assordante se spinta in un certo modo. Poi dovevo prenderlo quasi in braccio e rifare tutto fino a metterlo a letto. Avevo 6 anni e sulle mie spalle gravava il peso di un fratello adolescente.
Lui non ha mai aperto una porta per me. Non ha mai coperto le mie cazzate adolescenziali. Non ha mai preso calci e pugni per difendermi. Io sì, sempre.
Ti dirò che l'unico ricordo felice che ho con lui sono le partite a calcio in mezzo alla strada quando avevamo 3 e 9anni. La terra che entrava nelle ferite delle ginocchia sbucciate e un pallone più spellato di noi. Ma avevamo degli amichetti con noi, quando stavamo con loro era tutto bello. Non c'entrava niente il sangue, era un amico anche lui.
Ma se ricorderò quei momenti inevitabilmente dovrò raccontarti la parte brutta di quelle partite. La parte brutta ha un nome: Marta, madre di mio padre. Ogni volta che tornavamo a casa sporchi sapevamo cosa ci aspettava. La parte brutta mi ha lasciato mille cicatrici nel corpo e nell'anima. Le mie posso anche fingere di non vederle, di averle dimenticate. Ma quando guardo mio fratello senza la maglietta e girato di schiena mi torna tutto in mente. Ricordo le cinghie della cintura e il rumore che fa la pelle che si apre e sanguina. Ricordo l'odore del sangue e il sapore di un pugno in faccia. Se non piango molto davanti alle persone è perché dai 2 ai 6 anni ho imparato che quando ti fanno del male è meglio starsene zitti, se ti sentono piangere tornano indietro e te ne fanno il triplo. La schiena di mio fratello mi urla "quella volta non mi hai difeso, stronza" e per quanto io mi dica che avevo solo 5 anni e non potevo sopraffare una donna che pareva un armadio a 3 ante la sua schiena continuerà a dirmi che sono colpevole, che dovevo difenderlo, che dovevo mettermi in mezzo prima e non dopo 6 colpi. Anche se avevo paura, anche se volevo morire per sfuggire a quei momenti: 6 colpi, 6 colpi, 6 colpi. Ho aspettato 6 colpi e la schiena di mio fratello me lo urlerà sempre. Ricordo di essere corsa a nascondermi sotto al lettone, poi c'è solo dolore. Poche lacrime. Marta che va in cucina e io che prendo il disinfettante per curare mio fratello. Lui mi tira un pugno. Col labbro rotto gli medico le ferite. Avevo 5 anni. Lui piange, Marta torna, mi urla addosso, io sto calma. Ingoio sangue per tutta la sera. Di notte vado in bagno e in silenzio prendo il rasoio, faccio brutti pensieri.
Alle elementari avevo questa amica di nome Rosa che diceva "non vado mai nei negozietti da sola" ed io non capivo perché, in fondo da noi in ogni strada ci sono tanti negozi sparsi tra le case. Nella via di mia nonna Maya ne contavo almeno 10. Avevo 6 anni e andavo da sola dove volevo quando volevo, senza paura.
Non avevo paura di niente. E in Ecuador c'era di che aver paura ad ogni angolo di strada. Eppure io con tutta la calma del mondo ero amica di un noto rapinatore che viveva dall'altra parte della città e lo andavo a trovare prendendo bus o taxi solo per giocare col suo cane. A 7 anni non avevo più paura di niente, mi dicevo che tanto ormai mi avevano fatto tanto male e di sicuro non potevano fare di peggio. Una volta nei bagni della scuola provai a tirare un pugno a un compagno che rideva di Rosa e passai le lezioni a stringere la mano che faceva male. Volevo sentire quel dolore, non avevo mai picchiato nessuno. Il giorno dopo tirai un pugno allo specchio del bagno e quando Rosa mi chiese perché rimasi in silenzio, lei andò a cercare la maestra ed io rimasta sola pensai "perché così mi esce sangue e sento qualcosa", prima che arrivasse la maestra presi un pezzo di vetro e mi tagliai il braccio per la prima volta.
Ti racconterò perché non credo nella scuola ricordando quella volta che mi aspettava il titolo di caposcuola con diploma per i voti perfetti e invece l'hanno dato a Rosa perché i suoi venivano sempre a prenderla a scuola e parlavano con le maestre mentre io mi picchiavo con tutti tranne che con lei e quando chiamavano a casa per parlare con i miei le zie dicevano che forse la settimana dopo sarebbero passate dal preside ma non passavano mai. Io le dissi che ero contenta per lei ed era vero, sapevo quanto studiava e sapevo che faceva sempre i compiti. Lo sapevo perché io non li facevo mai, chiamavo sua mamma per farmeli dire e la mattina a scuola li iniziavo di fretta. Non studiavo mai per le verifiche ma prendevo comunque ottimi voti. Lei aveva anche il padre a farle ripetizioni, già alle elementari conosceva il programma delle medie/superiori. Era intelligente e bellissima, una delle mie prime cotte era Rosa: capelli neri, occhi verdi, piena di parole gentili e timida. Le dissi che era meglio se quel titolo lo aveva lei perché io non ne sarei stata all'altezza. Era l'anno del mio ottavo compleanno.
A 9 anni mi fecero fare un'accademia militare. Odiavo mettere la divisa. Odiavo i professori. Odiavo studiare. Odiavo tutto perché non c'era più Rosa. Facevo a botte ogni giorno e tornavo a casa dallo zio che mi tirava uno schiaffo per aver fatto a botte. Ridendo andavo in camera e dormivo finché la nonna non mi diceva di mangiare qualcosa.
Mia nonna Maya cucinava per tutta la famiglia ovvero per la zia e lo zio e le due figlie, per lo zio scapolo, per me e mio fratello, per gli zii che a volte venivano a pranzo con i 3 figli, per mia cugina, per gli zii che passavano con le cugine e Alex. Quando sono andata a vivere da lei mi ha praticamente obbligato a fare colazione, quindi dai 6 ai 10 anni mi svegliavo, mi lavavo la faccia con acqua bollente perché lei la preparava così in una bacinella e poi andavo in cucina dove dovevo mangiare pane con formaggio, uovo sodo, latte o caffè nero a scelta: io prendevo sempre un caffè, ma lei ogni mattina mi diceva che ero troppo piccola, i bambini bevono latte Mabelle, non vedi le cugine? Io rispondevo caffè, per favore. Rigorosamente bollenti anche loro, tanto che metteva un'altra bacinella con acqua ghiacciata e poi ci immergeva la tazza di caffè. Mi piaceva bere il suo caffè caldo e riscaldarmi il pancino.
Ora non mangio mai al mattino perché mi da la nausea. E sono diventata allergica al caffè, almeno a quello italiano mi dico, sicuramente se torno in Ecuador mi passa. È sciocco ma ci credo veramente. Mi manca il caffè della nonna appena sveglia. Mi mancano i suoi capelli bianchi intrecciati e le sue mani rugose e il suo sorriso caldo. Mi manca tantissimo. Se c'è qualcuno che avrà sempre il mio affetto incondizionato è lei. Mi si spezza il cuore quando penso che non la vedo da 8 anni ormai e forse non la vedrò per molti altri anni dato che non ho i soldi per tornare da lei.
Adesso una paura c'è l'ho: ho paura di non fare in tempo. È una donna anziana e ha troppe preoccupazioni.
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yoursweetberry · 4 years ago
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Avrei voluto continuare a parlare solo che lo percepivo che volevi andassi via perché già erano venute troppe persone..
Volevo dirti che riguardo la faccenda della terapia, non ho ben capito da cosa tu abbia dedotto che dove andassi io fosse così diverso da dove va Sara, specie se con lei ne hai parlato e ti ha spiegato cosa fa o non fa e a me invece non hai mai chiesto nulla di cosa facessi quando ci andavo, ti ho detto pochissime cose io da sola random ma non ho mai parlato nemmeno su che cosa stessimo lavorando. Come fai a sapere e fare un paragone? Perchè vedi che Sara sta bene/meglio e io no? Forse perché siamo due persone diverse con storie e vite diverse? Non è una polemica davvero è solo una riflessione che magari dovresti fare se lo deduci semplicemente dal “risultato”.
Non abbiamo avuto modo di parlarne nemmeno più perché hai smesso di parlarmi ma io in terapia con questa dottoressa sono riuscita ad elaborare il trauma che ho subito con l’allontanamento dalla mia migliore amica, perché si anche se non tutti possono capire e sembra che ci sia sempre qualcosa di peggio che può accadere nella vita, non è sempre così semplice, non si decide quanto e che cosa può farti male tanto da cambiare qualcosa dentro di te e sconvolgerti. La prima cosa che TUTTI dovremmo imparare è che ogni dolore va sempre rispettato. Non esistono motivazioni più valide di altre per stare male. Esistono le persone, diverse tra loro, che vivono le emozioni e i dolori in modo personale e nessuno ha il permesso o il potere di decidere quali siano valide e quali non abbastanza per un dolore. Ancora peggio se poi uno questa cosa la fa a se stesso non rispettando nemmeno il proprio dolore opprimendolo, perché non serve anzi resta esattamente lì e piuttosto poi diventa frustrazione che sfocia in altre cose, ma un posto sempre lo trova. Sempre. Non può sparire.
Io volevo liberarmene di quel dolore, di quella rabbia, di tutte quelle emozioni che mi facevano vivere male in tutto e chiedevo a lei come dovevo fare a “non provare più niente” per quella cosa e per quella persona.. “cosa devo fare? voglio liberarmene voglio che mi sia indifferente” questo chiedevo sempre.
Lei mi ha spiegato che quelle emozioni non possono essere eliminate io non posso fare qualcosa per non provare niente, ma che potevo fare qualcosa per capirle, starci un po’ insieme e farmi delle domande diverse, guardarle un po’ da ogni lato e non uno soltanto, per riconoscerle e poi accettarle.
Perchè non si cancelleranno mai, ma quando le accetti non fanno più male come prima.
Lei mi ha indicato delle strade da percorrere per guardare me, per guardare quelle emozioni, alcune le ho percorse in quella stanza con lei e mentre parlavo mi accompagnava con delle cose che inizialmente non capivo e poi ho capito..
Ho elaborato questo mio trauma (perchè anche se ti sembra assurdo è così che si chiama) una notte nel mio letto mentre rileggevo dei messaggi con Carmen che avevo letto un milione di volte ma mai come quella volta. In un momento mi è salito non ti so spiegare che cosa ho cominciato a piangere in un modo in cui mai avevo pianto (non te lo so descrivere) poi all fine ho comiciato a respirare stanca come se fossi uscita da sotto a delle macerie, mi sono sentita come in quei film apocalittici dove è scoppiata un’enorme bomba che distrugge tutto e poi quando tutti i frastuoni sono finiti e regna il silenzio più totale compare l’attore tutto zoppo, con la faccia sfregiata e i vestiti strappati che cammina in mezzo a quella terra distrutta ma lui è sopravvissuto. Uguale. Mi sono sentita così esattamente.
