#disperazione filosofica
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La Tentazione di Esistere di Emil Cioran: Una Profonda Meditazione sull’Assurdità della Vita. Recensione di Alessandria today
Un viaggio nei pensieri di uno dei più grandi filosofi del XX secolo, che sfida la nostra concezione dell’esistenza e del nulla.
Un viaggio nei pensieri di uno dei più grandi filosofi del XX secolo, che sfida la nostra concezione dell’esistenza e del nulla. Recensione Nel suo libro “La tentazione di esistere”, Emil Cioran esplora le profondità dell’animo umano con uno stile inconfondibile, caratterizzato da un nichilismo radicale e da un sarcasmo tagliente. Pubblicato per la prima volta nel 1956, questo testo raccoglie…
#angoscia esistenziale#condanna dell’esistenza#condizione umana#Crisi esistenziale#critica alla religione#disperazione filosofica#Emil Cioran#fallimento del vivere#filosofi rumeni#filosofia contemporanea#filosofia del pessimismo#filosofia esistenziale#inutilità della vita#La tentazione di esistere#Letteratura del XX Secolo#letteratura filosofica#letteratura francese#libro di saggi#meditazione sull’esistenza#Nichilismo#nichilismo radicale#opere di Emil Cioran.#opere filosofiche#pensatori del novecento#pensiero filosofico#pensiero moderno#rifiuto del progresso#riflessioni sul nulla#Riflessioni sulla vita#saggi esistenziali
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Fabio Cinti e Alessandro Russo, arriva "GUARDATE COM'È ROSSA LA SUA BOCCA"
Dal 12 gennaio 2024 sarà disponibile "GUARDATE COM'È ROSSA LA SUA BOCCA", il nuovo album per pianoforte e voce di Fabio Cinti e Alessandro Russo in occasione dei 50 anni di carriera di Angelo Branduardi. L'album è accompagnato dall'uscita del singolo "Fou de love" dal 12 gennaio in rotazione radiofonica.
"Fou de love" è un brano il cui testo è stato scritto da Pasquale Panella in un miscuglio di lingue (italiano antico e moderno, inglese, francese, spagnolo, esperanto), in dialetto (napoletano) e con espressioni inventate. In questo pezzo, come per altri presenti nel disco, è stata aggiunta una breve introduzione - sempre presa da un concerto di Branduardi -, per il resto la stesura è fedele all'originale. L'argomento della canzone, ovvero la disperazione d'amore, ha certamente influito sull'interpretazione.
Commentano gli artisti sul nuovo videoclip: "Con questo semplice video abbiamo voluto ricreare l'atmosfera che c'è quando io e Alessandro suoniamo e cantiamo le canzoni di Branduardi, questa volta sullo sfondo di pianoforti e altri strumenti antichi in questo strano liutaio di Padova. Insieme, la condivisione delle fasi di registrazione allo Studio2, che è sempre un momento di serio divertimento."
Guarda qui il videoclip su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=6HNNyxv2r1k
Angelo Branduardi ha creato un genere personale rigenerando le tipiche atmosfere fiabesche ed epiche (medioevali, rinascimentali, celtiche...) grazie all'enfasi del cantato, agli arrangiamenti e alla scelta degli strumenti. Il tutto insieme ai riferimenti e alle costruzioni armoniche del passato. Quelle canzoni hanno però contenuti, una scrittura lirica e una metrica ben precise, spesso di forte impatto poetico.
Commenta Fabio Cinti a proposito del progetto: "Il mio intento è quello di far emergere questo aspetto affrancandole dalle personalità mia e di Branduardi e cercando nell'interpretazione pura (dove l'interprete è al servizio della canzone e non viceversa) proprio la poetica che sta nella scrittura, sia della musica che dei testi. A ricantare Branduardi - e vale per quel pugno di grandi cantautori italiani di cui fa parte - si rischiano due cose: l'emulazione (non solo vocale) o la "coverizzazione", ovvero quel processo attraverso il quale ci si autorizza a fare proprie delle canzoni personalizzandole a piacimento, offrendo versioni spesso modeste e inferiori alle originali. Questo non accade nella musica classica, dove il rigore esecutivo della scrittura è essenziale e quindi imprescindibile. Il mio approccio vocale e quello pianistico di Alessandro Russo è proprio figlio di questo rigore."
TRACK-LIST:
Il dono del cervo (L. Zappa, A. Branduardi)
Fou de love (P. Panella, A. Branduardi)
Sotto il tiglio (L. Zappa, A. Branduardi)
La luna (L. Zappa, A. Branduardi)
Casanova (L. Zappa, A. Branduardi)
Confessioni di un malandrino (A. Branduardi)
La volpe (L. Zappa, A. Branduardi)
Alla fiera dell'est (L. Zappa, A. Branduardi)
BIO
Fabio Cinti è un musicista, cantautore, autore,
È del 2011 – a 33 anni, dopo la lunga formazione filosofica e musicale – il suo esordio discografico con "L'Esempio delle Mele", dove già compaiono i nomi delle collaborazioni maturate nel tempo. Su tutte spiccano quella di Morgan e Pasquale Panella, autore del testo di un brano.
A seguire, nel 2012, "Il Minuto Secondo" e nel 2013 "Madame Ugo" – In quest'ultimo, uscito per Mescal e prodotto da Lele Battista, compaiono altre due importanti collaborazioni, quella con Franco Battiato, autore di un inedito ("Devo"), e con Paolo Benvegnù -.
Nel 2014 "Tutto t'orna", album che contiene una raccolta di undici canzoni tratte dai tre dischi precedenti riarrangiate per quartetto d'archi, pianoforte e chitarra acustica, sotto la direzione del M° Carlo Carcano.
L'anno seguente esce "FQ", un ep di cinque tracce elettroniche/sperimentali.
L'album successivo (2016) sarà prodotto da Paolo Benvegnù: "Forze elastiche". Anche qui compaiono alcune collaborazioni, su tutte quella di Nada, a cui è affidata l'interpretazione di un brano.
Il 27 aprile del 2018 esce La voce del padrone – un adattamento gentile: il capolavoro dell'1981 di Franco Battiato viene eseguito in un adattamento per quartetto d'archi, pianoforte, voce e cori. L'album viene accolto con forte entusiasmo sia da parte della critica che del pubblico, tanto che Fabio Cinti vince la prestigiosa Targa Tenco 2018 nella categoria "Interprete di canzoni".
Il 24 aprile del 2020, in pieno confinamento da pandemia, decide di far uscire comunque il nuovo album: "Al blu mi muovo", accolto molto favorevolmente dalla critica.
Inoltre: Fabio Cinti è stato producer al fianco di Morgan per sette edizioni di X- Factor. Ha già scritto musiche per il teatro (le ultime, per lo spettacolo di Gabriella Greison – fisica, divulgatrice, scrittrice e attrice – tratto dal suo romanzo "Ucciderò il gatto di Schrödinger" – Mondadori -, per la regia di e con Marco Caronna) e per alcuni cortometraggi, tra cui Argos di Fabio Bagnasco.
A Fabio Cinti è dedicata una monografia di Studio XXXV Live in onda su SKY Arte e, sullo stesso canale, partecipa a assieme a Morgan alla monografia su La Voce del Padrone per la serie "33 giri – Italian Masters".
Nel 2021, in occasione dell'anniversario del La voce del padrone, è stato chiamato a interpretare Battiato con l'Orchestra della Magna Grecia e con la band originale di Battiato, composta da Angelo Privitera e Il Nuovo Quartetto Italiano.
Sempre nel 2021 partecipa a Invito al viaggio - Concerto per Franco Battiato all'Arena di Verona; canta, insieme a Morgan, il brano Segnali di vita (il concerto diventerà un album per la Universal, un film, e, insieme alle interviste nel backstage anche delle prove, una serata-evento ideata e diretta da Pif, "Caro Battiato").
Nel 2022, un nuovo studio (solo dal vivo) su Franco Battiato, ideato e eseguito insieme al pianista Arturo Stàlteri, si chiama Incantate e ripropone per pianoforte e voce dieci brani del cantautore siciliano scritti insieme a Giusto Pio per le interpreti femminili (Milva, Giuni Russo, Alice e Sibilla) e mai cantate da lui.
Alessandro Russo è un pianista e compositore nato a Stoccarda, di origini calabresi e bolognese d'adozione.
Si laurea al DAMS di Bologna con una tesi sul cinema di Franco Battiato. Di lì a poco inizia la collaborazione con Fabio Cinti, sia dal vivo che in studio (suona e arrangia in Il Minuto Secondo, Madame Ugo, Tutto t'orna).
E, nel 2013, lo accompagna in apertura ad alcuni concerti dell' "Apriti Sesamo Tour" di Franco Battiato.
Nello stesso anno esce il suo primo album, prodotto dallo stesso Cinti, "Assediati dall'esercito russo e cinti dalle mura, guardavamo il cielo" (Blume).
Il suo brano "Qualcosa di cui ho bisogno", scritto assieme a La Tarma, entra nella colonna sonora originale della fiction Rai Uno "Tutto può succedere" (Cattleya).
Nel 2018 pubblica il suo secondo album "Escher on the beach", prodotto dal M° Marco Biscarini, con il quale scrive il brano "Ricordi", per la colonna sonora originale del doc-ufilm "Bologna '900" del regista Giorgio Diritti. Sempre con Marco Biscarini, in qualità di pianista interprete/esecutore, partecipa alla colonna sonora del docu-film su Carlo Cracco "Cracco Confidential" (Discovery Italia, 2018) e al film "Il Vegetariano" (2019) di Roberto Sanpietro.
A maggio del 2021 pubblica il singolo "Where The Wave" (DistroKid) in collaborazione con il cantautore statunitense Benoit Pioulard e prodotto da SINK.
A settembre del 2021 pubblica il terzo album "Songs from the Ponds", una raccolta di 13 nuove composizioni originali per pianoforte, nata e registrata durante il lockdown.
"GUARDATE COM'È ROSSA LA SUA BOCCA" è il nuovo album per pianoforte e voce di Fabio Cinti e Alessandro Russo in occasione dei 50 anni di carriera di Angelo Branduardi disponibile dal 12 gennaio 2024.
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Fabio Cinti e Alessandro Russo, arriva "GUARDATE COM'È ROSSA LA SUA BOCCA"
Dal 12 gennaio 2024 sarà disponibile "GUARDATE COM'È ROSSA LA SUA BOCCA", il nuovo album per pianoforte e voce di Fabio Cinti e Alessandro Russo in occasione dei 50 anni di carriera di Angelo Branduardi. L'album è accompagnato dall'uscita del singolo "Fou de love" dal 12 gennaio in rotazione radiofonica.
