#così almeno mi sentivo compresa (?)
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problema con la prenotazione degli esami -> scrivo sul gruppo -> ovviamente non risponde nessunə -> mando una mail al profe che stranamente risponde pochi minuti dopo -> il problema è della segreteria -> la segreteria fino al 9 è chiusa
#però sono stata gentile perché ho mandato lo screen con la risposta sul gruppo così tuttə lo sanno#anche se il mio messaggio da loro non ha avuto risposta#bastava solo un: anche io ho quel problema#così almeno mi sentivo compresa (?)
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Mi sento spesso come un pianeta errante in un universo di stelle immobili. Tra pianeti che indossano una brillante veste di stelle, io mi muovo nell'ombra, un corpo celeste solitario. Intorno a me, tutti sembrano indossare maschere, recitare una parte per un pubblico invisibile. Parlano, ma non comunicano davvero. Si nascondono dietro etichette e definizioni, costruendosi identità fragili come case di carta. Cerco profondità in un mondo che sembra averla persa. Voglio dialoghi autentici, scambi di idee che vadano oltre la superficie. Desidero comprendere le anime, non solo le parole.
Ho provato a connettermi, a far parte del coro. Ma la melodia mi stonava. Le loro note erano false, ripetitive, prive di armonia. Sentivo solo un rumore di fondo, un'eco vuota. Mi dicono che sono diversa, speciale. Ma la diversità, in un mondo che celebra l'omologazione, è una condanna. Sono un'opera d'arte appesa in una galleria di poster. Ammirata, ma mai compresa.
Ho cercato risposte nei libri, nei film, nelle canzoni. Ho cercato rifugi in mondi immaginari, sperando di trovare un'anima gemella, un'eco della mia solitudine. Ma anche lì, l'autenticità sembrava un lusso riservato a pochi. Mi chiedo spesso: sono io il problema? Forse sono troppo esigente, troppo sensibile. Forse cerco qualcosa che semplicemente non esiste. Ma dentro di me, una voce mi sussurra che no, non è così.
Mi dicono che siamo tutti maestri ascesi, stelle cadute sulla Terra. Ma se è così, perché il mondo è ancora un caos? Perché l’egocentrismo e l’egoismo ancora comandano? Se fossimo davvero tutti così illuminati, avremmo già costruito un paradiso. La realtà ci mostra un'altra verità: siamo creature imperfette, in cerca di un senso. E questo è bellissimo, perché significa che siamo vivi, che stiamo crescendo. Ma negare la nostra umanità, nascondendoci dietro false etichette, ci allontana dalla vera trasformazione.
Nel corso della storia, grandi maestri spirituali hanno sempre incontrato resistenza, persecuzione. Gesù, Buddha, Gandhi...nessuno di loro è stato accolto come un eroe. Perché? Perché la vera trasformazione spesso spaventa, perché mette in discussione lo status quo. Se tutti ci applaudissero, forse dovremmo iniziare a preoccuparci.
Voglio credere che ci sia (o, almeno, sia possibile) un mondo oltre le apparenze, là fuori. Un mondo dove le persone si connettono davvero, dove l'empatia è più importante dell'ego. Un mondo in cui la scelta non è più tra un palcoscenico e una poltrona in platea e dove le domande contano più delle risposte. Ma per ora, continuo a camminare da sola. Portando con me un fardello di domande e un cuore pieno di speranze. Forse un giorno troverò la mia tribù, un gruppo di anime affini con cui condividere esperienze e prospettive.
Nel frattempo scrivo, dipingo, esploro. Per dare un senso al caos, per trovare un filo conduttore nel labirinto delle mie emozioni. Per connettermi con me stessa, per riscoprire la parte più profonda e autentica di me. E spero che le mie parole possano risuonare in qualcuno. Forse c'è qualcun altro là fuori che si sente come me, un'isola in un oceano di conformismo e superficialità. Forse insieme potremo creare un nuovo continente, un luogo dove l'autenticità è la valuta più preziosa.
Questo blog è il mio piccolo angolo creativo. Ogni parola e ogni immagine presente in questo post è frutto della mia immaginazione. Se ti piace qualcosa, condividi il link, non copiare.fi
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Ciao mamma, vorrei dirti davvero tante cose ma come al solito non so da dove iniziare, né ora, né in generale nella vita.
La certezza è però che la leggerò tante di quelle volte e cambierò tante di quelle cose che poi te la manderò totalmente diversa da come l’avevo iniziata.
Mi sono svegliata con un senso di vuoto, di insoddisfazione che sinceramente non volevo più sentire e ho deciso di iniziare da capo, tutto; ed eccomi qui, a Londra, a scrivere un nuovo capitolo, partendo da zero, forse breve, forse lungo, chissà.
Comprendo che tu non capisca, perché nemmeno io troppo bene, però so io quello che sento e so che se mi sono spinta a partire è perché forse evadere da tutto era quello di cui avevo realmente bisogno, non si sa per quanto, Dio sa cosa mi riserva e non penso di meritare male.
Sai pensavo che finito il liceo mi sarei sentita soddisfatta di aver raggiunto il traguardo che ho aspettato per 5 anni e poi sarei stata più invogliata di andare avanti, ma non é stato così purtroppo, perché gli ultimi mesi mi sono accorta che quel diploma per me non avrebbe avuto un vero valore perché non era frutto del mio totale impegno, avrei potuto fare di meglio e invece no e a me le cose a metà non piacciono proprio, davvero mamma, sono sincera.
Poi boh non so cos’è successo nel dopo, so solo che mi sono proprio persa, ho perso di vista gli obbiettivi, i miei principi, la mia famiglia, un po’ tutta me in generale e in compenso non so cosa ho trovato, non posso dire niente, in ogni caso, nonostante tutto, giuro, non cancellerei assolutamente nulla, perché ho la forte convinzione che gli errori siano le fondamenta del futuro che si crea in seguito.
Non sono mai riuscita a chiederti scusa davvero per quest’anno che ti ho fatto passare, la verità è che si chiede scusa per qualcosa che si fa consapevolmente e fa doppiamente male il fatto che in realtà non mi accorgessi di come mi comportavo e questo per me annulla ogni tipo di scusa.
Scusami mamma per tutto, per aver deluso le tue aspettative, per essere stata un pessimo esempio per i miei fratelli, per averti dato mille pesi in più invece di alleviarli, essendo la maggiore sarei dovuta essere un appoggio.
La verità é che ti devo tutto, ma proprio tutto e non sono stata capace di darti niente.
Scusami davvero se pensi sia stata egoista, in realtà odio esserlo, ma il mio non star bene influenzava tutto quello che avevo intorno e non ne potevo più.
Scusami se nell’ultimo anno mi sono chiusa così tanto con te e se ancora in questo periodo sono rimasta così, ho la convinzione che se ti avessi parlato sarebbe stato più facile, la verità è che non mi riesce parlare, faccio un sacco fatica è come se non volessi più parlare per non pensare, non parlo nemmeno con me stessa, cioè evitavo.
Era un periodo mamma, in cui non mi andava di aprirmi, perché parlare non aiutava, ascoltare quello che aveva da dirmi una persona esterna era solo la conferma che le cose andassero male e non volevo accettarlo.
Scusa se ho scelto un po’ così, un po’ di fretta, un po’ di nascosto, un po’ senza pensare troppo bene, anche se in realtà ci ho pensato molto, e come un po’ sempre, come a te non piace, mi sono lasciata portare da quello che sentivo, dall’istinto, poi ci ho messo la testa però, giuro.
Però se c’è qualcosa che so e che mi porto dietro, anche se forse non è positivo, è che la fiducia l’ho persa, le promesse non vengono mantenute ed è un dato di fatto, perché ormai le persone non danno più importanza alle parole e lo dico in generale per tutti, io compresa. Nessuno si sente realmente in compromesso con quello che dice, proprio per questo motivo non vi è una connessione e tra parole e fatti. Me ne sono andata un po’ con questa convinzione, che per me è davvero toccante, davvero orribile, siccome sono sempre stati i valori che mi sono stati trasmessi e a cui davo importanza, forse esagerata, la fiducia e le promesse. Spero che qui, qualcosa o qualcuno mi faccia cambiare idea.
Ammetto che avrei di gran lunga preferito che mi accompagnassi nella mia scelta e averti potuto chiamare e raccontare tutto; forse avevo un po’ la sciocca convinzione che la distanza avrebbe rafforzato il nostro rapporto, invece il contrario, ma non ti biasimo, capisco il tuo dolore e ti chiedo scusa per essere così testarda.
In questo momento sono sotto casa (e ti penso, come tutti i giorni da quando sono arrivata) che dire qui c’è una vista pazzesca, sono seduta su un muretto che si affaccia al Tamigi con il computer da cui scrivo e all’orizzonte ci sono tutti i palazzi ed è tutto illuminato come nei film, di sottofondo le onde che tornano sulla sponda.
Questo posto mi trasmette serenità, nostalgia di voi, riflessione; tutto insieme, mi piace.
Parlando di adesso e tralasciando il resto, la mia paura, era il fatto che non cambiasse nulla, ma in realtà non dico che sono arrivata e sono diventata felice, però mi sento finalmente abbastanza serena, io sto meglio, mi sento come se tutto quello che mi dava fastidio quello che mi trasmetteva energia negativa fosse rimasto lì e io qui. Perché realmente sto bene qui lontano da tutti, proprio tutti, tranne voi che mi mancate tantissimo, ma sono sicura che mi servirà anche a guarire tutta la rabbia repressa che avevo senza motivo nei vostri confronti, senza motivo davvero.
Sai non è così facile, perché anche se ho detto che avrei iniziato da zero, il passato segna sempre almeno un po’, in quello che sono, in quello che penso, in quello che faccio e in quello che dico. Questo non mi piace mamma, a volte sono cattiva con le parole e ti prometto, ma soprattutto a me, che lo cambierò.
Mi manchi tantissimo, è tutto diverso senza te, senza qualcuno che ti ama e si preoccupa a che ora torni, dove sei, se hai mangiato, se ti hanno trattata bene, cose che sinceramente quando hai le dai per scontate ma quando non ci sono più queste attenzioni, fa la differenza; anche se sono solo due settimane so che é solo l’inizio e che ci devo fare l’abitudine.
Scusa se non ti ho chiamata, ma oltre al fatto che non penso tu abbia molta voglia di parlare con me, io non ho niente di bello da raccontarti che possa farti sentire felice, se non che sono serena e che non sono sola.
Voglio che tu sappia che nonostante io sappia badare a me stessa, in caso questo non ti facesse sentire abbastanza sicura voglio che tu sappia, che la persona che è con me, ci tiene davvero e ha cura di me sul serio.
Non sono brava a scrivere, perché effettivamente non ha un ordine logico tutto quello che ho scritto, ma è quello che penso e non so come metterlo in ordine.
Voglio ripeterti anche se te l’ho scritto in forse ogni lettera o messaggio, che sei la persona più importante della mia vita, mamma, tu hai reso la mia vita migliore, sei il mondo per me. Voglio che tu sappia che sei la persona che più amo, che mi sento realmente me senza essere giudicata solo con te, unica per me, inimitabile, che nell’ultimo periodo chiunque era scomodo e sentivo il bisogno di tornare a casa; e casa non è a Voltorre, casa, mamma, è ovunque tu sia, anche se non lo dimostravo per niente perché una volta a casa poi non andava più bene nemmeno lì.
Ma in ogni caso, tu sai meglio di me, che, nei peggiori momenti, le tue braccia sono quelle a cui farò sempre ritorno, perché sono casa.
Auguri a te che hai sempre le parole giuste per ogni situazione, per ogni mio dolore, auguri a te a cui io darei la vita, ma non lo do mai a vedere.
Finisco dedicandoti un pezzettino di poesia che ho letto qualche giorno fa, che adesso è la nostra poesia, sperando che ti piaccia:
“C’è stato un tempo in cui respiravo il tuo respiro
Un tempo in cui vivevo perché tu vivevi
Esistevo solo se esistevi
Ed ora che non è più così
Ora che io respiro, io vivo, io esisto
Sembra non dipendere più da te
Ma se ti avvicini l'aria è più pulita
E se mi stringi vivere è meno faticoso.”
Non hai copia mami, buon compleanno, ti amo per sempre.🤍
P.S. Ci rivediamo presto.
-ricordiindelebilidiuntempofinito
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A proposito del Catcalling
Sono davvero felice che si parli di questo fenomeno, sul serio.
Perché sì, io sono una di quelle cui ha sempre provocato fastidio e profondo disagio.
I primi fischi, apprezzamenti e colpi di clacson sono cominciati verso i dodici, tredici anni. Quando me ne lamentavo, mi rispondevano che "i ragazzi fanno così", "non ci devi fare caso", "fingi di non sentirli" eccetera. Solo che io, semplicemente, non ci riuscivo. Non ce la facevo ad ignorare quelle attenzioni indesiderate, spesso fatte da uomini che avevano dieci, forse quindici anni più di me. Non lo trovavo né giusto né normale, anche se tante persone si sforzavano di convincermi del contrario. Né mi sentivo lusingata, perché "se lo fanno vuol dire che ti trovano carina!"
Quanto mi ha condizionata questa cosa?
Tanto, forse anche troppo. Anche adesso che ho trentasei anni e sono ormai una donna, quel senso di disagio persiste.
Io non indosso la gonna se devo prendere i mezzi, e se lo faccio ho sempre un po' il magone al pensiero che qualcuno possa fare commenti su di me.
Mi vesto in maniera un po' più femminile solo quando esco di sera e ci sono anche i miei amici maschi, perché so in quel caso c'è meno possibilità che qualcuno mi rompa le scatole.
Quando vado a camminare indosso sempre le cuffie, almeno non sento nessuno.
Ho sempre pensato di essere esagerata, di farmi un sacco di paranoie e di prendermela troppo. Poi, proprio in questi giorni, ho letto i commenti di tante donne e ragazze, e quasi non potevo crederci: erano come me. Anche per loro era iniziata con lo sbocciare delle prime forme. Anche loro si preoccupavano dell'abbigliamento e anche loro si sentivano tutt'altro che lusingate da fischi, colpi di clacson e via dicendo. E' stata una bellissima sensazione, perché per la prima volta mi sono sentita compresa, e un po' meno sbagliata. Ad alcune donne piacciono? Beh, buon per loro. Peccato che non siamo tutti uguali, e che le parole provocano effetti diversi in base a chi le ascolta. Già, funziona così. Incredibile, eh? Ah, e i complimenti, quelli veri, li ho ricevuti e li ho anche apprezzati. Come quel ragazzo che, mentre ero in un locale con amici, mi si avvicinò per riferirmi che mi trovava bellissima, e che non poteva andarsene senza dirmelo. "Che posso farci? Mi sono innamorato!" spiegò a un suo amico. E no, non era il sosia di Brad Pitt, ma un ragazzo normalissimo che non avevo manco notato.Mi fece piacere, anzi, lo trovai addirittura divertente, e tutt'ora quando ci penso mi scappa sempre un sorriso. I complimenti sono una cosa, gli apprezzamenti da allupati morti di figa sono ben altro.