Da quel momento quando penso a Carmen non sono più piena di rabbia, non mi condiziona l’umore più allo stesso modo. Le cose che mi sono state fatte restano, il mio dolore, il mio dispiacere e la mia delusione per quelle cose resta perché non si cambia, io non posso cambiare, sono solo state spostate in un altro posto dentro di me. Ho capito chi sono io, ho capito chi c’era dall’altro lato, ho capito cosa non farò mai io, come non sarò mai io, nel bene e nel male e ho capito meglio anche lei anche in ciò che non condivido, ma questo non vuol dire riavvicinarmi, vuol dire solo capire e accettare ma DENTRO ME, non insieme a lei perché ho anche capito che le cose non sarebbero mai potute andare in un altro modo e saremmo ricadute nelle stesse medesime cose sempre. Ho accettato semplicemente quello che è accaduto grazie agli “esercizi” che si mi faceva fare anche lei... che facevo lì e a casa. Insieme anche ad altri per altre cose... che magari boh poi se mi va ti scrivo in un altro momento già ho fatto un papiro con questo.
Ma ti assicuro che ho fatto di tutto per capire cosa “avessi” e mi dispiace se per forza ci si aspettava che avessi un disturbo mentale da risolvere ma purtroppo non ce l’ho. Sono una persona poco comune per il mio tratto della personalità.. ma una persona come me ha bisogno solo di essere accettata per quella che è. E non sentendomi così mai nella mia vita, per una persona come me può essere molto doloroso e complicato da sopportare e per quanto si impegni a fare tutti gli esercizi di questo mondo, alcune cose non te le riesci a dare da sola e quel dolore che provo mi porta alla depressione, se invece lo reprimo diventa ansia, attacchi di panico o in altri casi malattie psicosomatiche. Quello di cui ho bisogno non posso comprarlo a 60€ l’ora.
Il paragone è forte ma rende l’idea: è come per chi ha bisogno di fare sesso e paga una prostituta. Si hai fatto sesso ma è uguale a farlo con una persona che ti ricambia veramente e ha veramente voglia di farlo con te? Perchè devo pagare per essere capita e accettata e apprezzata per ciò che sono? perchè è questo il bisogno più grande che ho, è sentirmi al posto giusto e non un extraterrestre che mi manca, è questo che non ho, è questo che mi fa male, e faccio già tutto il possibile per me stessa e con gli altri ma non basta mai, io non basto mai. È solo questo.. non ho nient’altro per davvero.
È vero, è un po’ complicato stare attenti a cosa mi può far dispiacere facilmente o a cosa può far andare facilmente in sovraccarico la mia mente per come sono, ma non a tutti si può far felici con le “cavolate” che fanno felice me e che noto sempre e che MAI do per scontato, possa essere anche solo un arcobaleno nel cielo, non tutti ridono e saltellano di felicità per la più piccola cazzata come che ne so poterti raccontare di una stupida scrivania che sto costruendo.. o magari non tutti stanno lì a preoccuparsi o farsi in 8 per gli altri o per le persone che amano senza riserve nel modo in cui sento di fare io con tutto il mio cuore... magari non tutti hanno l’empatia che ho io verso gli altri..
ma è sempre più facile quando si tratta di me di guardare la parte “negativa” per potersi allontanare
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giangig-blog · 8 years ago
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Tutte le donne sono pazze (Capitolo 7 Laura)
Era una sera di Giugno. Ero stanco morto, avevo lavorato tutto il giorno nel mio locale e nei momenti liberi scrivevo i miei racconti. Era quasi l'ora di chiusura e mi ero rotto le palle di stare lì, quando mi arrivò un'email.
Era un messaggio di una casa editrice di Milano. Avrebbero pubblicato i miei racconti.
Cazzo ero strafelice! Avevo una chance di diventare ciò che desideravo.
Di scappare dallo schifo che avevo in testa.
Stavo sistemando il bancone per chiudere, quando qualcuno entrò in negozio.
"Scusa stai chiudendo?"
"No entra pure" alzai lo sguardo, era una ragazza. Cazzo che figa!
Aveva lunghi capelli neri sciolti, occhi azzuro scuro, viso allungato con espressione porca e piercing al naso. Indossava una canotta bianca scollata che non lasciava niente all'imaginazione, pantaloncini di jeans a vita alta che le scoprivano le cosce. Un gran bel fisico. Aveava anche il braccio sinistro completamente tatuato a colori con farfalle e fiori. Le ragazze tatuate mi hanno sempre arrapato.
Ci misi un po' per chiudere la bocca che si era aperta dallo stupore. Somigliava in un certo senso a Megan Fox in Transformers. Quanto me la sbatterei Megan Fox. Avevo il suo poster  appeso in camera mia. Appena mi svegliavo vedevo la fotografia di quella bellezza che mi fissava con uno sguardo porco. Ogni mattina me lo faceva venire duro.
"Volevo solo un panino ed una birra, ho fatto tardi a lavoro e non ho niente da mangiare a casa..." sorrise dolcemente.
"Non ti preoccupare te lo preparo subito".
Le preparai il suo panino.
"Quanto ti devo?" chiese con il portafoglio in mano.
"Oh...niente, offro io stasera! Ho ricevuto una bella notizia e voglio fare del bene"
Non sapete quanti soldi ho perso offrendo alle belle ragazze.
"Oh davvero? Grazie mille! Che bella notizia hai avuto?"
"Forse riuscirò ad esaudire un mio grande sogno!" dissi con un sorriso beffardo, tipico delle persone che ce l'hanno fatta.
"Sono contenta per te! Grazie ancora!" prese le sue cose e sorridendo fece per andare.
Si girò e le guardai il culo...cazzo che culo!
"Scusa..." la fermai prima che uscisse "se vuoi posso farti compagnia cenando insieme. Devo mangiare anche io...sempre se non ti dispiace..."
Mi guardò titubante. L'espressione era di una che pensa "che cazzo vuole quersto qui?", ma poi disse: "Si certo! Tanto sono solo a casa...comunque piacere Laura".
Mi preparai un panino anche io e ci sedemmo a mangiare.
Cenammo e parlammo. Laura aveva un paio d'anni in più di me, lavorava come commessa in un negozio di vestiti prodotti in Bangladesh al centro commerciale.
Faceva turni assurdi, ma la pagavano bene. Mi chiese dei miei racconti, anche a lei piaceva scrivere e tra l'altro suonava la batteria.
Una batterista tatuata è la cosa più eccitante che ci possa essere.
Mi stavo trovando bene e anche lei sembrava apprezzare la mia compagnia.
Finimmo di mangiare e continuammo a parlare di sogni, musica e problemi della vita.
Ad un certo punto della serata le dissi: "Mi piacerebbe sentirti suonare"
Lei arrossì:"Non abito lontano da quì, ho anche una chitarra, era del mio ex...potremmo suonare qualcosa insieme?" accettai il suo invito immediatamente.
Chiusi il locale e ci dirigemmo verso casa sua.
Abitava in un terratetto piccolino, ci saranno state due stanze e un bagno e il pavimento era pieno di vestiti e scarpe buttati alla rinfusa.
"Scusa il casino, ma non ho mai tempo di pulire"
Mi portò in quella che era la sua camera, anche lì un casino assurdo. Notai che per terra c'era un dildo rosa davvero grosso, doveva darsi da fare la ragazza. Lo notò anche lei e gli tirò un calcio mandandolo sotto il letto. Mi piaceva già.
Si mise alla batteria e mi diede la chitarra. Improvvisammo qualche pezzo rock. Dopo un po' che suonavamo, Laura disse: "Beh che dici di fare un po' di sesso ora?"
Rimasi sorpreso e balbettai un sì. Quando capitano occasioni come queste è meglio coglierle al volo.
Posai la chitarra, lei si mise sopra di me e ci sdraiammo sul letto. Pomiciammo e notai che aveva un piercing sulla lingua. Era strano, non ero mai stato con una che aveva un pezzo di metallo in bocca e pensai "figurati se me lo ciuccia...".
Le tolsi la canotta e le tette uscirono fuori, aveva dei piercing anche sui capezzoli. Doveva piacerle il dolore, allora gliene mordicchiai uno. Lei tirò indietro la testa e gemette. Ero quasi spaventato.
Decisi di prendere il controllo della situazione, la rigirai sul letto e le tolsi i pantaloncini di jeans.
Le leccai le cosce avvicinandomi alle mutandine, gliele sfilai con i denti e...sorpresa! Avava un piercing anche lì.
"Non ti ha fatto male farlo?" le chiesi incuriositò.
"Da morire" rispose "Ma ora zitto e lecca".
Eseguii i suoi ordini. Mi teneva la testa per i capelli spingendomi sulla sua fica, quasi non respiravo, ma continuavo interperrito il mio lavoro.
Ad un certo punto mi scansò, si mise due dita dentro e venne estasiata. Si infilò le dita in bocca degustandole. Mi stava seriamente spaventando, ma anche tremendamente eccitando.
Mi spinse sul materasso e iniziò a ciucciarmi l'uccello.
Porca troia mi sbagliavo! Il piercing sulla lingua dava un effetto piacevolissimo.
Me lo succhiò per un po', poi salì sopra di me e se lo mise dentro.
Cavalcava come in un rodeo e tirava degli urli che l'avrebbero sentita anche sulla luna.
Capì che dovevo tenerle testa. La rigirai e la misi a pecorina.
Glielo buttai dentro più forte che potessi e lei continuò ad urlare.
Mi dissi tra me e me: "Mah si uno schiaffo sul culo glielo tiro".
Poteva piacerle, ma ero spaventato. Presi coraggio e intimorito glielo tirai.
"Si bravo più forte!" esclamò.
Continuai a scoparla e a tirarle schiaffi sul culo.
Ad un certo punto mise la mano sotto il letto e tirò fuori il dildo che aveva nascosto.
Me lo diedi e disse: "Mettimelo dentro!"
"Dentro cosa?" chiesi perplesso.
"Nel buco del culo idiota e continua a scoparmi" Ero completamente terrorizzato.
Feci come voleva lei, non sapendo neanche come fare. Ero schifato, ma le infilai quel coso e continuai a pompare.
Finalmente dovetti venire. Non sapevo se avvertirla o no.
Timidamente dissi:"Devo venire...".
"Aspetta!" esclamò lei.
Si rigirò, mi stese sul letto e me lo risprese in mano "Voglio che mi vieni in bocca" e cominciò a risucchiarlo.
Venni prepotentemente nella sua gola e lei ingoiò tutto.
Non sapevo se essere felice della bella scopata o terrorizzato da lei.
Si alzò dal letto e si accese una sigaretta.
"E' meglio che vada" dissi prendendo i miei vestiti.
"Puoi rimanere quanto vuoi" rispose Laura.
