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#costumi scena
fashionbooksmilano · 7 months
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Dive Divine
Costumi e gioielli di scena Swarovski da Marilyn Monroe a Nicole Kidman
a cura di Massimiliano Capella e Michele Nocera
Fondazione Giacomini-Meo / Grafo, Brescia 2005, 80 pagine, 75 imm., 23x27cm, ISBN 88-7385 6756
euro 35,00
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06/03/24
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omarfor-orchestra · 2 years
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Raga ma che cazzo di ridere io vorrei leggere uno dei loro contratti pori cristi
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Torino - RAI Museo della Radio e della Televisione
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lacameliacollezioni · 10 months
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COSTUMI DI SCENA / TEATRO - Maria Callas - 100 anni dalla nascita 1923 - 2023
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valhallarealm · 2 years
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La storia del Burlesque 2 - Movimenti tipici, costumi di scena e età dell'oro
La storia del Burlesque 2 – Movimenti tipici, costumi di scena e età dell’oro
Foto copertina: Jane Russell in La Linea Francese (1953) Nel 1917 avvenne il leggendario incontro tra burlesque e strip. In uno degli show dei fratelli Minsky, Mae Dix rimase svestita durante il suo numero. L’episodio fu applaudito dal pubblico e gli organizzatori inclusero l’incidente nella sceneggiatura dello spettacolo. Tra gli anni Venti e Quaranta, periodo d’oro del Burlesque, si…
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marcogiovenale · 2 years
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interviste per "tutto è santo": pasolini al palazzo delle esposizioni
interviste per “tutto è santo”: pasolini al palazzo delle esposizioni
https://amp-video.repubblica.it/amp/edizione/roma/pasolini-l-intelligenza-incandescente-la-maxi-mostra-al-palaexpo-tra-carte-rare-foto-e-costumi-di-scena/429766/430720 Più di 700 pezzi tra fotografie vintage, giornali d’epoca, prime edizioni di libri, riviste, articoli, interventi, e ancora costumi di scena, dattiloscritti, ciclostilati, oltre a filmati, dischi, nastri. Tutto questo è “Pier…
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crazy-so-na-sega · 22 days
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mito->poesia->tragedia->metodo scientifico: uno sviluppo straordinario
Il genere tragico in Grecia: riproposizione ed evoluzione del mito arcaico.
La forma della tragedia classica greca è il punto di arrivo di un processo sviluppato a partire da un primitivo nucleo del coro, progressivamente ridimensionato a favore di uno spazio sempre maggiore riservato al dialogo dei personaggi. La tragedia ripropone e riplasma del materiale mitico ereditato dal mondo arcaico. Il suo appellativo si collega etimologicamente alla parola tragos con riferimento al capro, riferimento che è stato interpretato in vari modi quali: a) il sacrificio rituale celebrato alla fine della rappresentazione; b) la maschera indossata dal coreuta, c) il premio dato al vincitore. In ogni caso, si tratta di un riferimento a qualcosa di animalesco, ferino, primitivo, selvaggio (si veda ciò come traccia dell’animalesco selvaggio dionisiaco rispetto all’olimpico armonioso compositore delle passioni rappresentato da Apollo).
La struttura era articolata in un prologo sugli antefatti dell’azione, un parodo, canto di ingresso del coro, gli episodi costituiti da dialoghi con gli stasimi, i canti di stacco tra gli episodi, e l’esodo, canto di uscita. Il coro (12 coreuti ai tempi di Eschilo con uno di loro, il corifeo, dialogante a nome degli altri con gli attori) cantava in armonia con la musica e la danza ( infatti il verbo koreuein significa danzare). Gli attori, tutti di sesso maschile, indossavano maschere, coturni, ovvero alti calzari per essere più visibili agli spettatori e la scena era dotata di macchine teatrali. In genere le rappresentazioni avvenivano in occasioni di feste in onore di Dioniso, dio rurale patrono della fertilità. Erano dei veri e propri festival in cui gareggiavano i poeti tragici con la loro tetralogia (3 tragedie ed un dramma satiresco). C’era una commissione selezionatrice fatta da un arconte ed altri due membri che sceglieva i tre concorrenti per la gara finale, ogni tetralogia veniva rappresentata in una giornata intera e quindi il concorso durava 3 giorni. La giuria per assegnare la vittoria della corona di edera era formata da 1 rappresentante per tribù estratto a sorte da una lista fornita da ognuna delle 10 tribù, che dava una classifica dei concorrenti su una tavoletta, delle 10 poi ne venivano estratte 5 a sorte per avere il vincitore. I contenuti delle opere attingevano ad un patrimonio di racconti mitici tradizionali e la rappresentazione drammatica era fondata sul contrasto, la lacerazione tragica tra protagonista umano e divino e degli uomini tra loro. Tutto il popolo partecipava, lo stato finanziava i poveri con due oboli per indennizzo delle ore di lavoro perdute ed i costi degli spettacolo (scenografia, costumi, attori, coreuti, musicisti) che erano in parte sostenuti anche dalle famiglie ricche, c’era anche un servizio d’ordine dotato di robusti manganelli contro eventuali disturbatori. La partecipazione popolare al "RITO COLLETTIVO" funzionava da presa di coscienza, grazie a questa esteriorizzazione del dramma tragico reso nello spettacolo teatrale, che determinava una presa di distanza, una assunzione di responsabilità collettiva di fronte alle tensioni tremende dell’esistenza umana secondo una visione che affondava le sue radici nei sanguinosi rituali del mondo pre-greco. In questo consiste la CATARSI di cui parla Aristotele: LA RAPPRESENTAZIONE HA UN EFFETTO LIBERATORIO DALLE PASSIONI (i patemata = patemi di animo).