Non confondiamo la merda con il cioccolato.
#catcalling#sfogo#donne#molestie#gonna#donna#uomo#uomini#disagio#fastidio#lauramars#Laura Mars#scritto da me#violenza sulle donne
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Love is Blindness...
"Love is blindness I don't want to see Won't you wrap the night Around me? Oh my love Blindness" (Love is Blindness-Jack White)
Io non sono "MATERIALE DA INNAMORAMENTO" questo si sa...
Spesso resto a lungo a pensare all' amore. Chi non lo fa?
Alla fine dei conti intorno all'amore ruota la nostra vita, qualsiasi tipo di amore si viva esso ci travolge, sempre!
Cosa succede se però inizi a temerlo?
Cosa accade dentro se vivi un momento unico, magico, di assoluto benessere?Un momento in cui ti senti completa, compresa, al sicuro pur non ricevendo alcuna protezione, quella non serve, siamo in grado di proteggerci da soli...non è così?
Quell'istante diventa, per un breve momento, qualcosa di unico. Nulla esiste, nulla ti tange, nulla ti preoccupa, poi esci dalla bolla e tutto torna ciò che era con la semplice differenza che ti senti più leggero, più sereno, più appagato.
Passano i giorni e tutto torna esattamente come prima.
Lo sapevo, era così che doveva essere.
Freno ciò che provo, lo richiudo in un cassetto e attendo di tirarlo fuori di nuovo...forse...un giorno.
Leggo dei versi, mi emozionano, vedo me anche se magari lì non ci sono. Vivo quel momento e penso: "E' il nostro momento!".
Resta una traccia, forse, qualcosa che non saprò mai perché mai e poi mai oserò chiedere.Ripenso a quando mi è stato detto: "Come sei bella!", ogni volta penso: "Ma starà guardando me?".Sono sempre stata incapace di gestire i complimenti, anche quelli più sinceri. Non so mai cosa dire, tutte le risposte appaiono banali e alla fine non dico nulla o rispondo con una domanda.Sono complicata?
Forse...
Sono gli uomini che incontro ad essere refrattari all'amore o sono io a non essere materiale da innamoramento?
Non credo troverò mai una risposta.Il desiderio che provano lo sento, lo percepisco, ma poi...io so essere davvero stronza, lo so, ne sono perfettamente consapevole.
Paura?
Forse, oppure immagino che alcuni uomini siano in grado di cose di cui in realtà non sono capaci.
Le aspettative! Ho trovato!
Sono le aspettative che ci incastrano.Dovremmo non averne ma non credo possa essere fattibile.Ci aspettiamo sempre qualcosa dagli altri, facciamo previsioni, crediamo scenari che spesso non corrispondono alla realtà.
Ci sono volte, però, in cui quegli scenari si mostrano stupendi, più delle aspettative e allora è un macello! Soprattutto se il cuore batte e ripensandoci hai voglia di piangere.La sento la tua voce adesso...
"Je provo a nun pensà, Ma tu staje sempe 'ccà"
Non la sentivo prima, non ascoltavo con abbastanza attenzione!Adesso è chiara...quanto è maledettamente chiara!
Voglio perdermi in un romanticismo distruttivo.
Voglio immaginare che in un mondo ideale possa esistere un uomo che mi guardi con occhi innamorati.
Voglio sentirmi meno forte e avere comunque la certezza che non mi frantumerò per il semplice fatto di credere che vivrò ancora momenti magici.Posso essere romantica?
Posso esserlo almeno una volta o due?
Posso credere che l'amore esista?
Posso credere di poter essere l'amore per qualcuno?
Domani tornerò alla realtà e saprò, con fredda consapevolezza, che è stato tutto magico per un breve arco di tempo e che non ci si può perdere in certe "sciocchezze"...
In fondo lo sappiamo che IO NON SONO MATERIALE DA INNAMORAMENTO!
Stasera no! Stasera voglio ascoltare ancora la tua voce, sentirla come non l'avevo sentita mai e voglio immaginare che tutto possa essere ancora magico e perfetto, per un breve arco di tempo, un tempo in cui solo noi possiamo esistere.
"Love is clockworks
And cold steel
Fingers too numb to feel
Squeeze the handle
Blow out the candle
Love is blindness"
(Love is blindness-Jack White)
youtube
#love is blindness#love#amore#desiderio#wishes#attimi#moments#magic moments#momenti felici#attimidifelicità#desideri#realtà#romanticism#romanticismo#jack white#innamoramento#speranza#ascoltare#to listen
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Umani da Vienna.
1090. Pierluca è quella persona che conosci da sempre anche se in realtà sono poco più di due anni, ma quando lo vedi e ci parli è come se fosse sempre stato parte di te, della tua crescita. Non ti capaciti di come sia possibile, guardi le foto di te da bambino ed ecco Pierluca che appare nello sfondo, era lì con te. Non lo avevi notato. Pierluca è padre di famiglia e la sua famiglia è anche la mia famiglia adesso. I suoi figli sono miei e sua moglie la sento anche un po’ mia. Pierluca ha vissuto tanto in giro per il mondo eppure ti da una sensazione di casa. Forse, Pierluca più che un umano è un camper. O un circo itinerante. Lui e i suoi topi da laboratorio e i suoi nani stupendi che in realtà sono i suoi figli. Pierluca è il capostipite dei cervelli in fuga e meno male che è scappato altrimenti l’Italia me lo avrebbe reso incazzoso, arrogante, spocchioso, stanco. Invece adesso usciamo e ci raccontiamo sempre gli stessi sketch di Guzzanti. Aspettiamo sempre il momento giusto per dire “ce mettemo un pescetto?” e questo anche ha sapore di casa. 1200. Lamine è il mio amico dal Senegal ed è soprannominato la bestia. Si vanta di non avere un cuore ma in realtà penso sia più grosso del suo cazzo, altra cosa di cui si vanta tantissimo e ha ragione a farlo. Lamine ama due sole cose: la figa e la Juventus. Sulla prima andiamo d’accordo, sulla seconda gli sono vicino solo quando viene eliminata dalla Champions, per prenderlo in giro. Lamine è amareggiato perché è stanco di essere sessualizzato. Di essere quello approcciato perché nero e perché sicuro ha un cazzo enorme. E non solo dalle donne, ma anche dai mariti che gli chiedono se per favore può andare a casa loro e scopargli davanti la moglie. All’inizio non capivo la sua frustrazione, poi più passa il tempo più mi rendo conto del suo punto di vista. Vuole sposarsi. Dice di essere stanco di scopare in giro. Non appena lo dice ti manda la foto di una tipa nuda con un culo enorme e aggiunge “guarda che figa!!!” e io sento la sua risata dall’altra parte del telefono. Quella risata altisonante nonostante i chili e chili di muscoli e palestra. Quando usciamo assieme, indosso sempre la mia maglietta del Wu-Tang Clan, così posso dire “ehi, non solo amo il rap ma vedete, ho pure un amico nero!” e questo lo mette tantissimo in imbarazzo e ridiamo ma forse rido di più io, lui mi asseconda perché con me può finalmente smettere di parlare solo di calcio e figa, ma anche di quando si sente triste. Deve essere difficilissimo vivere avendo paura di buttare fuori i pensieri che ti abbattono e ossessionano. Dover sempre apparire invincibile. Lamine è il mio opposto. Io sono la notte, lui è il giorno. 1050. Francesca è la mia coinquilina ed è un ammasso di capelli e pensieri e confusione e peli superflui e cibo da discount e sigarette e risate e abbracci e furti dal frigorifero. È la più giovane adolescente di 29 anni che conosco. E meno male. Non vuole crescere e diventare un adulto disfunzionale come me, uno di quelli che la mattina si sveglia e va in ufficio. Lei vive di notte, vive di scadenze di progetti, di video e di riprese. Ed è dannatamente brava nel suo caotico modo. È un gatto da appartamento, anzi no, è più un procione. Francesca è stata inserita nella mia vita per dare un altro volto a questo nome, per non averne più paura quando lo sentivo nominare. Francesca è la ragazza con cui posso stare steso abbracciato sul divano senza avere una minima parvenza di erezione. È la colazione fatta parlando piano perché di mattina ha la meglio il lato procione e non il lato umano. Francesca ama le mie storie e gliene ho regalata una per farci un film e aspetto, credo in lei, se inizia a svegliarsi prima delle 11 secondo me può farcela a diventare meno procione e più adulta. 1050. Peyman è il mio vicino di casa e vive a Vienna da quando è scappato dall’Iran. Era giovanissimo, aveva 14 anni durante la rivoluzione. Mi racconta di quello che si provava nelle scuole, di tutte le speranze che la sua generazione aveva. È incazzato a morte con l’Iran e mi ha pure detto che spera che Trump faccia qualcosa. Pensate, è così incazzato che si augura che una testa di cazzo come Trump si impegni ad essere ancora più testa di cazzo e vada a rompere le palle alle teste di cazzo che governano il suo paese. Peyman parla molto di Gesù e mi ha chiesto se voglio fargli da compare quando deciderà di battezzarsi. Peyman preferisce dire di essere persiano, non iraniano. Gli guardo le mani, l’indice della destra è molto più piccolo, come se gli mancasse una falange. Forse è nato così o forse, ma questo accade nella mia testa, per non dover usare i fucili nella guerra post rivoluzione, si è amputato una parte del dito da grilletto. Peyman beve tanto, parla un tedesco migliore del mio e quando camminiamo per la strada nonostante lui sia qua da più di trent’anni, capita che ancora gli urlino di tornare a casa sua nel suo paese. Lui si gira e dice che grazie al cazzo, ci tornerebbe più che volentieri se non fosse andato tutto a puttane. Adesso la sua casa è Vienna, ci paga le tasse, ha il passaporto austriaco e una figlia con i suoi stessi capelli neri che ama disegnare dinosauri in giro per il palazzo. 1140. Setareh viene anche dall’Iran ed è la persona più dolce di questo pianeta. La sua esistenza equilibra l’esistenza di almeno un miliardo di umani di merda. Se il mondo unito conoscesse Setareh e Setareh spiegasse i motivi per cui è giusto che l’Iran abbia l’atomica, tutti converebbero che ha ragione e in pochi istanti le darebbero le chiavi per tutte le bombe che vuole perché di una persona così buona e dolce di sicuro ci si può fidare. Setareh è buona per bilanciare tutti gli uomini che le hanno detto cosa doveva mettere in testa o quanto lunghi dovevano essere i suoi capelli o quanto corti i suoi vestiti. Setareh ama fare shopping in Europa perché può scegliere di indossare quello che le pare. Setareh mi fa incazzare perché se lei non esistesse allora saremmo autorizzati ad eliminare quel miliardo di umani di merda e invece no, lei esiste e anche gli altri. Forse è meglio così però. 1090. Fabio è il mio amico giovane e dj che mi ha insegnato a dire “zio”. Se possibile, Fabio si fa ancora più paranoie di me. Viene benissimo in foto ma se glielo dici lui risponde “no zio guarda qua che difetti che ho”, e tu ovviamente non li vedi. Se vede una ragazza che gli piace deve trovare un particolare fuori posto per ammazzarsi le aspettative e tornare a farsi paranoie con me. Io lo vedo quando siamo assieme, che mi guarda con molto rispetto e ammirazione. Mi legge da tanto tempo. So che stai leggendo quello che sto scrivendo di te, zio non prendermi mai come esempio, non ne vale la pena. Tu ce la puoi fare e hai una barba fighissima. Fabio fa musica che spacca e la notte lo mettono a suonare ad orari indecenti ma lui è giovane e riesce a stare sveglio, se mettessero me a suonare a quelle ore manderei tutti a fanculo, carriera compresa. Fabio mi fa morire dal ridere ma non lo sopporto perché è troppo forte a Mario Kart. Avesse meno paranoie riguardo al suo aspetto e le ragazze e di più riguardo al battermi senza ritegno a Mario Kart sarebbe una persona stupenda. 1040. Leo non penso sia il suo nome vero ma quello completo sarà una di quelle cose austriache complicate che finiscono per fartelo sembrare un vecchio quando in realtà è giovanissimo. Ci vediamo tutti i giovedì oramai da anni per andare insieme al karaoke. Riuscisse mai a prendere una nota giusta. Mai. Però veste sempre elegante. Parla un tedesco gentile e ti fa piacere questa lingua così difficile quanto odiosa. Siccome lavora con i computer e fa il programmatore, ripudia la tecnologia in ogni sua forma. Il suo telefono è un modello così antiquato che fa fotografie in pellicola. Leo è sempre circondato da gruppi di ragazze bionde che lo seguono manco fosse una divinità. Forse perché oltre al modo di parlare, è gentile per davvero. Quando cucina lui anche se siamo in tre, si finisce ad avere canederli per quaranta persone. Ti manda gli sms. Ha un pianoforte in casa e uno pensa che magari così si allena e migliora al karaoke, invece no. È la dimostrazione vivente che l’Austria di musicista buono ha avuto solo Falco, che nemmeno era bravo, però col tempo impari ad accettarlo. Leo lo accetti perché tanta gentilezza va rispettata, ma mi ha rovinato il piacere di ascoltare Everybody hurts perché come la canta lui senti davvero il dolore dell’umanità condensato in 5 minuti di esibizione. 1100. Michikazu è il mio amico giapponese che non conosce nulla del Giappone. Gli chiedi qual è il suo film di Miyazaki preferito, ti risponde chi è Miyazaki. Gli chiedi cosa pensa di Ken Shiro, ti dice che non è mai stato a mangiare da lui. Fa l’artista e una volta mi ha chiesto di suonare ad un suo spettacolo. Gli ho chiesto come mai, dato che faccio tutto in italiano, perché vuoi la mia musica. Mi ha risposto che non è importante quello che faccio ma come lo faccio e io faccio le cose proprio come piace farle a lui. Ovvero senza capirci nulla. È l’unica persona che compete con i miei abbonamenti ai servizi pubblici viennesi. Il giorno del rinnovo del suo passaporto, per la foto ufficiale, si è rasato le sopracciglia e fatto crescere dei baffi con la forma delle sopracciglia tolte. Da 8 anni va in giro con quella foto sul passaporto. Mich non vuole tornare in giappone, dice che sta meglio in Austria, qua non è costretto a capire quello che succede e sta meglio così. Troppe regole laggiù, troppa facciata. Lui ha mire più alte tipo rasarsi le sopracciglia per le foto del passaporto. Quando ride non ti guarda in faccia, si vergogna e questo è un pezzo di Giappone che ancora non è riuscito a togliersi di dosso. 