"Domattina apro presto, è meglio che vada a letto"
"Okey...aspetta ti salvo il mio numero sul cellulare, così ci rivediamo"
"Certo" dissi con una nota di paura.
Più una cosa terrorizza e più attrae, è risaputo.
Un paio di sere dopo scrissi a Laura e le chiesi se voleva vedermi.
Lei rispose "Certo tesoro, però c'è una cosa che non ti ho detto, sono fidanzata...ma mi piaci veramente e voglio rivederti...vieni da me stasera?"
Che fosse già impegnata tanto meglio. Essere un amante è più pratico che essere un fidanzato. Implica molte meno responsabilità e quella dose di eccitazione in più nell'essere scoperti.
Presi coraggio e andai a casa sua.
Laura mi offrì una birra e dopo un paio di sorsi mi chiese: "Scopiamo?"
Ci spogliammo e iniziammo le danze.
Lei era la solita porca sadica della sera prima e mi ci stavo quasi abituando.
Nella foga del sesso sentii qualcuno urlare: "LAURA! CHE CAZZO FAI?"
Mi girai di scatto e di fronte al letto c'era una ragazza con i capelli corti tinti di blu e un gilett con le borchie.
Mi coprì con il lenzuolo imbarazzato come una puttana che viene scoperta a scopare dalla moglie del cliente di turno.
Vidi il viso di Laura sbiancare. Quella ragazza doveva essere la sua coinquilina o un'amica pensai.
Glielo chiesi: "E' una tua amica?"
"No...è la mia ragazza..."
"La tua ragazza?!?" le chiesi stupito.
"Si te l'avevo detto di essere fidanzata" replicò.
"Si ma non mi hai detto che stavi con una donna"
"Che c'entra...sono bisex"
In che cazzo di situazione mi ero cacciato.
"Chi cazzo è questo?" disse la ragazza con il gilet.
Ero terrorizzato, mi avevano detto che le lesbiche picchiano forte.
Laura si alzò tutta nuda e le andò incontro, la baciò e le disse: "L'ho portato per noi tesoro, hai sempre detto che ti sarebbe piaciuto vedermi scopare con un uomo...lo stavo solo scaldando..."
Sgranai gli occhi.
La ragazza con i capelli blu mi guardava dubbiosa. L'altra tutta nuda mi fece un occhiolino e io finsi un sorriso a bocca chiusa.
"Non potevi sceglierlo meglio?" chiese la lesbica. Mi sentii quasi offeso.
"Okey...facciamolo" proseguì lei.
Laura si avvicinò a me.
"Lei ci vuole soltanto guardare. Al massimo si tocca un po', ma non ti devi preoccupare"
Cosa cazzo stava succedendo?! Fissavo alternando entrambe le ragazze con sguardi stupiti.
La ragazza tatuata me lo prese in bocca e la compagna si mise a sedere guardandoci vogliosa.
Le feci un saluto con la mano imbarazzato dal momento.
Ad un certo punto disse: "Ora tu ragazzino leccagliela".
Guardai Laura.
"Fai come ti dice"
Mi avvicinai alla sua fica e gliela leccai, entrambe le ragazze stavano godendo.
Tutto stava procendendo, era strano, ma stava procedendo. Finchè non sentii qualcosa che provava ad entrare nel mio di dietro.
Mi girai di scatto e vidi la ragazza con i capelli corti con il dildo rosa in mano.
"Ehi che cazzo ti salta in mente!! Tieni quel coso lontano dal mio culo!" sbraitai.
"Non potevi sceglierlo meglio?" ridisse la lesbica a Laura.
Mi alzai e presi i miei vestiti: "Mi dispiace, tu sei una gran fica, ma non ce la faccio a fare certe cose!" Uscii dalla stanza. Laura mi urlò dietro "Chiamami tesoro!" l'altra rimase con quell'affare in mano.
"Voi siete pazze!" dissi mentre me ne andavo.
Tutte io le trovo le malate di mente! Accidenti a me!
Fanculo la vita e vaffanculo a me!!
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nuqa-blog · 8 years ago
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Gennaio - Carrellata di sogni spaventosi degli ultimi tempi
- Mi trovavo in una stanza piena di scaffali colmi di dolci e mangiavo dei Ferrero Rocher in maniera compulsiva, uno dietro l'altro. Non riuscivo a smettere, li infilavo in bocca con foga e nonostante non volessi mangiarli non riuscivo a fermarmi. Mi sentivo male
- Andavo in vacanza in Sardegna con due amici a fare escursionismo e mi lasciavano sola su un monte disperso chissà dove. In cima c'è un baretto con una barista sui 45, curata e truccata in modo appariscente e un po' volgare, molto affettuosa e gentile. Mi sedevo ad un tavolino fuori, con le sedie di plastica ingiallite dal tempo e dal sole. Mi sento sola e abbandonata. Devo capire come tornare a casa
- Giravo in un grande edificio in cui una donna sui 40+ stava mostrando a me e ad un gruppo di persone le loro ricerche scientifiche del loro istituto. Lei aveva progettato una sorta di tuta spaziale meccanica che sembrava uscita da un cartone animato degli anni 70, una armatura tipo Mazinga. Tutti la ammiravano per come riusciva a coiniugare una brillante carriera e la vita privata. Mi sentivo una nullità al confronto
- Dovevo imparare a suonare la batteria ma non ne ero capace. Cercavo delle scuse per non farlo, fino a che l'insegnante arrivava davanti a me e mi chiedeva di tenere un certo tempo come prova del mio apprendimento. Io non ce la facevo
- Pulivo la lettiera del gatto. Più sabbia sporca toglievo, e più ce n'era. Continuavo a scavare, scavare, scavare con la paletta ma la sabbietta sporca di escrementi non terminava, arrivavo a scavare fin sotto al pavimento, come se la lettiera si aprisse su una buca sottoterra
- In casa, cercavo un barattolo di burro d'arachidi. Era importante, dovevo trovarlo. Ogni tanto mi giravo e lo vedevo in qualche angolo. Dietro al pc, sopra una mensola, sul lavandino. Quando mi avvicinavo per prenderlo quello di colpo scompariva, e riappariva più tardi in qualche altro posto
- Ero su una nave in burrasca. Mi trovavo sotto coperta ed ero sbalzata violentemente da un lato all'altro della stanza. Oscillava tutto così forte che non capivo più dov'era la verticale e l'orizzontale. Gli oggetti cadevano dappertutto, mi aggrappavo ai mobili cercando di non venire lanciata contro le pareti. Prendo in mano degli oggetti, li sollevo a mezz'aria e li lascio cadere per cercare di capire dov'è la verticale con la forza di gravità. Ero come un gatto in una scatola che viene agitata. La nave fa una virata netta e improvvisa, capisco che stanno cercando di resistere alla burrasca, penso a cosa ci possa essere lì fuori e ho paura. Durante la notte emergevo dal sogno e tornavo nel dormiveglia. Stavo oscillando nel letto, mi agitavo. Poi tornavo dentro al sogno, sulla nave. Mi sono anche chiesta se per caso ci fosse il terremoto
- Mi sollevo la maglia per scoprire il fianco. Il torso è lacerato come da una enorme ferita, uno squarcio. Dentro all'apertura potevo vedere che all'interno ero fatta di un geode viola. Un ametista. Avevo i cristalli al posto della carne che si vedevano dallo squarcio
- Del sogno di stanotte ho solo delle immagini. Ero nel collegio, all'interno, che aveva la struttura e l'aspetto di un albergo. succedevano cose inquietanti, come nell'hotel di Shining. Per esempio ero davanti ad un grande specchio. Avevo un bikini nero e sopra un prendisole, uno di quei vestitoni larghi e leggeri che si indossano d'estate. Mi guardo davanti, mi sta bene, è ok, sono normale. pPoi mi giro di fianco e il mio profilo è gonfio. Non intendo dire che la silhouette è un po' abbondante, intendo dire che ho il seno grosso e ipertrofico, la pancia abnorme più di una donna incinta. Di profilo sembro una di quelle statuette preistoriche della fertilità. Ero spaventata. Poi improvvisamente avevo i capelli lunghi fin sotto ai fianchi, e una donna me li tagliava. Un'altra donna mi radeva le gambe e io non volevo. Glielo dicevo ma lei lo faceva lo stesso. Non avevo il controllo su di me, mi imbarazzava che lo facesse un'altra, e lo percepivo come una cosa pericolosa per me
- Delle persone andavano in un campo di concentramento e vivevano come i deportati della seconda guerra mondiale per un mese. Lo scopo era un esperimento psicologico, o un documentario, e altre persone cercavano di fare profitto su di loro cercando di vendendorgli oggetti che potevano aiutare la loro sofferenza durante la permanenza nel campo di concentramento
- Andavo in bici. Anche un mio amico andava in bici sullo stesso tragitto. Io gli ripetevo che è meglio andare piano anziché veloci. In realtà non riuscivo bene a stargli dietro, pedalavo con paura
- In un edificio con altre ragazze. E' una sorta di collegio. Sentiamo delle urla dall'esterno e accorriamo in balcone. Su uno degli altri balconi c'è una ragazza che si vuole suicidare. E' in piedi sulla ringhiera, in camicia da notte, rivolta verso l'esterno. E' ferma immobile e non parla, non reagisce. Il suicidio viene sventato. Dopo qualche tempo scatta l'allarme antincendio. Stiamo per evacuare dalle scale d'emergenza ma non possiamo perché sono piene di fumo. Andiamo in balcone e vediamo un'altra ragazza che si vuole suicidare. E' anche lei sul balcone come la prima, ma stavolta ha appiccato un fuoco nella sua stanza. Le altre ragazze accorrono scavalcando di balcone in balcone per arrivare da lei, e anche io provo a seguirle ma sono troppo stanca per andare da lei a salvarla, sono senza forze, e mi fermo a metà  
- Sono su un treno con le ragazze del collegio. Una di loro che ha nascosto della droga, o non l'ha pagata, o l'ha rubata, fatto sta che i proprietari di questo sacchettino di droga mi prendono, mi portano in una carrozza vuota e mi stuprano in gruppo per vendetta. Io non sembro solo shock, ma comincio col tempo a montare dentro rabbia e desiderio di vendetta. Una volta tornate, nel parco dietro il collegio, dove c'è un fazzoletto di terra incolta e secca, inizio a camminare avanti e indietro. Dò qualche calcio a dei sassolini. Prendo a camminare più veloce, con più rabbia, e dare calci sempre più forti e violenti
- Ho la casa piena di oggetti e cose. Più sportelli apro, più ne trovo. Cose che avevo dimenticato da chissà quanto. Confezioni, barattoli, pacchetti di cibo anche scaduti. E lì dentro trovo degli animali che avevo preso tempo fa, e che avevo scelto per tenere con me. Della minuscole tartarughe, dei minuscoli cuccioli di lupo, una biscia e un cucciolo di tigre. Sono denutriti e disidratati. Cerco di farli riprendere  
- Devo prendere l'aereo. Al momento di salire sento lo stuart che parla con una passeggera dell'incidente della settimana scorsa: un aereo è caduto in mare. Mi viene in attacco di panico e prendo uno xanax. Le persone mi vedono agitata ma io li tranquillizzo dicendo che va tutto bene, è tutto sotto controllo. In realtà sono terrorizzata
- Torno dove ho parcheggiato l'auto. Un automobilista è si vendicato con me e mi ha rigato tutta la carrozzeria. A dire il vero ha quasi distrutto tutta la fiancata come se l'avesse presa a calci, o l'avesse urtata con la propria auto
- Sono su volo aereo con atterraggio di emergenza in un posto tipo l'Havana. Durante il tempo di permanenza a terra, prima di ripartire per la destinazione, alcuni passeggeri decidono di fuggire per scomparire e non farsi più trovare. Io li vedrò e segnalerò il tutto al personale di bordo, che però è troppo impegnato per lo stato di emergenza del velivolo. Arrivati a destinazione, a distanza di tempo, vedo uno dei passeggeri fuggiti. Lo fermo, cerco di interrogarlo, di farmi dire dove sono gli altri, ma lui non collabora. Lo porto da chi può investigare a riguardo per ritrovare gli scomparsi, che non riusciranno ad essere ritrovati
- Torno dai miei. Loro sono tutti felici perché stanno partendo per una vacanza e mi lasciano da sola. Io ho disturbi alimentari (tipo bulimia). Mio nonno (quello che è morto anni fa) è in una casa di cura, a metà tra l'ospizio e l'ospedale psichiatrico. E' in condizioni pessime. Adesso è la carcassa dell'uomo che era una volta, sia fisicamente che psicologicamente. Passo il tempo girando da sola per le colline. E' tutto vuoto. Io, la campagna, mio nonno. Passo il tempo a sentirmi triste, e a visitare mio nonno. Fra poche settimane lo dimetteranno. Non vedo l'ora che tornino i miei, anche se so che non succederà niente di significativo. Il futuro è privo di speranze.