"Fou de love" è un brano il cui testo è stato scritto da Pasquale Panella in un miscuglio di lingue (italiano antico e moderno, inglese, francese, spagnolo, esperanto), in dialetto (napoletano) e con espressioni inventate. In questo pezzo, come per altri presenti nel disco, è stata aggiunta una breve introduzione - sempre presa da un concerto di Branduardi -, per il resto la stesura è fedele all'originale. L'argomento della canzone, ovvero la disperazione d'amore, ha certamente influito sull'interpretazione.
Commentano gli artisti sul nuovo videoclip: "Con questo semplice video abbiamo voluto ricreare l'atmosfera che c'è quando io e Alessandro suoniamo e cantiamo le canzoni di Branduardi, questa volta sullo sfondo di pianoforti e altri strumenti antichi in questo strano liutaio di Padova. Insieme, la condivisione delle fasi di registrazione allo Studio2, che è sempre un momento di serio divertimento."
Guarda qui il videoclip su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=6HNNyxv2r1k
Angelo Branduardi ha creato un genere personale rigenerando le tipiche atmosfere fiabesche ed epiche (medioevali, rinascimentali, celtiche...) grazie all'enfasi del cantato, agli arrangiamenti e alla scelta degli strumenti. Il tutto insieme ai riferimenti e alle costruzioni armoniche del passato. Quelle canzoni hanno però contenuti, una scrittura lirica e una metrica ben precise, spesso di forte impatto poetico.
Commenta Fabio Cinti a proposito del progetto: "Il mio intento è quello di far emergere questo aspetto affrancandole dalle personalità mia e di Branduardi e cercando nell'interpretazione pura (dove l'interprete è al servizio della canzone e non viceversa) proprio la poetica che sta nella scrittura, sia della musica che dei testi. A ricantare Branduardi - e vale per quel pugno di grandi cantautori italiani di cui fa parte - si rischiano due cose: l'emulazione (non solo vocale) o la "coverizzazione", ovvero quel processo attraverso il quale ci si autorizza a fare proprie delle canzoni personalizzandole a piacimento, offrendo versioni spesso modeste e inferiori alle originali. Questo non accade nella musica classica, dove il rigore esecutivo della scrittura è essenziale e quindi imprescindibile. Il mio approccio vocale e quello pianistico di Alessandro Russo è proprio figlio di questo rigore."
TRACK-LIST:
Il dono del cervo (L. Zappa, A. Branduardi)
Fou de love (P. Panella, A. Branduardi)
Sotto il tiglio (L. Zappa, A. Branduardi)
La luna (L. Zappa, A. Branduardi)
Casanova (L. Zappa, A. Branduardi)
Confessioni di un malandrino (A. Branduardi)
La volpe (L. Zappa, A. Branduardi)
Alla fiera dell'est (L. Zappa, A. Branduardi)
BIO
Fabio Cinti è un musicista, cantautore, autore,
È del 2011 – a 33 anni, dopo la lunga formazione filosofica e musicale – il suo esordio discografico con "L'Esempio delle Mele", dove già compaiono i nomi delle collaborazioni maturate nel tempo. Su tutte spiccano quella di Morgan e Pasquale Panella, autore del testo di un brano.
A seguire, nel 2012, "Il Minuto Secondo" e nel 2013 "Madame Ugo" – In quest'ultimo, uscito per Mescal e prodotto da Lele Battista, compaiono altre due importanti collaborazioni, quella con Franco Battiato, autore di un inedito ("Devo"), e con Paolo Benvegnù -.
Nel 2014 "Tutto t'orna", album che contiene una raccolta di undici canzoni tratte dai tre dischi precedenti riarrangiate per quartetto d'archi, pianoforte e chitarra acustica, sotto la direzione del M° Carlo Carcano.
L'anno seguente esce "FQ", un ep di cinque tracce elettroniche/sperimentali.
L'album successivo (2016) sarà prodotto da Paolo Benvegnù: "Forze elastiche". Anche qui compaiono alcune collaborazioni, su tutte quella di Nada, a cui è affidata l'interpretazione di un brano.
Il 27 aprile del 2018 esce La voce del padrone – un adattamento gentile: il capolavoro dell'1981 di Franco Battiato viene eseguito in un adattamento per quartetto d'archi, pianoforte, voce e cori. L'album viene accolto con forte entusiasmo sia da parte della critica che del pubblico, tanto che Fabio Cinti vince la prestigiosa Targa Tenco 2018 nella categoria "Interprete di canzoni".
Il 24 aprile del 2020, in pieno confinamento da pandemia, decide di far uscire comunque il nuovo album: "Al blu mi muovo", accolto molto favorevolmente dalla critica.
Inoltre: Fabio Cinti è stato producer al fianco di Morgan per sette edizioni di X- Factor. Ha già scritto musiche per il teatro (le ultime, per lo spettacolo di Gabriella Greison – fisica, divulgatrice, scrittrice e attrice – tratto dal suo romanzo "Ucciderò il gatto di Schrödinger" – Mondadori -, per la regia di e con Marco Caronna) e per alcuni cortometraggi, tra cui Argos di Fabio Bagnasco.
A Fabio Cinti è dedicata una monografia di Studio XXXV Live in onda su SKY Arte e, sullo stesso canale, partecipa a assieme a Morgan alla monografia su La Voce del Padrone per la serie "33 giri – Italian Masters".
Nel 2021, in occasione dell'anniversario del La voce del padrone, è stato chiamato a interpretare Battiato con l'Orchestra della Magna Grecia e con la band originale di Battiato, composta da Angelo Privitera e Il Nuovo Quartetto Italiano.
Sempre nel 2021 partecipa a Invito al viaggio - Concerto per Franco Battiato all'Arena di Verona; canta, insieme a Morgan, il brano Segnali di vita (il concerto diventerà un album per la Universal, un film, e, insieme alle interviste nel backstage anche delle prove, una serata-evento ideata e diretta da Pif, "Caro Battiato").
Nel 2022, un nuovo studio (solo dal vivo) su Franco Battiato, ideato e eseguito insieme al pianista Arturo Stàlteri, si chiama Incantate e ripropone per pianoforte e voce dieci brani del cantautore siciliano scritti insieme a Giusto Pio per le interpreti femminili (Milva, Giuni Russo, Alice e Sibilla) e mai cantate da lui.
Alessandro Russo è un pianista e compositore nato a Stoccarda, di origini calabresi e bolognese d'adozione.
Si laurea al DAMS di Bologna con una tesi sul cinema di Franco Battiato. Di lì a poco inizia la collaborazione con Fabio Cinti, sia dal vivo che in studio (suona e arrangia in Il Minuto Secondo, Madame Ugo, Tutto t'orna).
E, nel 2013, lo accompagna in apertura ad alcuni concerti dell' "Apriti Sesamo Tour" di Franco Battiato.
Nello stesso anno esce il suo primo album, prodotto dallo stesso Cinti, "Assediati dall'esercito russo e cinti dalle mura, guardavamo il cielo" (Blume).
Il suo brano "Qualcosa di cui ho bisogno", scritto assieme a La Tarma, entra nella colonna sonora originale della fiction Rai Uno "Tutto può succedere" (Cattleya).
Nel 2018 pubblica il suo secondo album "Escher on the beach", prodotto dal M° Marco Biscarini, con il quale scrive il brano "Ricordi", per la colonna sonora originale del doc-ufilm "Bologna '900" del regista Giorgio Diritti. Sempre con Marco Biscarini, in qualità di pianista interprete/esecutore, partecipa alla colonna sonora del docu-film su Carlo Cracco "Cracco Confidential" (Discovery Italia, 2018) e al film "Il Vegetariano" (2019) di Roberto Sanpietro.
A maggio del 2021 pubblica il singolo "Where The Wave" (DistroKid) in collaborazione con il cantautore statunitense Benoit Pioulard e prodotto da SINK.
A settembre del 2021 pubblica il terzo album "Songs from the Ponds", una raccolta di 13 nuove composizioni originali per pianoforte, nata e registrata durante il lockdown.
"GUARDATE COM'È ROSSA LA SUA BOCCA" è il nuovo album per pianoforte e voce di Fabio Cinti e Alessandro Russo in occasione dei 50 anni di carriera di Angelo Branduardi disponibile dal 12 gennaio 2024.
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Vagabond Deluxe 32 – Seconda Ristampa
Vagabond Deluxe 32 – Seconda Ristampa
Un nuovo incontro diventa per Musashi Miyamoto l’occasione per una sfida di spade e per una speculazione filosofica. Il tempo scorre, la vita va avanti, e gli esseri umani prendono, più o meno consapevolmente, una strada. Ma se il cammino scelto dovesse rivelarsi un’illusione o un miraggio? Che farà allora l’uomo? Cadrà vittima della disperazione o prenderà una nuova via?
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Il dolore e l’amore
Credo che il tema del dolore non avrà mai una sua conclusione definitiva. Ci è difficile accettarlo come una legge della natura che ci avverte di un pericolo, che ci indirizza a una comportamento più consono al nostro equilibrio biologico e psichico. Ci è difficile pensare che un Dio-assoluto si sia inventato un metodo cosi barbaro per insegnare e fare crescere le sue creature. Ci dibattiamo tutti in questi dubbi e sentiamo tutti questa ribellione (specialmente quando si soffre).
Noi lo osserviamo, costante, nel mondo. Inoltre quello che osserviamo è una minima parte di quello che esiste, spesso nascosto nel privato della famiglia e nell'intimo degli individui che apparentemente sembrano sereni.
Rifletto che al di là di un tentativo di spiegazione filosofica specifica, noi stiamo vivendo e osservando un piccolo momento di un percorso immenso che ci porterà (grazie anche al dolore) a una consapevolezza così grande da far scomparire ogni dubbio e, al contrario, ringraziare di questi passaggi, così difficili, senza i quali non vi sarebbe stata la nostra crescita.
Infatti il dolore, la sofferenza, il disagio sono una spinta al movimento a cui nessuno può sfuggire. E’ l’unica che non lascia scelta. Se prima potevamo intraprendere strade diverse, nel momento del dolore non possiamo far altro che lottare per uscirne. Non abbiamo libertà e siamo costretti a percorrere forzatamente quella strada che ripetutamente avevamo ignorato prima dell’avvenuta sofferenza. A questo punto non so se mi sento di ringraziare il dolore come viatico verso il divino, ma sicuramente non lo maledico perché ne comprendo il valore.
Però mi domando: può il dolore essere un viatico per l'amore? Nel dolore il mondo si chiude e, per quell’individuo, tutto intorno è un abisso di solitudine e disperazione. Come si può imparare ad amare quando si è straziati da un feroce mal di denti? O quando, nei casi più estremi, si è persa una persona cara?
