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Renato Balduzzi: Migranti in Albania – Una Questione Giuridica, Non Politica
La riflessione di Renato Balduzzi sulla distinzione tra politica e diritto nella gestione dei migranti nelle strutture italiane in Albania.
La riflessione di Renato Balduzzi sulla distinzione tra politica e diritto nella gestione dei migranti nelle strutture italiane in Albania. In un editoriale pubblicato su Avvenire, Renato Balduzzi, giurista e politico italiano, affronta una questione di grande attualità: la mancata convalida, da parte del Tribunale di Roma, dei provvedimenti di trattenimento dei migranti nelle strutture…
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L'intelligenza artificiale nei Tribunali Italiani
L’intelligenza artificiale non può decidere al posto di giudici e avvocati. La ricerca di dati e la redazione di testi potranno essere sostituite, ma nel breve periodo molte funzioni decisionali resteranno nell'ambito umano. Sentenze di pura fantasia allegate agli atti, applicazioni di intelligenza artificiale che decidono al posto del giudice, indagini tributarie condotte da sistemi di IA: non è fantascienza, ma invece tutto questo è già attualità. ChatGPT, che è solo una delle applicazioni di intelligenza artificiale, ma al momento la più famosa, almeno per il grande pubblico, è recentemente divenuta protagonista anche nell’ambito giudiziario. Ha, infatti, creato sentenze inesistenti a sostegno dell’atto che ha scritto per gli avvocati che avevano utilizzato il sistema di intelligenza artificiale, condannati per questo al pagamento di una sanzione di 5.000 dollari, nonché a inviare una lettera ai giudici ai quali avevano falsamente attribuito le decisioni per informarli di quanto accaduto. Ha diffamato più di una persona, inventando prove documentali ad hoc, tanto che Open AI, la società che la produce, è stata citata in giudizio. E anche per queste ragioni, l’utilizzo di ChatGPT è stato vietato in alcuni grandi studi legali. Ora si discute anche dell’uso dell’intelligenza artificiale, che ovviamente non coincide con l’uso di ChatGPT, per decidere le sorti di un processo. Se ne è parlato, in particolare, con riguardo ad un’iniziativa dell’Estonia di gestione dei procedimenti giudiziari con l’ausilio dell’intelligenza artificiale, per cause civili di valore fino a 7.000 euro, e comunque con la possibilità di un intervento umano. In questi giorni l’Ordine degli Avvocati della Florida ha pubblicato una Advisory Opinion sull’uso dell’IA da parte degli avvocati, che prevede, fra l’altro la richiesta di consenso al cliente per l’utilizzo dell’IA e la possibilità di riduzione dell’onorario quando questi sistemi vengono utilizzati. Alcuni Tribunali statunitensi hanno previsto l’obbligo di disclosure nel caso in cui gli avvocati si avvalgano dell’IA, anche a tutela delle informazioni riservate e proprietarie di cui si tratti nella controversia. Recentemente, nel nostro Paese, la legge delega n. 111/2023 ne prevede espressamente l’utilizzo al fine di prevenire, contrastare e ridurre l’evasione e l’elusione fiscale. L’intelligenza artificiale sostituirà il giudice e l’avvocato?