La tragedia si differenzia dal mito per un tratto sostanziale: se nel mito lo scontro è nel mondo divino, qui il piano si sposta sulla violenza tra dei e uomini e degli uomini tra di loro. Questo è testimoniato dal lessico tragico. Sono fondamentali alcune parole chiave ricorrenti nei dialoghi, che mostrano la inconciliabilità nella tragedia di polarità opposte di comportamento: parole da un lato come collera (che però è anche invidia!) (ϕθόνος),e accecamento divino (΄Άτη) , tracotanza (ύβρις), e violenza brutale (βία) , dall’altro legge (νόμος), diritto (δίκη), autorità legale (κράτος), timore (ϕóβος), e pietà (ʹΈλεος), parole che segnano nella loro opposizione il contrasto inconciliabile che caratterizza la tragedia. Viene bollata la tracotanza, si esibiscono i valori morali e le norme etico-sociali cui conformare i comportamenti dei cittadini della polis ed il ricorso al mito serve a rinsaldare il tessuto connettivo della convivenza. Nella trilogia più famosa, l’Orestea, formata da Agamennone, Coefore, Eumenidi, la tragedia si risolve con Oreste portato nella sede suprema della istituzione della polis, l’Areopago, dove Oreste è alla fine assolto e le furiose persecutrici Erinni si trasformano nelle benigne Eumenidi. Si impone la Giustizia, la DIKE, che si esplica nel NOMOS, nella Legge della città, a fronteggiare la violenza, ma ciò non sarà sufficiente se nell’Antigone la legge del cuore e degli affetti si scontrerà con la legge ufficiale della città stessa, che tuttavia prevarrà alla fine. Ma a questo punto, gli Dei c’entrano poco, il conflitto è tra gli uomini, gli Dei sono solo spettatori. I drammi umani riportano le scorie dei drammi divini. Più i conflitti "si umanizzano", più si perde la carica istintiva, travolgente dell’eros e della violenza primitiva e questo porta alla famosa tesi di Nietzsche che ne La nascita della tragedia (1871) vede nelle prime tragedie un equilibrio tra le parti del coro che rappresentano la potenza dionisiaca degli istinti e le parti del dialogo degli attori che moderano con la razionalità apollinea lo scatenamento degli istinti, fino ad arrivare ad Euripide che descrivendo con realismo delle vicende umane fa prevalere il distacco dello spirito superiore ed equilibrato apollineo in contemporanea all’avvento del razionalismo di Socrate in filosofia e la definitiva eclissi del dionisiaco, evento che il filosofo tedesco denuncia come la più grande perdita per tutta la cultura occidentale.
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Più i miti perdono valore di Verità, staccati dal culto dionisiaco, più i paragoni e le similitudini linguistiche, da "strati intermedi" tra il mondo degli dei e quello umano subiranno una trasformazione che costituirà i primi gradini delle deduzioni analogiche di cui il metodo empirico si servirà più tardi.
-Franco Sarcinelli (WeSchool)
-Bruno Snell (le origini del pensiero europeo)
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libero-de-mente · 1 year
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Il Caregiver
Questa mattina sono andato da mia madre, come tutte le mattine, ma con un impegno in più.
Infatti oggi comincia il servizio di assistenza a domicilio per mia madre, la struttura a cui mi sono rivolto le ha assegnato un'assistente. Si chiama Dolores.
"Buongiorno soy Dolores" - così ha esordito qualche giorno fa l'assistente al telefono con me.
"Buenos días" - le ho risposto per darmi un tono
"Lei è il señor Tomasseli?