- Sono a Milano con delle ex compagne dell'università. Stiamo passeggiando davanti ai negozi e loro sono tutte allegre e gioviali, frivole e divertite. Guarda che belle scarpe rosse! E i gioielli di Cartier! esclamano tirandomi per il braccio e correndo verso le vetrine. Io so che le scarpe non mi entreranno, e l'oro non mi piace. Le accompagno lo stesso in questo shopping folle. La sera cambio compagnia: verso l'ora di aperitivo mi vedo con un amico, una persona modaiola alternativa (skater) e con un grande ego. Mi ha portato in questo posto di giovani altrettanto modaioli alternativi quanto lui. Sta parlando con un altro modaiolo alternativo di cose che non mi interessano: suonare ai concerti, fare questo o quello. Io, seduta lì di fianco, mi disinteresso e fumo. La mia sigaretta è decorata, è avvolta da un tralcio di rosa rampicante con le spine sul fusto. C'è anche una piccola rosa di ceramica, di un color rosa pallido, là sopra al filtro della sigaretta. Mentre fumo la sigaretta mi cade dalle mani. La raccolgo e, alzando lo sguardo, noto che TUTTI i ragazzi presenti mi stanno fissando minacciosamente. Sanno che non sono una di loro, come in un gruppo tribale. Per incutermi timore tamburellano le dita su oggetti, sul cemento, sulle ginocchia. Sono seduti sui muretti, le sedie e i gradini attorno a me e mi guardano in silenzio come gli uccelli di Hitchcock. D'improvviso scattano le sette di sera. Il gruppo si scioglie istantaneamente e tutti se ne vanno. Chiedo al mio amico dove sono finiti, lui risponde che sono a casa. minacciosi per quanto sono, abitano ancora coi genitori, sono dei ragazzini, e le sette è l'ora di cena con la famiglia
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benvengailcaooos · 4 years ago
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Avevo 21 anni ed ero una preda facile.
Sono partita con una valigia piccola come le mie ambizioni, e sono andata a Londra. In giro c’era ancora il COVID 19, ho dovuto prenotare 2 test da fare e poi avrei fatto la quarantena a casa di mia sorella, il rispettivo compagno Marco e mio nipote Leo.
Avevo 21 anni ed ero vulnerabile.
Quei 10 giorni in casa non erano niente in confronto ai 30 fatti a Milano, però respiravo la sofferenza di mia sorella e Marco, alleggerita dalle risate e dalla vivacità di Leo. Era lui che mi dava la forza, perché ci capivamo solo guardandoci, perché ridevamo tanto, giocavamo, e quando diceva il mio nome o allungava le braccia per farsi prendere... Mi scioglievo.
Avevo 21 anni, ed ero impacciata.
In aereo porto con la mascherina e la tachicardia mi sentivo svenire, dovevo passare i controlli, avevo paura, ma li volevo passare, nella testa una sola frase “ma sarò nella fila giusta?”, non capivo, mi guardavo intorno, camminavo come camminano i criminali, non mi sono mai sentita nel posto giusto, ma perennemente come se stessi scappando da qualcosa, o da qualcuno, o peggio: da me stessa.
Avevo 21 anni e non sapevo l’inglese.
Domande, domande, domande, il poliziotto di colore mi guardava con gli occhi stanchi di chi controllava passaporti da tutto il giorno, e io che mi bloccavo, come alle interrogazioni, in cui mi sudavano le mani, mi faceva male la pancia e avevo il vuoto nella testa. Ma ce l’ho fatta anche questa volta, ho superato quel confine, stanca per il viaggio, per non aver dormito la notte prima, e per essermi sentita umiliata, un’altra volta.
Avevo 21 anni ed ero pazza.
Certe sere a Londra, mi annoiavo davvero, andavano tutti a letto presto e io avevo una voragine nel petto. E io volevo vivere. Se scendevo le scale mi sarei trovata subito nella cucina del ristorante in cui lavora Marco e in cui ha lavorato mia sorella per tanti anni.
La conoscevo bene quella cucina, ma soprattutto mi ricordavo le espressioni di chi ci aveva lavorato, la stanchezza. Persone che non hanno scelta, persone senza un permesso di soggiorno, che sono scappate dal loro paese per poter sopravvivere, e persone che sono scappate da quella cucina, in cerca di un futuro migliore.
Una sera sono scesa, cercavo qualcuno con cui parlare, prima di uscire avevo bevuto qualche bicchiere di vino, mi vergognavo, si è una vita che mi vergogno.
Ma sono scesa, con la faccia sorridente e qualche sigaretta in tasca, sono andata nel corridoio dove fumavano tutti e mi sono accesa una sigaretta, poi un’altra e un’altra ancora. Finché non è arrivato qualcuno. Un ragazzo che non avevo mai visto. “Ao Ma che sei la sorella de Aurora?” Davide. 30 anni, ha perso il padre quando era piccolo, ha un cuore enorme ma non si sa per quale motivo se torna in Italia rischia di essere arrestato.
Mi sono bevuta qualche birra e sono rimasta a parlare e a ridere con tutti. In quei rari momenti mi sento così bene che vorrei urlare, con quella gente lì, che ha vissuto, che lavora, che si spacca la schiena, e che non ha il tempo per problemi inutili.
Avevo 21 anni e dovevo scegliere.
“Bianca Tino ha bisogno , tra una settimana vuoi iniziare a lavorare?”
Era una mattina qualsiasi, e mia sorella mi aveva fatto questa domanda prima del caffè.
Avevo paura. Avevo paura perché avevo dei precedenti. I miei precedenti erano: inaffidabile, assenteista , maldestra, senza senso pratico...
“Ehm.. Posso provare”
Dovevo parlare con Tino, il capo. Mi tremavano le ginocchia. Non ho mai voluto lavorare per davvero, mi è piovuta la proposta dal cielo, e sapevo quanto fosse difficile e faticoso, non mi sentivo pronta. Ma quando sarei stata pronta?
Avevo 21 anni ed ero emotivamente instabile.
Piangevo. Mi ricordo soltanto che piangevo, lacrime di inadeguatezza, lacrime di insoddisfazione, di autocommiserazione. Io mi stavo impegnando, cercavo di correre da una parte all’altra per aiutare tutti, cercavo di imparare il più possibile, di osservare ogni gesto per poterlo rifare, ma non c’era tempo, non c’era abbastanza tempo per poter imparare, o per poter realizzare. La mia comfort zone era stare dietro al bancone e asciugare i bicchieri, ne asciugavo tantissimi, poi piegavo le posate nei tovaglioli, apparecchiavo e sparecchiavo i tavoli, e avevo già iniziato a prendere gli ordini e a portare i piatti. Sono andata in crisi quando ho rotto un bicchiere, o quando non riuscivo a fare il cappuccino. Si il cappuccino era davvero un ostacolo. Me lo facevano vedere mille volte, e io non riuscivo a farlo.
Andavo in pizzeria e piangevo, o si, in quello sono sempre stata brava, piango da sempre.
Avevo 21 anni ed ero sola.
Pausa dal lavoro, era stata una mattinata impossibile, avevo scritto a mia sorella per avere un po’ di sollievo, un abbraccio, una rassicurazione. Ma il tempo delle carezze era finito. Dovevo farcela da sola. E non volevo.
“Non gira tutto in torno a te”
“La vita non è facile”
“Devi farcela da sola”
“Non fare la vittima”
“Non ho tempo per te.”
Era tutto vero, non c’era più tempo per lamentarsi. Ma io stavo esplodendo.
Correre.
Mi ricordo che ero incazzata, mi sentivo presa per il culo dall’universo, tutto mi faceva venire voglia di sparire nel nulla.
Non volevo più niente, o nessuno. Non credevo più nel bene, non capivo cosa ci fosse di sbagliato in me, o negli altri, o nel mondo.
Ho spento il telefono, e sono stata tutto il giorno in giro a camminare. Sono sempre stata brava a scappare, ho le gambe forti, le ho sempre avute, e ho il passo veloce , perfetto per fuggire.
Camminavo e piangevo, piangevo e camminavo. Avrei voluto morire. Veramente.
Avevo 21 anni ed ero ubriaca.
Avevo fatto spaventare tutti, mille chiamate perse, mille messaggi. È che a volte chi si sente invisibile ha bisogno di fare delle prove per vedere se è veramente così .
Ma non era giustificabile , non più.
“Bianca ho bisogno di prendere le distanze, quando mi sentirò pronta potremo parlare.”
“Ti capisco prenditi tutto il tempo che ti serve”
Mia sorella. Persino mia sorella aveva bisogno di allontanarsi da me. Faceva male, così male.
Quella sera ho conosciuto Dario, di Olbia, lavorava giù, ha due anni in più di me e rideva così forte che ti faceva venire voglia di non pensare più a niente.