Per rispondere bisogna prima esaminare in che cosa consiste il lavoro che si svolge in uno studio legale e in un tribunale. Si possono individuare almeno quattro tipologie di attività: ricerca, interpretazione, redazione degli atti, decisione. C’è infatti una parte del lavoro che consiste nella ricerca della normativa rilevante e dei precedenti giudiziari. Dunque, una parte del lavoro del giurista consiste nell’attività di ricerca delle norme e delle decisioni rilevanti e questa può essere certamente affidata a sistemi automatizzati. E quindi bisogna ribadire che non tutti i sistemi digitali sono intelligenza artificiale. Infatti, la ricerca giuridica su banche dati si svolge ormai da tempo. Ma la differenza è che i sistemi di intelligenza artificiale possono andare oltre e non limitarsi a una ricerca sui termini introdotti anche con l’aiuto di operatori booleani. Possono, per esempio, dal contesto desumere altri termini rilevanti, anche se non direttamente utilizzati, ed effettuare una ricerca su quelli. Possono, ancora, classificare le decisioni rintracciate in favorevoli e contrarie, ai fini della disputa in corso. Dunque in questa attività “clerical”, c’è ampio spazio per i sistemi di intelligenza artificiale, che si potranno aggiungere a quelli digitali. Tuttavia, talora l’attività di ricerca del giurista si estende anche oltre il confine che può essere stato predefinito. C’è spesso un salto creativo, un’associazione non prevista, in cui si esprime la creatività del giurista. I revirement giurisprudenziali sono frutto di una nuova interpretazione delle norme che rispecchia l’evoluzione della società: dall’interpretazione evolutiva intervenuta dall’entrata in vigore del codice civile ad oggi delle norme sulla responsabilità civile, che è tutta da attribuire alla giurisprudenza, alle disposizioni che riguardano l’etica che riflettono necessariamente i cambiamenti del costume: dal concetto di pudore all’idea di famiglia, solo per fare alcuni esempi. L’interpretazione evolutiva, essenza del lavoro del giurista, oggi non appartiene ai sistemi di IA. Essi imparano dal passato che tendono a riprodurre, come è accaduto nei casi che negli Stati Uniti hanno penalizzato l’accesso alla libertà condizionata per le persone di colore, riproducendo dei bias. Dunque, nell’attività di interpretazione innovativa, al momento non c’è spazio per i sistemi di intelligenza artificiale. Ancora, i sistemi di intelligenza artificiale che hanno ad oggetto il linguaggio, sono certamente in grado di scrivere atti: siano essi dell’avvocato o del giudice. Dunque, ricorsi, per esempio, o memorie, come pure sentenze. C’è poi una vasta attività che consiste nella redazione di verbali di riunione e traduzioni, che pure può essere senz’altro svolta dai sistemi IA, con delle funzionalità in più rispetto a quelli digitali finora utilizzati. Tuttavia, in questa fase di rodaggio dei sistemi, l’intervento umano di supervisione e controllo è necessario, per non incorrere in quei problemi cui si accennava all’inizio dell’articolo, e magari essere citati in giudizio per i danni cagionati dall’IA. Lo hanno espressamente affermato anche alcune Corti statunitensi, che ritengono comunque l’avvocato responsabile. Dunque certamente c’è spazio per l’utilizzo dei sistemi di intelligenza artificiale nella ricerca e nella redazione di atti, con i limiti che si sono indicati. Ma la vera domanda è: può il sistema di IA decidere al posto dell’avvocato o del giudice? L’avvocato, infatti, decide sulla strategia da utilizzare e spesso riveste anche un ruolo importante di consulente del cliente. Il sistema di IA può raccogliere i pro e i contro di una certa strategia, accompagnandoli dall’indicazione delle percentuali di successo, e poi sottoporli all’avvocato che considererà anche altri elementi di contesto. Il sistema di IA può anche prospettare la decisione giudiziaria, al posto o in assistenza al giudice, secondo i pattern che ha individuato. Le sentenze devono essere motivate e le decisioni devono essere spiegabili e, di conseguenza, impugnabili. Dunque l’explanaibility è un requisito essenziale e oggi non è di tutti i sistemi di IA. Nel caso specifico della decisione giudiziaria, come si legge nei considerando della proposta di AI ACT, «l’utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale può fornire sostegno, ma non dovrebbe sostituire il potere decisionale dei giudici o l’indipendenza del potere giudiziario, in quanto il processo decisionale finale deve rimanere un’attività e una decisione a guida umana». L’intelligenza artificiale sostituirà dunque il giudice e l’avvocato? Al momento si può concludere così: alcune funzioni, quali ricerca e redazione, potranno essere sostituite. Ma quanto meno nel breve periodo gran parte delle funzioni decisionali e l’attività più creativa rimarranno nell’ambito umano. Read the full article
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Le due facce del potere
Ogni indagine sulla politica è viziata da un’ambiguità terminologica preliminare, che condanna al malinteso coloro che la intraprendono. Sia il passo del terzo libro della Politica in cui Aristotele, al momento di «investigare le politeiai, per stabilirne il numero e le qualità», afferma perentoriamente: «poiché politeia e politeuma significano la stessa cosa e il politeuma è il potere supremo delle città (to kyrion ton poleon ), è necessario che il potere supremo sia l’uno o i pochi o i molti» (1279 a 25-26). Le traduzioni correnti recitano: «poiché costituzione e governo significano la stessa cosa e il governo è il potere sovrano delle città…». Che questa traduzione sia più o meno corretta, in ogni caso in essa emerge alla luce quella che si potrebbe definire come l’anfibolia del concetto forse fondamentale della nostra tradizione politica, che si presenta ora come «costituzione» ora come «governo». In una sorta di vertiginosa contrazione, i due concetti sono identificati e insieme distinti e proprio questa equivocità definisce secondo Aristotele il kyrion , la sovranità.