1160. Aldo è il mio animale guida e solo io so che il suo vero nome non è Aldo bensì Giosia. Anche lui fa l’artista e ogni volta che vedo i suoi lavori torno ad avere fiducia nell’arte. Quando lo becchi in giro sembra un giovane ubriacone invecchiato molto male, quando ci parli ti rendi conto che non è per niente giovane, tutto il resto invece è corretto. Non ho mai avuto il coraggio di dirlo ad alta voce, ma sono molto geloso di quanto lui e Pierluca sono diventati amici. Sogno un triangolo amoroso o di fare un figlio a tre con loro, un bambino che nasca col talento artistico di Aldo, la mente scientifica e brillante di Pierluca e la mia abilità nel fare la pasta e fagioli. Eh sì, questo è quello che posso mettere sul tavolo io. Aldo è quello che quando ti parla della sua vita tu prendi romanzi come Grandi Speranze o libro Cuore e li butti via perché dici che a loro non è successo nulla di interessante. Non appena gli dici che qualcosa ti sta andando male, ecco che arriva lui con il racconto di quella volta in cui stava per morire di notte su un treno verso la Russia mentre era vestito da Carabiniere per un progetto artistico e il tassista che lo aveva portato in stazione lo aveva preso a pugni dato che era senza soldi per pagarlo perché viveva in alcuni cartoni vicino al Danubio insieme al fratello con cui qualche giorno prima aveva rubato una barca dimenticando però i remi e lui era riuscito a scendere mentre il fratello ancora galleggiava senza meta sul Danubio. Aldo ha una pancia così tonda che forse dovrebbe partorire lui il nostro figlio a tre padri. 1020. Elisabeth è il passato che ti fa piacere ricordare, il presente a cui mandi foto di opossum per farla sorridere e il futuro che sai sarà sempre lì. Con Elisabeth è finita da tanto ed è stata lunga e variegata e complessa e forse per questo ci si vuole ancora bene. Un giorno pensavo avremmo avuto figli insieme e la ammiro per aver avuto la forza di rincominciare una vita senza di me, mentre io ero terrorizzato da quello che mi circondava. Dalla solitudine, che adesso invece mi tiene compagnia e fa stare tranquillo. Profuma ancora di buono e talvolta mi manca vederla in casa. Però so che posso scriverle e in un secondo mi farà sentire che l’amore è qualcosa che si deve evolvere e a cui devi dare il permesso di cambiare forma e accettare quello che verrà. Perché se conosci qualcuno di valido, lo vuoi tenere nella tua vita anche se cambia tutto. Ora tutto è cambiato ma non il suo profumo e qualche costante devi averla. Ho sempre avuto paura che la mia malattia l’abbia tenuta legata a me più del dovuto e adesso, ogni volta che vado da solo in ospedale e parlo da solo in tedesco con i dottori, le scrivo per dirle quanto sono stato bravo e quanto ho parlato bene. Lei è orgogliosa di me. Sta dimenticando l’italiano ma non le parole sceme che avevo inventato per farla ridere. 1100. Davide è mio fratello ed è la persona che conosco meno su questo pianeta. Nonostante abbiamo il patrimonio genetico in comune e siamo cresciuti assieme e gli ho letto tutti i miei libri preferiti e abbiamo finito non so quanti videogiochi, io mio fratello lo conosco di vista. Come quella canzone di Rino Gaetano. Lui è il musicista, io sono quello che si lancia e fa concerti e dischi. Lui è quello che fa ridere, io ho solo la faccia come il culo. Lui è quello che ha comprato casa con la sua compagna con cui sta da una vita e che adesso spero inizierà a darmi nipotini. Lui è quello su cui posso contare quando faccio una cazzata e mia madre mi guarda delusa, le posso dire “mamma, hai Davide, riponi in lui le speranze, lui si è laureato, ha la testa sulle spalle, io ho scritto una canzone su quanto sono stronzo”. Lui è il fratello minore, ma è sempre stato più grande di me. 1160. Alice Yasmin è la donna più forte che conosco nonostante sia alta come un pezzo di formaggio ma adesso fa brazilian jiu jiutsu e se non la metto in questa lista sicuro mi ammazza di legnate. È tanto bella quanto capace di annoiarti non appena inizia a fare la punta al cazzo su particolari che non conoscevi del Signore degli Anelli. Grazie Alice, sono particolari così noiosi che c’è un motivo se non li conosco. Se non ci fosse stata lei, non avrei mai conosciuto il padre dei miei figli Aldo. Ma lei l’ho conosciuta grazie a Tumblr, quindi ringrazio Tumblr per avermi dato Aldo. 1070. Piotr viene dalla Polonia e gioca a calcio. Dice di avere un fratello gemello ma io non l’ho mai visto. Dice anche di fare il personal trainer ma ci vediamo solo in giro a bere. Lui beve tanto. Ma davvero tanto. Beve così tanto che magari si allena nel bere e allena altra gente a bere e forse quando usciamo lui sta allenando me a bere. Forse suo fratello è frutto dei fumi dell’alcol. Conosce tutti i peggiori bar di Vienna e quando mi ci porta un poco mi vergogno perché mi sento fuoriluogo. Io e il mio aspetto signorile. Piotr vuole sempre fare cose. Sempre andare da qualche parte. Sempre fare tardi. Sempre mangiare carne e bere. Ovunque vai, qualcuno conosce Piotr. E lo evita. Io conosco Piotr e sto pensando forse dovrei iniziare ad evitarlo pure io. Ma voglio scoprire di più sul fratello. E in che squadra gioca. E come fa un calciatore polacco alcolista a bere e allenarsi e ottenere pure risultati mangiando solo carne. Piotr forse ha mangiato suo fratello gemello e un giorno mangerà me.
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The one where is New Year’s Eve
(ecco la storiella di capodanno che avevo scritto prima di sapere che Ermal e Fabrizio avrebbero passato la serata insieme a Bari - e prima di sapere che Vige non avrebbe partecipato a Sanremo Giovani, motivo per cui ho dovuto modificare cose all’ultimo momento.)
Il 2018 stava per finire, portando con sé tutte le esperienze di quei dodici mesi e lasciando spazio a qualcosa di nuovo.
Ermal si ritrovò a considerare - ormai per l'ennesima volta quella sera - che quell'anno era trascorso più velocemente di quanto avrebbe mai immaginato.
Aveva iniziato il 2018 avvolto da un senso di malinconia, ancora leggermente scottato dalla rottura con Silvia, e con la voglia di voltare pagina. E in effetti l'aveva fatto.
Aveva vinto il Festival di Sanremo, era andato all'Eurovision Song Contest, aveva riempito il Forum di Assago, aveva diffuso in tutto il mondo una canzone con un messaggio di pace e di speranza.
Già, ma tutte quelle cose non le aveva fatte da solo.
Fabrizio era sempre stato al suo fianco, a sorreggerlo quando ne aveva bisogno e a farsi sorreggere quando era lui quello in difficoltà.
Grazie a Fabrizio, Ermal aveva trascorso uno degli anni più spensierati della sua vita. Almeno fino a quel momento.
Aveva iniziato a pensarci qualche giorno prima, quando si era reso conto che la familiare sensazione di malinconia dell'anno precedente stava di nuovo prendendo il sopravvento, ma questa volta per un motivo ben diverso.
Si era domandato più volte se fosse il caso di sbarazzarsi di quella sensazione, dicendo a Fabrizio ciò che ormai da troppi mesi provava per lui, oppure se fosse meglio tacere e sopportare in silenzio quell'alone di malinconia e tristezza che ormai gli erano entrati fin sotto la pelle.
Aveva sempre cercato di concludere l'anno con il cuore leggero, senza questioni in sospeso. Era sempre stato il suo unico proposito per l'anno nuovo.
Ma gli anni precedenti era stato più facile, non si era mai trovato di fronte a un bivio del genere.
Sollevò lo sguardo sui suoi amici che ballavano e ridevano in mezzo al suo salotto e vide Andrea camminare verso di lui e poi sedersi al suo fianco.
"Tutto bene?" gli chiese con un bicchiere di vino in mano - e molti di più nello stomaco - mentre gli sorrideva con gli occhi già lucidi per il troppo alcol.
Ermal lo guardò per un momento, indeciso su come comportarsi. Si era sempre un po' sentito un fratello maggiore per Andrea e spesso l'aveva sgridato esattamente come faceva con Rinald quando erano bambini, ma in quell'occasione proprio non se la sentiva di farlo.
D'altronde aveva tutto il diritto di affogare i suoi dispiaceri nel vino per il risultato di Sanremo Giovani.
"Tutto bene. E tu?"
"Alla grande!" esclamò Andrea bevendo ciò che era rimasto nel suo bicchiere e poi accasciandosi malamente contro lo schienale del divano.
Ermal si mise a ridere mentre lanciava distrattamente un'occhiata al cellulare.
Le 22:40.
Mancava meno di un'ora e mezza all'anno nuovo e lui ancora non aveva deciso come comportarsi.
Rispolverare il suo solito buon proposito e chiudere le questioni in sospeso, compresa quella con Fabrizio? Oppure, solo per una volta, lasciare perdere?
"Sei un bugiardo" mormorò Andrea, seduto accanto a lui.
"Come, scusa?" chiese Ermal, convinto di aver sentito male.
"Hai detto che va tutto bene, ma non è vero. Si vede che c'è qualcosa che ti preoccupa."
Ermal sorrise. Anche da ubriaco, Andrea cercava sempre di salvarlo da sé stesso e dai suoi pensieri.
"Non è niente di importante, Vige. Davvero" rispose Ermal, stringendogli affettuosamente un ginocchio.
Andrea lo fissò per qualche secondo, poi scosse la testa dicendo: "Non sono convinto."
Ermal non rispose e abbassò lo sguardo.
Era davvero diventato così trasparente agli occhi degli altri?
"Sto cercando di decidere se portarmi un peso nell'anno nuovo, oppure disfarmene prima di mezzanotte" disse Ermal.
"Tu non ti porti mai pesi nell'anno nuovo" gli fece notare Andrea.
"Lo so, ma questa volta non si tratta solo di me."
"È una cosa che potrebbe ferire qualcuno?" chiese Andrea.
Ermal aggrottò la fronte. Magari dire certe cose a Fabrizio avrebbe potuto rendere un po' imbarazzante il loro rapporto, ma non era di certo qualcosa che avrebbe ferito qualcuno. Forse solo sé stesso.
"No" rispose Ermal.
"E allora levati questo peso, altrimenti finirai per pentirtene."
Ermal annuì tra sé e sé, consapevole che Andrea avesse ragione. Eppure continuava a esserci qualcosa che lo tratteneva.
E non era la paura di esporsi e di ammettere finalmente di provare qualcosa per qualcuno che non solo era un suo amico, ma era un uomo. E non era nemmeno la paura che Fabrizio gli rispondesse che non provava le stesse cose.
Era qualcosa di molto più profondo.
Era paura di essere felice.
Lui, che davvero felice lo era stato poche volte in vita sua, non era certo che sarebbe riuscito a gestire tutta la felicità che Fabrizio avrebbe portato nella sua vita. O forse, all'inizio, ci sarebbe riuscito ma poi sarebbe scappato terrorizzato da tutto quell'amore che avrebbe ricevuto in cambio e da cui non avrebbe saputo difendersi. I suoi sentimenti - e i sentimenti di Fabrizio, soprattutto - avrebbero finito per schiacciarlo sotto il loro peso, facendolo essere così felice da rischiare di distaccarsi dalla realtà e questo gli faceva troppa paura.
Certo, se Fabrizio lo avesse rifiutato non avrebbe dovuto preoccuparsi di tutte queste cose.
Era ancora immerso nei suoi pensieri, quando Andrea gli fece notare che il suo cellulare stava squillando.
Si sporse verso il tavolino di fronte al divano, su cui aveva appoggiato il telefono, e fece appena in tempo a leggere il nome Bizio che smise immediatamente di suonare. Fissò per un attimo lo schermo del cellulare indicare una chiama senza risposta, poi si rilassò nuovamente contro lo schienale del divano.
"Non lo richiami?" chiese Andrea curioso.
Ermal si strinse nelle spalle, come se non gli importasse. In realtà, gli importava eccome.
Moriva dalla voglia di sentire Fabrizio e gli scaldava il cuore sapere che la sera di capodanno, quando non avrebbe dovuto fare altro che divertirsi con i suoi amici, in realtà aveva pensato a lui. Però, preso dalle sue preoccupazioni e dalle sue indecisioni, era finito per prendere quella chiamata - interrotta prima che potesse rispondere - come un segno del destino. Un segno che forse sarebbe stato meglio non parlare con Fabrizio, evitare di dirgli ciò che lo affliggeva.
Lo schermo del suo cellulare si illuminò di nuovo, questa volta con un messaggio del suo operatore telefonico che lo avvisava di un nuovo messaggio in segreteria.
Ermal aggrottò la fronte confuso. Fabrizio non era il tipo da lasciare messaggi in segreteria. Era il tipo di persona che ti telefonava e che, se non riceveva risposta, al massimo mandava un messaggio su WhatsApp.
Afferrò il telefono e si chiuse nella stanza accanto, mentre digitava velocemente il numero della segreteria e seguiva le indicazioni per ascoltare il messaggio.
Quando sentì la voce di Fabrizio nell'orecchio, si sedette sul letto e ascoltò con attenzione.
"Ehi... Speravo di poterti parlare ma a quanto pare sei impegnato. Beh, in effetti è Capodanno. Comunque, ecco..."
Ermal sorrise sentendo Fabrizio inciamparsi nelle sue stesse parole. Lui che era così bravo a scrivere canzoni, a dare voce a ciò che aveva dentro quando cantava, riusciva sempre a bloccarsi quando invece doveva semplicemente parlare.