Eppure tutto si muove in quella direzione perché si è costretti a pensare, riflettere, smuoversi da ciò che fino a quel momento era stato il nostro appoggio; si deve rinnovare l’essere e trovare altri spazi mentali. Solo allora si troverà il senso di quello che ci è successo, non prima.
Sono convinto che più si riesce ad amare e più tutte le motivazione dei nostri dolori sfumeranno nell'indifferenza al nostro io. Però sono anche convinto che ora vanno combattuti per quello che significano e mai accettati per quello che determinano. Infatti sappiamo che il vittimismo e la rassegnazione sono estremamente deleteri se portano l'individuo ad attendere, passivo, che tutto possa finire.
Nel buddismo viene detto che la causa principale del dolore sia il desiderio. Più in generale io direi che la causa principale del dolore è il nostro modo di partecipare agli eventi che ci vedono protagonisti. Non siamo in grado di sentirli come parte di noi perché il nostro io limitato sta sperimentando la realtà come separata e ne coglie solo la parte che può alimentare il proprio egoismo. Ecco che allora arriva il dolore per correggere e far comprendere come questo antagonismo sia "irreale" e come l'altro sia un noi stessi. Così le parole del Cristo "Ama l'altro come te stesso" non appaiono solo come un precetto morale, ma diventano la spiegazione di un Realtà che va imparata con la comprensione, la consapevolezza nella conoscenza di noi stessi e, quando tutto questo non basta, con il dolore, il quale scuote l'essere e lo costringe a pensare e a guardarsi dentro come prima non aveva mai fatto.
Dunque l'amore può nascere anche dal dolore perché così si aprono le porte a quel "senso dell'essere" che prima rimaneva sepolto sotto il velo del nostro egoismo.
Però è anche vero che per riuscire ad amare gli altri prima bisogna saper amare se stessi per quelli che siamo e non per quello che vorremmo essere o che potremmo avere. L'accettazione di sé, in questo senso, diventa la chiave dell'amore che gradatamente si potrà allargare oltre i confini dell'io e dell'avere.
Dico questo non perché lo so, ma perché lo credo per quello che mi è stato insegnato e che risuona in me come una verità da scoprire. Ci provo e mi sento più sereno.
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L’Esistenzialismo e l’Amore
Nella rubrica di mercoledì scorso, abbiamo giocato (ci assolva, per favore, Signor Sartre!) con la semplificazione della corrente filosofica dell’Esistenzialismo, che si fonda sul riconoscimento dell’assurdità e dell’inutilità della vita.
Vivere non ha senso e portiamo avanti i nostri giorni come un lavoro mai finito, come tanti condannati Sisifo (scriveva Albert Camus).
Tuttavia, l’uomo si fa convincere più facilmente dall’esistenza di uno scopo divino e sovrannaturale - ancorché recondito o imperscrutabile - che non il contrario. Le religioni esistono appunto per assegnare uno scopo all’esistenza, altrimenti è meglio suicidarsi. Non tutti reggono alla consapevolezza della non esistenza di un senso ed un significato della e nella vita.
Tutt’al più si può sopportare l’idea - molto cattolica - di non possedere una mente capace di scoprire il senso dell’esistenza sulla Terra, ovvero di essere (e rimanere) fedeli ad una divinità che semplicemente nasconde agli uomini la verità, con lo scopo di provarne la fede.
Sembra perverso, concordo, ma è così.
Pensate, invece, alle divinità dell’Antica Grecia. Quegli dei semplicemente si divertivano con gli uomini, usandoli come marionette, amanti, attori, vendicatori. Gli Antichi Greci non avevano un Aldilà premiante e semplicemente sopportavano la vita, cercando sulla Terra un sistema di regole per ben convivere (la democrazia nasce ad Atene, Socrate sceglie di morire per rispettare alle regole della pòlis).
Trasversalmente alle epoche ed alle latitudini, tuttavia, c’è solo un contesto in cui l’uomo trova un senso ed una consolazione: essere amato. ‘Essere amato’ più che ‘amare’, si badi.
Oggi, che si celebra San Valentino (e dalle mie parti anche il suo sodale, San Modestino, festa patronale), stiamo parlando, infatti, di Amore, quale antidoto alla disperazione degli uomini.
L’uomo trova senso e significato nel conquistare amore, più che nel darlo. C’impegniamo a convincere il prossimo di cui c’innamoriamo a definirci Unici, Straordinari, Insostituibili, Indimenticabili, come nella stupenda canzone di Nat ‘King’ Cole, Unforgettable.
L’amore è una situazione caduca, come la vita: conosciamo qualcuno, ci innamoriamo, ci amiamo, finisce, magari ricominciamo, ma alla fine tutti muoiono.
Tuttavia, quando ne siamo presi, per un attimo o per un po’ di più, ci sentiamo vivi, come ci fosse un senso all’esistenza. Solo il sentirci amati spezza la nostra disperazione di esseri senza significato.
Ultima notazione: è importante che l’essere amati sia reciproco e contemporaneo. Sfasature spazio-temporali creano molti guai. E ne riparleremo.
© Orticaland
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La Bussola d’Oro di Philip Pullman
«Tutti siamo soggetti al fato. Però tutti dobbiamo agire come se non lo fossimo» rispose la strega, «o morire di disperazione. C’è una strana profezia riguardo a questa bambina: il suo destino è di provocare la fine del destino. Solo che deve farlo senza sapere quel che fa, come se il farlo procedesse dalla sua natura, e non dal suo destino. Se le viene detto quel che deve fare, tutto fallirà: la morte spazzerà tutti i mondi; sarà il trionfo della disperazione, per sempre. Tutti gli universi, tutti quanti, diverranno nient’altro che dei meccanismi interconnessi, ciechi, vuoti di pensiero, di sentimento, di vita...»
“La Bussola d’oro” è il primo capitolo della trilogia “Queste Oscure Materie” di Philip Pullman ed è pubblicata in italiano da Salani. Sono anni che mi dico che dovrei leggerlo, che mi ripetono che è una delle pietre miliari del fantasy, un tassello imprescindibile nella libreria di ogni lettore. Sono anni che la gente mi ripete che questo è uno dei suoi libri preferiti. E ora complice la prossima uscita della serie tv per HBO e BBC, ho organizzato un Read Along, il #PABLyraRA, per recuperare e potevo farlo prima, forse.
Lyra ha undici anni, vive al Jordan College di Oxford, non lontano da Londra, Inghilterra; ma il mondo di Lyra è ben diverso dal nostro: oltre l’Oceano c’è l’America, dove lo stato più importante si chiama Nuova Francia, giganteschi orsi corazzati regnano sull’Artico e lo studio della natura viene chiamato «teologia sperimentale». Soprattutto, dove ogni essere umano ha il suo daimon: un compagno, una parte di sé di sesso opposto al proprio, grazie al quale nessuno teme la solitudine. Il mondo di Lyra attraversa un periodo critico: nella luce misteriosa dell’Aurora Boreale cade una Polvere di provenienza ignota, dalle proprietà oscure. Uomini di scienza, autorità civili e religiose se ne interessano e ne hanno allo stesso tempo paura, ma Lyra l’intrepida si trova al centro di questi intrighi, intuisce segreti pericolosi e inquietanti, perciò decide di andare alla ricerca della verità grazie all’aiuto di uno stranissimo strumento «scientifico», una sorta di bussola d’oro, un aletiometro che serve appunto a misurarla. In questo libro-mondo Philip Pullman traccia un’allegoria della condizione umana, densa di forza e bellezza, che riesce a proporre in un’avventura mozzafiato e in una lussureggiante molteplicità di toni i grandi temi della riflessione filosofica, riuscendo a far vibrare le nostre corde più profonde e a rinnovare in noi i grandi interrogativi fondamentali.
Era diverso tempo che non prendevo in mano un fantasy, in cui non immergevo in un mondo nuovo, con regole a sé stanti, elementi paranormali e personaggi che devono compiere un percorso di formazione. Il libro di Pullman infatti è un viaggio fisico e spirituale in cui Lyra, la protagonista, in primis, ma i personaggi tutti devono cercare una verità, universale o personale, che cambierà le loro vite per sempre. Questo primo volume descrive l’universo in cui ci si muove, disegna gli elementi che compongono la ricerca, ma di certo “La Bussola d’Oro” non ha un inizio scoppiettante, anzi è un procedere lento tra le tortuose strade di Oxford fino al profondo Nord. Al centro della scena compare Lyra, una ragazzina di 11 anni che vive in un college antico e prestigioso, in uno stato di semi abbandono, mentre raggranella conoscenze disconnesse e segreti incustoditi. Nel giro di poco passa dal giocare con un gruppo di ragazzini per le strade della sua città natale a tenere per le mani misteri di inestimabile valore. Lyra è una ragazzina sveglia, che naturalmente ha ancora tantissimo da imparare, ma allo stesso tempo ha intuito e passione. La sua grandissima voglia di esplorare, di andare a Nord a scoprire i misteri che circondano i tartari la rendono intraprendente e a volte troppo avventata. Ma d’altronde è un libro di avventure e le avventure iniziano con l’avventatezza. Lyra ha un animo generoso, un istinto che prevarica su tutto e un’irruenza particolare che la portano ad accettare tutto, ad agire prima e a porsi qualche domanda dopo. Quando iniziano a scomparire i bambini per mano di quelli che vengono chiamati Ingoiatori, in circostanze misteriose, Lyra inizia a fare le sue ricerche, cerca di venire a capo delle notizie che riceve dallo zio Lord Asriel e non esita ad accettare di venire affidata alle cure di una donna apparentemente ricca, potente, colta, affascinante, la signora Coulter che naturalmente nasconde più di quel che. Lyra ha un compito più grande di lei da cui dipendono i destini di tutti gli uomini, ma non deve essere guidata e nessuno deve dirle cosa fare, perché deve capire qual è la cosa giusta da fare da sola. Deve essere libera di sbagliare, deve quindi esercitare il suo libero arbitrio. E quindi passa dall’avere un’ingenuità disarmante dettata dalla sua giovane età, all’avere dei guizzi geniali che svoltano anche le situazioni più disperate. Segui le sue vicende con il cuore in gola perché sai che sono disperate eppure lei ne esce fuori, un po’ spezzata, un po’ ammaccata, un po’ più consapevole. Lyra deve fare affidamento solo sul suo istinto e il suo fedele compagno, Pantalaimon il suo daimon. Ed è questo l’elemento più affascinante introdotto nelle prime pagine dalla fantasia di Pullman: i daimon queste creature che assumono la forma di animali e/o insetti, e che rappresentano in qualche modo la vera essenza degli umani che accompagnano. I daimon soffrono con le loro controparti umane, vivono e respirano la stessa aria e non possono allontanarsi più di un tot. Quelli dei bambini sono dei multiforma, quelli degli adulti assumono un solo aspetto per tutto il resto della vita del loro umano. Ma non sono così facili da descrivere, i daimon sono qualcosa di più e nascondono segreti che non sono stati ancora sviscerati appieno. Ma è questo che mi ha affascinato de “La Bussola d’Oro” gli indizi che Pullman getta al suo lettore e come ogni tassello serva per rispondere a domande più grandi, a interrogarsi sul bene e sul male, sulla religione e la scienza, sul confine sottilissimo del cosa è più giusto fare, di cosa si può sacrificare per il bene comune. E poi in definitiva che cosa è il bene comune? Quello che rimprovero al libro è di essere a tratti troppo lento, ci sono capitoli in cui non succede niente, per lasciare lo spazio alle domande e alle descrizioni.