Che l’anfibolia non sia episodica, è quanto una lettura della Athenaion politeia, che noi traduciamo Costituzione degli ateniesi, puntualmente conferma. Descrivendo la «demagogia» di Pericle (27,1), Aristotele scrive che in essa demotikoteran eti synebe genesthai ten politeian, che i traduttori rendono con «la costituzione divenne più democratica»; subito dopo leggiamo che i molti apasan ten politeian mallon agein eis hautous, «accentrarono nelle loro mani tutto il governo» (evidentemente, tradurre «tutta la costituzione», come pure la coerenza terminologica avrebbe voluto, non sembrava possibile). L’ambiguità è confermata dai vocabolari, dove politeia è reso tanto con «costituzione dello stato» che con «governo, amministrazione».
Che lo si designi con l’endiadi «costituzione/governo» o con quella «stato/amministrazione», il concetto fondamentale della politica occidentale è un concetto doppio, una sorta di Giano bifronte, che mostra ora la faccia austera e solenne dell’istituzione ora quella più losca e informale della prassi amministrativa, senza che sia possibile identificarle né separarle.
Nel saggio del 1932 su Legalità e legittimità , Carl Schmitt distingue quattro tipi di Stato. Lasciando da parte le due figure intermedie dello stato giurisdizionale, nel quale l’ultima parola spetta al giudice che decide una determinata controversia giuridica e di quello governativo, che Schmitt identifica con la dittatura, ci interessano qui i due tipi estremi, lo stato legislativo e lo stato amministrativo. Nel primo, lo stato legislativo o di diritto, «l’espressione più alta e decisiva della volontà comune» consiste in normazioni aventi il carattere di legge. «La giustificazione di un sistema statale di questo tipo riposa sulla legalità generale di ogni esercizio del potere da parte dello stato». Chi esercita il potere agisce qui sulla base di una legge o «in nome della legge» e potere legislativo e potere esecutivo, la legge e la sua applicazione sono conseguentemente separati. Con questo tipo di Stato si sono identificate, con sempre meno ragione, le democrazie parlamentari moderne.
Il tipo che occupa forse non a caso l’ultimo posto nell’elenco, quasi che le altre forme statuali tendessero in ultima istanza a confluire verso di esso, è lo Stato amministrativo. Qui «comando e decisione non appaiono in modo autoritario e personale, ma nemmeno possono ridursi a semplici applicazioni di normazioni superiori»; esse hanno piuttosto la forma di disposizioni concrete, prese di volta in volta sulla base dello stato delle cose in riferimento a finalità o necessità pratiche. Il che si può anche esprimere dicendo che nello stato amministrativo «né gli uomini governano, né le norme valgono come qualcosa di superiore, ma, secondo l’espressione famosa, «le cose si governano da sé».
Come oggi è pienamente evidente, ma come Schmitt già in quegli anni poteva dedurre dall’affermarsi in Europa di stati totalitari, lo stato legislativo tende progressivamente a trasformarsi in stato amministrativo. «Il nostro sistema statale si trova in una fase di trasformazione e “la tendenza verso lo stato totale” caratteristica del momento presente… appare oggi tipicamente come una tendenza verso lo stato amministrativo». Mentre i politologi sembrano oggi averlo dimenticato, Schmitt afferma senza riserve come «un fatto generalmente riconosciuto» che uno «stato economico» non può funzionare nella forma di uno stato legislativo parlamentare e deve necessariamente trasformarsi in stato amministrativo , in cui la legge cede il posto a decreti e ordinanze.