"So' Rino" - ma come cacchio le parlo?
"Sorino? Lei è el señor Sorino?"
"No Sorino, solo Rino. Il mio nome".
"Ah, Solarino... me scussi, ma che nome è?"
"Maggnente, sono uno che tira sole e quindi Solarino è i mio soprannome"
Nulla da fare, la deficienza telefonica mi aveva preso, ora come potevo rimediare?
Nel frattempo Dolores gira dei fogli, si sentono chiaramente al telefono, probabilmente sta cercando i dati di chi ha compilato la domanda, ed ecco che trova ciò che cercava "Ah, lei se chiama Rino Tomasseli"
"Si" - le rispondo divertito di come chi parla lo spagnolo raddoppia alcune consonanti eludendone altre.
Arriviamo a questa mattina. Dolores è puntualissima, bella truccata e pimpante come lo sono le persone che debbono sostenere persone anziane e in fase discendente.
Entra in casa e saluta entrambi con un sorriso rassicurante, le presento mia madre e le faccio vedere la casa.
In soggiorno il televisore è sintonizzato sulla Santa Messa, in camera da letto l'altro televisore idem.
"Doppia Messa, como mai due televissori acessi?"
"Effetto stereo"- le rispondo.
"Como?!"
"Si, ascolti... non sente la stereofonia del prete che dice <Prese il pane>, non sente la potenza della frase raddoppiata?"
"No" - mi guarda stranita.
Credo che l'ironia non sia in questo momento cosa buona e giusta.
Così Gesùrino prese l'ironia, la piegò la pose in un cassetto e disse <Pendete e andate senza sorrisi, non ve li meritate>.
Tornando in soggiorno, dove c'è mia madre, Dolores mi chiede: "Mi potrebbe firmare questi due moduli, è lei il caregiver, vero?"
"No, lui è mio figlio" - interviene secca mia madre, poi guardando me - "Tu sei mio figlio non o' carabbinier"
"Ma no mamma caregiver, ovvero quello che si occupa di te"
Le brillano gli occhi, si sente protetta e poi guarda Dolores, conosco quello sguardo di chi comincerà a raccontare aneddoti sulla mia vita di quando ero piccino. La fermo a tempo.
"Beh"- dandomi un tono da attore consumato che sta per uscire dalla scena sul palcoscenico di un teatro - "Io devo andare, mamma sei in buone mani - poi rivolgendomi a Dolores le stringo una mano - "Grazie, grazie mille dell'aiuto che mi darà".
Il sorriso di Dolores mi conforta.
Sono in auto, scommetto che il sorriso di Dolores sarà diventato una risata. Già mi sembra di sentire mia madre raccontare i "famosi aneddoti" di un piccolo Rino che ancora, illuso, si permetteva di vivere d'istinti e d'istanti (frase da boomer lo so).
Come quando mia madre, a un cambio del pannolino, si divertiva a "rubarmi il pisello" come si fa con il naso dei bambini, solo che io per assicurarmi che non lo avesse preso davvero le pisciai in volto.
O quella volta che entrai in una cabina al mare, credendo che fosse la nostra per cambiarmi il costumino pieno di sabbia, invece era di un'altra famiglia. La ragazza, penso allora ventenne, che stava dentro (nuda) non si scompose più di tanto, avevo cinque anni più o meno, e mi disse "ma tu bel bambino da dove sbuchi?". Sorrise.
Io no, rimasi pietrificato guardando una micia. Non sapevo che dei micini vivessero proprio lì nei costumi delle donne. Uscii dalla cabina rosso in volto, con una paresi facciale e la
Voglia di remare
Fare il bagno al largo
Per vedere da lontano gli ombrelloni, -oni, -oni
Da allora nessuna donna mi ha più sorriso se entravo per sbaglio in una cabina o uno spogliatoio dove ci stava una di loro. Va beh, forse quando ci provai ero troppo avanzato con l'età. Credo di averne avuto venti o venticinque in più, di anni intendo.
Oppure le racconterà di quando, la sera di una Vigilia di Natale con cenone ben disposto sulla tavola e ospiti pronti al pasto, stando in piedi sulla sedia all'urlo "Sono la tigre di Mompracem!", persi l'equilibrio e arrivai preciso con la faccia nell'insalatiera che conteneva chili di insalata russa.
Ecco perché crescendo sono traumatizzato dalle patate femminili e le insalate russe.
Però mi piace cucinare.
E mangiare.
Grazie mamma per avermi fatto empatico e rispettoso degli altri, ma anche molto meno andava bene. Per dire.
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lisia81 · 5 months
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Shogun
Mi sono accorta di non aver scritto neppure mezza riga su questa serie televisiva che mi ha fatto addirittura attivare l’abbonamento a Disney plus. Vabbè era iper scontato.