Un particolare che mi ha colpito molto è quella di chiamare la maggior parte dei personaggi con nome e cognome, quando non lo fanno mettono in risalto il ruolo. Sono moltissimi i personaggi citati e che hanno un ruolo essenziale nel procedere del viaggio di Lyra. Impareggiabile il saggio Farder Coram, uno dei gyziani, una delle tribù che prendono Lyra sotto la loro ala protettrice e la aiutano nella sua missione. Serafina Pekkala e le streghe, che nonostante la loro indifferenza sono molto appassionate e hanno un ruolo molto importante nella guerra, a dispetto di tutto. E insomma vogliamo parlare di Iorek Byrnison la sua storia mi ha abbastanza straziato. Lord Asriel mi ha disarmato per la sua freddezza, per la sua intelligenza, ma anche la sua spietatezza. Raggiungere lo scopo è più importante di qualsiasi altra cosa. E non credo che il fine giustifichi i mezzi, non quando ci rimettono degli innocenti. Lee Scoresby un esploratore che già solo per il fatto che possiede un aerostato acquista dei punti importanti, ma è un personaggio affascinante. Ma il mio personaggio preferito in assoluto è Iorek Byrnison. Iorek Byrnison è un orso corazzato, un reietto della sua razza, un combattente, sconfitto dalla vita e dagli umani che lo hanno imbrogliato. Ma Lyra riesce a cambiare le sue sorti e lui lotta furiosamente, sa perfettamente cosa significa essere un orso, ma allo stesso tempo sa essere di una fedeltà impressionante. Iorek Byrnison ha il mio cuore, nonostante sia un orso corazzato.
Mi ha molto affascinato l’uso della tecnologia che fa Pullman che sembra sempre un incrocio tra magia e scienza. Non è mai chiaro il confine tra i due, neanche quando le correnti ambariche sembrano correnti elettriche. Da un lato strumenti avanzatissimi dall’altra le laterne per illuminare i posti bui. E il freddo raga, la neve, il gelo, queste temperature artiche che tolgono il respiro. Ma del worldbuilding fa parte anche l’accenno agli universi paralleli e della possibilità di poterli attraversare. Chi mi segue da molto sa che una delle mie fisse storiche è proprio quella sugli universi paralleli (la mia tesina per la maturità parlava di Universi Paralleli) e questa cosa mi riempie di entusiasmo.
Il particolare da non dimenticare? Un pesce affumicato…
Questo è l’inizio del viaggio di Lyra, in un mondo unico, in cui magia e scienza, tradizioni e scoperte si uniscono per dare vita a un mondo popolato di daimon e scelte, incongruenze e fede, in un disperato tentativo di conquistare il potere o salvarci tutti.
Buona lettura guys!
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“Lo scrittore ama e invidia le vite altrui. Io ho amato e invidiato Kerouac. Ora scriverò di un morbo che colpisce una grande metropoli”: dialogo con Ferruccio Parazzoli, che ha sfidato Dostoevskij
Di Fëdor Dostoevskij mi basta quanto leggo – è un santo-vampiro, i ‘Karamazov’ hanno l’autorevolezza sinistra di un testo sacro – quanto scrive quel bastardo di Nikolaj Strachov – “Io non posso considerare Dostoevskij né buono né felice. Era cattivo, invidioso, vizioso. Per tutta la vita fu preda di passioni che lo avrebbero reso ridicolo e spregevole, se non fosse stato nello stesso tempo così intelligente e così perfido” – e come ne scrive Lev Sestov, il suo massimo esegeta – “Chi vuole avvicinarsi a Dostoevskij deve compiere tutta una serie di exercitia spiritualia, e deve vivere ore, giorni, anni in un’atmosfera di evidenze contraddittorie, che si escludono a vicenda”. Dostoevskij è troppo vasto perché se ne possa dire qualcosa – ti ficca denti in bocca, blocca ogni presunta opinione, perché prima devi convertirti, devi cambiare vita, devi folgorare di luce il fango, poi ne parliamo. Poi leggo questo, però. “Come sempre, ti afferrava l’anima, la palleggiava, la torceva e poi te la restituiva, pronta da rimettere nel petto… L’ho visto, di notte, quando scrive, la testa piegata tra le due candele, la penna che scorre sul foglio: è Dio, non c’è anima che possa nascondersi dinanzi a lui, egli la seziona, la fruga finché non ne abbia messo a nudo il germe del delitto, della crudeltà, della lussuria, che è in ciascuno di noi”. Che straordinaria descrizione di Dostoevskij, del suo gesto alchemico. Chi l’ha scritta e ha avuto l’ardore di dissezionare il cuore di Dostoevskij con un chiodo è Ferruccio Parazzoli – forse non poteva essere altri che lui – tra i ‘grandi vecchi’ della letteratura italiana, autore di una bibliografia d’invidiabile giovinezza. Lo schema narrativo è rotondo: attraverso lo stratagemma del libro trovato casualmente in Russia (“Il librino, stampato su carta dozzinale, mi fu regalato da un amico oggi scomparso – come ormai molti altri miei amici e conoscenti – di ritorno da uno dei suoi frequenti viaggi in Russia”), Parazzoli fa raccontare l’inquieto Fëdor da uno dei suoi personaggi minori, Razumichin, che in Delitto e castigo è il bonario amico di Raskol’nikov mentre ne Il grande peccatore – così il romanzo pubblicato da Bompiani, che, coerentemente, pubblica i romanzi di Dostoevskij nella collana filosofica del ‘Pensiero Occidentale’, tra Platone, Heidegger e Kant – è un lacché, un pervertito nel cuore, un uomo roso da fragori d’invidia, iroso nel rancore. Questo romanzo, che proviene dal retroscena del sottosuolo e ha un retrogusto pietroburghese – l’esercizio mimetico è riuscito: pare di sfogliare le confessioni di un russo arso dal tormento del tardo Ottocento –, di fatto, è una indagine sulla scrittura e sulla sconfitta dello scrittore, sulla mefistofelica malia dell’arte, sul demone del genio – avete presente Il soccombente di Thomas Bernhard? – sull’amoralità e l’anormalità dell’artista che lavora, come un santo e un folle, per la redenzione dell’uomo (ma mai per la propria). Insomma, ho preteso al dialogo Parazzoli. (d.b.)
Dostoevskij. Ancora Dostoevskij. Pare, davvero, l’autore ineludibile e inesorabile. Che ruolo ha avuto FD nella sua opera, quella marcia epica nell’etica, quell’indagine ossessiva nella colpa? In quale opera, in particolare, tolta questa, ha sentito il morso di FD?
Milano è la mia Pietroburgo. Striscia il fantasma di Fedor Michailovich – così lo chiamo da tempo, come ora fa Razumichin, il tarlo che gli entra dentro nel mio Grande Peccatore – in quasi tutti i miei romanzi, specie dei più recenti. Piazza Sennaja si confonde per me con piazzale Loreto, i vicoli, le strade sormontate dai grandi formicai dei piccoli impiegati, dei senza lavoro, prendono il nome di viale Monza, di via Padova, delle periferie oltre i terrapieni della ferrovia. F.M. mi ha insegnato ad osservare le facce della gente, a leggere dentro di loro, a conoscerne e a inventarne le storie. Così è nata la mia Trilogia di Piazzale Loreto, specie Piazza bella piazza, l’ultimo dei tre volumetti, dove ruotano storie buffe, drammatiche, fantastiche.
Il suo romanzo mi sembra, tra le altre cose, una riflessione sulla scrittura. La cito. “Era incapace di innalzare la sua arte fino al sublime se non partendo dalla più concreta miseria della condizione umana”. Qual è allora il compito dello scrittore: andare dove nessuno va, indagare i luoghi oscuri, sondare le miserie, scavare nel fango, cosa?
Compito dello scrittore è vedere ciò che gli altri non vedono, altrimenti che scriverebbe a fare? Lo scrittore scende dove deve scendere, ma anche sale dove deve salire, il sottosuolo ma anche il volo libero, il più alto. Ho pubblicato di recente un piccolo saggio Apologia del rischio che porta per sottotitolo Scrivere è una roulette russa dove sostengo che non basta guardare dai tetti in giù ma anche dai tetti in su. Uscire dalla pura cronaca dei fatti. “Non c’è artista che tolleri il reale”, diceva Nietzsche.
Che rapporto c’è tra etica ed estetica? Insomma, uno scrittore può essere un ‘figlio di’ e scrivere capolavori assoluti. Oppure, a suo avviso, c’è una coincidenza, una intesa, una grande opera può essere scritta soltanto da un grande uomo…
Gli scrittori non sono dei grandi uomini, altrimenti farebbero altro. Non credo ci sia un rapporto diretto tra etica ed estetica. Le vite degli scrittori, a studiarle bene, sono colme di vizi e di difetti, talvolta perfino spregevoli, secondo il comune senso del ben pensare e ben vivere. E poi, perché parlare di capolavori assoluti? Non esistono, ognuno ha dentro il germe della decomposizione, se non altro il Tempo. Il capolavoro ciascuno scrittore lo tocca quando non si permette di scrivere se non al meglio di quanto riesce a scrivere, quando nella sua roulette russa, esplode il Bang!
Un brano del suo romanzo esalta il tema dell’invidia. La cito: “frequentandolo sempre più da vicino, nella più nascosta intimità, sarei entrato nell’anima di FM come l’ammofila assassina nella larva di farfalla, l’avrei divorato, fatto mio, finché, come il bruco Monarca, avrei atteso a testa in giù che dalla crisalide uscissero le nuove ali e allora, finalmente, me ne sarei volato via verso il mio personalissimo sole”. Che ruolo ha l’invidia nella sorte – o nella disperazione – di uno scrittore?