Per noi che abbiamo assistito al pieno compimento di questo processo, è il senso di questa trasformazione – se di una trasformazione propriamente si tratta – che conviene interrogare. L’idea di trasformazione implica, infatti, che i due modelli siano formalmente e temporalmente distinti. Schmitt sa perfettamente che «nella realtà storica si presentano continuamente commistioni e combinazioni» e che a ogni stato appartengono tanto la legislazione che l’amministrazione e il governo. È possibile, tuttavia – ed è questa la nostra ipotesi – che la commistione sia ancora più intima e che stato legislativo e stato amministrativo, legislazione e amministrazione, costituzione e governo siano parti essenziali e inseparabili di un unico sistema, che è lo stato moderno che noi conosciamo. Se è pertanto tatticamente possibile giocare uno dei due elementi contro l’altro, sarebbe del tutto fuorviante credere di poter stabilmente isolare ciò che è parte integrante di uno stesso sistema bipolare.
Qualcosa come un’altra politica sarà possibile solo a partire dalla consapevolezza che stato e amministrazione, costituzione e governo sono le due facce di una stessa realtà, che occorre mettere radicalmente in questione. Non esiste un potere che possa legittimare con leggi il suo esercizio, senza presupporre un ordine extragiuridico che lo fondi né può darsi una pura prassi amministrativa che pretenda di restare legale sulla base di decreti emanati in vista di una necessità. Si tratta, come lo stesso Schmitt suggerisce, di due diversi modi di rendere obbligatoria l’obbedienza. Come oggi vediamo con chiarezza, la verità di entrambi è, infatti, lo stato di eccezione. Che si agisca in nome della legge o in nome dell’amministrazione, in questione in ultima analisi sarà sempre l’esercizio sovrano di un monopolio sulla violenza. Ed è questo il kyros, il sovrano nascosto che, nelle parole di Aristotele, stringe insieme in un sistema le due facce visibili del potere statuale.
8 marzo 2023
Giorgio Agamben
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La retorica di Aristotele: Ethos, pathos, logos
Questa volta, Vortici.it vuole compiere con voi lettori un viaggio curioso nel mondo della comunicazione, spronati anche dalla confusione che regna ultimamente in questo campo per diverse ragioni. Ci siamo chiesti: quali sono gli ingredienti di un buon discorso? Quando esponiamo le nostre idee, per iscritto o a voce, tendiamo a voler persuadere gli altri. Chi ci ascolta deve capire il nostro punto di vista e persino accettare le nostre argomentazioni. La retorica consiste proprio in questo, indurre gli altri ad adottare il nostro punto di vista. Dunque chi meglio di Aristotele (Stagira 384-83 a. C. - Calcide 322 a. C.), può spiegarci cos'è la retorica?
La retorica di Aristotele consiste in tre categorie: pathos, ethos e logos. Il filosofo greco è a tutti noto, fu uno dei più grandi pensatori dell’antichità e di tutti i tempi. Aristotele può essere considerato il primo Scienziato nelle Scienze della Comunicazione, grazie all’individuazione delle tre grandi categorie di variabili (pathos, ethos e logos) che rendono un messaggio persuasivo ed efficace.