Veniva nella mia cucina, portava tante birre, bevevamo e quella sembrava la soluzione.
Il giorno dopo gli ho aperto la porta e senza dirmi niente mi ha preso la faccia e mi ha baciata. “Scusami è che è dal primo giorno che ti ho vista che volevo farlo.”
Avevo 21 anni e avevo il cuore chiuso.
Passavano le serate, tra birre, alcol, poco cibo e tanta apatia.
E poi ... poi è tornato Enrico.
“Ciao che fai? Vorrei parlarti”
Non è facile parlare di Enrico, ci sono alcune cose che non si possono spiegare a parole.
Inspiegabile, ma con lui è stato tutto diverso.
Restavamo le ore occhi negli occhi, in silenzio, senza bisogno di parlare. E poi ci addormentavamo attorcigliati l’uno nell’altra . E lui mi diceva “Non capisco perché sto così bene con te? Sarà il karma” “in che senso?” “Che sono stato così stronzo con le persone in passato e ora è arrivato il momento che devo soffrire io.”
Non so se è il karma, so che dovevamo succedere, non mi interessava la durata ma l’intensità .
Però ho 21 anni, e ho il cuore chiuso, c’è qualcosa che mi incatena, che mi spaventa, che mi ossessiona.
Quando smetterò di scappare?
Quando smetterò di sbagliare?
Spero mai!
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pangeanews · 7 years ago
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“Sono tutte stronza@@ quelle dei giornali super partes!”: Alessandro Sallusti dialoga con Matteo Fais di giornalismo, Montanelli, Travaglio, Feltri, Berlusconi…
Parlandogli, ho come la sensazione di conoscerlo da sempre. Ma è solo dopo, ripensandoci, che comprendo: in realtà lo frequento a sua insaputa da anni, da che lo leggo sui fondi di “Il Giornale” e “Libero”. Ho studiato la sua prosa, le sue frasi, i punti e le virgole. Non so se se ne renda conto, ma c’è un qualcosa di intimo e bonario nel modo in cui mi si rivolge, un senso di comprensione paterna. Per una volta penso che sia bello entrare in contatto con uno dei propri miti, “di solito sempre deludenti” dice lui. Non è questo il caso. L’uomo che si definisce noioso, chiuso, poco propenso al contatto e per niente brillante come nei suoi scritti, ha invece in sé una forza inscalfibile che manifesta con compostezza e insolita umiltà. Come spesso mi capita quando incontro qualcuno che, pur senza averlo fatto intenzionalmente, mi ha dato molto, sento una strana forma di gratitudine nei suoi confronti di cui un po’ mi vergogno. In fondo, sono pochi quelli, almeno tra i giornalisti, verso cui senta di avere un debito: lui, Indro Montanelli, Oriana Fallaci, Vittorio Feltri. Degli altri salverei forse Travaglio e Scanzi. Quando finalmente riesco a mettermi in contatto con Alessandro Sallusti, lo travolgo con una mitragliata di domande. Non so dove abbia trovato la pazienza per starmi dietro. Scusandomi, senza che mi venisse chiesto, gli ho detto che mi serviva per tracciare un ritratto umano a tutto tondo. Era vero. Ancora di più, però, desideravo semplicemente parlargli e così mi sono diviso tra il ruolo di intervistatore e quello di spettatore di un momento che aspettavo da tempo.
Direttore, non le viene mai la voglia di mollare tutto? La criticano, la insultano, le danno del servo, la costringono agli arresti domiciliari. Come fa a sopportare tutto questo odio? Non si ritrova mai esausto e privo delle forze necessarie per continuare?
No, mai. Ho avuto una grande fortuna nella vita, fare il mestiere che sognavo fin da bambino. Di solito a quell’età si desidera diventare un astronauta, un calciatore, un attore. Io sognavo di fare il giornalista. E, per tutta una serie di fortuite coincidenze, ci sono riuscito. Conosco invece molte persone, amici, che nella vita hanno avuto successo, ben più di me, eppure quasi tutti sono tormentati dal pensiero di non aver fatto esattamente ciò che avrebbero voluto. Io, al contrario, ho avuto questo privilegio. Se mi dovessero chiedere “Hai mai lavorato un giorno in tutta la tua vita?”, risponderei di no. Essere pagati per ciò che si sognava di fare, non è un lavoro. Infatti, in sessant’anni, non mi sono mai alzato la mattina pensando “Oddio, devo andare a lavorare”. Una passione così forte non può che farti da corazza contro qualsiasi avversità.
Quando ha sentito per la prima volta la pulsione alla scrittura, prima o dopo essere entrato nella sede di un giornale?
In principio ci fu un grande equivoco, perché io immaginavo che fare il giornalista non consistesse nello scrivere, ma nel trovarsi nei posti giusti al momento giusto ed essere testimone degli accadimenti, dalla guerra a una partita di calcio. Mi piaceva l’idea di trovarmi sul posto e non avevo molto chiaro che poi, a un certo punto, il giornalista deve smettere di girovagare e cominciare a scrivere. Sicché, prima di un certo periodo, non avevo mai esercitato la scrittura. La mia storia è quella di una modesta famiglia di Como, una città di provincia, in cui il primogenito veniva mandato a studiare per fare da ascensore sociale alla famiglia. È il caso, per esempio, di mio fratello, che ha seguito tutto l’iter fino a diventare medico. Il secondogenito, cioè io, veniva solitamente mandato a lavorare. Pertanto i miei mi iscrissero all’Istituto Tecnico – sono perito chimico –, cosicché avrei poi avuto un posto sicuro in fabbrica. Io, però, che sognavo e brigavo per fare il giornalista, in quel periodo in cui nascevano le prime radio e tv private, nella seconda metà degli anni ’70, invece di andare a scuola, andavo a fare il galoppino. Addirittura portavo il caffè nelle redazioni, in particolare alla sede distaccata che “La Notte” di Milano aveva a Como. Morale della favola, marinavo la scuola e non aprivo libro. Così non fui ammesso alla Maturità… A furia di bazzicare nei posti giusti, cominciarono ad affidarmi i primi articoli e mi ritrovai nella situazione che, quando dovevo scrivere la parola “scienza”, non sapevo se ci andasse la “i” o meno. Avevo anche dei seri problemi con i congiuntivi. Mi ricordo che stavo alla scrivania, con davanti la macchina da scrivere, tenendo il vocabolario aperto sulle ginocchia per non farmi vedere dai colleghi. A quel tempo non ero ancora assunto, ero abusivo – realtà diffusissima allora. Ogni due parole controllavo se ci volesse o meno una doppia. Per cui, in principio, scrivere per me fu una sofferenza – proprio non sapevo farlo. Il rovescio della medaglia di tanta ignoranza è che sei portato a semplificare i problemi più articolati, non essendo in grado di trattarli nella loro complessità. Che cosa mi è rimasto di quell’inizio traumatico? Per cominciare, ancora oggi, quando mi siedo al pc per scrivere, soffro: una specie di trauma infantile, come quando si viene morsi da un cane e si continua di conseguenza a serbarne la paura a vita. La seconda cosa è che, in ragione della mia tendenza a semplificare, spesso mi capita che, quando qualche lettore mi incontra, la prima cosa che mi fa notare di un articolo non è tanto il fatto che sia interessante, quanto che sia scritto in modo chiaro. E questa chiarezza che mi è riconosciuta è, appunto, figlia dell’ignoranza, del non poter scrivere complesso a causa delle mie carenze. In ultimo, la semplicità è diventata un valore per me – la mia personale risposta a questo mondo in cui tutti complicano tutto, compresa la scrittura. Per fortuna, a quanto pare, qualcuno apprezza la mia scelta.
Su quali letture ha formato il suo stile?
Non sono state tante, perché da giovane non leggevo molto. Diciamo che la lettura è diventata solo dopo un dovere e una passione, con la maturità. Da ragazzino lessi comunque Salgari, interamente, perché accendeva le mie fantasie di poter essere un giorno un inviato in luoghi esotici. Da adolescente, credo di essere stato uno dei pochi ad aver letto tutto Buzzati. È un autore dotato di una semplicità di scrittura e una malinconia nelle quali mi ritrovo particolarmente. Non so se sia tanto o poco ma, se ho avuto un maestro di scrittura, quello è stato lui. Poi, un po’ più avanti con l’età, quando iniziai a bazzicare i giornali, presi a leggere le grandi firme come Montanelli, Prezzolini, Brera. Insomma, sono cresciuto leggendo “Il Giornale”.
Qual è il collega da cui ha imparato maggiormente?
In assoluto Vittorio Feltri, che è anche quello a cui mi sento maggiormente affine. Vittorio è ineguagliabile. Ho lavorato dodici anni con lui ed è stato un po’ il mio fratello maggiore. Devo a lui la mia maturazione finale. Tra gli altri citerei Paolo Mieli, del “Corriere”. Mi ha aperto gli occhi. È l’opposto di me, ma vedere in faccia l’opposto ti aiuta a capire chi sei e cosa vuoi.
Cosa legge Alessandro Sallusti oggi, quando non legge giornali o ricontrolla articoli altrui?
Per lavoro un po’ di tutto, ma nel tempo libero mi appassiona la saggistica, quella storica. Più che dal punto di vista degli eventi, però, la storia mi interessa come sguardo su alcune figure da Giulio Cesare a Napoleone, dagli Sforza a Benito Mussolini e così via. Mi piacciono molto anche le vite di matematici e filosofi.
Ho letto in una sua intervista che lei si definisce una persona scarsamente propensa all’affettività, a causa di una madre piuttosto fredda. I suoi editoriali, però, sembrano tutto fuorché algidi, distaccati e poco partecipati. A tal proposito mi chiedevo se per lei la scrittura, anche se giornalistica, sia una forma di terapia, cioè un modo per trasporre all’esterno quel che altrimenti la consumerebbe non trovando un altro canale di espressione?
Povera mamma, non essendo più qui, non può smentire… Guarda, non saprei dirti perché non sono uno psicologo. Non mi pongo mai domande di questo tipo, essendo un individuo molto pragmatico. Probabilmente è come dici tu, ma io non la vivo così. Nella realtà, sono molto più noioso di quanto possa apparire a volte leggendomi. Noioso e chiuso… In effetti, nella scrittura, mi concedo delle libertà che nella vita non mi prenderei. Però, sai, ognuno è figlio della sua storia, quindi… Forse hai ragione, ma non me ne faccio un problema.
Lei una volta ha dichiarato “Il giornalismo per tanti è una professione intellettuale, per me è un mestiere, nel senso più nobile della parola. È come fare l’artigiano, il fabbro, il calzolaio”. Le vorrei chiedere se sottoscriverebbe sul serio una simile affermazione. Non le pare che, nel suo caso – ma potrei citare anche quello di Vittorio Feltri –, ci sia un qualcosa che va oltre, diciamo una misura di dote artistica?