L’invidia è un sentimento vicino all’amore. Razumichin, il mio personaggio nel Grande Peccatore, è roso dall’invidia per F. M., che vorrebbe saper eguagliare nella genialità come nel vizio, ma è altrettanto vicino all’amore per il suo idolo: se non lo invidiasse alla follia non lo amerebbe alla follia. Lo scrittore è colui che invidia e ama le vite degli altri.
Domanda duplice. Il ritmo che ha assegnato al romanzo è profondamente ‘russo’, risuona la nenia sintattica di molti romanzi russi dell’Ottocento tradotti in Italia, leggendolo, un esercizio di mimesi mirabile. Le chiedo, però, a fronte della sua esperienza editoriale, quale autore della letteratura italiana è a suo dire il più ‘russo’? E poi: quale autore ha studiato, ha letto con acribia per dare autenticità narrativa e sostanza formale al suo Razumichin?
A mia memoria sono molto lontani gli scrittori italiani dalla tormentata anima slava. Un solo nome, forse, potrei fare: quello di Tommaso Landolfi, il suo costante timore con cui si accosta al paradosso del mondo. Per dare vita all’infido fantasma di Razumichin non potevo se non rifarmi a Dostoevskij stesso, e al suo Delitto e Castigo facendone esattamente il contrario di quanto di lui dice l’autore, sostenendo così ancora una volta, come lo stesso Razumichin sostiene, che Dostoevskij fosse un gran mentitore nei suoi romanzi, proprio come deve essere uno scrittore che non crede che la verità degli uomini e dei fatti sia così come si presenta.
Oggi. Cosa le pare della letteratura italiana recente? Cosa le piace leggere? E dopo aver ‘sfidato’ Dostoevskij, dove s’inabissa la sua famelica scrittura, insomma, cosa sta scrivendo?
Leggo molto, ma solo per imparare a come si deve fare o non si deve fare a scrivere, cosa si deve raccontare e cosa non si deve. E non so quale delle due cose imparo di più. Naturalmente sto scrivendo, in quanto scrivo un poco ogni giorno. Forse è un altro romanzo, forse parlerà di un morbo collettivo che colpisce una grande metropoli, la cui causa sarà ben altro che non i topi della Peste di Camus.
A microfoni spenti titillo ancora Parazzoli, perché per me la letteratura è, anche, un groviglio di gossip. La domanda in corner è questa. “Qual è stato lo scrittore che più ha ammirato, tra i viventi, e con cui ha lavorato meglio?” La risposta mi sembra degna, bella, quasi dostoevskijana: “Jack Kerouac, quando venne in Italia, anche se era drogato e sbronzo, ma io, persona per bene, l’ho invidiato e l’ho amato… Purtroppo siamo stati insieme solo un paio di giorni”.
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La malattia mortale (Kierkegaard) . In quest'opera l'autore intreccia i fili della sua riflessione psicologica, teologica e filosofica dando vita al suo capolavoro. Lazzaro, amico di Gesù, è malato. Le sue sorelle mandano a chiamare Gesù che le consola: "Questa malattia non è per la morte, ma per la gloria di Dio". Lazzaro però morì, dunque la sua malattia era mortale. Se quella malattia non è per la morte, c'è nella nostra epoca una malattia che invece sia per essa? C'è, risponde Kierkegaard, ed è la disperazione. È la malattia dello spirito, la malattia che fa desiderare la morte pur mantenendo sempre in vita. Per questo la disperazione è per la morte, è a servizio della morte senza essere mortale, fa vivere la morte senza concederla. Kierkegaard descrive una parabola che va dalla disperazione che non sa di essere tale, a quella che comprende se stessa e sfida il mondo e Dio. . . . . . #libri #books #bookstagram #book #reading #bookworm #read #booklover #bookish #bibliophile #booknerd #instabook #reader #bookaddict #library #bookaholic #instagood #education #bookstagrammer #teacher #school #libros #booklove #booksofinstagram #bookshelf #filosofia #philosophy https://www.instagram.com/p/B-cpS7JKU9L/?igshid=1t336hzc49lwg
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IL LIBRO CONTRO LA MORTE. di Elias Canetti (Adelphi) “Il libro contro la morte" di Elias Canetti è sicuramente il più bel volume sull'argomento che abbia letto anche se la mia esperienza nel settore è piuttosto limitata. Anni fa lessi "Trapassare" di Emanuele Severino, opera filosofica, molto più teorica, molto meno avvinghiata all'idea di poter lottare in qualche modo contro la morte. Canetti raccoglie qui una grande quantità di aforismi (dal 1942 al 1994), che possono esser riuniti in nove tipologie, come suggerito nell'interessante postfazione di Peter Von Matt: l'uomo che uccide, i morti che vivono nel ricordo, la morte nei miti, la morte nella storia, la morte come antiteologia, la morte e gli animali, la morte nella poesia, la morte e il linguaggio, le esperienze personali. Canetti non si prefigge come scopo, vincere la morte, cosa piuttosto improbabile, ma combatterla, combattere l'idea della morte, non accettarne lo status, benché inevitabile. Di particolare interesse le incursioni nella morte nel mondo animale, oggi tema assai dibattuto: "Qual è il peccato originale degli animali? Perché gli animali subiscono la morte?" (pagina 31). Un Canetti spesso anticristiano e antireligioso, ma mai ateo, un discorso con Dio continuo e dubbioso, spesso minaccioso, ma che testimonia di un uomo che non riesce a nascondere fino in fondo la propria fede. Bellissima la citazione su un altro grande cultore della morte, Cesare Pavese: "Quando la notte scorsa, in preda alla più cupa prostrazione, volevo morire, ho preso i suoi diari e lui è morto per me" (pagina 107). Anche grandi parole sul tema morte-scrittura, quest'ultima considerata il vero antidoto alla morte (e come poteva essere diversamente?). Scrive Canetti: "...Non voglio sapere quali tra questi libri resteranno non letti. Sino alla fine non si può dire quali sono. Ho la libertà di scelta, fra tutti i libri che ho intorno posso sempre scegliere liberamente, e dunque ho il corso della vita nelle mie mani..." (pagina 174); e ancora: "Se non scrivo mi dissolvo. Sentirei la mia vita dissolversi in un rimuginio sordo e torbido, perché non annoto più nulla su di me..." (pagina 330). Un libro che se letto per il verso giusto può essere di stimolo e di aiuto alla cupa disperazione del vivere, ma che pone anche interrogativi insoluti al di fuori dei grandi sistemi di pensiero come le religioni. Portatevelo in spiaggia, sempre bene ricordarsi che siamo di passaggio...
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«Non si possono porre limiti ai sogni»
Galaxy Express 999 (o meglio, Ginga Tetsudo 999) è l’ennesima serie di Leiji Matsumoto. Gli episodi sono 113. La Rai, tanto per cambiare, non li ha trasmessi tutti: si è fermata a quota 51. Neanche metà, insomma. Alcuni anni dopo, Italia 7 ha completato l’anime, aggiungendo gli episodi inediti, forniti di un nuovo doppiaggio. La voce di un narratore fuori campo tratteggia in poche parole il contesto narrativo: «Anno 2021. Il sistema dei trasporti spaziali ha ormai raggiuno uno sviluppo notevole. La rete ferroviaria interstellare si estende fino all’estremità della galassia. I treni spaziali fanno servizio tra la Terra e gli altri pianeti tutti i giorni». Comincia tutto nella città di Megalopolis. Chi ha abbastanza soldi può comprarsi un corpo meccanico, che permette di vivere in eterno. Quando si guasta qualcosa, infatti, basta procurarsi i pezzi di ricambio. L’unico problema è la testa: se parte quella, addio sogni di gloria e d’immortalità. Tra i poveri, che vivono nei sobborghi, comincia a circolare una voce molto allettante: nella nebulosa di Andromeda c’è un pianeta sul quale si può scambiare il proprio corpo con uno meccanico senza spendere una ghinea. Solo che per arrivarci bisogna salire sul treno spaziale Galaxy Express 999. E il biglietto è più salato dell’acqua di mare. Il protagonista, un ragazzino bruttarello di nome Masai, e sua madre (il padre ha già levato il disturbo), vanno verso la città per vedere di trovarne uno. Purtroppo la donna viene uccisa da un Duca Meccanico. Il figlio si salva grazie all’intervento di Maisha, una biondina pallida e longilinea, che indossa un vestito nero da russa. Sembra sapere molte cose, di lui. Compreso il suo desiderio di raggiungere Andromeda. Con mossa a sorpresa, gli regala un biglietto per il Galaxy – gratuito e valido per tutta la vita – e pone come unica condizione quella di portarla con sé. Figurarsi se il moccioso rifiuta. Prima di prendere il treno, però, si vendica: rintraccia il Duca che gli ha fatto fuori la mamma, e smantella lui e il relativo maniero. Fatto questo, torna a Megalopolis in tempo per la partenza. Il Galaxy non ha un aspetto moderno e ipertecnologico, come gli altri treni. Sembra uno di quei convogli che si vedono nei film western. È gestito da un cervello elettronico. A bordo c’è una creatura che tutti chiamano Controllore (o Conduttore). Non si capisce di che sia fatto. Di lui si vedono solo gli occhi, bianchi. Il suo corpo sembra nero. O forse è invisibile. Chi lo sa. Due parole sul severo regolamento. A ogni passeggero viene fornito un sacchetto pieno di monete d’oro. Il Galaxy sosta su ciascun pianeta per un giorno intero, la cui durata dipende dal periodo di rotazione (su Titano, tanto per fare un esempio, corrisponde a 16 giorni terrestri). Chi perde il biglietto, deve scendere alla prima fermata disponibile. Come sentenzia Maisha, infatti, «chi possiede materialmente il biglietto è un passeggero in piena regola». Chi, invece, ha la sfiga di perdere il treno, ci lascia le penne. Però non spiegano come, né perché. Non è altrettanto rigoroso il rispetto delle leggi fisiche. Il treno viaggia su rotaie invisibili, e questo possiamo anche concederglielo. Ma non capiamo come mai non bruci per l’attrito ogni volta che entra a contatto con l’atmosfera dei mondi su cui effettua la fermata (tutti abitabili, anche se inospitali). Senza contare che in più di un’occasione Masai tiene il braccio fuori del finestrino. Eppure non mi risulta che nello spazio vi sia aria. Serialità vuole che in ciascun episodio Masai e Maisha scendano su un diverso pianeta. Il che significa nuovi incontri e nuove avventure, nelle quali il protagonista finisce sempre per essere coinvolto. Le storie raccontate