Il pathos, l’ethos e il logos sono i tre pilastri fondamentali della sua retorica. Oggi queste tre categorie sono considerate le tre diverse modalità per convincere un audience su un argomento, su una credenza a cui aderire o su una conclusione in particolare. Sebbene ogni categoria sia unica, padroneggiarle tutte e tre aiuta a coinvolgere il pubblico a cui ci stiamo rivolgendo. La Retorica di Aristotele Scritto nell’ultima parte della sua vita il suo trattato sulla Retorica, raccoglie le riflessioni concernenti la retorica da lui sviluppate nel corso della propria esistenza. Pervenutoci in tre libri, è il testo di riferimento principale, data la sua peculiare capacità di intrecciare temi di natura politica, giuridica, etica, psicologica e linguistica. Noi ovviamente ci interessiamo di quest’ultima, poiché ci occupiamo di comunicazione. Pathos (πάθος) Pathos significa “sofferenza ed esperienza”. Secondo la retorica aristotelica, questo concetto si traduce nell’abilità dell’oratore o dello scrittore di evocare emozioni e sentimenti nel pubblico. Il pathos è associato all’emozione e mira a simpatizzare con il pubblico, facendo appello all’immaginazione di quest’ultimo. Infine, il pathos punta a entrare in empatia con il pubblico. Quando si fa leva sul pathos, i valori, le credenze e la comprensione dell’oratore si mescolano e sono comunicati ai destinatari per mezzo di una storia. Il pathos è molto utilizzato quando gli argomenti da esporre sono oggetto di controversia. Dato che gli argomenti trattati sono solitamente privi di logica, il loro successo risiede nella capacità dell’oratore di riuscire a entrare in empatia con il pubblico. Per esempio, se la discussione riguarda l’illegalità dell’aborto, l’oratore utilizzerà parole “vivide” per descrivere i neonati e l’innocenza della nuova vita, in modo da evocare tristezza e preoccupazione nel pubblico. L’ethos (ἦθος) La seconda categoria, ethos, significa “carattere, comportamento” e proviene dalla parola greca ethikos, che significa morale e la capacità di mostrare la propria personalità che si basa sulla morale. Per oratori e scrittori, l’ethos è costituito dalla credibilità e dalla similitudine con il pubblico. L’oratore deve essere degno di fiducia e deve essere rispettato in quanto esperto della tematica trattata. Affinché gli argomenti siano efficaci, non basta fare un ragionamento logico. Per poter diventare credibile, il contenuto deve essere anch’esso presentato in modo da trasmettere fiducia. Secondo la retorica di Aristotele, l’ethos è particolarmente importante per stimolare l’interesse di chi ascolta (o di chi legge). Il tono e lo stile del messaggio diventano la chiave dell’interesse. Inoltre, il carattere è influenzato dalla reputazione dell’oratore, che dipende dal messaggio. Ad esempio, parlare al pubblico come un pari, invece di trattarlo come personaggio passivo, incrementa le probabilità che le persone si sentano parte attiva degli argomenti trattati. Il logos (λόγος) Logos significa parola, discorso o ragione. Nell’arte della persuasione, il logos è il ragionamento logico che si cela dietro le argomentazioni dell’oratore. Fa riferimento a qualunque tentativo di fare appello all’intelletto, ad argomentazioni logiche. In questo senso, il ragionamento logico è di due tipi: deduttivo e induttivo. In sintesi l’ethos è la credibilità che ogni oratore dovrebbe possedere. Il pathos è la componente che fa emozionare il pubblico. Il logos è il mezzo di persuasione basato sui contenuti e sugli argomenti. La caratteristica fondamentale del comunicatore di oggi è (o dovrebbe essere aggiungiamo noi) l'imparzialità. Essere consapevoli di queste tre strategie della retorica aristotelica può esserci utile per comunicare in maniera efficace da un lato e dall’altro individuare meglio i messaggi che mirano alla persuasione mediante l’inganno … Sarebbe proprio bello se potessimo utilizzare al meglio queste tre strategie antiche certamente, ma a pensarci bene modernissime, poiché ci aiuterebbe a ritrovare uno spirito critico ahimè in noi sbiadito, smarrito, o peggio a volte ignoto… con le dovute eccezioni. Scoprite la nostra rubrica Storia Vuoi approfondire il nostro saggio? La retorica di Aristotele, Ethos pathos logos: leggi un articolo de "La Discussione"... Immagine di copertina: Wikipedia Read the full article
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Nel link, qui sopra, un documentario storico (lunghetto ma da vedere) su sant’Ambrogio ovvero uno dei protagonisti dell’innesto della romanità in Cristo che ha reso possibile il ritorno dell’elemento di verità originaria conservata nella antica saggezza “pagana” alla sua Radice Prima ossia alla Sapienza Primordiale del Verbo Divino. Un innesto questo di Roma in Cristo – la dantesca “Roma onde Cristo è romano” – nel quale si è manifestato, sul piano storico, il Sacerdozio Eterno e Regale, al modo di Melchisedek, del Cristo, di Colui che, per l’appunto, è l’unico Rex et Sacerdos. Su questo Sacerdozio regale ed eterno, per tutti i secoli cristiani, si è fondato il delicato e difficile equilibrio tra Autorità Spirituale e Potere Politico. Un equilibrio che Ambrogio contribuì a definire nel suo non facile rapporto con l’imperatore Teodosio. A chi oggi potrebbe scandalizzarsi della durezza che Ambrogio usò verso gli ariani, gli ebrei ed i residuali “pagani” del suo tempo, è bene ricordare che la tolleranza è concetto ambivalente. Essa se malintesa, come nel mondo moderno, porta inevitabilmente al relativismo e peggio al nichilismo.