I talenti si esprimono in un mestiere. Quando dico che il giornalismo non è una professione, dico insomma che le lauree in giornalismo sono un’invenzione sciocca, un fatto di business. In che cosa dovrebbe essere laureato un giornalista? Un giornalista si occupa di sport, di cronaca nera, di economia. Non c’è una laurea che possa fornire tutti questi strumenti. Se uno vuole fare il medico, si deve laureare è ovvio. Così per l’ingegnere, o l’avvocato. Ma il giornalista!? Non è un caso che Vittorio Feltri non sia laureato, che io non sia laureato e che tanti bravi giornalisti di successo non lo siano. Perché il giornalismo è un talento che si seleziona e si esprime nella bottega e la bottega è il giornale. È come per lo chef. Non c’è un percorso di studi da giornalista. La professione, invece, presuppone una preparazione specifica. Il nostro mestiere è un mix tra capacità nelle pubbliche relazioni, nel senso che per fare il giornalista tu devi avere un network, qualcuno che ti passi le notizie, e una mentalità investigativa, perché devi saper vedere oltre ciò che appare – quello che appare è spesso una sceneggiata, è quello che accade dietro a essere interessante. Ci vuole inoltre capacità di sintesi e devi essere veloce, scrivere un articolo in tempi e spazi che non decidi tu. Tutte queste doti presuppongono un talento che o si ha o non si ha. I giovani che arrivano dalle scuole di giornalismo, e che non hanno frequentato la bottega, spesso non hanno questo talento. Potrebbero essere degli ottimi assistenti universitari o docenti, ma la furbizia e la velocità di fare il giornalista secondo me non ce l’hanno come ce l’avevano quelli che uscivano dalle redazioni dei giornali.
Lei come lo scrive un articolo? Prende appunti prima, butta giù di getto? E, soprattutto, quanto lavora su un pezzo prima di giudicarlo valido per la pubblicazione?
No, non ci lavoro granché. Tra il trauma di cui parlavo prima, per cui per me iniziare un pezzo è una sofferenza, e una certa pigrizia, mi metto a lavorare sempre all’ultimo momento utile. Di solito non ho idea di cosa scriverò. Quando inizio, poi, spesso non so come svilupperò il pezzo, o come lo concluderò. Mi metto lì e scrivo tutto di getto, cercando di essere breve. È uno degli insegnamenti che mi ha trasmesso Montanelli: “Alessandro, quello che non riesci a dire in 60 righe è inutile che lo scrivi, perché non riuscirai a dirlo neanche in seimila”. Un altro suo consiglio, che sempre seguo, diceva invece: “Se scrivi di una persona, devi dire che è una testa di cazzo. Se scrivi di un paese, devi dire che è un paese di merda”. Quindi, per intenderci, prendiamo il fondo di domani. Ho deciso che lo farò io. Sono le 17:45. Tra un’ora, mi siederò davanti alla tastiera e non ho la più pallida idea di cosa scriverò. Se mi dovessi chiedere: “Ma almeno l’argomento di cui parlerà?”. Niente, non ne ho la minima idea.
Volevo chiederle, giustappunto, di Montanelli. Ci racconterebbe qualcosa del grande giornalista che lei conobbe nei primi anni di lavoro a “Il Giornale”?
Mah, guarda… È inutile che lo dica io, Montanelli è Montanelli. L’ho conosciuto perché venni a lavorare qui a “Il Giornale”, verso la fine degli anni ’80. Immagina l’emozione. Ero cresciuto, come ti ho detto, con il suo giornale in tasca. Era l’unico quotidiano che leggessi, quindi lui per me era una specie di mito. Però, lascia che te lo dica, i propri miti è meglio non conoscerli. Perché scopri che sono degli uomini come tutti noi, con le loro debolezze, le loro furbizie, i loro egoismi, le loro cattiverie… Sono degli uomini, straordinari, ma pur sempre uomini. E lui, che per me era un monumento, una specie di Dio, dopo averci lavorato un anno… non è che cambiai il giudizio di merito, ma era anche un po’ stronzo, un dio stronzo.
Un giornalista della parte avversa che apprezza particolarmente e perché?
Marco Travaglio. Ho in corso ventisette cause con lui e ci diamo reciprocamente del figlio di puttana in televisione, ma trovo che sia molto bravo. Secondo me recita una parte e crede forse al cinquanta percento di quello che scrive, se non a niente, però devo dire che ciò che fa lo fa bene. È un po’ come Gianfranco Fini. Mio padre, che era un suo ammiratore, mi disse che gli piaceva perché non dice niente, ma lo dice benissimo. Secondo me Travaglio è della stessa pasta: non dice un cazzo, ma lo dice talmente bene che sembra tutto interessantissimo.
Anche Vittorio Feltri mi ha confessato di ammirarlo. In generale, direi che Travaglio è ben visto dai giornalisti di destra.
Non solo dai giornalisti! Ti dirò di più. Una delle mie più grandi frustrazioni è che il Presidente Berlusconi, al mattino, non manca mai di leggere per primo “Il Fatto Quotidiano”. Ma, giustamente, le persone intelligenti piacciono alle persone intelligenti. Ci tengo comunque a dire che io non odio Travaglio e non ho nemici personali, solo politici. Altrettanto dicasi per Santoro, che adesso sembra bollito, una specie di guru che vaga per il mondo senza sapere cosa fare. Ma il Santoro di dieci anni fa era tutta un’altra cosa! Di recente l’ho incontrato al Quirinale, per la festa del 2 giugno. Gli sono andato vicino per salutarlo e per domandargli come stesse. Mi ha risposto: “Sto male, sono malato, molto malato”. “Oh cielo”, gli ho chiesto, “ma cos’hai?”. “Una malattia tremenda”, mi ha fatto lui, “comincio a pensarla come te”.
Lei come ha cominciato, con la macchina da scrivere? Com’è stato, poi, il passaggio al computer? Feltri mi ha detto che scriveva con l’Olivetti fino all’anno scorso, poi è stato costretto a passare all’iPad perché nessuno gli trascriveva più gli articoli…
Vittorio ha appena dieci anni più di me, però quei dieci anni hanno segnato una differenza di prospettiva fondamentale. Io ho avuto l’onore di essere tra i primissimi giornalisti in Italia a usare le nuove tecnologie. “Avvenire”, dove ero andato a fare danni, prima di approdare a “Il Giornale”, fu all’avanguardia in tal senso, sostituendo fin da allora le macchine da scrivere con i computer. Devo dire che comunque io non sono mai stato contrario, perché li trovo di una comodità unica. Questo a differenza di Vittorio che ci ha fatti impazzire per anni con quella cazzo di macchina da scrivere! Anche lui, come me, ha la tendenza a tirarla fino all’ultimo minuto. Poi, dopo che ha scritto, deve far sistemare il pezzo dal suo correttore di bozze personale, poi torna indietro e poi lo rilegge e poi deve essere ribattuto, ma la battitura deve essere riletta – roba che, per pubblicare un suo pezzo, ci vogliono tre ore di lavoro. Io glielo dicevo, ma non c’era verso. Adesso, ha confessato anche a me di essersi convertito.
L’impressione che ho, quando vedo una sua apparizione televisiva, è che lei si senta vagamente a disagio. Si trova meglio a scrivere, giusto? C’è qualcosa che le dà in più la scrittura rispetto al trovarsi sul piccolo schermo?
Sì, perché la scrittura esclude la fisicità. Io sono molto timido, un po’ orso, introverso, e quindi la televisione per me è una sofferenza. Mi pesa dover cercare di apparire vivace, brillante. È molto faticoso. Tant’è vero che ritengo più interessante la radio, malgrado ne faccia poca, perché è più simile alla scrittura, escludendo anch’essa, completamente, la dimensione fisica. Sai, in tivù non è importante solo quello che dici, ma conta la postura, l’inquadratura, la faccia che fai. È un lavoro, un lavoro che io non so fare, ma che riesce invece benissimo per esempio a Marco Travaglio, un attore nato. Quindi vado in tivù soprattutto per dovere, oramai. Malgrado ciò, ti dirò, all’inizio è anche gratificante, perché il grande pubblico ti riconosce soprattutto attraverso il piccolo schermo e non certo per gli articoli. Ma, insomma, mentirei se ti dicessi che non provo ogni volta una pena terribile.
Come si trovava al “Corriere della Sera”? Ha qualche episodio particolare da raccontare?
Beh, per un giornalista, entrare al “Corriere”, è come per un pilota salire sulla Ferrari – è il coronamento di una vita, un traguardo pazzesco. Di quei tempi ho tre ricordi, in particolare. Il primo è che, quando arrivai, il Direttore Stille mi rovinò il sogno che attendevo da una vita. Il giorno in cui mi doveva assumere, aspettavo nel corridoio della direzione. Dopo mezz’ora spuntò questo ometto, Ugo Stille appunto, con due borse dell’Esselunga piene di frutta, verdura e quant’altro. La segretaria mi disse di accomodarmi. Aveva appoggiato le due borse sulla scrivania. Lo odiai, perché non è possibile, mi capisci, che tu aspetti tutta una vita di essere assunto al “Corriere” e questo ti mette le buste della spesa sulla scrivania che fu di Albertini. Ciò per quel che riguarda il mio ingresso. Il durante, tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, fu molto avvincente perché, quando alzavi il telefono e dicevi “Buongiorno, sono Sallusti del ‘Corriere della Sera’”, dall’altra parte sentivi sbattere i tacchi. L’Italia, chiunque, politici e non, si mettevano sull’attenti. È certamente vero che i colleghi del “Corriere” sono molto bravi e molto professionali, perché selezionati bene, ma è anche vero che hanno un biglietto da visita che da solo fa il settanta percento del lavoro. Vorrei far osservare, comunque, che non si tratta di un giornale indipendente come vorrebbero far credere. Ho avuto più problemi lì che non a “Il Giornale”, in quanto a indipendenza dall’editore. Ma non solo io, anche i colleghi più alti in grado e i direttori. Il terzo ricordo è quello del mio abbandono, dopo tangentopoli. Avevo capito che, entro quella linea giustizialista, non mi ritrovavo. Mi sentivo a disagio, e te lo dice quello che allora tirò fuori l’avviso di garanzia per Berlusconi. Quando andai a dimettermi, non ci volevano credere, perché nessuno si dimette dal “Corriere”. Pensavano scherzassi e, quando alla fine si convinsero – e questo è uno dei momenti che ricordo con maggior orgoglio –, alla sera dell’ultimo giorno, mi chiamarono in sala Albertini, la sala grande delle riunioni, con una scusa e… Non dico ci sia stato tutto il “Corriere”, ma c’era tanta gente. I colleghi mi avevano fatto fare una targa, come regalo.
Che responsabilità comporta essere il Direttore di un grande quotidiano nazionale? Quanto deve lavorare ogni giorno e in coordinamento con quante persone?