sono strazianti, tragiche e malinconiche. Il lieto fine è merce assai rara. Conosciamo uomini e donne che nella maggior parte dei casi muoiono senza essere riusciti a realizzare i propri sogni. Non mancano gli innamorati la cui relazione finisce nel peggiore dei modi. E molti cercano di rubare il biglietto a Masai. Per loro il 999 costituisce l’ultima (e unica) possibilità di lasciarsi alle spalle una vita che non li soddisfa più. Sono disposti a tutto, pur di andarsene. Terminata la sosta – che può durare anche due e perfino tre episodi – i due ripartono, mentre la voce narrante riassume la filosofica “morale della favola”. Segnaliamo due guest star d’eccezione: Esmeralda (qui chiamata con il nome originario, Emeralda), il pirata donna amata da Toshiro, il migliore amico di Capitan Harlock (episodio 24), e Capitan Harlock stesso (episodi 79-81). Molti personaggi cercano di convincere Masai (che veste proprio come Toshiro) a non procurarsi un corpo meccanico: in fondo non è poi quella gran cosa che sembra. La stessa Maisha afferma: «Avere un corpo meccanico significa prolungare l’agonia e la disperazione». A lui qualche dubbio viene anche. Vorrebbe vivere in eterno e aiutare coloro che soffrono, ma si chiede: «Mi domando se possedere un corpo meccanico sia davvero meraviglioso come tutti credono». Le sue perplessità derivano da una semplice constatazione: sulla Terra gli uomini meccanici disprezzano gli esseri umani. Li perseguitano e li trattano come creature inferiori. Durante il viaggio c’è un mistero da risolvere. Riguarda Maisha. In lei c’è molto più di quel che sembra. Intanto, non è per nulla indifesa: possiede una pistola, una frusta e un anello lanciaraggi. Un personaggio molto potente, inoltre, butta lì una frase enigmatica ma non troppo: «Chiunque tenti di avere un dominio nello spazio, non può non conoscere il tuo nome, Maisha…». La ragazza conosce tutti – ma proprio tutti – i pianeti sui quali ferma il Galaxy. Di se stessa dice con amarezza: «Viaggio solo nella direzione del mio destino. E non posso nemmeno morire…». Giusto per ingarbugliare un po’ la situazione, ogni tanto discute con una voce maschile, da lei chiamata “padre”, che proviene dalla sua valigia e le ricorda la sua missione: portare Masai a destinazione. Ma è davvero così? Perché contribuisce lei stessa ad alimentare le incertezze del ragazzino, prima chiedendogli se è davvero sicuro di quel che sta facendo, e poi addirittura di rinunciare a tutto e fermarsi per sempre con lei su uno dei mondi visitati. Più che affetto, sembra una proposta da pedofila. I due si sono sicuramente affezionati l’uno all’altra, ma il loro rapporto mantiene pur sempre un’aura d’ambiguità. Gli ultimi due episodi sono gremiti di rivelazioni con la erre maiuscola. Masai arriva finalmente su Promemume, capolinea del Galaxy, il mondo dove si dice regalino i corpi meccanici. Nelle sue vicinanze c’è un buco nero. (In realtà questo pianeta ha per nome Lamethal, ed è al centro dell’anime intitolato La Regina dei Mille Anni). Oltre ad avere un corpo meccanico (il che si può intuire fin dal secondo episodio), Maisha è la figlia della crudele regina Promesium. Costei è stata una madre dolce e affettuosa, finché non le è saltato il ticchio di creare l’Impero degli Uomini Meccanici allo scopo di conquistare l’universo intero. E il marito? Be’, lui è la voce che proveniva dalla valigia della ragazza. Ha trasferito la sua anima, o quel che sia, in un ciondolo, e intende mandare all’aria i piani della consorte. Masai deve decidere se lo vuole, ‘sto corpo meccanico. Perché in caso contrario, Maisha deve cercare un altro e portarlo su Promemume. Per creare il suo impero, infatti, alla Regina servono cervelli appartenenti a giovani coraggiosi. Quando il protagonista rifiuta perché vivere in eterno sarebbe una vera palla, la donna va su tutte le furie. Ordina di uccidere figlia e ragazzino, ma il marito si sacrifica per impedirlo e lei stessa muore in un’esplosione. Dopo di che, Promemume finisce diritto nel buco nero. L’ultimo episodio è malinconico, perfettamente in linea con l’atmosfera generale della serie. Masai agisce come una sorta di catalizzatore: è da lui che Maisha trae la forza per opporsi alla madre. Gli confessa che veste di nero per ricordare la sua infanzia, uccisa proprio da Promesium, vittima della sua sfrenata ambizione. Le strade dei due si dividono. Lui torna sulla Terra, e vede la sua ex compagna di viaggio su un altro treno con un altro ragazzo. L’addio è delegato a una lettera: «Adesso sto cominciando un nuovo viaggio in compagnia di un altro ragazzo che ha bisogno di me quanto ne avevi tu tanto tempo fa. Noi non ci vederemo mai più, però io conserverò sempre un ricordo splendido di te». Galaxy Express 999 è privo di spensieratezza. Gronda sofferenza da ogni episodio. È vero che per i giapponesi essa non rappresenta per forza un elemento negativo. Tutt’altro: fortifica il carattere e permette di affrontare con la dovuta preparazione le avversità della vita, che non sono poche. Però un minimo di senso della misura ci vorrebbe. Il viaggio a bordo del Galaxy non è fisico, bensì interiore. Rappresenta la transizione dalla giovinezza all’età adulta. Ogni mondo visitato rappresenta – o meglio, simboleggia – una particolare condizione umana, come, ad esempio, il Pianeta della Rabbia Violenta. Viaggiando, Masai può accumulare esperienza: più cose vede, più conoscenza acquisisce. Soltanto così è in grado di capire cosa desidera realmente. Sostituire il proprio corpo con un involucro meccanico significa accettare un’immortalità statica. Lui si giocherebbe la possibilità di crescere: non potrebbe cambiare, né evolversi. Alla fine non realizza il proprio sogno, ma torna sulla Terra più saggio, più maturo. Grazie anche al suo Virgilio personale, Maisha. Anche lei ha la sua brava ragion d’essere: «Nel grande meccanismo dell’universo, ognuno di noi ha un compito ben preciso che deve svolgere con amore e attenzione, anche se quel compito è semplice e modesto». Siamo tutti parte del Tutto, insomma. Nella visione buddhista delle cose non si butta via niente. Un po’ come con il maiale. Oddio, non è proprio così, ma era giusto per rendere l’idea. La verità è che il Galaxy non arriva realmente su Promemume. Ha ragione Leiji Matsumoto (indicato nei titoli di testa come Reiji Matsumoto) quando dice: «Il treno non raggiunge la destinazione perché non si possono porre limiti ai sogni». Se lo facessimo, non si chiamerebbero più sogni.
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“Ho scritto un singolo di Rihanna con un ukulele”
Ingaggiata e lasciata andare da tre grandi case discografiche, Laura Pergolizzi aveva quasi rinunciato a una carriera pop.
Invece, è diventata una cantautrice a noleggio, donando successi ad artisti del calibro di Cher, Christina Aguilera e Rihanna (ne riparleremo più avanti). Poi è arrivata una chiamata dal destino…
"Ho ricevuto un messaggio di Instagram da un ragazzo in Grecia che ha detto, 'Hey, credo davvero che la tua musica potrebbe funzionare qui e mi piacerebbe acquistarne i diritti.'"
"Nonostante la mia esperienza, non sapevo cosa significasse i diritti", dice la newyorkese. "Ho pensato fossero per un film o programma televisivo."
Invece, il suo misterioso contatto greco messo ha lanciato un singolo, Lost On You, che ha raggiunto Top 10. Ben presto, la canzone è salita in cima alle classifiche in Italia, poi in Svezia, Francia, Polonia, Bielorussia e Israele.
A un certo punto, è stata la quarta canzone più shazammata nel mondo. "E 'stato difficile. Lo è stato davvero. Questo forse è il motivo per cui le persone vi entrano in connessione", dice la star sulla fine della sua storia di cui parla il suo singolo "E davvero una cosa assurda da attraversare", si meraviglia la cantante. "So fin troppo bene quello che serve per sfondare: un po' di fortuna, un po' di lavoro, un po’ di talento.”
"Ho lavorato con tante persone, ma non ho mai visto nulla di simile accadere. Mi sento così fortunata a sperimentarla." Infatti, la (quasi) trentaseienne è così richiesta che sta parlando con noi della BBC mentre sale su un volo per Los Angeles; un compito che non è privo di insidie.
"Puoi aspettare solo per un secondo?" ridacchia. "Ho appena scoperto che devo togliere sei chili dal mio bagaglio perché ho comprato così tanta schifezza qui." Imperterrita, mi parla della la sua storia mentre disfa i bagagli.
La cantante aveva preso l'ukulele come uno strumento per comporre, ma ha iniziato ad amarlo come strumento.
Il padre della Pergolizzi era un avvocato e sua madre cantava l'opera, ma ha smesso quando ha messo su famiglia. Anche se era una famiglia musicale (ascoltavano i classici, non i successi pop) il padre sconsigliava una carriera nel mondo dello spettacolo, dicendo che non avrebbe "mai pagato le bollette".
Ma quando la sua mamma è morta nel 1997, la Pergolizzi finito il liceo, si è trasferita a Manhattan e ha perseguito la sua passione; adottando il nome d'arte LP dopo un soprannome datole da un supervisore di un campo estivo.
"E 'LP personalmente e professionalmente", dice, dopo aver fatto l'errore di chiamarla Laura. "Anche la mia ragazza mi chiama LP."
Esibendosi nei dintorni di New York, ha catturato l'attenzione della band alternative rock dei Cracker, che la invitarono a cantare nel loro album del 1998, Gentleman Blues.
Il cantante David Lowery ha poi prodotto e rilasciato da etichetta indipendente il suo album di debutto, Heart-Shaped Scar, nel 2001.
Enigmatica e androgina, si fa ammirare per la sua impressionante immagine con i suoi riccioli neri che cadono sul viso e i sempre presenti occhiali scuri.
"Spacco con gli occhiali da sole", ammette. "Sembro scortese, a volte. Ma non mi importa, è la mia prima difesa. Sono timida: devo avere qualcosa. Ho bisogno di protezione, amico".
Muddy Waters, una canzone che parla dell’ex partner di LP, utilizzata per le emozionanti scene di chiusura nella quarta stagione di Orange Is The New Black.
Nel 2006, ha fatto un’esibizione semi-leggendaria per il festival dell’industria musicale SXSW, innescando una guerra di offerte tra le etichette discografiche.