D’altro canto la complessità della storia è una sfida continua per tutti. Nel documentario, suggerito, laddove si parla della difesa ad oltranza, e certo sbilanciata, che Ambrogio fece dei cristiani responsabili dell’incendio di una sinagoga non viene detto che quel colpevole episodio fu la ingiusta reazione all’uccisione di un cristiano per mano di alcuni zeloti ebrei o, secondo altre fonti, la reazione all’aggressione, sostenuta dagli ebrei locali, di alcuni gnostici valentiniani ad una processione di monaci in onore dei “santi maccabei”. L’episodio, che certamente non fu unico, va quindi ascritto al contesto delle tensioni tra due comunità religiose che nascondevano anche conflitti politici.
Il tema che qui vogliamo affrontare, sotto il profilo storico, è quello della cosiddetta “svolta costantiniana” del IV secolo, quando i cristiani divennero maggioranza relativa e iniziarono a ribaltare la situazione a loro favore. Fino ad allora i perseguitati erano stati essi, i cristiani, ma non per mano romana come generalmente si pensa. Anzi, già subito dopo i fatti di Gerusalemme, l’autorità romana mostrò un atteggiamento di difesa verso i cristiani perseguitati dal Sinedrio e lo stesso Tiberio, come spiega Marta Sordi, emanò un rescritto che considerava la “licita” nuova “religio”. Un rescritto tuttavia poi bloccato dal Senato. Roma vedeva in quel nuovo gruppo di origine ebraica una comunità obbediente all’impero anziché in costante ribellione come quella ebraica e pertanto lo tutelava nella speranza che ad esso finissero per aderire tutti gli ebrei ottenendo così la pacificazione della turbolenta Palestina. Nelle successive persecuzioni imperiali, a parte la questione del bruciare l’incenso alla “divinità” dell’imperatore (che era un rito di origine orientale ed estraneo alla tradizione romana, la quale non aveva mai contemplato la divinizzazione del re), si percepisce, all’indagine storica, una chiara pressione sull’autorità romana per mano ebraica, volendo il Sinedrio e la diaspora regolare una volta per sempre i conti con gli “eretici galilei”. Fu dunque, in particolare, la diaspora ebraica a sobillare i pagani e l’autorità imperiale contro i cristiani. Pare, ad esempio, che sia stata Poppea, moglie di Nerone, il vanesio imperatore allievo ribelle di Seneca, che era diventata adepta “gentile” di alcuni maestri ebrei romani, a spingere il marito ad imputare ai cristiani l’incendio dell’Urbe.
In quella che solitamente è chiamata “svolta costantiniana” in realtà l’imperatore Costantino non ha giocato quasi alcun ruolo dato che, con il suo editto, egli si limitò a riconoscere ai cristiani libertà di culto alla pari di altri gruppi religiosi. La vera e propria svolta iniziò successivamente, proprio all’epoca di Ambrogio e Teodosio. La controversia intorno all’incendio della sinagoga di Callinico nascondeva ben altro che non la pressione di Ambrogio sull’imperatore affinché perdonasse i cristiani responsabili del misfatto. Il punto era un altro. Teodosio, ottemperando al suo dovere imperiale, voleva punire i responsabili addossando alla comunità cristiana le spese di ricostruzione della sinagoga, ma Ambrogio intervenne argomentando che egli, Teodosio, era un imperatore cristiano – in nome del “nome cristiano” più tardi Ambrogio lo avrebbe umiliato, imponendogli una pubblica penitenza, quando il sovrano si rese responsabile del massacro di Tessalonica – e che quindi non poteva mettere sullo stesso piano il vero culto, quello cristiano, ed uno falso, quello ebraico. La soluzione adottata da Teodosio, ossia ricostruire la sinagoga a spese dell’erario e moderare la pena comminata ai colpevoli, segnò la nascita del concetto di tolleranza premoderno come conosciuta fino alla Rivoluzione Francese ed il vero inizio della svolta “costantiniana”. Da quel momento l’impero diventava cristiano, confessionale, ed in tale contesto agli altri culti, benché ancora leciti ed ammessi, furono imposte restrizioni da “cordone sanitario”. Le comunità religiose allogene potevano sì celebrare il proprio culto ma non fare proselitismo, potevano sì conservare i loro templi ma non costruirne di nuovi, i loro membri potevano sì esercitare professioni private ma non essere ammessi a cariche pubbliche.