Lo sentì prendere un respiro profondo, come se avesse bisogno di cercare le parole giuste, e poi riprendere a parlare.
"Scusa se ti disturbo proprio stasera, è che ho una cosa in testa che devo assolutamente dirti e non potevo aspettare. Non voglio finire l'anno senza avertelo detto. Quest'anno è stato pazzesco ed è anche merito tuo. Ma non solo perché hai deciso di lavorare con me, di essere la mia spalla in questa avventura. È anche perché mi hai fatto capire davvero cosa significa amare qualcuno."
Il cuore di Ermal si fermò per un attimo, così come la voce di Fabrizio.
Che diavolo stava dicendo?
Sentì Fabrizio sospirare e poi continuare dicendo: "Scusa, so che questo potrebbe complicare le cose ma io proprio non me la sentivo di iniziare l'anno con questo peso. Io ti amo. E devo ammettere che è bello dirlo. Pensavo di non essere in grado di farlo e invece mi sono accorto che, se lo dici alla persona giusta, non c'è niente di più semplice. Quindi, ecco... Ti amo, Ermal. Spero di non averti spaventato con questa confessione. Magari fatti sentire quando ascolti il messaggio. Ciao."
Ermal rimase con il telefono premuto all'orecchio anche quando ormai il messaggio era terminato.
Nella stanza accanto, la festa stava continuando. Si sentiva la musica uscire dalla casse e la voce di Andrea - sempre più ubriaco - che cercava di convincere Marco a bere con lui. Ma ogni suono arrivava ovattato alle orecchie di Ermal.
Era come se fosse chiuso in una bolla in cui l'unica cosa che riusciva a sentire era il messaggio di Fabrizio.
Quel ti amo continuava a ronzargli nella testa, sbattendo da una parte all'altra del suo cervello e strappandolo alla realtà al punto tale che non si accorse nemmeno che Marco era entrato nella stanza.
"Che fai?" chiese vedendo Ermal seduto sul letto con il telefono tra le mani e lo sguardo fisso nel vuoto.
Ermal si voltò verso Marco e, con lo sguardo ancora smarrito, disse: "Niente."
Marco chiuse la porta dietro di sé e si sedette accanto a lui. "Che succede?"
"La prima volta che Anna ti ha detto che ti amava, te lo aspettavi?"
"Diciamo che ci speravo, visto che gliel'ho detto prima io. Perché me lo chiedi?"
Ermal sospirò e porse il suo cellulare a Marco, permettendogli di ascoltare il messaggio. Lo osservò attentamente mentre ascoltava le parole di Fabrizio, stupendosi di non trovare un'espressione sorpresa sul suo volto.
Quando Marco gli riconsegnò il telefono, Ermal disse: "Non mi sembri sorpreso."
"Dovrei?"
"Lo sapevi?" chiese Ermal confuso.
"Diciamo che lo sospettavo. Fabrizio non si è mai trattenuto molto nei tuoi confronti. Così come ho sempre sospettato che tu provassi lo stesso."
Ermal abbassò lo sguardo, imbarazzato per essere stato colto in flagrante dal suo amico.
"Quindi, Ermal, se le cose stanno così mi chiedo quale sia il problema."
In realtà, Ermal non aveva idea di quale fosse il problema. Forse semplicemente la paura di essere finalmente felice, di stare finalmente bene, stava prendendo il sopravvento e lui non si sentiva pronto.
"Non lo so, Marco. È che non me lo aspettavo. Non mi aspettavo un sacco di cose, in realtà. Un anno fa non avrei mai pensato di vincere il Festival, di andare all'Eurovision, di innamorarmi di nuovo di qualcuno che non fosse Silvia... Sono successe tante cosa che non mi aspettavo, questa è solo l'ultima della lista" disse Ermal.
"Però sei felice? Perché sai, questa in realtà è l'unica cosa che conta."
Ermal sorrise. "Sì. Sono felice."
"Allora chiama Fabrizio. E poi torna a festeggiare con noi."
Dieci minuti a mezzanotte.
Ed Ermal ancora non aveva chiamato Fabrizio.
Non che non avesse avuto voglia o tempo, semplicemente non sapeva cosa dire.
Come si risponde a qualcuno che ti dice che ti ama?
In una situazione normale basterebbe dire: "Ti amo anch'io."
Ma quella non era una situazione normale.
Fabrizio aveva deciso di confessargli i suoi sentimenti senza sapere quali sarebbero state le conseguenze e l'aveva fatto proprio quella sera. Non poteva ricevere in cambio una risposta banale.
Ermal sollevò lo sguardo notando Marco e Anna che chiacchieravano in un angolo. Lei stava con la schiena appoggiata al muro, mentre Marco - con una birra nella mano destra e la mano sinistra appoggiata accanto alla testa di Anna - si chinava verso di lei dicendole qualcosa che la fece arrossire vistosamente.
Per un attimo, Ermal si ritrovò a immaginare sé stesso e Fabrizio nella stessa situazione.
Controllò l'ora sul display del cellulare e vide che mancavano pochi minuti all'anno nuovo.
I suoi amici si era radunati attorno al tavolo e Rinald teneva saldamente le mani sulla bottiglia di spumante, pronto a strapparlo al termine del conto alla rovescia.
Nessuno sembrava prestargli molta attenzione, quindi Ermal si allontanò rapidamente e si chiuse in camera. Prese il cellulare con mani tremanti - ormai convinto di cosa fare, ma comunque spaventato - e chiamò Fabrizio.
Una parte di lui non si aspettava nemmeno che rispondesse. Dopotutto, era Capodanno e sicuramente anche Fabrizio stava festeggiando con famiglia e amici.
"Ermal! Aspetta un secondo" disse Fabrizio, rispondendo alla chiamata dopo il secondo squillo.
Ermal sentì le voci dall'altra parte farsi più lontane e Fabrizio chiudere una porta dietro di sé.
"Eccomi. Scusa, ma di là c'è un casino assurdo. Roberto sta cercando di insegnare a Libero a suonare la chitarra e Anita ha praticamente monopolizzato il karaoke" disse Fabrizio, appena riuscì a isolarsi dal rumore della stanza accanto.
"Sì, anche qua è un casino" disse Ermal.
"Già. Immagino" rispose Fabrizio.
Era imbarazzato, Ermal l'aveva capito fin da subito.
"Puoi stare al telefono con me fino a mezzanotte?" chiese Ermal.
Fabrizio rimase qualche secondo in silenzio, probabilmente valutando la richiesta, poi disse: "Certo, mancano solo un paio di minuti. Non vuoi fare il conto alla rovescia con gli altri?"
"Non è quello. È che preferisco farlo con te."
"È un peccato che non siamo riusciti ad organizzare qualcosa insieme per Capodanno."
"Già. Almeno certe cose me le avresti dette di persona."
"Ermal..." iniziò Fabrizio, in realtà senza sapere come continuare la frase. Non voleva giustificarsi, né scusarsi. Non ne aveva motivo. Eppure, aveva paura della reazione di Ermal a quel messaggio e sentiva il bisogno di dire qualsiasi cosa pur di non farlo parlare.
"Stai zitto un momento" disse Ermal gettando un'occhiata all'orologio digitale sul comodino. Mancavano 15 secondi a mezzanotte.
Fabrizio si ammutolì, rimanendo ad ascoltare il respiro di Ermal.
I secondi passavano lenti, troppo lenti. Ermal si ritrovò a pensare che quei 15 secondi stavano diventando più lunghi di una vita intera.
Quando a mezzanotte sentì i suoi amici urlare nella stanza accanto, Ermal prese un respiro profondo e disse: "Ti amo, Bizio."
Il più grande rimase in silenzio per qualche secondo, convinto di non aver sentito bene. Poi disse: "Cosa?"
Ermal sorrise sentendo il suo tono perplesso. "Ho detto che ti amo. Scusa, solo che volevo che ti ricordassi di queste parole come le prime che hai sentito nel 2019."
"Sei serio?"
"Pensi che ti mentirei su una cosa del genere?"
"No, no. Solo che... Non lo so, non pensavo che tu ricambiassi i miei sentimenti" disse Fabrizio.
Ermal sorrise realizzando che Fabrizio aveva avuto per mesi la sua stessa paura. O almeno, una delle sue paure.
"In realtà, avevo pensato di chiamarti" disse Ermal.
"Quando?"
"Prima. Poco prima che mi chiamassi tu, in effetti. Anch'io volevo dirtelo prima che finisse l'anno."
"Poi però non l'hai fatto" constatò Fabrizio.
"Ho avuto paura."
"Di cosa?"
"Di tutto. Che tu non mi ricambiassi, che le cose sarebbero cambiate... E il fatto che invece tu potessi ricambiarmi mi spaventava ancora di più."
Fabrizio sapeva perfettamente cosa voleva dire. Anche lui aveva le stesse paure. Anche lui aveva avuto paura della reazione di Ermal - sia che fosse positiva o negativa - e anche lui aveva avuto paura che il loro rapporto sarebbe cambiato.
In quel momento, più che in ogni altro momento della sua vita, la frase "ma le sento un po' mie le paure che hai" - scritta anni prima, in circostanze diverse e per una persona diversa - gli sembrò cucita addosso.
Era esattamente così che si sentiva. Schiacciato da paure che in realtà non erano solo sue.
"Hai ancora paura?" chiese Fabrizio.
"Da morire" rispose Ermal sinceramente.
"Anch'io. Ma è meglio avere paura insieme che restare al sicuro separati."
Ermal sorrise. Sapeva che Fabrizio aveva ragione.
Non c'era niente in quel momento che potesse renderlo più felice che stare con Fabrizio, avere la possibilità di amarlo e di lasciarsi amare. La paura c'era e di certo non lo avrebbe abbandonato, ma avere paura in due è un po' più semplice che averla da solo.
"Ti va se domani scendo a Roma?" chiese Ermal all'improvviso, preso dalla necessità di rivedere Fabrizio e di dirgli di persona tutto ciò che si erano detti in quella telefonata.
"Certo che mi va."
"Bene. Allora ci vediamo domani" rispose Ermal.
"Non vedo l'ora. Mi manchi."
"Anche tu mi manchi, Bizio."
Si salutarono e terminarono la chiamata entrambi con il cuore più leggero e il sorriso sulle labbra.
Ermal sospirò ricordando quante paranoie si era fatto, giusto un paio d'ore prima. Se non fosse stato per Fabrizio, probabilmente avrebbe continuato a farsi quelle paranoie ancora per molto.
Uscì dalla stanza diretto in cucina - dove i suoi amici stavano festeggiando - ma il cellulare nella sua tasca vibrò facendolo fermare in mezzo al corridoio per leggere il messaggio appena arrivato.
Un sorriso lo illuminò leggendo il nome di Fabrizio.
Questo è stato il capodanno più bello della mia vita. Ti amo.
Sì, decisamente quello era ufficialmente diventato il Capodanno più bello della vita di entrambi.
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A papà.
Ciao papà, sono io.
Ti scrivo per dirti due cose che forse non ti ho mai detto e per dirti anche che quello che mi ha detto mi ha ferito profondamente.
Vorrei dirti:
Da piccola mi sono sentita poco amata da te, mi sentivo un peso dentro casa, come un costante macigno che dovevi portare a scuola e venire a prendermi dalle mie amiche, che ti annoiavi a venirmi a prendere se stavo male a scuola e piangevo perché non sapevo come tornare a casa, perché ogni volta che litigavi con mamma poi mi guardavi con disappunto e pensavo che quel ennesimo litigio era colpa mia, di qualche mia disattenzione, errore, sbaglio o di non essere la figlia che hai sempre voluto, anche perché lo so.
Tu volevi un maschio, un dottore, un cervellone intelligente e poi ti sei beccato me, femmina, grafica (?), intelligenza media e non ti sei neanche mai voluto vantare con le zie perché troppo stupida per i loro standard o per gli studi delle mie cugine.
Molte volte mi hai fatto sentire la figlia del vicino, accogliendo altre persone e dimostrandogli un affetto che con me non hai mai avuto o non hai mai usato. Pure nelle piccole cose, nelle accortezze che spesso e volentieri non avevi nei miei confronti.
Ho odiato tutti i miei compleanni, ho solo ricordi di litigi con te, di foto che testimoniano un giorno che mi hai rovinato perché doveva andare sempre cosi, sai ho guardato le storie dei miei ultimi compleanni e mi sono ricordata anno per anno cosa era successo, questi non riesco a dimenticarli però:
Quando feci i miei 17 anni, ti eri lamentato che avevo fatto casino il giorno prima e che l’avevo fatto di proposito per non andare a messa.
Per i miei 21, avevi deciso di non parlarmi già da una settimana, senza un senso apparente, dirmi che non volevi festeggiare perché avevi altro e presentarti poi la sera che dovevamo andare a mangiare fuori e lamentarti tutta la sera che il cibo non arrivava, che il posto era pieno di gente, che non stavi comodo e che era tutto sbagliato, come se la gente li dentro fosse colpa mia, come se in cucina c’ero io a cucinare.
E questi 24, che mi sono ritrovata orfana di padre.
Mi hai fatto sentire non compresa, non apprezzata, sbagliata in tutto, fuori luogo, un peso, una colpa, una poco di buono, una violenta, una stronza, un’insensibile, una persona orribile, che forse ora sono, chissà, magari sentirselo dire non aiutato il processo.
Chiedimi scusa:
Chiedimi scusa se hai un po’ di pentimento almeno per tutto il marcio che mi hai lasciato.
Per avermi detto che sono una puttana.
Che a 12 anni andavi a fare i bocchini in giro.
Che mi hai detto di farmi pagare una futura casa dai “uomini” di tua madre.
Che mi hai detto che sono solo una pazza psicopatica.
Che mi hai detto che faccio schifo come figlia e che non mi merito di avere un padre come te che mi ha fatto tutto nella vita.
Che mi hai detto da oggi in poi per me sei morta e non voglio neanche che vieni al mio funerale.
Che sei contento di non dovermi più mantenere.
Che non vuoi neanche che io mi avvicini a casa se ci sei tu.
Che hai provato a farmi mettere col figlio della tua amante così che potevi sentirla indisturbata
Che mi hai incolpato della tua infedeltà
Che mi hai lasciato talmente tanta merda nella mia testa da spalare, che se rimango anche 10 secondi con la mia testa pensante l’opzione più sensata è calarmi un intero blister di medicinali e stramazzarmi per terra, sperando di finire a miglior vita.