Cominciamo con il dire che ognuno fa il direttore un po’ a modo suo. Personalmente, ne ho avuti tanti e ti posso garantire che non esiste una modalità standard per svolgere questo ruolo. Io, al di là della retorica, lo faccio come facevo il cronista. Certo, c’è una responsabilità maggiore, ma sai, i giornali medi e grandi hanno delle strutture tali per cui si fanno in buona parte da soli. Il direttore, più che altro, sceglie e coordina. Io, comunque, amo stare in redazione il più possibile e realizzarlo materialmente. Sono quasi più un caporedattore che un direttore. Partecipo a tutte le riunioni. Per quel che riguarda il lavoro in comune, sai, la cosa importante è, come in ogni staff, circondarsi di gente brava, in sintonia, che non ti crei problemi ma che te li risolva.
Dei giornali attualmente presenti sul mercato, secondo lei, qual è il peggiore e perché?
“La Repubblica”. Non che mi voglia ergere a loro giudice, ma un giornale deve avere un’anima, degli amici e dei nemici. Sono tutte stronzate quelle dei giornali super partes. I giornali sono sempre di qualcuno, quindi sono di una parte! Se mi dicono che io sono super partes mi incazzo, perché un uomo o tifa Inter o tifa Milan, o è etero o è gay, o crede in Dio o non crede in Dio, quindi non è super partes, bensì ha le sue idee. Un’altra cosa è dire che l’informazione deve essere onesta e leale… Quello sì, ma non super partes! “La Repubblica”, da diversi anni, diciamo dal tramonto del berlusconismo nel 2011, ha perso il suo baricentro. Adesso è un giornale che vaga, senza che si capisca dove, e lo fa in maniera retorica, a volte patetica. Ha fatto tutta la campagna elettorale parlando del pericolo di un fascismo di ritorno in Italia, con Casapound che poi ha preso lo 0,6 %. È un giornale radical chic che, avendo smarrito il suo nemico, ha perso la bussola. Io fatico anche a sfogliarlo.
“Il Giornale”, quando fu fondato da Montanelli, aveva nella sua rosa di collaboratori delle firme d’eccezione come Nicola Abbagnano per la filosofia, Mario Praz per la saggistica, Sergio Quinzio per la teologia. Secondo lei, la squadra attuale può ancora reggere il confronto con quella delle origini?
No, non può. Io mi vergogno profondamente di essere seduto in questo momento alla scrivania che fu di Montanelli, perché il paragone non tiene nella maniera più assoluta. Ma come mi salvo? Come salvo me e tutti i colleghi? Ognuno è figlio del suo tempo. Quel tempo lì, quella classe intellettuale e giornalistica di allora, figlia dell’Ottocento, formatasi alla scuola dell’Ottocento e che ha attraversato buona parte del Novecento, non c’è più; ma, se Dio vuole, è l’Ottocento a non esserci più. Siamo nel 2018 e non sussiste la possibilità di un paragone. In secondo luogo, se è pur vero che “Il Giornale” aveva tutto quel fior fiore di menti, non dimentichiamo che c’erano anche degli editori che a fine anno sanavano i bilanci, senza battere ciglio, qualsiasi fosse la cifra. Questo è stato un grande giornale, un giornale con firme importantissime, ma allora perdeva miliardi di lire e poi milioni di euro, per cui, per sistemare i conti, arrivava il perfido editore Berlusconi a staccare un assegno. Oggi nessuno stacca più l’assegno. Sono dei costi che non sono attualmente sostenibili e non solo dalla nostra redazione. Io ho fatto l’inviato in un’epoca in cui, per una sparatoria a Tripoli, partivano due giornalisti e tre fotografi. Adesso non è più così, ma non avrebbe nemmeno più senso, dal momento che la sparatoria la si può vedere in diretta su YouTube. Per rispondere alla tua domanda, dunque, se tu paragoni Montanelli a Sallusti viene da ridere e io sono il primo a farlo. Sallusti è un figlio del Novecento proiettato nel 2000, Montanelli è un figlio dell’Ottocento proiettato nel ’900.
Cosa è rimasto a “Il Giornale” dello spirito e delle motivazioni che animarono Montanelli al momento della fondazione?
Tanto! Lo so che può non sembrare così e che pochi ci crederanno, ma c’è ancora quello spirito liberale e liberista, quella volontà di contrapposizione al pensiero unico dominante. Questo patrimonio, sia pure in tempi e in modi diversi, la famiglia Berlusconi l’ha difeso con le unghie e con i denti. Tu dirai che non può essere, dato che a un certo punto Montanelli se ne andò… La vera storia di Montanelli, e del perché se ne sia andato, forse qualcuno la scriverà un giorno, ammesso che qualcuno la conosca realmente, perché ne girano talmente tante versioni. Quella a cui credo io è che, essendo il suo editore entrato in politica, lui si sia detto: “Se ne scrivo bene, mi diranno che sono un servo. Se ne scrivo male, mi diranno che sono un ingrato. Quindi, non posso più stare qui”. Quello però era un problema che si poneva lui. Io, sinceramente, non mi faccio remore né dello scrivere male né dello scrivere bene di Berlusconi. Se ne scrivo bene è perché la penso esattamente come la sua parte politica. Ho girato tredici giornali, grandi, piccoli e medi, per cui ho conosciuto almeno tredici editori e ti dico che, uno liberale e rispettoso come la famiglia Berlusconi, non l’ho mai incontrato. Quando racconto questa storia, qualcuno fa una smorfia e mi dice: “Ci credo, ti paga”. L’obiezione è lecita, ma non corrisponde al vero. Certo domani mattina non troverai un fondo in cui dico che Silvio Berlusconi è un mafioso testa di cazzo, ma non perché mi dà da mangiare, solamente perché quello non sarebbe un gesto di libertà ma piuttosto un’idiozia. Questo giornale, del resto, non è solo “Viva Forza Italia, abbasso il PD”, ma ha delle sue idee sulla cultura, la società, l’etica. Questa è la nostra libertà e il patrimonio che ci portiamo appresso tentando di difenderlo, grazie a un editore che ci permette di farlo. Chi ci compra ne è consapevole e, infatti, non lo fa per caso, ma perché si sente legato a tutto ciò che noi rappresentiamo e che va ben oltre il partito di Berlusconi. Guarda, ti confesso che, se io ho dei nemici nell’apparato politico della classe dirigente del paese, questi si trovano in Forza Italia, proprio perché un politico inevitabilmente concepisce il giornale di riferimento di quell’area come la house organ del suo partito. Ma chi se ne frega di Forza Italia! Noi la sosteniamo, ma fare il giornale non è solo sostenere Forza Italia, piuttosto si tratta di portare avanti un’idea liberale che attraversa tutti i settori della vita.
Se posso permettermi una riflessione sul caso di Montanelli: era abbastanza chiaro che, nel momento in cui il mio editore, quello che mi aveva sostenuto salvandomi da morte certa, fosse sceso in politica… Beh, parliamoci chiaro Direttore, era ovvio che avrebbe chiesto un sostegno.
Certamente, poi soprattutto in quel momento. Ma la cosa paradossale è che Montanelli, dopo aver passato la vita a combattere le sinistre e il comunismo, quando arriva uno che scende in politica con il suo stesso obiettivo che fa, gli dice di no? A me sembra più una lotta tra prime donne. Per logica avrebbe dovuto sostenerlo, dire: “Finalmente arriva uno che vuole portare in politica quelle stesse idee che io su ‘Il Giornale’ difendo da decenni”. E, invece, se ne andò. Ripeto, il fatto è che due galli in un pollaio non possono starci.
In quella contingenza storica, a prescindere da quel che se ne può pensare, era chiaro che bisognava sostenere Berlusconi. E Montanelli avrebbe dovuto farlo per lo stesso motivo per cui lui per primo, in passato, aveva invitato a votare Democrazia Cristiana turandosi il naso: bisognava fermare a qualsiasi costo l’avanzata dei comunisti che, anche se non si dichiaravano più tali, erano pur sempre gli stessi di sempre.
Esatto. È per questo che non capisco quella decisione di Montanelli, che così facendo andò a portare acqua al mulino della Sinistra. Sbagliò nella sua valutazione. Ma c’è da dire che, allora, l’uomo era già in decadenza, purtroppo.
Con tutto il dovuto rispetto, ma dimostrò anche una certa ingratitudine…
Direi bene, visto che Berlusconi arrivava a fine anno e staccava l’assegno, senza nemmeno preoccuparsi della cifra… e non era piccola. Comunque, volevo salutarti con un bel ricordo che conservo del Maestro. Andando via, lui passava sempre dalla stanza dei giovani caporedattori e si fermava per una chiacchierata, mentre noi puntualmente parlavamo di figa. Una volta ci disse: “Beati voi, ragazzi, perché, vedete, a me non è che non mi tira più, è che non so più quando mi tira”.
Matteo Fais
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badbutgoodguy · 7 years ago
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Ho subito tanto, senza un valido motivo, per dei problemi inesistenti. Lo stress mentale che sono arrivato ad avere in certi momenti non era normale, non capivo nemmeno più dov'ero, ne cosa stavo facendo.
Doveva essere una vacanza, una settimana di tranquillità in compagnia di mio nonno. Ero già stato lasciato due volte dalla persona che ho sempre amato alla follia, trascuravo anche me stesso per il suo bene, ma quando mi si era ripresentata la terza volta sembrava particolarmente sincera. Piangeva, tra le mie braccia, mi diceva che il ragazzo con cui si frequentava non era nulla in confronto a me, che mi pensava sempre e non riusciva a smettere, che aveva capito che io ero il suo vero amore e che si immaginava il resto della vita con me. Dopo già due volte che venivo scaricato come se valessi meno di 2 lire, avevo i miei buoni dubbi, ma lei ha saputo essere davvero convincente, il ricordo è nitido nella mia mente, io e lei abbracciati in una piazza a San Babila, io che le dico che non sono sicuro di voler continuare, lei che scoppia a piangere, non curante della gente ed io, confuso e disperato l'ho seguita a ruota. Non sopportavo mai vederla piangere. Nel mentre pensavo "è una ragazza riservata, se non gli importa di mettersi in mostra davanti a tutta questa gente, vuol dire che è sinceramente pentita e che mi vuole davvero". In mezzo a tutte quelle lacrime, stretti in un abbraccio profondissimo le dissi che mi sarei fidato ancora di lei. Mi ricordo bene, fu una delle mie giornate più felici dopo tanto tempo, andammo a fare shopping in centro, acquistai sotto suo consiglio un giubbotto di jeans che indosso tutt'ora con fierezza. Dopo quella giornata pensai che fosse tutto finalmente tornato alla normalità, ma purtroppo mi sbagliavo e qui torniamo all'inizio della storia.