Tra i suoi pretendenti c’era il giudice di American Idol e pezzo grosso del settore LA Reid, con cui ha firmato il suo contratto con la Island Records - ma il loro rapporto si è in fretta inacidito. (LP ha in seguito accusato la Island Records di "togliere un po' del sue essere maschiaccio e metterla in un abito").
Per suo orrore, lo schema è stato ripetuto più e più volte.
"Ho avuto tanti contratti discografici finora. Sono, tipo, al settimo. Ho fatto tante conversazioni su quanti soldi stavo per fare, è scioccante."
"Tre o quattro contratti, e ci si sente come se la vita ti avesse schiaffeggiato in faccia."
Uke-le-le-land
Incredibilmente, lei non possiede rancori, adottando una visione filosofica dei suoi "fallimenti" (citazione testuale)".
"Cercare di iniziare una carriera come artista è come cercare di correre attraverso una folla mano nella mano con cinque persone. E 'così difficile."
Entro il 2007, aveva rinunciato all'idea di successo da solista, diventando un cantautrice professionale dopo che uno dei suoi brani respinti dalla Island Records, Love Will Keep You Up All Night, finì nell’album dei Backstreet Boys.
La sua grande svolta è arrivata quando ha contribuito al singolo Cheers (Drink To That) di Rihanna, un inno a party da capogiro a base di Jameson, dall’album “Loud” della star.
Incredibilmente, LP sostiene di aver creato la canzone con un "ukulele di una marca hawaiana a buon mercato" che aveva portato con sé in studio per un capriccio”.
"È una cosa bella, spontanea partecipare a una sessione", spiega. "E 'un po' più strutturato. Dopo aver scritto melodie, ho potuto sedermi in un angolo e scriverci insieme le parole, lo sai?"
Per quanto ne sappiamo, Rihanna deve ancora utilizzare l’ukulele. Da allora lo ha adottato come proprio strumento, per firmare le sue canzoni. La leggendaria casa CF Martin & Company ha addirittura creato un modello personalizzato per lei.
"Senza saperlo, l'ukulele ha iniziato a insinuarsi nel mio cuore", dice. "Mi siedo a letto con lui e fischietto queste piccole melodie. Ed è come, “Wow, la amo…Forse dovrei farne una canzone?”. “Ed è qui che la mia traiettoria di diventare un artista, è venuta fuori. Per me, era come tornare a godere di nuovo della musica."
Ma il principale catalizzatore per il suo nuovo materiale, è stata la dolorosa rottura con la sua fidanzata storica di cinque anni.
Lost On You è un urlo primordiale, che ricorda tutto il tempo sprecato in quel rapporto.
"Let’s raise a glass or two/to alla the thing I’ve Lost on you", canta LP.
"Quando ho scritto questa canzone, era passato circa un anno di distanza dalla rottura," dice. "E’ stato come liquidare, una situazione durata a lungo."
L'inizio della fine, è arrivata quando la sua partner ha chiesto di avere una relazione aperta. "La cosa che mi ha sconvolto di più, è stato sapere che riusciva a vedere che non avevo voglia di andare avanti cosi. Ma ho provato perché ero davvero innamorata di lei."
Un paio di mesi dopo però, LP ha scelto un’altra. Difficile. "Ero come, “oops”, mi sono innamorata di qualcun altro'. Ed è ancora in corso. Sono ancora con quella donna un anno e mezzo più tardi." L’attuale fidanzata di LP, la cantautrice Lauren Ruth Ward, appare anche in un cameo del video Lost On You "E’ un lieto fine - ma anche con alcune cicatrici e qualche bagaglio, di sicuro." La nuova fidanzata, appare anche alla fine del video e LP lo descrive come un ammonimento.
"Questa storia è qualcosa di cui sicuramente non vuoi sentir parlare, se tu sei la persona che decide di avere una relazione aperta", ride. E’ facile capire perché Lost on You, è arrivata a tante persone. LP canta con angoscia, senza filtri cercando di svegliare un amante che ha perso interesse, mentre l’introduzione alla spaghetti-western della canzone, tradisce la disperazione della situazione.
Come il cowboy solitario che è in lei, i fischi sono a tutta traccia, come un triste eco e ad un certo punto, pare chiamare un taxi.
"Ho un sacco di fischi che posso fare," ride, "e ci siamo detti, “prendiamo il mio fischio ad un altro livello!'" Non è molto di moda, però, è vero? L'ultima grande canzone con il fischio erano Peter, Bjorn e Young Folks 11 anni fa, e non è come le persone erano entusiaste per averne un sequel. "Mi sento bene con fischi," protesta LP. "Un sacco di gente non sa farlo [ma] io lo uso come uno strumento. "Faccio due cose che sono normalmente super-ingannevoli, che mi rifiuto di accettare come espedienti nella mia musica: ukulele e fischi. "Io li uso sfacciatamente. Facciamo entrambe le cose!"
Lost on You è sull’ EP Death Valley, che è ora disponibile su Vagrant Records. Seguici anche su Facebook, su Twitter @BBCNewsEnts, o su Instagram a bbcnewsents.
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Traduzione a cura di Marianna Fornaro e Claudia Mari
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di Antonio De Signoribus
SAN BENEDETTO – Con questa fiaba, la settima, si chiude la piccola rubrica targata “Con la fantasia si combatte e si addolcisce il virus”. Ho scelto di chiuderla con il numero sette, un numero magico, religioso, che rappresenta il trionfo dello spirito sulla materia��
( “Vorrei che tu venissi da me una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo”.Dino Buzzati)
L’ Infelice.
Eh sì! Ve la voglio raccontare questa storia un po’ tenera, un po’ particolare, e perché no, anche un po’ filosofica…Adesso, però, non vi distraete. Eccola. C’era una volta un sindaco che, pur volendo bene ai suoi concittadini e,pur volendo governarli con onestà e giustizia, non ne azzeccava una; per questo si reputava l’uomo più infelice e più disgraziato del mondo. A pensarci bene le cose non andavano bene nemmeno in famiglia. Sua moglie, infatti, diceva il popolo, non lo stimava affatto e gli metteva in testa tante di quelle corna che sarebbero bastate a creare una scala infinita tra la sua testa e il cielo, si fa per dire.
Gli uomini che lo attorniavano, poi, non erano certo stinchi di santo,e spesso sperperavano i soldi destinati alla comunità, per cose inutili.Il povero uomo, si fa per dire, era pur sempre un sindaco, qualche volta li cacciava pure; ma più ne cambiava e più la situazione si complicava. I consigli comunali, poi, erano diventati un vero e proprio teatrino con litigi, cazzotti e calamai pieni d’inchiostro che venivano svuotati per intero su qualche testa poco pensante. Ma in una sola cosa andavano tutti d’accordo, quando dovevano parlare male del sindaco.
Era, inoltre, diventato il più bersagliato dai suoi concittadini come il maggiore responsabile del grande caos che regnava in città. E, ogni volta, che s’azzardava a uscire dal comune per prendere un caffé o una boccata d’aria, le offese, molto pesanti, erano all’ordine del giorno, qualche volta accompagnate anche da lanci di verdura marcia. Il povero uomo era stanco e non ne poteva più di reggere una situazione diventata insostenibile…A volte pensava di lasciare perdere tutto, e di andarsene via, in un paese lontano, ma gli sembrava una vigliaccheria abbandonare la nave in un momento così difficile.
Per questo era sempre triste; quando, poi, restava solo, piangeva continuamente e si mordeva le mani perché non riusciva a trovare una vera soluzione ai problemi della sua città. Chissà quanto avrebbe pagato per fare contenti i suoi concittadini e trovare un po’ di pace e di felicità. E pensa che ti ripensa, un giorno, gli sembrò d’aver trovato una soluzione. C’era in città una maga tanto rinomata, una specie di strega in pensione, che si diceva avesse dei poteri strabilianti, che guarisse i malati gravi, che azzeccasse i numeri al lotto, che sapesse trovare i tesori nascosti sottoterra, o altre cose incredibili.
Le persone andavano da lei come ad una processione, ed erano contente e soddisfatte. Il sindaco la fece chiamare e le disse:”Ascoltami, ho bisogno della tua opera. So che sei tanto brava, e che accontenti tutti. E se accontenti tutti, a maggior ragione, devi accontentare anche il tuo sindaco, che ti pagherà bene”.. “Signor sindaco” rispose la maga “per me sarà un onore servirti, basta che io possa arrivare, con la mia arte magica, alla realizzazione dei tuoi desideri. Dimmi, dunque, quello di cui hai bisogno”.
“Tu non ci crederai, ma io, nonostante sia un sindaco, sono tanto sfortunato e infelice…Insomma, hai capito adesso quello che cerco? Cerco la felicità mia e quella dei miei concittadini. Se tu indovini quello che debbo fare per arrivarci, ti regalo una borsa piena di monete d’oro”.La maga, che era furba come il diavolo, gli rispose:”Certo, posso insegnarti il modo di trovare la felicità…Ma…Se non ti dispiace…A casa mia si usa pagare sempre prima…”.
“Giusto!” rispose tutto contento; e gli consegnò una borsa piena di monete d’oro. La maga, appena la vide, se la mise subito in tasca, poi disse: “Se vuoi essere felice e di conseguenza rendere felici tutti i tuoi concittadini, non devi fare altro che indossare la camicia di un uomo che sia davvero felice. Tutto qua!”.A sentire questo consiglio, il sindaco, rimase a bocca aperta perché credeva di dover lavorare chissà quanto per conquistarsi la felicità…E, invece, bastava mettersi una camicia, una camicia soltanto.
E’ vero, che si doveva trovare un uomo felice; ma chissà quanti poteva trovarne tra i suoi amici; e poi chi poteva negargli una camicia? Licenziata la maga, il sindaco si mise subito in viaggio. Vicino alla sua città governava un ottimo sindaco, suo grande amico. Andò, quindi, a trovarlo arcisicuro d’avere la felicità in tasca. “Io felice?”gli rispose subito l’amico.
“Carissimo, tu hai sbagliato strada. Io ho tanti di quei guai, che se non fosse il mio orgoglio a tenermi inchiodato alla mia gente, per la disperazione, ti giuro, me ne sarei andato da un pezzo”.“Mi dispiace proprio tanto” gli rispose il sindaco “e dal momento che non puoi aiutarmi vado a trovare altre persone che non fanno il nostro mestiere”.
Salutato con grande tristezza l’amico, cominciò a girare per città e paesi, in cerca di un uomo veramente felice. Ma chi aveva dei guai con il partito, chi con le mogli, chi con i figli, chi aveva una malattia, chi si arrabbiava perché non aveva un posto di prestigio, chi non trovava pace per paura dei ladri, chi temeva d’essere ucciso per una qualche vendetta; insomma, non ce n’era uno che potesse rispondergli: “Io sono veramente felice”.