Shogun e’ una serie tratta da un libro del 1975 che sembra una casetta per gli uccellini @dilebe06 cit. , viste le sue cospicue dimensioni.
Che io non ho letto, ma la mia Lontra si.
La sua opinione è che la storia differisce in alcune parti dal libro es, Mariko bum bum, ma le vicende seguono la trama in maniera convincente. In 10 puntate.
Avete presente la serie su One pieces? Non è fedele al manga, ma ne mantiene quello scheletro, che soddisfa anche i puristi.
Per me che non ho letto il tomo, Shogun è un prodotto ben costruito, elaborato, costoso. La differenza dai drama che sono abituata a vedere in termine di budget e’ evidente! Costumi mozzaffiato, scenografie realistiche. Per fare un esempio stupido, le battaglie con schieramenti mostrano veri truppe non 30 soldati che dovrebbero rappresentarne 3000.
Gli attori sono bravi e i loro personaggi sono reali, centrati e credibili.
Tutto perfetto.. o quasi.
Sarei curiosa di sapere cosa ne pensa una persona che non ha una minima infarinatura di cultura orientale. Secondo me l’effetto è simile a quello che ho provato la prima volta davanti ad un drama wuxia.😅
E io, pur conoscendo un minimo il contesto e il pensiero giapponese, non ho avuto un minimo di empatia verso i personaggi principali della saga. Per fare una similitudine, ho ammirato un bel vaso con distacco in pratica non come farebbe Fatty.
A parte una scena che mi ha fatto accapponare la pelle, il livello di sensazioni e’ la stesso che posso avere guardando un documentario di History Channel.
E questo credo sia il più grande limite di questa serie.
Vale la pena guardarla? Si, se piace la storia, un prodotto ben fatto e non si cercano grandi emozioni.
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zero0virgola0 · 12 days
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Distopiche visioni
Mentre attendevo che il mio udito, proteso dal salone, cogliesse il lieve gorgoglio della moka in procinto di esalare il suo aroma, mi intrattenevo nel raccogliere i panni sullo stendino. Il caffè, infine, sgorgò, e riempii una tazzina. Quando la prima pila di calzini, mutande e canottiere fu pronta, la cinsi delicatamente e mi avviai per il corridoio. Procedevo con passo lento, forse a causa delle tenebre ancora dense del mattino, forse per quella sonnolenza che tardava a dissolversi, o forse perché, in quell'istante, mi trovavo a dovermi destreggiare, come un abile funambolo, affinché i calzini appallottolati e posti in cima al mucchio non scivolassero a terra. Ad ogni modo, arrivai nella camera e adagiai il carico sul letto.
La stanza era immersa in quella tipica penombra mattutina: le lenzuola, come di consueto, erano ancora disfatte e i cuscini fuori posizione. Spesso spetta a me l’ingrato compito di raccogliere i panni, giacché la mia ragazza è solita uscire prima per recarsi al lavoro, e pertanto eseguo il compito in maniera quasi automatica. Lo spazio che separa i piedi del letto dai cassetti in cui riporre la biancheria è di neanche mezzo metro, ma abbastanza per permettermi di aprire i cassetti. Apro quello delle mutande, mi volto per afferrarne una manciata e, senza troppe cerimonie, le lascio cadere dentro. Tuttavia, una volta rivolto nuovamente lo sguardo verso il letto, la mia attenzione è attirata da un particolare: i due comodini, identici, siamesi, simmetricamente posti ai lati del letto. Entrambi spogli, quasi scarni: sul mio è riposta una lampada di sale, mentre su quello della mia ragazza c'è una fotografia incorniciata che la ritrae insieme a un'amica di vecchia data, che ormai da anni vive in Norvegia. Oltre a questi due oggetti, su ciascun comodino sono riposti i caricabatterie dei nostri cellulari, con i fili che pendono mollemente.
Fu proprio l'immagine di quei fili a destare in me un pensiero curioso e, oserei dire, vagamente distopico. Mi parve quasi che quei caricabatterie non fossero altro che dispositivi per ricaricare non tanto i cellulari, quanto gli esseri umani, allacciati al letto come fossero macchine, pronte a ricaricare il corpo durante il riposo notturno. Sorrisi a quell’immagine surreale e la mia fantasia si spinse oltre, immaginando che, ad assistere a quella scena, vi fosse l’androide Upsilon HR 204, inviato in missione per studiare usi e costumi degli esseri umani. Nella mia mente, lo sentivo comunicare alla base: "Upsilon HR 204 alla base, confermo osservazione umanoidi in fase di ricarica. Utilizzo di antica porta USB. Inserimento della porta USB non ancora confermato, ipotesi di inserimento nell’ano durante ore di oscurità."