Da te ho sempre voluto una cosa sola che non sei mai riuscito a darmi.
L’amore di un padre ad una figlia.
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Spesso sento ancora l'odore di quei corridoi di ospedale . . . Sento l'odore della tristezza e le urla di dolore, rivedo davanti ai miei occhi tutte le ragazze di quel posto, ricordo i loro volti e i loro vestiti ricordo i loro sorrisi quando incontravano i genitori e i loro occhi pieni di gioia . . . però non ricordo la maggior parte dei nomi, ricordo qualche mia compagna di stanza ma non tutte . . . e ricordo il dolore in quei corridoi .
Ma noi ci supportavamo nei momenti di dolore e ci facevamo scappare qualche sorriso nel momento del bisogno, ricordo il volto dei medici e degli infermieri ma non i loro nomi.
Ho passato 3 anni della mia vita in quel corridoio e ne ho viste di ragazze che entravano e uscivano . . . ogni tanto anche qualche ragazzo! Ma io entravo e uscivo come se fosse la porta di casa mia . . .
Ogni tanto penso che qualche giorno vorrei tornare in quel reparto dell'11esimo piano del settore A, per vedere chi c'è dentro al posto mio . . . vorrei strappare un sorriso a quelle ragazze coi volti spenti . . .
L' odore di quel posto è ogni giorno sempre più vivo, non ci vado dal 2015 e le lacrime rigano il mio viso . . .
Li mi sentivo compresa ma non sempre . . . però avevo affianco ragazze che in un modo o nell'altro cercavano di comprendermi . . .
Le giornate erano sempre le stesse, sveglia alle 8.00 con le infermiere che urlavano "parametriiii" (consisteva nel misurarci la pressione, la febbre e ci pesavano ogni tanto)e facevamo colazione, io prendevo sempre latte e due biscotti oppure thè e fette biscottate . . . Era l'unica cosa che mangiavo qualche volta perché all'ora di pranzo o cena era sempre un delirio . . . poi ci lavavamo e le ragazze anoressiche dovevamo fare la pipì in una bacinella (Non ho mai compreso realmente il motivo).
Ricordo che i genitori non potevano entrare quando "mangiavamo" o ci lavavamo . . . poi alle 10 arrivavano le ragazze che ci facevano fare i lavoretti . . . poi dopo un po' di giorni dal ricovero potevi uscire dal reparto ma andare solo in atrio con i genitori (da sole no . . .) e quando iniziavano a fidarsi potevi scendere giù a prendere un po' d'aria perché li le finestre non si potevano aprire . . . nel periodo delle feste ogni tanto ti davano anche il permesso per andare a casa un giorno per stare con la tua famiglia . . . la cosa più triste al mondo.
Quando tornavi ti "perquisivano" per vedere se avevi portato qualcosa di "illegale" tipo lamette o accendini o laccetti e robe del genere .
Il bagno era chiuso a chiave e quando dovevi andarci dovevi chiedere alle infermiere e te lo aprivano, non potevano andare in bagno più di due persone anche se i bagni erano tre (più la stanza dove c'era l'urina delle ragazze anoressiche) . . . apparte al mattino, al mattino li occupavamo tutti e tre per lavarci .
Al primo bagno a destra c'era la doccia al secondo a destra la vasca che si apriva (era un sacco strana ) e di fronte a sinistra una doccia aperta strana.
Una volta io e alcune ragazze a Pasqua abbiamo avuto il permesso di andare a casa un giorno e quando lei è tornata andò in bagno e forse non la controllarono bene al suo ritorno, io sentivo che c'era qualcosa che non andava e la seguì, aveva un'accendino e cercò di bruciarsi davanti a me . . . mi si strinse il cuore .
Ricordo che scrivavamo negli armadi e sotto le finestre con le penne, vorrei tornare per vedere se ci sono ancora scritte le cose mie!
C'erano due porte per uscire . . . entrambi blindate, per aprire la prima serviva un codice e per la seconda una tessera, e se ve lo state chiedendo no, nessuna di noi ha mai tentato di scappare perché in quel posto in quel momento ci sentivamo bene, perché ci riposavamo e ci sentivamo un po' ascoltate, potevamo piangere tranquillamente e se ne avevo bisogno(almeno per me) oltre ad avere le medicine mattino pomeriggio e sera avevo anche quelle al bisogno!
Per un po' mi tranquillizzavano . . . ma poi i ricordi tornavano e la mia mente iniziava a partire e le voci si facevano sempre più presenti .
A pranzo mangiavano con le mani (e si le posate le avevamo), lo facevamo per controllare meglio il cibo, avevamo le tattiche per fregare le infermiere, parlavamo sempre sembravamo logorroiche e quando loro facevano qualche domanda noi non le ascoltavamo e cambiavamo discorso così quando loro si giravano scocciate noi buttavamo il cibo a terra e le facevamo sempre incazzare perché anche quando mangiavamo non stavamo ferme perché così bruciavamo calorie e quando finivamo di mangiare quando loro facevano il passaggio e una rimaneva fuori nel corridoio a fare da palo facevamo esercizio fisico così bruciavamo calorie, facevamo questo tutto il giorno . . . durante la notte le infermiere ogni mezz'ora si affacciavano con una torcia in camera e ci controllavano, quasi sempre io ero sveglia però . . . e scrivevo, scrivevo un sacco ogni giorno .
E io comunque in quei corridoi mi sentivo un po' più viva .
E io li ci voglio tornare, per strappare un sorriso alle ragazze che ci sono ora .
Scusate ho scritto un sacco, era uno sfogo personale . . .
@hellokaesy
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. ×× ─── ᴄᴜʀʀᴇɴᴛ ᴍᴏᴏᴅ 👒 @ arlenedonovan ♡ #sᴛᴏʀʏʟɪɴᴇ ☆ ‘‘ ᴄᴏʟᴅ sᴘʀɪɴɢ ´- ʟᴜᴄɪғᴇʀ 🔪 ⟡ ᴀᴛᴛᴏ ɪ Era una giornata fredda, una di quelle in cui non vien voglia di abbandonare le tiepide coperte e scontrarsi con l'aria gelida che c'è in strada. Arlene aveva trascinato quel guscio vuoto che era il suo corpo fino alla cucina, ricercando a tentoni il bottone della caffettiera elettrica. Non aveva pensieri, la sua mente era ancora un buco nero, le palpebre celavano il colore turchese delle sue iridi. Pigramente adagiò i gomiti sulla superficie lignea del bancone, assaporando con tutti i sensi quell'odore di caffé che si spandeva nella stanza. Era un rituale ben preciso il suo : espresso, sigaretta, toilette e via di corsa sulla sua Jeep Wrangler – eppure quella giornata sembrava non voler iniziare – qualcosa nel suo inconscio le suggeriva di restarsene a casa, raggomitolata nella lana e lasciar fare per una buona volta alle sue collaboratrici in negozio. ( ... ) Cameron era andato via ancor prima del suo risveglio – succedeva ogni mattina e odiava quella condizione. La parte del suo letto era sempre così gelida, quando allungava la mano per ricercarlo accanto a sé, le dita scorrevano libere fra le pieghe delle lenzuola. Tuttavia, avere casa libera le permetteva di organizzarsi adeguatamente, trascrivendo tutti gli impegni su un post-it colorato da esibire sul frigo. " Questa giornata è appena iniziata e già non vedo l'ora di tornare a casa e ritrovarci. Ti amo, non dimenticarlo " non era che l'epilogo di una lunga lista di cose da fare, ma era anche il lieto fine che si augurava per quella giornata, e invece ... ⟡ ᴀᴛᴛᴏ ɪɪ ᴀɢᴇɴᴛ Buongiorno, lei è Arlene Donovan? ᴀʀʟᴇɴᴇ Sì, sono io. In che modo posso aiutarla, agente? ᴀɢᴇɴᴛ Abbiamo un mandato per fare un'ispezione nel suo negozio. Si accomodi fuori. ᴀʀʟᴇɴᴇ Che sta succedendo? Io non lascio questo posto. ᴀɢᴇɴᴛ Signora Donovan, non ha scelta. Favorisca i dati del registratore di cassa e i tabulati degli ultimi anni di attività. ᴀʀʟᴇɴᴇ E' una follia, se ne rende conto? ᴀɢᴇɴᴛ Sono morte delle persone negli ultimi mesi, lei è sospettata di concorso in reato. ᴀʀʟᴇɴᴇ Io ─ io non ho ucciso nessuno, vuole scherzare? Sono una persona che vive onestamente, deve esserci un errore, non so di cosa sta parlando. ᴀɢᴇɴᴛ Signora, glielo chiedo un'altra volta : lasci questo locale, ci consegni ciò che le abbiamo chiesto e torni a casa. ᴀʀʟᴇɴᴇ ( ... ) Ecco, contento? Ma è bene che lei sappia che si sta sbagliando di grosso su di me. E' sulla pista sbagliata, mi creda. Mentre gli agenti mettevano a soqquadro il mio negozio, al mio cuore mancava qualche battito. Guardavo tutto dall'esterno, ma era come una violenza troppo grossa da sopportare. Tutto ciò che avevo costruito con costanza, dolore, impegno, veniva adesso distrutto da mani estranee ─ Quel pezzo di carta li giustificava dinanzi alla legge, ma dentro al mio cuore non vi era alcuna redenzione per ciò che mi stavano facendo. Urlavo, ma non sentivo la mia voce. Jane mi teneva stretta fra le sue braccia, mentre mi accasciavo sull'asfalto, sopraffatta, sconfitta e sfinita. ᴇᴠᴇʀɢʀᴇᴇɴ ᴀᴄʀᴇs era molto più che un negozio. Era il mio obbiettivo, la mia meta, e avevo viaggiato a lungo per raggiungerla. Eppure era bastato un anelito di fiato per portarmi via tutto, ogni cosa, compresa la dignità. Ero sospettata di omicidio. Io, che non avevo mai fatto del male a nessuno in vita mia. Mi domandai in quell'istante, di quali brutalità mi accusava la corte e qual era il movente. NON ERO STATA IO. 𝐍𝐎𝐍 𝐄𝐑𝐎 𝐒𝐓𝐀𝐓𝐀 𝐈𝐎. 𝙉𝙊𝙉 𝙀𝙍𝙊 𝙎𝙏𝘼𝙏𝘼 𝙄𝙊. ᴊᴀɴᴇ Arlene, alzati. Ti riporto a casa e chiamiamo Cameron. ᴀʀʟᴇɴᴇ Hanno distrutto tutto. ᴊᴀɴᴇ No, sistemeremo ogni cosa. Sta' tranquilla ! Passerà, tu non c'entri nulla in questa faccenda. ᴀʀʟᴇɴᴇ Guarda, hanno distrutto tutto. Ero sotto shock. Sentivo un ronzio nelle orecchie e mi fissavo le mani, gelide come Maestrale. Stavo per svenire, lo sentivo. Sentivo tutto e avevo freddo. Le iridi d'acquamarina si erano cristallizzate ─ le lacrime erano schegge di vetro pungenti nelle gote. ᴀɢᴇɴᴛ Signora Donovan dobbiamo portarla in centrale con noi per farle alcune domande. Ha il diritto di rimanere in silenzio e ad un avvocato durante l'interrogatorio. Se non può permettersi un avvocato, gliene sarà assegnato uno d'ufficio. E poi ricordo solo le manette fredde strette ai polsi. Nient'altro. C'è un'enorme voragine nella mia testa che mi impedisce di rievocare le azioni che si susseguirono dalla mia cattura, fino all'arrivo in cella. Ero la vittima, non il carnefice, ma più lo urlavo e più nessuno sembrava volermi ascoltare. Era una scelta comoda quella di tenermi lí rinchiusa. Un modo per lavarsi la coscienza almeno per un po'. Nonostante l'eco nella mia testa riuscivo ─ stranamente ─ a ragionare lucidamente. Cameron, Freya. Avevano saputo? Jane li aveva avvisati? ᴀɢᴇɴᴛ Ha solo una telefonata In quell'istante mi ritrovai ad un bivio. Avete presente quei giochini psicologici in cui viene posto il soggetto dinanzi ad una situazione di emergenza, come un incendio ad esempio ─ e poi gli viene chiesto chi vorrebbe salvare tra l'una e l'altra persona? Ecco, a quel punto tutto mi fu chiaro. ᴀʀʟᴇɴᴇ Allora si sbrighi a tirarmi fuori da questa cella, ho bisogno di chiamare il mio avvocato. Sergey Kotov, l'uomo a cui avevo pagato la tintoria e che avevo quasi investito in retromarcia. Gli incontri fortunati della vita, quelli che non accadono per caso. Sarebbe stato lui a preparare per me una linea di difesa, e avremmo vinto, ne ero certa.
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Saint Valentine’s Day (ovvero Quando Mia Dimostrò Di Essere Fuori Di Testa) (cioè, più del solito)
Allora.
Avevamo programmato tutto da una settimana. Cioè, “programmato” è un parolone. Diciamo che Mia aveva detto che sarebbe venuta, il che tutto sommato è un miracolo.
Verso le 15 mi aveva confermato che avrebbe preso il treno, per arrivare intorno alle 16/17. “Ti chiamo quando sto per arrivare”.
Come potete immaginare, io ero al colmo dell’eccitazione. Avevo pronta una maglia che le ho preso su aliexpress (ho pubblicato la foto qui tempo fa, quando la ordinai… Semmai dopo, se volete vederla, vi mando la mia foto con la maglia addosso lol), che mi sembrava fatta apposta per lei. Avevo avvertito mia madre (che pensa che siamo solo amiche), che però, dopo l’accaduto di mercoledi scorso, (non so se ne ho raccontato) era un po’ prevenuta.
Sono arrivate le 16. Nulla.
Sono arrivate le 17. Nulla.
Ho provato a chiamarla. Nulla.
Le ho scritto. Nulla.
Mia madre mi ha proposto di uscire con lei, dato che avremmo avuto una commissione da fare nei pressi della città. Io continuavo a chiamare, ma nessuno rispondeva. Ho sentito la segreteria di TIM più volte in quel giorno che in tutto il resto della mia vita. Ero demoralizzata al massimo. Non tanto per il fatto che non fosse venuta, quanto perché non dava un minimo segno di vita. Mamma mi ha anche portata alla stazione, dove ho guardato l’orario dei treni… Solo che, arrivato quello delle 18:30, ho lasciato perdere. Era impensabile che avesse preso quello dopo. Mia madre aveva già iniziato il discorso “Devi imparare quali amiche allontanare, e quali tenere”… E non potevo darle tanto torto, anche se non potevo dirle “Mamma, lei non è un’amica”.