Doveva essere una settimana di tranquillità, ma non è andata così. È bastato qualche messaggio e qualche telefonata. Mi disse chiaramente che quando sarei tornato avrebbe voluto parlarmi e che c'era la possibilità che mi avrebbe lasciato, il tutto perchè a detta sua, lei stava vivendo un periodo in cui era molto demoralizzata, depressa e doveva pensare a se stessa.
Adesso, non credo di poter descrivere esattamente come mi sentivo in quel momento, ma ci proverò. Dove dovrebbe esserci il cuore, sentivo un vuoto e il cuore lo sentivo nella gola. Di notte piangevo, ma dovevo pure fare piano per non svegliare mio nonno (dormivamo in camper). Di giorno, non avevo nessuna distrazione e pensavo tutto il tempo a cosa avrei potuto fare. Mi venne un'illuminazione, da vero innamorato perso, accettai la sua condizione e al posto di pensare al peggio, le diedi il mio aiuto, ma lei non lo accettò, mi respingeva. Iniziai a fare dei pensieri che in quell'occasione avevano perfettamente senso, tipo che mi stava usando, che se non mi voleva sentire non le interessava davvero di me e via dicendo. Fu così che feci una mossa che non dovevo fare. Scrissi a una ragazza con cui mi ero frequentato e che avevo lasciato per rimettermi con la sottoscritta, ci ero rimasto in buoni rapporti, ma lei la odiava, quindi eravamo d'accordo che non le avrei più scritto. In quell'occasione pensai che avevo solo voglia di sentire una persona amica, qualcuno che mi avesse dimostrato davvero di volermi bene. Le scrissi, ma l'altra l'ha scoperto. Arrivai a Milano dopo una vacanza dalla quale tornai uno straccio e ci lasciammo. Chiarimmo la situazione ma ne concludemmo che nessuno dei due si fidava più dell'altro.
Proprio quando sembra tutto finito, lei si rifà viva, ma in modo diverso, lanciandomi delle frecciatine pubblicando post su dei social riferiti a me.
Non so nemmeno io come sia potuto succedere, ma una sera andai a dormire da lei, sotto sua richiesta. Appena entrai in casa sua, lei stette male e vomitò, io la aiutai con la premura con cui si aiuta una persona a cui si tiene tantissimo. Ci mettemmo a letto, ero preoccupato, la abbracciai e la baciai. Non mi sembrava nemmeno vero di essere in un letto insieme a lei, era tanto tempo che non succedeva. Mi chiese se ero venuto solo per "approfittarmi" di lei, le risposi di no. Me lo fece giurare e io lo giurai, era la verità. Ero venuto perchè su quel letto, abbracciato insieme a lei, io mi sentivo tranquillo, mi sentivo a casa, la sentivo mia e stavo bene. Dormii da lei 3 notti, l'ultima notte piansi qualche lacrima dolorosa, mentre lei dormiva. Piansi perchè dopo 3 giorni che andavo li alla notte, quando poi uscivo di casa non avevo più sue notizie. Non una chiamata, non un messaggio. Non era quello che volevo, io volevo viverla. Iniziai a farmi dei complessi su cosa volesse realmente lei da me e giunsi alla conclusione che non volevo rischiare di stare male come ero già stato in passato, anche per il fatto che a distanza di pochi giorni sarei dovuto partire per 2 settimane di vacanza e non avrei voluto passarle come l'estate precedente o come l'ultima che avevo fatto. Mi allontanai da lei, dicendole che non sarei più andato a casa sua alla sera e lei mi chiese spiegazioni, voleva parlarmi. Le promisi che avremmo parlato, ma non ho fatto in tempo a farlo prima di partire, anche se avrei voluto, quindi le chiesi di attendere il mio ritorno a milano e lei mi diede l'okay. Ho fatto due settimane di vacanze magnifiche in cui ho avuto tempo di distrarmi e di pensare lucidamente, era da tempo che non facevo delle vacanze così belle. In questo lasso di tempo non ci sentimmo per niente. Appena tornai, la prima cosa che feci fu scriverle se voleva uscire per parlare, ma mi rispose di no, che si stava sentendo con un altro ragazzo e che non se la sentiva più di vedermi. Ancora adesso mi sto chiedendo se ho fatto la scelta giusta, ancora adesso mi sto chiedendo quale fosse il suo pensiero al riguardo. Mi disse anche che mi voleva un bene enorme, spontaneamente almeno a quello ci avevo creduto subito. Ma che bene enorme può volerti una persona che ti ha distrutto senza nemmeno curarsi delle conseguenze che le sue azioni potevano avere su di te? Che bene può volerti una persona che a parole ti dice "ti voglio bene" e a fatti ti getta merda addosso come se te la meritassi dopo tutta la merda che ti sei già preso per lei?
Alcune persone sanno solo riempirsi la bocca con tutto quello che possono infilarci dentro ed una volta piena, non si fanno troppi problemi a sputare nel piatto in cui hanno sempre mangiato.
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nonsapevochescrivere · 8 years ago
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Sfogo. 24-05-17
Sono qui, e vi sto per raccontare​ la mia storia. Una meravigliosa storia fatta di alti e bassi, fatta di amore e odio. Tutto iniziò il 12/07/14, mi fidanzai con un ragazzo che conoscevo da un bel po' di mesi Lui era alto, slanciato. Aveva gli occhi castani, i capelli neri e la pelle olivastra (per non parlare del sorriso, quello era mozzafiato). Comunque, io lo amavo (come tutt'ora) eccome se lo amavo, per me non esisteva nessun altro al di fuori di lui Non dirò che i migliori mesi di relazione furono i primi, perché non è così La verità è che tutta la relazione fu migliore, perfetta. Insieme andammo ovunque, era una di quelle relazioni dove la pesantezza dello stare insieme tutti i giorni non si sentiva, poiché ogni giorno andavamo in un posto diverso e facevamo cose diverse Facemmo anche l'amore, ovunque Abbiamo fatto mille modi di "amore" Abbiamo fatto l'amore con gli sguardi, con gli abbracci, con i baci, con le risate, con le lacrime Poi abbiamo fatto anche quel tipo di amore, quello che una volta fatto non si torna più indietro, quello che ti lascia senza fiato se fatto con la persona che si ama E non mi vergogno di questa mia scelta, perché lo amavo più di chiunque altro Lo facemmo ovunque, al lago, al cinema, in macchina, in ascensore, in piscina e in qualsiasi parte della casa. Il 12/07/2015 facemmo un anno, lui mi scrisse cose bellissime e io gli risposi con altrettante cose. Sinceramente non c'è molto da dire su quel giorno, fu uno spettacolo solo vederlo. La nostra relazione iniziò a cambiare quando lui tornò in Perù per l'estate Fece così male doverlo lasciar partire quell'estate, piansi come non mai Purtroppo non riuscimmo a sentirci spessissimo, a causa del fuso orario quando io mi svegliavo lui andava a dormire A settembre, quando tornò, mi fece una sorpresa con un telo a dir poco bellissimo, però la nostra relazione cambió. Più battibecchi, più incazzature, più gelosie. Ma nonostante questo, il nostro amore riuscì a vincere sempre, fino alla fine di novembre. Il 18 novembre mi lasciò. Senza un motivo. Dio quanto piansi, ci restai malissimo. Io pensavo che lui mi amasse ancora, dato che è quello che mi faceva capire lui Continuammo ad andare a letto insieme per un altro anno e mezzo, fino a Febbraio/Marzo 2017. Quello fu l'anno e mezzo peggiore della mia esistenza. A capodanno 2015/2016 lui era a casa di una sua amica con un'altra nel letto, poi uscì con altre ragazze fino a fidanzarsi a maggio 2016 (in tutto questo noi andavamo ancora a letto insieme) Non capì molto quel periodo, perché pensavo sia che lui amasse lei e gli piacessi io, che il contrario. Dopo mille sofferenze arrivammo a capodanno 2016/2017. A gennaio iniziò a sentirti con una ragazza, io pensavo che fossero solo amici da quel che mi diceva lui Poi scoprì che a lui lei piaceva, ma intanto mi usava. Allora dalla rabbia scrissi a lei dicendole che io andavo ancora a letto con lui, e lei mi rispose con "Ma non ti fa schifo andare a letto con un ragazzo che mi bacia e che mi tocca?" Ci restai di sasso. Oddio se piansi, per me la mia vita sarebbe potuta finire lì, su due piedi Lui dal vivo, mentre gli piangevo di fronte, mi disse che non mi aveva dimenticata e che questa ragazza non gli piaceva Poi, quando se ne andò mi scrisse "Puoi dire ad Alessia che quelle cose non erano vere?" Lì, capii che la nostra relazione fosse letteralmente finita a causa sua Poi, mentre lui continuava ad uscire con lei, io mi organizzai per uscire con un suo amico, che inizialmente mi interessava Quando glielo dissi lui si ubriacò, mi scrisse che mi amava e che non avrebbe mai smesso di farlo, che per lui esistevo solo io e che non se lo sarebbe mai perdonato. Io ero al settimo cielo, ma non potevo farmi notare, quindi uscii con il suo amico il giorno dopo Appena tornai a casa, verso le 18, lo chiamai subito, dovevo vederlo Parlammo e decidemmo di tornare insieme, però lui mi chiede un mese di tempo per lasciar perdere Alessia. Il problema è che lui non si allontanò, o per lo meno questo mi fece capire Lui ci usciva ancora tutti i giorni e io non sapevo Se se la facesse o no. Non ne potevo esser sicura. Quindi dopo quasi un mese, gli dissi con il cuore spezzato che lui avrebbe dovuto dimenticarmi. Gli dissi che io lo avevo dimenticato e che mi piaceva un altro, quando non era assolutamente vero Lo vidi piangere, lo vidi a pezzi. Non potevo dire o fare nulla, volevo che lui mi dimenticasse cosicché potesse andare avanti con la sua vita. Volevo che lui fosse felice. Fu la scelta peggiore della mia vita, ora lui si sta per fidanzare e io sono qui a chiedermi il perché mi abbia dimenticata così in fretta Perché l'ho lasciato andare? Perché mi son fatta dimenticare? Perché mi sono rovinata così? Ti prego, spero che tu sia leggendo perché io non so più cosa fare o come fare Ti amo Sembrerò egoista ma ti voglio più di qualsiasi altra persona, o te o la morte La mia vita ora oscilla tra "sperare nel tornare con lui" e "morire" Sei stato il mio primo vero amore, e forse oggi io non sarò il tuo, ma tu rimani comunque il mio. Ti amo, e non come si ama un semplice fidanzato, ma ti amo come se stessi amando l'unica persona che mi ha resa veramente felice Quando vedo le tue storie con lei l'unica cose che penso è che sono stata una vera cretina, e lo capirò se non vorrai tornare con me Ma ti prego almeno leggi queste righe, voglio essere consapevole prima di perdere qualsiasi cosa che tu sappia il mio amore per te. Ti amo. Sei la ragione dei miei vivi giorni. -anthony
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