Quel pensiero bizzarro, intriso di un sottile umorismo, mi accompagnò mentre riprendevo il mio dovere, immerso in quel quieto e vagamente irreale inizio di giornata.
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alessandro55 · 16 days
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Non Solo Erté Not Only Erté
Angelo Luerti
Saggio introduttivo di Vittoria Crespi Morbio
Costume Desogn for the Paris Music Hall 198-1940
Guido Tamoni Editore, Schio (Vi) 2006, 288 pagine, 24,5x34,5, ril. in cofanetto
euro 95,00
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Il volume intende illustrare l'attività di quei numerosi disegnatori per le riviste dei grandi music-hall di Parigi che, per snobismo artistico ed intellettuale, sono stati a lungo negletti a causa dell'impiego secondario cui erano destinati i loro modelli. Tra questi, Gesmar, un formidabile genio della grafica che impresse all'arte del costume un impulso pari a quello prodotto da Bakst pochi anni prima per i Balletti Russi; Ranson e Zinoview, due grandi eredi di quella tradizione, Czettel, allievo unico di Bakst divenuto più tardi capo disegnatore all'Opera di Vienna; Zig, degno successore di Gesmar anche nell'arte del manifesto; l'ungherese Gyarmathy, autore d'invenzioni sceniche adottate da molti teatri; l'olandese Wittop divenuto in seguito il primo disegnatore di Broadway; Halouze creatore dello "Stile 1925", l'inglese Dolly Tree, uno dei grandi talenti dell'epoca d'oro della creatività, Dessés divenuto più tardi un noto stilista e maestro di Guy Laroche e di Valentino, il milanese Montedoro subentrato in seguito a Vincente Minnelli come capo disegnatore del Radio City Music Hall, per citare solo alcuni. Lo stesso Erté fu vittima per 30 anni di questa tendenza all'emarginazione. Riscoperto nel 1965 in occasione del più generale recupero dell'Art Déco, ora è universalmente apprezzato per la qualità dei suoi disegni, nel frattempo assurti, per il loro valore storico, artistico ed estetico, al rango di vere opere d'arte. L'opera si propone di rendere omaggio ai suoi non meno creativi e qualificati contemporanei, che per obiettive carenze informative sul loro percorso e contributo artistico (ora in gran parte colmate), non furono pur meritandolo oggetto di analoghi studi e altrettanti onori. Va detto che nessuno di costoro visse a lungo quanto Erté, morto nel 1990 all'età di 98 anni: quando giunse il gran momento, il suo archivio era l'unico ricco di disegni originali e documenti a disposizione dei critici teatrali e degli storici. Degli altri grandi artisti, selezionati tra i migliori disegnatori europei, si era persa quasi ogni traccia essendo scomparsi quasi tutti prima della fine della Seconda Guerra Mondiale; di alcuni era noto solo l'acronimo, di altri s'ignorava persino la nazionalità e assai poco si sapeva sui teatri e sulle riviste cui avevano collaborato. A poco valse lo sforzo dei "volontari" ingaggiati da Charles Spencer, nota autorità in materia, e di altri, per saperne di più su questi fantasiosi creatori di scene e costumi. Pur prive di un adeguato supporto informativo molte delle opere dei citati artisti affiancano quelle di Erté nei principali musei, Metropolitan, Victoria & Albert Museum, Arsenal, nelle università di tutto il mondo e nelle collezioni di molti appassionati. Nuove e approfondite ricerche condotte per oltre sei anni hanno permesso di raccogliere un gran volume di dati sul percorso e sul contributo artistico di molti di questi artisti sino a ieri per nulla, o quasi, conosciuti. Il tutto è corredato da un ricco repertorio di opere (oltre 400 immagini a colori), così da permettere a storici e critici una più ampia valutazione dell'arte per il teatro del Novecento e del Déco in generale, periodo in cui si colloca la più parte dei disegni. Il volume comprende inoltre una ampia panoramica sulla storia del music-hall, dalle origini al suo declino, sui principali teatri e riviste in scena negli anni tra le due guerre e sui suoi protagonisti.
Tra gli illustratori, oltre naturalmente a Erté, Georges Barbier, Dany Barry, Umberto Brunelleschi, Fabio Lorenzi, Endré, Eduard Halouze, Dolly Tree, Jose De Zamora, Zig ...