Arrivata a casa, mi sono struccata, ed ho anche postato delle cose abbastanza deprimenti qui sopra. Mi sentivo abbandonata. Ma anche preoccupata, perché come sapete lei ha una condizione familiare di merda. Solo che… Davvero non aveva trovato un minuto per mandarmi un sms?
Verso le 21 mi ha mandato un messaggio, accompagnato dal link di una canzone. “Scusa, prima non potevo rispondere”. “Cosa è successo?” le ho risposto. Nel senso, o era qualcosa di serio, o non aveva scusanti.
Mi ha risposto dicendomi il perché, ma non è che mi avesse consolata molto. Infatti le ho scritto “Non potevi dirmi qualcosa?”. A quanto pareva, no.
“Okay…”
“Dai, non ti arrabbiare”
“Non sono arrabbiata… Avrei solo voluto che tu me lo avessi detto. Ho aspettato tutto il pomeriggio”
“Già… Lo so. Mi hai aspettato alla stazione?”
“No… Ma non è quello. Anche fossi stata tutto il giorno a casa, avrei voluto saperlo invece di stare lì a convincermi che a breve mi avresti chiamata.”
Al che, nessuna risposta. Non sapevo che fare, oltre a ciò che già era stato fatto. Sono andata a mettermi in pigiama… Stavo parlando con la ragazza dell’altra volta (quella che avevo taggato), e le avevo raccontato la situazione. Anche lei era un po’ poco convinta delle spiegazioni… Quando, alle 21:40, mi ha squillato il telefono. Ho guardato. Mia. Probabilmente mi ha chiamata per scusarsi, ho pensato.
Sono salita in camera, ed ho risposto.
“Pronto?”
“Ciao, che fai?”
“Sono in camera… Tu?”
“Affacciati dalla finestra.”
Sono rimasta interdetta. Mi aveva lasciato qualcosa fuori, in qualche modo? Ho guardato, ma non ho visto nulla.
“Ma quale finestra?”
“La tua!”
Allora la ho spalancata, ho guardato giù… E la ho vista. Nel mio giardino.
“…tu sei pazza” ho esclamato, prima di scendere di corsa. Ho mandato un audio alla ragazza detta prima, dicendole tipo “Mia è qui! Nel mio giardino!” e lei era tipo WTF.
Sono arrivata nel soggiorno. “MAMMA! C’È MIA!”. Lei mi ha guardato senza capire. “Dove?”. “FUORI DALLA PORTA!”
La ho aperta d’impeto, uscendo fuori in pigiama. “SEI FUORI DI TESTA” le ho detto, mentre le crollavo addosso abbracciandola più stretta che potevo. Mia madre mi ha rincorsa con il cappotto. “Venite dentro, che fa freddo!”. Una volta in casa la ha salutata, guardandola un po’ stralunata.
Figuratevi come stavo io. Avevo anche già preso il sonnifero, quindi ero al principio del rincoglionimento. E non riuscivo a crederci.
Queste cose succedono nei libri. E nei film. Non nella vita reale. Nella vita reale non ti trovi una persona sotto casa, o almeno non in questo modo.
Siamo salite in camera mia… Dove siamo restate per, uh, un'ora e mezza? Lei era arrivata senza una benché minima idea di come tornare a casa. Era venuta e basta. Dalla stazione aveva preso il taxi, con il mio indirizzo scritto sul braccio (ho riso un sacco quando me lo ha fatto vedere). A quanto sembra ha anche fatto impazzire il tassista, che non trovava la mia casa.
Io la guardavo, e non mi era mai sembrata più bella. Si è fatta le punte dei capelli blu, come da tanto programmava, e le stanno molto bene. Ma non era solo quello. Era… Tutto. La guardavo, e mi sembrava irreale. Mi ha porto un sacchetto, ed io le ho dato il mio. Solo… Che mi aveva portato un sacco di regali. Compresa una rosa rossa (che adesso sta in una bottiglia, davanti alla finestra.) Mi sono sentita un verme a darle solo una maglia (seppur scelta con tanta cura)… Anche se, tutto sommato, avevo passato l'intera giornata precedente a fare il video che le avevo poi mandato la mattina.
Credo di averle ripetuto “tu sei pazza” circa venti volte. Mi ha costretta a farle vedere il video del “backstage” di quello che avevo mandato a lei (che, credetemi, è una roba assurda ed alquanto imbarazzante)… Ed abbiamo parlato.
Beh. Non solo. Decisamente non solo parlato. Oltretutto io ero in pigiama, quindi il minimo contatto fisico era amplificato.
E mi mancava. Ci mancavamo.
“Stai attenta, che se non ci vediamo per troppo tempo poi disimparo a baciare eh”, le ho detto ridendo. Il che, dato che prima di lei io ho baciato solo J quattro anni fa (che sbavava, quindi non è stato un grande insegnante) e Lia due anni fa, non è una cosa troppo improbabile. Nulla era abbastanza.
Penso sia stata la serata più memorabile (in senso positivo, intendo) che io abbia mai vissuto fino ad adesso. Meglio ancora delle ultime due passate, sempre con lei, a Villa dei Pini. Tutto era così… Dolce. Meglio di qualsiasi San Valentino avremmo potuto passare durante il pomeriggio. Siamo state indisturbate fino alle undici passate. Ero riuscita a convincerla che mio padre non mi avrebbe uccisa per il fatto di farla riaccompagnare a casa da lui… Ma ha voluto che andassi anche io. Ovviamente non ho esitato a dire di si, nonostante io fossi sempre più rincoglionita per via del sonnifero. Avrei voluto che potesse rimanere a dormire… Ma, a causa dei miei e dei suoi problemi, era una cosa impensabile.
Quando mio padre è venuto a chiamarci, perché effettivamente si stava facendo un po’ tardino, mi sono infilata una felpa (sopra il pigiama), dei pantaloni, e siamo partiti. Io ero praticamente ridotta ad una sorta di vegetale, accasciato sulla sua spalla (provate voi a resistere per due ore ad un sonnifero). Le ho fatto delle domande, durante il tragitto, ma giusto per non far rimanere il tipico silenzio imbarazzante. Se però mi chiedeste cosa io le abbia domandato, non saprei ripetere che “Tu hai la patente?”. Ma no, non ricordo la risposta.
Quando siamo arrivati, sono rimasta a bocca aperta. Ha una casa grandissima. Con la scusa di dover andare in bagno, sono entrata. Anche dentro non era da meno. Sotto la confusione, si notava che determinate cose dovessero avere un certo valore.
Sono entrata in bagno, e la ho trascinata con me. “Non ci vediamo mai, almeno documentiamolo”. E così finalmente ho due foto “decenti”.
Mi piangeva il cuore ad andarmene… Dei baci della buonanotte, non ne avrei mai avuto abbastanza. Ma mio padre scalpitava. Ovviamente, poveretto. Era lui a dover guidare a quell'ora della notte. Siamo infatti tornati a casa all'una… Mia mamma aveva messo mio fratello a dormire con lei, quindi mio padre è venuto a dormire in camera mia (io e mio fratello dividiamo la stessa stanza.)
Grazie al terrificante russare di mio padre, non ho chiuso occhio. Però, per una volta, i pensieri che mi prendevano non erano i soliti.
La mattina dopo, se non fosse stato per i regali e per le foto, mi sarebbe sembrato tutto un sogno. Però, se lo fosse stato... perché il mio pigiama avrebbe avuto il suo odore addosso?
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“Uno sguardo normale, tra esseri umani sullo stesso pianeta, è raro come trovare un diamante per strada”: dialogo con Marina Cuollo
Il libro si chiama “A Disabilandia si tromba” ed è edito dalla Sperling & Kupfer. Lei si chiama Marina Cuollo, è napoletana e ha un fratello a cui non piace la mozzarella “Nemmeno quella di bufala. Già, già. Lo so cosa stai pensando: è una disgrazia terribile, e forse è solo pazzo”. Ci siamo incontrati una prima volta in un pub che tutti conoscono per il nome che aveva in precedenza, prima del fallimento della vecchia gestione, ed è come darsi un appuntamento a Istanbul dicendosi “Allora ci vediamo all’ex-Constantinopoli?”. Ha scritto un libro coraggioso, cioè necessario, perché prende un tabù e lo rimodella, come fosse pongo, per apporre la propria impronta su ciò che ti vuole cancellare proiettando su di te la sua ombra. Leggerlo mi ha provocato sorrisi come cicatrici divertenti agl’angoli della bocca. Le ho proposto di parlarne assieme e quella che segue è la nostra conversazione. (a.c.)
Il libro è permeato dall’urlo “Lasciatemi divertire!”. Comunque un urlo.
Un urlo forte. Quando hai dovuto affrontare situazioni che hai fatto fatica a capire, in giovane età chiaramente, l’urlo matura e poi scoppia. L’urlo ha poi davanti a sé molti modi per esprimersi. Io ho scelto l’umorismo, un umorismo che contiene molti altri sentimenti, rabbia compresa. Un umorismo di denuncia.
Quando nasce l’idea di trasformare l’urlo in libro?
Tutto estremamente casuale. Sentivo fosse giunto il momento di esprimermi, di dare via libera alla mia urgenza di comunicazione, ma non sapevo ancora bene come sarei riuscita a farlo. Chi scrive poi, spesso lo fa da molto tempo. Sai come si dice? “Ah, io ho sempre scritto, fin da bambino…”. Ecco, io no. Per me è stata una scoperta. Sono una lettrice forte, quello sì, sin dall’infanzia, ma la scrittura è arrivata molto dopo, circa sei anni fa. Una scoperta totalmente inaspettata. Ho frequentato un corso di scrittura, sai? Pensavo: mollerò subito! E invece… ho scoperto di essere un pesce dopo essere entrata nell’acqua.
Se dico politicamente-corretto tu cosa mi dici?
Due coglioni! Sia chiaro: io non sono contraria al politicamente corretto a prescindere. In determinate circostanze è necessario, è importante, ed è giusto. Però! Quando diventa autocensura, o peggio ancora ipocrisia a buon prezzo, quando cioè le parole servono solo a dire il contrario delle proprie azioni, ne faccio volentieri a meno.
Te lo chiedo perché sull’aletta con le informazioni biografiche c’è scritto “Dottore in processi biologici e biomolecole”.
Ma guarda che dottoressa secondo me sarebbe stato più giusto. Allo stesso modo, fossi stata laureata in giurisprudenza, avrei preferito ci scrivessero avvocata. Non si tratta di politicamente-corretto ma di pari opportunità. Tenere al maschile le parole è una scelta di genere: con questa rivendicazione le donne non vogliono togliere niente agli uomini, ma avere semplicemente gli stessi diritti; se nessuno ha problemi a usare il femminile per professioni come “maestra” o “infermiera”, perché invece dovrebbero averne per “ministra”, “sindaca” o “avvocata”?
Quindi dalla biochimica alla letteratura: tutto sommato, sempre di scrittura della vita si parla, hai solo cambiato alfabeto. Non ricordo niente che si avvicini a un racconto simile a quello che tu fai nel tuo libro, è un territorio non ancora percorso. Oppure mi ero perso io qualcosa?
Su questo tema esistono le autobiografie, poi c’è la letteratura specializzata, scientifica, ma romanzi pochi. Nonostante alcuni dei miei libri preferiti siano autobiografie, io non impazzisco per quel genere. Trovo spesso autoreferenza e poco desiderio di raccontarsi. Per quanto riguarda i libri di formazione o didattica, quello non è il mio campo e di certo non voglio scrivere per gli addetti ai lavori. Disabilandia rientra nella saggistica, ma non è né un testo tecnico né pedagogico. Per me scrivere è stato voler uscire da una dimensione di autoghettizzazione, in parte imposta in parte accettata per quieto vivere. E il mio editore è stato subito d’accordo con me. Dopo aver inviato il libro in casa editrice mi hanno risposto dopo due settimane, con la proposta di contratto, e te lo assicuro: non succede mai! Il titolo ha sortito l’effetto desiderato: A Disabilandia si tromba stai sicuro che non passa inosservato, è un urlo fin dal titolo. E guarda che la mia prima idea di copertina era diversa da quella poi mandata in stampa, che è bella uguale ma forse meno esplicita. Nella copertina originale c’era un pompino in carrozzina.
Il libro è un manuale, ma per dirlo meglio: è una dichiarazione di cittadinanza. I disabili esistono, sanno dire “io” e hanno qualcosa da raccontare, della disabilità per esempio, e di un altro milione di cose. Però quando leggo: “La mia infanzia trascorreva quindi serena tra un’infezione respiratoria e una grave apnea notturna, fino a quando mi fu quasi impossibile respirare”, riportato come si trattasse della gitarella al mare, il passo di un romanzo in prima persona lo sento appieno.
Il romanzo è sempre il mio primo amore, e in alcuni punti di Disabilandia probabilmente si sente. Ma a proposito del mio modo di comunicare la disabilità, qualche accusa mi è stata mossa, cose come: “L’ironia è una perdita di serietà!”. O se mi riferisco a chi si sposta in carrozzina come a un cingolato, o se scrivo: “Entrambi gli ausili sono facilmente estraibili: i normodotati senza scarpe sono liberi di camminare scalzi, i fuori classe senza carrozzine sono liberi di fare la foca sul tappeto”, molti pensano che utilizzi l’ironia per nascondermi, che non sia in grado di accettare non so quale mia condizione… Non è così, almeno per me è evidente. Se scrivo qualcosa di me e mi permetto di farlo con certe battute, è perché sia chiaro che sto trattando un argomento che conosco bene, che vivo ogni giorno, dopodiché già non m’importa più parlare di me. Se scrivo è perché voglio che agli altri arrivi non il mio essere disabile ma la mia voglia di ridere di tutto.
Leggo pure “l’operatore socio assistenziale, figura a cavallo tra l’unicorno e Padre Pio”. Manca il palco ed è subito stand-up comedian.
Ah, non sai quanto mi piacerebbe scrivere testi per gli stand-up comedian, mi piacerebbe così tanto che sono disposta a diventare una stand-up comedian io per prima. È qualcosa di molto diverso, un altro modo di comporre la frase, di darle il ritmo giusto, è qualcosa che mi piacerebbe tantissimo approfondire. Chi scrive sa che non si smette mai di imparare.