Insomma, un vero e proprio disastro. Il povero uomo si dovette tappare le orecchie e con la bile in corpo, sentì proprio il bisogno di fuggire dalla città perché gli sembrava di morire soffocato. Si mise così a camminare per una stradina di campagna. Dopo poco tempo sentì cantare certi stornelli. Erano i contadini che zappavano la terra cantando con una allegria quasi contagiosa.
“Ma guarda come è allegro quel contadino” pensò “fosse l’uomo che cerco? Ma non è possibile. E’ così povero. Provare comunque, a chiedere non costa nulla”. Gli si avvicinò e lo chiamò:” Buon uomo puoi venire qui un secondo? Dovrei chiederti una cosa”. “Eccomi: di cosa hai bisogno?” rispose subito il contadino un po’ sospettoso. “Dimmi un po’, tu che sei tanto allegro e hai una faccia come una pasqua che consola, sei contento della tua vita?”. “Grazie a Dio, sì, che sono contento” rispose il contadino.
“Ma è possibile che non hai nessuna disgrazia, nessuna pena e che non desideri più niente al mondo?”. “Io mi accontento di quel poco che mi ha dato il caro Dio. Ho una casetta dove non entra mai il medico, né il veterinario. Il campetto mi basta e assomiglia ad un giardino e, non faccio per vantarmi, lo so lavorare e non mi lamento mai. Ogni tanto rosicchio qualche pezzo di pane, di tanto in tanto mi faccio una cantatina, che mi fa stare bene, poi torno a casa soddisfatto. La sera, poi, o una spianata di polenta, o un bel piatto di ceci, o un po’ d’erba trovata, o quattro piante d’insalata, non mancano mai a casa mia.
Sapessi, poi, con quanto appetito mangio e come apprezzo quello che metto sotto i denti. E se, dopo mangiato, stanco morto, mi metto sul letto per un riposino allora sono davvero felice”. “Questo è l’uomo che cercavo” pensò il sindaco. “Dimmi un po’ buon uomo, potresti farmi un piacere? Pagando s’intende! Ecco, guarda: ti regalo una moneta d’oro”. “ Se proprio mi devi regalare qualcosa, regalami un po’ di soldi, perché le monete d’oro non le ho viste mai”.“Ingenuo che sei! Se tu questa moneta vai a cambiarla in una banca, di soldi ne avrai almeno Cinquecento”.
“Dici davvero? Cinquecento! Mi basterebbero per delle scarpe nuove che andiamo tutti scalzi e per un po’ di vestiti da regalare a mia moglie… E va bene” disse il contadino “giacché mi regali tutto questo, lo gradisco e ti ringrazio…Adesso dimmi che devo fare?”. “Dovresti darmi una camicia delle tue, tutto qua!”. Il contadino, diventando rosso come un peperone, disse: “ Una camicia, hai detto? Una camicia…Te la darei con tutto il cuore…Ma…Quasi mi vergogno a dirtelo…Io non ho, purtroppo, una camicia”.
“Possibile che tu non hai mai indossato una camicia in vita tua?”. E il contadino si sbottonò la sua uniforme bianca di campagna e gli fece vedere il petto nudo. “ Questa è la mia camicia” disse, poi, con una punta d’orgoglio. Il sindaco, preso dalla rabbia ebbe un malore e svenne; quando si riebbe disse: “L’unico uomo felice che avevo trovato dopo tante ricerche non ha una camicia. Assurdo!”.
Regalò ugualmente la moneta d’oro al contadino e se ne andò via più triste e sconsolato di prima. Ritornò nella sua città, si rinchiuse deluso dentro le sue stanze, e non volle più vedere nessuno. Il giorno dopo, tutti lo cercarono di qua e di là. Ma il sindaco era scomparso e non se ne seppe più nulla. Allora, venne eletto sindaco il figlio maggiore, un giovanotto svelto, istruito, e sicuro di sé, che in poco tempo rimise tutte le cose a posto, con grande soddisfazione sua e di tutti i suoi concittadini. Insomma, era riuscito a fare quello che suo padre aveva sempre tentato di fare…
Dell’infelice? Dopo alcuni anni si seppe, quasi per caso, che s’era fatto prendere come garzone dal contadino. Con l’uniforme bianca di campagna e senza camicia si mise a zappare la terra. Siccome, però, a tante fatiche non era abituato, s’ammalò e se ne andò all’altro mondo, dove si spera abbia trovato la felicità che in questo mondo non era riuscito a trovare.
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Vedi, feci un compito di italiano tempo fa.
Chiedeva di parlare della paura in generale, del coraggio e delle proprie paure.
Pensai che fra chi diceva di non provare la paura c'era una distinzione : i veritieri e i bugiardi. I veritieri ammettono di essere probabilmente apatici e i bugiardi sono vigliacchi perchè provano la paura ma non vogliono ammetterlo.
La paura penso sia in ognuno e ognuno ha paura di qualcosa anche perchè secondo me la gente ha paura di restare. La gente ha paura di restare perché è troppo difficile, troppo corretto, perché un impegno di calibro come fare del bene agli altri senza ricavare nulla è pesante, chi ha voglia di farlo? Chi ha voglia di prendersi cura di persone difficili e a cui dedicare tempo? C'è gente più facile, sorridente, luccicante. Non importa quanto tu abbia fatto per loro, la bambola nuova è più bella della vecchia, quella vecchia neanche sapevi usarla, la prima la butti e compri una più facile.
Ebbene scrissi questo pensiero sul testo e la professoressa mi disse che mi ero discostata dalla traccia. La traccia era sulla paura e come potevo essermi discostata se di paura stavo trattando? Non lo capii onestamente. So per certo che il mio pensiero forse fosse scomodo. Analizzare le menti altrui mi ha sempre divertita alquanto e cerco di farlo in ogni compito di italiano che mi dia la parvenza di questa possibilità. Scelgo la traccia più aperta, sciolta, "filosofica" ed espongo i miei pensieri.
Parlai della paura altrui per poi parlare della mia di paura. Forse era troppo scura ma lo feci comunque. Scrissi di avere paura dei gesti, delle parole, degli ambienti, delle persone, delle aspettative, delle anime. Spiegai perché ognuna di queste cose mi facessero paura. Descrissi che i gesti potevano essere e significare tante cose, non c'erano istruzioni d'interpretazione, avevo paura di loro perché le loro infinite risposte mi portavano alla disperazione. Avevo paura delle parole perché erano riuscite ad infilarsi come vetri rotti nella mia carne per poi rimanere lì e rimarginarsi insieme alla pelle. Avevo paura degli ambienti perché ognuno sapeva trasmettere diverse emozioni e io anche di quelle avevo paura perché ne avevo provate troppe negative. Delle persone avevo paura perché erano riuscite a masticarmi per poi sputarmi con facilità estrema, una perfidia indescrivibile e in più configuravano l'insieme di parole, gesti e menti che mi parevano un legame pressoché grottesco. Infine spiegai di avere paura delle anime perché erano il vero io delle persone, ciò che davvero spingeva le persone ad essere come erano. Espressi che le anime pure non esistevano più, venivano tutte infangate da ciò che hanno incontrato e fra le persone con l'anima sporca mi ci collocai anche io perché nessuno è anima bianca.
Dunque un discorso incentrato sulla paura dell'individuo per l'individuo stesso come può discostarsi dal tema della paura?
- My Diary
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Che vuol dire quando una persona si considera nichilista?
Vuol dire che assume un atteggiamento genericamente rinunciatario e negativo nei confronti del mondo, si percepisce una sensazione generale di disperazione pensando che l'esistenza sia senza alcuno scopo. In parole povere: la perdita di tutti i valori, di tutto ciò in cui si crede.
È un termine da non usare con leggerezza e superficialità, considerando che è stato coniato in chiave filosofica. Il concetto è molto più complicato di come appare, alle spalle c'è un background socio-politico/culturale decadente e fallimentare (causa del nichilismo).
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Nuovo evento pubblicato http://eventicatanzaro.it/event/libreria-ubik-catanzaro-la-vertigine-dell-ignoto-mario-rigoni-racconta-emil-cioran-2/
LIBRERIA UBIK CATANZARO - La vertigine dell ignoto Mario Rigoni racconta Emil Cioran
La Libreria Ubik presenta: La vertigine dell’ignoto. Mario Andrea Rigoni racconta Emil Cioran
descrizione: Partendo dal libro manifesto di Emil Cioran “Sommario di Decomposizione” il Prof. Rigoni, racconterà la dimensione letteraria e filosofica del grande scrittore Rumeno di cui è stato traduttore e soprattutto grande amico.
RISVOLTO «Mi basta sentire qualcuno parlare sinceramente di ideale, di avvenire, di filosofia, sentirlo dire “noi” con tono risoluto, invocare gli “altri” e ritenersene l’interprete – perché io lo consideri mio nemico»: parole come queste, allorché il Sommario di decomposizione fu pubblicato a Parigi nel 1949, non potevano che dividere i lettori, suscitando in essi o scandalo o ammirazione. A quell’epoca Cioran era solo un oscuro apolide, autore di alcune opere importanti che nel suo paese, la Romania, erano state ignorate da tutti. Alla cultura francese, in quegli anni incline all’engagement, Cioran contrapponeva solitariamente negazione e ironia; e con queste pagine scopriva una lingua – il francese – rivelandosene subito maestro. Non alla maniera di Sartre, ma piuttosto a quella di Chamfort e di Pascal. Con un solo gesto, Cioran presentava tutto se stesso. Così, non meraviglia che questo libro, ritenuto da molti il suo maggiore, abbia avuto la ventura di incontrare come traduttore in tedesco uno dei poeti più alti del secolo: Paul Celan.
Mario Andrea Rigoni: È docente universitario, critico e scrittore. Collabora alle pagine culturali del «Corriere della Sera». Ha pubblicato, fra l’altro, tre libri di aforismi e due di racconti: Dall’altra parte, postfazione di Ruggero Guarini (Aragno, 2009) vincitore del premio Settembrini 2009, ed Estraneità, postfazione di Paola Capriolo (La Scuola di Pitagora, 2014).
Emil Cioran: (1911-1995) rappresenta una delle voci filosofiche di maggior rilievo nell’ambito del “pensiero tragico” contemporaneo. Tra le sue opere ricordiamo: Al culmine della disperazione (1934), Lacrime e santi (1937), Sommario di decomposizione (1949), Sillogismi dell’amarezza (1952), La tentazione di esistere (1956), Storia e utopia (1960), La caduta nel tempo (1964), Il funesto demiurgo (1969), L’inconveniente di essere nati (1973), Squartamento (1979).
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