07/09/24
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fashionbooksmilano · 4 months
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Bozzetti di scena e costumi
Alexander Schouvaloff
Introduzione di Serge Lifar
Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1987, rilegato, 270 pagine, 56 tavole a colori fuori testo, 25x30cm,
euro 45,00
email if you want to buy [email protected]
«Il barone Thyssen-Bornemisza ha raccolto una collezione di disegni - in gran parte bozzetti di scena e costumi - che illustrano il teatro della prima metà del XX secolo e soprattutto il balletto, nel suo periodo più interessante e innovativo. Alexander Schouvaloff ha compilato un poderoso catalogo per la descrizione di queste opere. Nella sua introduzione descrive la particolare natura della bozzettistica teatrale, riassume la situazione del teatro in Europa e in Russia alla fine del XIX secolo per inquadrare i disegni in un più preciso contesto storico ed esamina brevemente la figura di ciascun artista».
In questo catalogo vengono descritte 56 opere, in particolare la bozzettistica teatrale, riassumendo la condizine del teatro in Europa e Russia alla fine del XIX secolo. Nel catalogo vero e proprio vengono esaminati nei dettagli i costumi e i bozzetti per i quali sono stati realizzati.
08/06/24
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omarfor-orchestra · 2 years
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Comunque secondo me loro non mettono niente perché hanno letto il contratto per 3 ore con l'avvocato affianco e c'è scritto che non possono. Alessandro e Claudia ormai vedono solo lo stipendio e firmano
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Le questioni di genere (maschile) nel film di Barbie
-- contiene spoiler della trama di Barbie: se ancora non avete visto il film e avete intenzione di farlo, salvate questo post e leggetelo più tardi o skippatelo --
Sono stato a vedere il nuovo film di Barbie e non sono rimasto deluso. Certo, bisogna partire dai presupposti giusti. È un film su Barbie, non sulla vita di Rosa Parks o Angela Davis. È un film della Mattel, una evil multinational corporation molto brava a fare autoironia sul fatto di essere una evil multinational corporation. È un film pop, accattivante, leggero. Con musiche che ti restano in testa, costumi eccezionali e sponsor molto danarosi.
È anche un film di una regista che sa il fatto suo, però, e alcune scene sono davvero potenti. È un film che, fin dalla prima scena, dichiara di voler parlare "da donna a donna" e ci riesce piuttosto bene.
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Perché parlare delle questioni maschili nel film di Barbie, quindi?
Il primo motivo è che le questioni femminili di questo film le hanno già sviscerate in tantɜ, decisamente più qualificatɜ a parlarne di me. E preferisco lasciare la parola al riguardo a chi quelle questioni le vive.
Il secondo motivo è che è un film che parla anche di uomini agli uomini. E lo fa in modo molto interessante.
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- La prima scena potente è quella di Barbie e Ken che vanno in giro in giro in roller per la prima volta in California. Il focus qui è sulle sensazioni diverse di Barbie e Ken. Ken si sente visto, apprezzato. Barbie circondata e minacciata.
La sera prima di vedere il film ero in un coffee shop con un amico. Attorno a noi c'erano una ragazza e più o meno una quindicina di uomini. Quasi tutti stranieri, inclusi noi. Noi parlavamo e scherzavamo tranquilli. Ci siamo chiesti, se fossimo stati una coppia di amiche, se ci fossimo sentiti altrettanto al sicuro nell'essere lì.
- Il mondo di Barbieland è un mondo al contrario: un matriarcato in cui gli uomini sono ridotti ad essere degli elementi di contorno. Barbieland, però, non è completamente speculare alla realtà.
Quando i Ken mettono in atto il loro "colpo di Stato" a suon di birre e cavalli, vengono sconfitti facilmente quando le Barbie li mettono uno contro l'altro. Questo perché la società dei Ken, rispetto a quelle delle Barbie, ha una debolezza di fondo: il valore dei Ken è sempre e comunque dato dall'apprezzamento delle Barbie. Nella società delle Barbie, i Ken sono un elemento di contorno. Vogliono essere apprezzati, ma le loro attenzioni non hanno particolare valore. Every night is a girl night e i Ken non si sa neppure dove vadano a dormire. Il messaggio del film è: il sogno degli uomini è di soggiogare le donne, quello delle donne liberarsi degli uomini.
I Ken, che tentano di ricostruire il patriarcato ma sono cresciuti e imbevuti dei contenuti di una società che li ha sempre discriminati, quando messi alle strette scoprono il valore della solidarietà maschile. Una solidarietà che nel patriarcato non esiste, non tra gli uomini a cui apparentemente non è mai servita. Al contempo, devono imparare a scoprire il loro valore a prescindere dall'apprezzamento delle Barbie.
Ora, dal punto di vista di un uomo, questo è un messaggio fortissimo. E questo film, per quanto in chiave ironica, è uno dei pochi che ha avuto modo di affermarlo.