Il Quoque, il Tuttologo, il Ti Stimo&Ammiro, il Punisher, il Diversamente Ipocrita, il Falso Invalido, sono alcuni dei personaggi dei tuoi gironi cuolliani. “Uno sguardo normale, tra esseri umani sullo stesso pianeta, è raro come trovare un diamante per strada”. La tua definizione di sguardo normale.
Uno sguardo “bianco”, inteso come sguardo senza preconcetti. Lo sguardo di chi sa aspettare, di chi ascolterà prima di decidere con quali occhi guardarti. Chiaro che è uno sguardo raro, perché poi facciamo tutti così: guardiamo per incasellare, senza aspettare che la persona che abbiamo di fronte ci mostri realmente chi è. Abbiamo paura di quello che non conosciamo, spesso è la paura che ci muove.
Del disabile vorrei-ma-non-posso scrivi: “La sua vita è, di solito, costellata da attacchi di panico e ansie smisurate per cose che non sta per fare”. Il ritratto perfetto dell’uomo-contemporaneo.
Infatti! Io racconto il mondo dal mio punto di vista ma è lo stesso mondo di tutti, Disabilandia non è un luogo esclusivo. Siamo tutti uguali e diversi cioè siamo umani, mica chissaché.
Il tuo umorismo si spinge volentieri nella satira, gli argomenti ci sono tutti: la morte, il sesso, la politica. Nel libro non mancano le staffilate alla religione.
La religione, e siccome siamo in Italia quella cattolica, ha questa declinazione: la sofferenza intesa come una via preferenziale per il paradiso, per te che soffri e per chi si accollerà la tua sofferenza. Sono nata con una disabilità? Che culo! Supererò le file al supermercato e pure quelle per il regno dei cieli. Scherzi a parte, sono atea ma non per questo ho un giudizio sfavorevole sulla fede. Credo che la religione aiuti le persone a stare meglio con sé stesse. Quando però diventa l’occasione per delle insopportabili pratiche pietistiche, masochistiche, meglio lasciar perdere.
Ridere, ho riso tanto leggendo il libro, poi però viene il capitolo ��I disabili oggi”. Svolgimento: “Non ci ammazzano più, ma a volte fa male uguale”. Ed è come passare per caso davanti a un monumento alla memoria dell’Olocausto in una città straniera: vuoi non vuoi ti soffermi lo stesso e ti prende un magone che non puoi dire bene cos’è.
Esiste una relazione molto forte tra scrittura e dolore. Ed esiste una storia. In questo senso per i disabili vale come per molte altre minoranze: non siamo sbarcati da nessuna altra galassia, né siamo apparsi dal nulla soltanto nell’epoca più recente per rompere i coglioni ai poveri contemporanei. Siamo sempre stati qui, anche se nessuno scriveva le nostre storie oppure le scriveva in un modo che lasciamo perdere. Con la letteratura ci prendiamo la cittadinanza che ci spetta; lasciassimo tutto in mano alla società cosiddetta civile staremmo freschi.
Esistono, in ordine sparso: i romanzi rosa, quelli gialli, i noir, gli arcobaleno, i tricolori, e via andare. Qual è la trappola più pericolosa per te ora: diventare la scrittrice disabile o la scrittrice che deve farci ridere?
La seconda eventualità mi infastidisce ma meno della prima. Non voglio essere considerata una scrittrice che, in quanto disabile, scriverà sempre e soltanto di disabilità, sarebbe l’ennesima etichetta. Io che di mio puoi immaginare quanti pregiudizi debba sopportare mi sono anche scelta un tipo di scrittura che subisce a sua volta molti pregiudizi, quella umoristica, come se l’umorismo fosse un sottogenere, non della vera letteratura. Ah, e facci caso, la maggior parte degli scrittori umoristici riconosciuti a livello letterario sono quasi tutti uomini: Pirandello, Jerome K. Jerome, Alan Bennett, Douglas Adams, per citarne giusto alcuni. E se sono donne il più delle volte o sono autrici Chick-lit, quindi sempre con il cuoricino in mezzo, o sono comiche riconosciute perché sono anche sul palcoscenico. Io non credo che non ci siano state delle umoriste altrettanto degne di essere riconosciute nella storia della letteratura, ma probabilmente, essendo donne non rispettavano il ruolo previsto per il loro genere, quindi: niente contratto. Adesso lentamente qualcosa si muove, ma siamo ancora lontani da una presenza pari a quella maschile, e in ogni caso spero di essermene fatta scappare io qualcuna sotto gli occhi. Quindi, se avete nomi di scrittrici umoristiche fateli subito. Li voglio!
Per concludere: per prepararmi all’intervista ho salvato sul computer un file col nome “A Disabilandia si tromba. Domande”. Se tu fossi della Polizia Postale, che effetto ti farebbe?
Penserei: vivaddio, mi fa piacere! Non mi preoccuperei più di tanto. Sono altri i titoli che mi preoccupano, e tante volte sono pure i primi della classifica.
Antonio Coda
L'articolo “Uno sguardo normale, tra esseri umani sullo stesso pianeta, è raro come trovare un diamante per strada”: dialogo con Marina Cuollo proviene da Pangea.
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24/12/2019
Organizzarmi le idee è un’impresa fallimentare già dagli albori dato che la mente umana è impossibile da racchiudere in schemi di qualsiasi tipo ma forse solo la completezza e la complessità delle relazioni che si instaurano tra un parola ed un’altra, un periodo ed un altro, vicendevolmente grazie a termini congiunzioni e punteggiatura; quindi solo nella bellezza di un discorso scritto posso provare a raccogliere come con un’istantanea ciò che al momento balena nel mio cervello. Una macro suddivisione può essere quella tra ciò che mi suscita emozioni negative, positive o contrastanti. Emozioni contrastanti e confusione nascono principalmente dall’attuale relazioni con la mia famiglia e con il natale, la tradizione, il passato, l’infanzia per quanto sia bello essere nostalgici, stare accanto alla stufa a legna, mangiare carboidrati in quantità eccessive, sento di non appartenere più totalmente a questo mondo. Le pareti della mia camera sono più fredde e l’albero di natale ed il presepe fatti non da me sono oggetti che non mi appartengono quanto invece mi appartengono le lucette messe su quella finestra in Via del Proconsolo. Sono cresciuta, ho tagliato il mio cordone ombelicale, e per quanto io possa essere contenta di questo non posso che pensare a come questo possa rendere in parte infelici e nostalgici i miei familiari che mi vedranno sempre come parte integrante delle loro vite (forse). Sicuramente il distacco non è drastico ed irrimediabilmente distrutto, ci sarà sempre una parte di me legata a queste mura, a questo paese ed a queste persone, ma questo filo si fa sempre più sottile sia per me che per loro. Tutti loro so che mi vogliono bene ma per qualche ragione non lo sento abbastanza questo amore per sentirmi a casa, lo dimostrano chiamandomi ogni tanto, facendomi un bonifico ogni tanto, dandomi soldi ma oltre questo riesco a vederlo solo negli occhi di mio padre, tutti pretendono, tutti parlano, tutti vogliono ma nessuno da, nessuno chiede, nessuno sa cosa stia facendo, cosa stia studiando, cos’ami e cosa non capisca, nessuno sa quanto sudore abbia sudato in questi mesi e tutti hanno solo una superficiale impressione di chi io sia. Ma anche io non faccio altro. Anche io pretendo e chiedo e voglio senza dare, cos’ho dato fin’ora? Solo risposte storte, occhiatacce, lamentele niente di positivo, risultato non giustificato di un mese di stress intensivo e costante. Ma nessuno lo sa e nessuno lo capisce così sembro solo stronza. Come se sia io quella maleducata che non vuole ritornare a casa, ma perché? Nessuno se lo chiede. Non posso pretendere che mi venga chiesto ma devo chiedere, non devo pretendere di essere amata ma devo amare, solo così qualcosa si risolverà mantenere lo stesso atteggiamento di tutti gli altri contribuisce solo ad una peggiore alienazione relazionare. Devo dare, devo amare, devo chiedere, devo essere interessata, devo sorridere per quanto sia possibile, sopportare, essere paziente, devo dire di si ed obbedire, tacere quanto niente mi viene chiesto, ma chiedere e chiedere perché a nessuno interesserà mai niente se non di loro stessi. In nessun luogo posso permettermi di lasciarmi andare a me stessa, con nessuno posso pretendere di essere compresa perché nessuno potrà mai comprendermi, soprattutto qui dove tutti sono totalmente diversi da me e da chi sono diventata in questi anni. Troppo lontana da loro. Solo mostrandomi più come loro e meno come me posso mantenere felici queste relazioni. Per dimostrare questo devo ripercorrere cosa ho sbagliato in questi giorni: prima di tutto ho sbagliato ogni cosa con mia sorella, ho preteso, le ho dato fiducia, ho chiesto e quando non mi è stato dato mi sono arrabbiata, mi sono offesa profondamente ed ho reagito di conseguenza, dicendo in modo onesto ed aperto tutto quello che veramente sentivo mentre ciò che avrei dovuto fare sarebbe stato non chiedere prima di tutto e fare finta di avere tempo e voglia di fare ogni cosa, eventualmente non arrabbiarmi in nessun modo apertamente, tenere nascoste le mie offese personali e le mie preoccupazioni, inutili. Per il resto nelle altre relazioni non c’è stato niente di troppo sbagliato, solo con mia sorella la cosa è degenerata per colpa mia, per la mia scarsa comprensione di qualcuno completamente diverso da me stessa. E’ comprensibile sentire tutte le osservazioni positive riguardo mia sorella degli altri, costantemente in contrasto con le mie cattive affermazioni, io sono una sicurezza e non ho bisogno di rassicurazioni, sono abbastanza forte da darmi fiducia da sola, sono abbastanza forte da non aver bisogno di alcuna soddisfazione per poter continuare imperterrita il mio percorso, le mie sofferenze volte a soddisfare ambizioni personali, mentre lei è ancora giovane ed insicura, probabilmente su una strada più pericolosa, meno certa della mia. Non so quale atteggiamento sia più effettivo ma il mio è sembrato peggiorare solo la situazione fra me e lei. Non mentirò, sarò sempre onesta, ma forse più leggera, ometterò elementi del discorso con atteggiamento positivo. Facendo finta di niente. Le amicizie sono tutte superficiali, non mi danno sensazioni ne positive ne negative; con nessuno ho un’intesa che vada oltre certi limiti dato che come ho detto è impossibile trovare qualcuno che mi comprenda. Riguardo le amicizie di casa sono contenta di avere sempre contatti anche se poco costanti, sono persone che ci saranno sempre come io ci sarò sempre per loro, almeno spero, persone con le quali posso parlare di qualsiasi cosa fidandomi ciecamente, con loro dovrò restare non troppo negativa ma potrò stare poco attenta a ciò che dico dato che non avrò mai in loro sentimenti di invidia; al contrario con le amicizie a firenze, la dovrò sempre stare attenta per quanto mi sia possibile, dare sempre a loro più importanza e meno a me, sminuendomi quanto più possibile. Il fatto che neanche loro mi capiscano rimane un mistero dato che tutta me stessa ruota intorno a quella facoltà. Niente grazie a Dio mi provoca emozioni prettamente negative a parte l’attuale situazione di declinio sociale, climatico ed economico del quale preferisco non parlare ma che comunque da alla vita quel brio in più che possiamo cogliere come unica cosa positiva. A provocarmi emozioni positive sono solo le mie illusioni su un futuro che possa regalarmi qualche sorriso, di quelli che non faccio da anni e magari di quelli che non ho mai fatto, lo dubito profondamente ma mi piace lasciare che il mio cervello partorisca una volta la mese pensieri assurdamente positivi e felici, utopici quasi, questi pensieri riguardano persone, sguardi, stronzate del genere, cose che non succederanno mai data la mia inadeguatezza sociale. Tutti pensieri legati a Firenze ed attualmente lontani da me.
ciao
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Review Tour: Il Regno Corrotto (Sei di Corvi 2), di Leigh Bardugo
Benvenuti in questa prima giornata di questo Review Tour dedicato al secondo romanzo della duologia Sei di Corvi ambientata nel GrishaVerse: Il Regno Corrotto.
Prima di tutto, la trama:
Jesper non smetteva un attimo di tamburellare le dita sulle cosce. «Qualcuno ha per caso notato che l'intera città ci cerca, ce l'ha con noi o vuole farci fuori?» «E allora?» disse Kaz. «Be', di solito è solo metà della città.» Kaz Brekker e la sua banda di disperati hanno appena portato a termine una missione dalla quale sembrava impossibile tornare sani e salvi. Ne avevano dubitato persino loro, a dirla proprio tutta. Ma rientrati a Ketterdam, non hanno il tempo di annoiarsi nemmeno un istante perché sono costretti a rimettere di nuovo tutto in discussione, e a giocarsi ogni cosa, vita compresa. Questa volta, però, traditi e indeboliti, dovranno prendere parte a una vera e propria guerra per le buie e tortuose strade della città contro un nemico potente, insidioso e dalle tante facce. A Ketterdam, infatti, si sono radunate vecchie e nuove conoscenze di Kaz e dei suoi, pronte a sfidare l'abilità di Manisporche e la lealtà dei compagni. Ma se i sei fuorilegge hanno una certezza è questa: dopo tutte le fughe rocambolesche, gli scampati pericoli, le sofferenze e le inevitabili batoste che hanno dovuto affrontare insieme, troveranno comunque il modo di rimanere in piedi. E forse di vincerla, in qualche modo, questa guerra, grazie alle rivoltelle di Jesper, al cervellone di Kaz, alla verve di Nina, all'abilità di Inej, al genio di Wylan e alla forza di Matthias. Una guerra che per loro significa una possibilità di vendetta e redenzione e che sarà decisiva per il destino del mondo Grisha.
Che bello tornare a Ketterdam!
Dopo aver chiuso il primo volume ero in astinenza. Sentivo molto la mancanza dei vari personaggi e, sopratutto, ero estremamente curiosa di scoprire come sarebbe continuata (e conclusa) questa duologia.
La mia opinione sul primo capitolo, ovvero Sei Di Corvi la trovate qui.
Spero abbiate seguito l'evento e che seguiate anche questo (sia Review Tour che BlogTour, le cui tappe sono tutte segnate alla fine della mia opinione).
Inutile dire che se non avete letto quello non dovreste continuare a leggere...