Veniamo cresciuti in una società che ci insegna che il valore di un uomo sta nel numero di partner che riesce a conquistare e il valore di una donna nel numero di partner che riesce a rifiutare.
Questo Ken, stupido e canonicamente bello (da notare che tra i Ken non esiste nulla di simile a quella seppur limitata body diversity che si vede tra le barbie: sono tutti alti, magri, seminudi e palestrati) è un personaggio che ha comunque qualcosa da dire. Un messaggio importante e che avrei voluto sentire affermare più spesso nella vita:
I am Kenough.
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multiverseofseries · 5 months
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Diabolik - Chi Sei?: il Re del Terrore saluta il cinema, senza infamia e senza lode
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È a malincuore che mi ritrovo a scrivere di Diabolik - Chi Sei?, il film che va a chiudere la trilogia dei Manetti Bros. Lo faccio con dispiacere perché si tratta di una saga che ha faticato molto a livello produttivo e il risultato ne ha risentito, tanto che siamo quasi più contenti di averlo salutato che tristi per dovergli dire addio, almeno sul grande schermo.
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Diabolik - Chi sei?: Giacomo Gianniotti in una scena
Ciò che era nata infatti inizialmente come una serie tv per Sky - che a livello di qualità produttiva ha riscritto la serialità italiana degli ultimi anni - poi è diventata una trilogia per il cinema a cura dei Manetti Bros. Ma poi Ci si sono messe di mezzo anche la pandemia e un cambio di cast dovuto agli impegni di Luca Marinelli nei panni del personaggio titolare, che non voleva firmare per una trilogia, passando la mano a Giacomo Gianniotti, et voilà: l'insuccesso è, purtroppo, servito.
La parola alle donne
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Diabolik - Chi sei?: Giacomo Gianniotti in una foto
Dopo la presentazione dei personaggi nel primo film e l'attacco da parte del Ginko di Valerio Mastandrea nel secondo, questo terzo capitolo conclusivo si concentra da un lato sull'origin story di Diabolik e dall'altro su un nemico comune esterno che potrebbe far collaborare proprio il Re del Terrore e l'Ispettore sua nemesi complementare. C'è infatti una nuova e pericolosa banda di rapinatori in città, che non si fa problemi ad uccidere, e Diabolik e Ginko, lo yin e lo yang di questa storia, ne finiscono vittime.
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Diabolik - Chi sei?: Miriam Leone con Monica Bellucci in una scena
Spetterà allora alle donne della loro vita il compito di salvarli, rispettivamente la Eva Kant di Miriam Leone - sempre perfetta nel ruolo - e la Altea di Monica Bellucci - new entry del secondo film. Sono loro che muovono l'azione di questo canto del cigno cinematografico per il Re del Terrore, con sentimento, arguzia e maestria, mentre gli uomini sembrano perdersi in un bicchier d'acqua - non solo il poliziotto e il ladro, ma anche i membri della squinternata banda.
Spiegoni
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Diabolik - Chi sei?: Valerio Mastandrea in un'immagine
Il nuovo ed interessante punto di vista femminile - di cui in realtà erano già state gettate le basi nei capitoli precedenti ma che in Diabolik - Chi sei? viene approfondito ed acuito - purtroppo non impedisce alla pellicola di ricadere negli errori dei precedenti. Anche se bisogna lodare la coerenza dei Manetti Bros. mantenuta fino alla fine dello stile scelto, più fedele alla controparte cartacea e quindi più compassato. Ci troviamo quindi di fronte ad una serie di spiegoni che sembrano più indirizzati ad un target di spettatori da Rai Fiction, che hanno bisogno, anche quando si gioca con flashback e storyline ad incastro, che tutto sia il più chiaro possibile, a costo di essere allungato o esplicato più volte. Quello che doveva essere il grande saluto di Diabolik al cinema viene spogliato delle sue caratteristiche più avvincenti: dal ritmo che caratterizza una prima parte più dinamica si passa ad una seconda in cui si getta l'ancora e ci si dimentica di riaccendere il motore.
Cura formale
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Diabolik - Chi sei?: Giacomo Gianniotti con Carolina Crescentini in una foto
Non manca il ritorno, rispetto al secondo capitolo, alla cura formale che ha caratterizzato il Diabolik dei Manetti Bros., dalle scenografie e costumi che in questo caso dovevano ricreare gli anni '70, anche a livello di musiche sempre a cura di Pivio e Aldo De Scalzi, ma il risultato è davvero sottotono per un'uscita di scena che sarebbe potuta essere in grande stile per Giacomo Gianniotti, che continua ad avere gli occhi giusti, e per il suo Diabolik.
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Diabolik - Chi sei?: Miriam Leone e Giacomo Gianniotti in una scena
Il fascino di Miriam Leone e il suo incarnare perfettamente Eva Kant, gli split screen, le trovate di regia dei Manetti che però mancano di veri e propri guizzi, nonostante qualche omaggio qua e là al genere, non possono salvare un epilogo che risulta stanco proprio come tutta la trilogia. Non basta il ritorno alle origini proprio sul finale - con un Lorenzo Zurzolo che si ritrova sulle spalle la responsabilità di essere un giovane, ancora inesperto ma già glaciale Diabolik - se ciò a cui ci troviamo di fronte è una sceneggiatura troppo elementare, degli interpreti poco convincenti con una recitazione troppo teatrale e didascalica - come i membri della banda o l'accento surreale dell'Altea di Monica Bellucci. Tutti questi elementi chiudono il cerchio di motivi per i quali questa trilogia, forse, non s'aveva proprio da fare.
In conclusione Diabolik – Chi Sei? ancora dispiaciuta che il risultato di questo capitolo conclusivo, così come di tutta la trilogia cinematografica, non sia stato all’altezza delle aspettative. Si torna alla cura formale del film inaugurale ma il risultato non può renderci soddisfatti. Non sarebbe giusto nei confronti del fascino sempiterno di Diabolik, che sulle pagine di Astorina continua ad appassionare ancora oggi dopo 60 anni. Un film troppo didascalico, troppo lento nella parte centrale-finale, che indugia troppo sugli elementi che avrebbero reso il finale avvincente e appassionante, a favore di una coerenza con i due precedenti, che forse andava fatta virare su altri lidi, a costo di cambiare registro.
Perché ci piace 👍🏻
Il punto di vista femminile di Eva e Altea.
L’inserimento del nemico comune esterno a Diabolik e Ginko.
La cura formale a livello di scenografie, costumi e musiche.
L’origin story di Diabolik…
Cosa non va 👎🏻
…anche se forse arriva un po’ troppo tardi.
Tutta la parte centrale è troppo lenta e inutilmente allungata, facendo perdere mordente al finale.
Gli spiegoni.
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inconsutile · 1 year
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Note sparse sulla Medea che ho visto ieri:
Le maschere nel teatro greco avevano il ruolo di identificare i personaggi, in questo spettacolo l'identificazione è sul livello simbolico: Medea è rappresentata da un uccello nero, un corvo presumo, e indica la sventura, i figli hanno le maschere dei conigli, Creonte (e i suoi seguaci) è un coccodrillo. Quest'ultimo è particolarmente interessante perché mentre aggredisce Medea mantiene la maschera ma la toglie sempre quando esprime il suo timore nei confronti della donna. Medea e i figli tolgono la maschera e non la rimettono, Creonte invece alterna per tutto il tempo in cui è in scena.
Dai costumi si denota la volontà di attualizzare il messaggio operando una critica alla famiglia e alla società borghese (e piccolo-borghese nello specifico). Il testo euripideo ripete più volte che tutto è stato messo in moto dal dissolvimento dei valori, e in effetti le nostre vite quotidiane sono ammantate di valori e ideali che puntualmente vengono calpestati in favore dell'interesse personale. Sui costumi, tuttavia, devo fare una nota di disappunto: i costumi riprendevano il vestiario borghese del 900 (eccetto Creonte, vestito da in giacca e cravatta) quando sarebbe stato più opportuno e puntuale utilizzare un vestiario contemporaneo. Non va a detrimento della rappresentazione e della sua ricezione ma sarebbe stato, ripeto, puntuale.
L'inesorabilità degli eventi ha generato in me angoscia ma anche una forte frustrazione, forse perché io e il pubblico abbiamo assorbito volente o nolente la mentalità del “se vuoi, puoi”, in cui gli esiti previsti sono: il successo o il contentino, in ogni caso risvolti positivi. Medea mette in atto tutto quello che ha progettato, ma si è ottenuto solo il sangue versato pulito dal coro.
In realtà parole come angoscia, frustrazione, sgomento, rabbia, dolore, raccapriccio, orrore e altre non riescono a racchiudere la sensazione che ho sentito durante tutto lo spettacolo e che ha raggiunto il suo apice durante l'infanticidio (che non è stato rappresentato, come vuole la prassi della Grecia antica). Tutte quelle emozioni erano una e mi pervadeva tutta, mente e corpo: avevo le mani nei capelli, la pelle d'oca, volevo raggomitolarmi, respiravo affannosamente. Le persone intorno a me posso descriverle solo come molto scosse.
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