Parte da dove si era chiusa la storia precedentemente, ma con una novità. Abbiamo come voce narrante anche Wylan, cosa che permette di capire meglio questo personaggio lasciato un po' quasi in disparte nel precedente capitolo (nonostante fosse fra i protagonisti).
Se ricordate bene, Inej è stata rapita. Ciò ci porta a vedere (e non solo a noi lettori) quanto Kaz tenga a lei e sia pronto a fare qualunque cosa per riaverla al sicuro. Ed ovviamente anche tutti gli altri membri della banda non si tirano affatto indietro, volendole molto bene anche loro.
Però ci sono problemi che si fanno largo e potrebbero mettere a repentaglio il tutto.
Tornati al punto di partenza e con un nemico così potente, dalla facciata pubblica immacolata, è difficile studiare un piano. Ma sappiamo che Kaz non si arrende davanti a niente e nessuno. Abbiamo già visto in azione il suo diabolico cervello e sappiamo che per ogni piano che elabora, ha almeno 10 alternative pronte in caso di bisogno. Eppure Inej tocca un nervo scoperto, che dovrà tenere ben nascosto.
Nina è riuscita a sopravvivere, ma quella droga l'ha cambiata più profondamente di quanto chiunque si aspettasse. Matthias è sempre combattuto fra l'amore per Nina e i suoi preconcetti. Jesper lotta con i suoi demoni del gioco, ed una visita a sorpresa potrebbe metterlo a tappeto. Wylan ha rischiato tutto per scoprire la verità ed affrontare il padre, ora deve prendere atto di tutto ciò ed andare avanti.
Ed Inej, sola e piena di dubbi riguardo Kaz. Sa che verrà salvata, ma perché è solo il suo Spettro o qualcosa di più?
Tante domande che vengono a galla ed inchiodano il lettore, pagina dopo pagina, mentre la storia si fa strada dentro di noi e ci cattura totalmente.
Ancora una volta la Bardugo si dimostra incredibile. Una storia scritta davvero bene, che risulta scorrevole e più che piacevole da leggere, oltre alla trama ricca di colpi di scena che non fa prender fiato al lettore, che si ritrova impossibilitato a metter giù questo volume.
Oltre la trama in sè, come nel precedente romanzo, abbiamo anche in questo caso tanti flashback che ci permettono di capire ancor meglio ogni personaggio e di scoprire cosa l'ha portato fino a quel punto, e come sia diventato ciò che è. Anche la suddivisione dei vari capitoli mettendo sempre un narratore diverso rende il tutto più interessante, mostrando tante prospettive che danno al tutto un quadro più completo e vasto.
Non si resta indifferenti. Non si può.
TI stregano e ne resti affascinata. Ognuno a modo suo ti rimane e ti manca, quando chiudi l'ultima pagina. Anche se ammetto che Kaz avrà sempre un posto speciale. Non ci posso fare niente, rimane il mio preferito anche in questo romanzo. Ma la gara è ardua, sono caratterizzati così bene che...beh, semplicemente non si può rimanere freddi.
Una duologia che mi ha rubato il cuore.
Per il mio gusto è alla pari con Nevernight come serie fantasy più bella di questo 2019. Non me lo sarei mai aspettato, ma è così.
Non potete farvi scappare questa seconda parte.
Davvero grazie alla Mondadori per averla portata in Italia, averla pubblicata con una distanza davvero breve e averci permesso di leggere entrambi i volumi in anteprima per parlarvene (e di questo ringrazio anche moltissimo Martina, blogger di Diario di Martina, che ha riunito tutti noi, ci ha dato fiducia per creare questi eventi).
Ma fermi!
Non finisce mica così, seguite il Review Tour e il BlogTour dedicati al romanzo:
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L’orgoglio rende forti, ma non felici...
Era lo scorso inverno, avevo installato un’app di incontri così per gioco, noia, curiosità... Quelle app che scarichi, usi per un po’ e poi cancelli perchè servono per incontrare solo squilibrati mentali. Ma non quella volta, avevo rincontrato un ragazzo con cui avevo messaggiato in uno dei miei tanti momenti di disperazione, nella speranza di incontrare qualcuno di interessante con cui passare momenti spensierati e piacevoli. Scattó il match per entrambi e la prima cosa che mi domadai fu “chissà se si ricorda di me”
Cominciammo a messaggiare, constatai che non si ricordava di me. Ottimo, pensai, un nuovo secondo primo incontro! Messaggiammo ore ed ore ed ore... parlammo di tutto, non le solite conversazioni a sfondo sessuale che queste chat ti mettono a disposizione, ci “conoscemmo”.
Era diverso, un ragazzo con la testa sulle spalle, un hacker informatico, con grandi stratagemmi per fare soldi e un bel cervello funzionante, particolare e affascinante. Solitamente è molto difficile che qualcuno attiri la mia attenzione, certi ragazzi sono fatti a stampino... “di dove sei, che lavoro fai, come mai qui a Milano, che bella la Sardegna “ solite cose... lui no. Calabrese di nascita residente a Milano, ancora non innamorato come me di quella città difficile da affrontare. Usciva da solo, zainetto in spalla, cuffie e polaroid. Amava fotografare cose strane, abitudinario e immune alla fretta psicopatica di Milano. Prendeva il bus un po prima per arrivare a lavoro con calma, faceva colazione al bar e con la tranquillità tipica del sud arrivava a lavoro. All’uscita dal lavoro, aspettava il bus e se quel giorno a quell’ora era particolarmente pieno, aspettava il successivo... “tanto non ho fretta di tornare a casa” diceva... Così diverso da quella moltitudine di persone che, anche senza motivo, correva verso la metro e se mancavano tre minuti all’arrivo cominciava a smadonnare per l’attesa, me compresa...
La nostra conoscenza virtuale crebbe nei giorni diventando un appuntamento fisso, parlavamo, parlavamo per ore ma non ci incontravamo mai. Le conversazioni si erano fatte più intime, ci raccontammo senza troppa malizia e il desiderio di vederci, toccarci e respirarci cresceva.
Ricordo che era il primo giorno di saldi, volli uscire con un’amica per andare a cercare dell’intimo nuovo, in attesa di una richiesta di appuntamento da parte sua. Comprai un completo meraviglioso di yamamay, marrone caldo. Aveva il reggiseno dal quale all’altezza dello sterno partiva un pizzo che attraversava la pancia per poi finire in un paio di slip alla brasiliana miste tra pizzo e tessuto simil raso. Immaginavo il momento, lo comprai pensando a lui... Acquistai anche un due pezzi stessa fantasia del corpetto e una camicia da notte.. ero pronta e volevo essere meravigliosa. Mi sentivo bella solo all’idea della sua faccia non appena mi avesse spogliata.
Raramente ho comprato intimo pensando a una persona in particolare, essendo una single incallita e non avendo relazioni durature era ininfluente quanti completi ci fossero nel mio cassetto, tanto l’uomo non era mai lo stesso per troppo tempo. A parte uno, S.
Quel ragazzo mi aveva rubato il cuore cinque anni prima e aveva lasciato un baratro dentro di me, tanto da portarmi a non fidarmi più di nessuno. Era difficile avvicinarmi, era difficile coinvolgermi e mantenere la mia concentrazione per troppo tempo, quindi questa conoscenza con il ragazzo virtuale mi stupiva non poco.
Quando sei una che li “usa” c’è poco di cui parlare, si fa quel che si deve... arrivederci e grazie! Ergo, una cosa così SOLO mentale era un avvenimento storico per me e il mio modus operandi.
Nei giorni successivi allo shopping, ricevetti un messaggio da S., il quale decise di venirmi a trovare proprio tre giorni dopo. Presa dal panico, mi finsi malata, dissi che non era il caso che venisse, che non stavo bene ecc ecc... una marea di scuse che non lo smossero minimamente, aveva deciso di ripiombare nella mia vita per due giorni. Chiamai la mia fedelissima amica ormai di lunghissima data, alla quale raccontai il mio disappunto. Avevo paura, per una volta stavo conoscendo un ragazzo che mi piaceva, mi piaceva davvero e l’arrivo di S. avrebbe interrotto o comunque spostato l’interesse dal ragazzo virtuale e non era una cosa che desideravo accadesse, almeno non in quel momento che lentamente tutto stava procedendo secondo la norma. Non poteva piombare dopo cinque anni in casa mia come se nulla fosse, forse non ero pronta, ma quel confronto era in stand-by da cinque anni e forse era l’occasione buona per affrontarlo. Decisi di incontrarlo, lasciando per quei giorni il mio presente in un cassetto e il mio passato a cielo aperto. Furono dei bei giorni, dove mi resi conto che il passato era ormai passato, che tutta la merda che quel ragazzo mi aveva fatto mangiare cinque anni prima era bella che digerita ed io non ero più la stessa persona. Così però non fu per il povero S. , che dichiarò che per lui era come se non fosse passato nemmeno un giorno dal nostro ultimo incontro.
Quando ripartì mi sentii vuota.
Ripensai a lungo alle parole dette, al fatto che forse non era così tanto passato, forse stavo tralasciando qualcosa... insomma il terreno mi si stava sbriciolando sotto i piedi. E se avesse avuto ragione lui? Se in realtà qualcosa c’era e ce lo stavamo perdendo?
Chiesi spiegazioni, mi imposi quasi per averle e quello che ricevetti dal buon S. fu... SILENZIO!
Nel frattempo stressata, stremata e nell’oblio tra presente, passato e futuro, chi pagò per tutto fu lui, il ragazzo virtuale.
“Pretesi” un appuntamento, mi lamentai che, nonostante le settimane passate, ancora non ci eravamo incontrati e ricevetti solamente “scuse” per il poco tempo. Mi sentii come presa in giro. Doppio stand-by = cataclisma
Gli inviai una foto con il mio completo indosso, che avevo acquistato per lui e lo liquidai.
Lui non disse niente se non “se è quello che vuoi, fai pure” Cancellai il suo numero, con il nodo alla gola e mi misi a raccogliere i pezzi di me stessa generati in quella settimana pesante.
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Io sono il frutto di ciò che mi è stato fatto
Il titolo di questo post è una citazione di uno dei miei film preferiti “V per Vendetta”, ma è anche una perfetta sintesi del mio pensiero su come sono diventata ciò che sono e penso che questo valga un po’ per tutti. Ci sono persone ed esperienze che ci segnano ed influenzano ciò che siamo e ciò che diventeremo.
Ero una bambina un po’ anomala, estremamente educata ed ubbidiente, mettevo in discussione quanto detto da un’adulto molto raramente e solamente se lo ritenevo ingiusto, preferivo giochi tranquilli e la compagnia degli adulti a quella dei miei coetanei, ho sempre avuto una dialettica e una proprietà di linguaggio inusuale per la mia età, ero curiosa, avevo molta fantasia ma, sopratutto, ero una bambina serena. La mie serenità era certamente parte della mia indole ma, ovviamente, incideva moltissimo la mia famiglia.
Per tutta la mia infanzia ho vissuto in quella che veniva considerata, da amici e parenti, una famiglia perfetta, di quelle da pubblicità delle merendine. Ero l’unica figlia di una coppia affiatatissima, i miei genitori incarnavano ai miei occhi, e non soltanto ai miei, l’amore vero, il sentimento che dura tutta la vita, che può affrontare ogni cosa uscendone più forte di prima. I miei genitori mi adoravano, mi sentivo amata e compresa, mi hanno fornito un’ottima educazione, mi hanno sempre trattata come una piccola adulta, rendendomi partecipe delle decisioni e delle discussioni della famiglia, o almeno questo credevo allora.
Quando avevo undici anni mio padre andò via di casa, fu mia madre ad informarmi, lui non ebbe neanche il coraggio di dirmelo o di salutarmi.
Mia madre mi spiegò che mio padre era dovuto andare via, trasferirsi all’estero per via di grossi debiti che non poteva pagare. Ero ancora una bambina e mia madre si ritrovava non soltanto a crescermi da sola ma anche a dover decidere cosa raccontare e cosa tacere, ci sono voluti molti anni per scoprire tutta la storia e ancora di più a comprenderne gli effetti. Sono stata molto fortunata ad avere una madre come la mia che non mi ha fatto mancare nulla, che mi ha fatto da madre e da padre, che mi ha sempre amata più di quanto io non possa dire.
Nel frattempo il mio rapporto con mio padre era difficile e complicato e anche io diventavo così, difficile e complicata. Per tutta la mia adolescenza è stato a dir poco assente, non soltanto fisicamente, per anni mia madre ha fatto da collante fra noi per cercare di salvare il salvabile, quando ho compiuto diciotto anni lei si è fatta da parte informandolo che essendo io un’adulta adesso spettava a lui, se ne era in grado, mantenere i rapporti.
Negli anni è entrato ed uscito più e più volte dalla mia vita, alternando periodi in cui cercava di costruire un rapporto a buchi di assenza di mesi o anni. Ogni volta che lui spariva io mi sentivo straziata, ogni volta che giudicava me, la mia vita e le mie scelte mi sentivo un immenso peso dentro, ma ogni volta lui tornava alla carica, ogni volta chiedeva scusa, ogni volta diceva che sarebbe stato diverso, che potevamo costruire un rapporto. Per anni ho sentito una sorta di dovere filiare, qualcosa dentro di me che , contro ogni logica, mi faceva riabbassare la guardia.
Poi qualcosa si è rotto, ho finalmente messo un punto a questa storia, quando si è rifatto vivo dopo due anni senza sentirsi ho detto a mio padre che non volevo più che facesse parte della mia vita, che non volevo più soffrire, che gli auguravo ogni bene ma che non volevo vederlo o sentirlo mai più. Un paio d’anni dopo ha provato a ricontattarmi ma io resto ferma nella mia convinzione, soprattutto perché da quando ho preso questa decisione mi sento molto più serena.
Mio padre mi ha ferita più di quanto chiunque altro potrà mai fare. Quello che mi ha fatto mi ha cambiata dentro, profondamente. Ha inciso su ciò che sono più di quanto non mi piaccia ammettere.
Sono diventata più cinica, più diffidente, mi sono costruita una corazza, ho grosse difficoltà a perdonare. La sofferenza mi ha resa allo stesso tempo pi forte e più fragile. La lezione più amara che ho imparato è che, per quanto tu tenga a qualcuno, probabilmente questo qualcuno ti deluderà, ti abbandonerà o ti spezzerà il cuore, la buona notizia è che puoi sopravvivere a tutto questo, che puoi rialzarti e concentrarti su chi ti vuole bene davvero, che alla fine l’unica persona di cui non puoi fare a meno sei tu.
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