La tolleranza, in tal senso, era intesa come circoscrizione del “male” e non più come eguaglianza tra i culti. Un tipo di tolleranza non egalitaria che non fu propria del solo mondo cristiano giacché è stata quella ordinaria anche in terra islamica, nei confronti delle “genti del Libro” ovvero ebrei e cristiani, ed anche presso gli ebrei quando, nei pochi e rari casi nei quali godettero di egemonia, usarono discriminare gli altri culti. Come ad esempio nel regno caucasico dei khazari, VI secolo, quando i rabbini insediatisi a corte ottennero la cacciata e la ghettizzazione dei cristiani (il ramo aschenazita dell’ebraismo postbiblico deriva anche da qui).
Per la nostra mentalità relativista tutto questo è scandaloso ma in realtà corrisponde perfettamente alla logica della Verità che non può essere parificata alla non verità. Chi crede che la Verità esiste inevitabilmente non può, ed è cosa giusta in base a tale logica, accettare la sua relativizzazione. Se per noi “liberali” è assurdo che lo Stato operi una scelta tra le diverse visioni religiose e filosofiche, altrimenti sarebbe Stato confessionale o se laico etico, non era così nella logica veritativa di Ambrogio e Teodosio. E – si badi – in linea di principio non è così, cristianamente parlando, neanche oggi quando lo Stato liberale è cosa accettata da tutti compresi i cristiani. Infatti, in linea di principio, in un’ottica cristiana l’Autorità politica, soprattutto se “consacrata”, non può lasciare che i falsi culti si diffondano in particolare a danno di coloro che, spiritualmente ed intellettualmente più deboli, si mostrano incapaci di discernere il vero dal falso. Affermare questo, naturalmente, significa esporsi all’accusa di intolleranza, l’accusa tipica rivolta alla Chiesa da parte liberale, nonostante il controverso e difficile cammino che ha portato, dopo la Rivoluzione Francese, i cattolici ad accettare, se non in linea di principio quantomeno in via di fatto e di accomodamento, il criterio liberale della libertà religiosa, ovvero a tollerare i fondamenti relativistici, di matrice massonica, della democrazia liberale.
Dunque la democrazia di tipo liberale è il migliore dei sistemi ed alla fine anche i cristiani hanno dovuto convincersene, sebbene alcuni di essi soltanto per tolleranza di fatto? Bisogna, per rispondere, valutare il rovescio della medaglia. E’, ad esempio, in nome delle libertà individualistica che oggi possiamo assistere non solo alla parificazione giuridica tra matrimonio eterosessuale ed unioni omosessuali ma anche al riconoscimento, coerente con le premesse liberali, del diritto alla pedofilia, che ormai si profila all’orizzonte delle legislazioni pomposamente definite “più avanzate”. Sulla base dei postulati del liberalismo l’Autorità non può opporsi al proselitismo – e qui riemergono le “ragioni” di Ambrogio e della antica Cristianità – dei culti più spiritualmente e socialmente pericolosi, dal New Age a Scientology, dal Geovismo al Teosofismo, che fanno strame soprattutto, come temevano gli antichi inquisitori, tra coloro che per difetto di evangelizzazione (e questa è una grave responsabilità dei cristiani) o per poca istruzione o per debolezze caratteriali e psicologiche abboccano alla setta di turno sovente rimettendoci famiglia, salute e patrimonio. In nome della libertà religiosa si è fatta avanti persino la richiesta di riconoscimento, quale culto legittimo, del satanismo. Nella logica relativista nulla si può opporre a tale richiesta dato che, in quella logica, la “chiesa di Satana” ha lo stesso diritto e valore giuridico della Chiesa cattolica.
La democrazia liberale nasce storicamente dal “settarismo” protestante, inaugurato dall’individualistico “libero esame” di Lutero. Il suo cammino trionfale inizia poi nel XVIII secolo con la nascita degli Stati Uniti d’America, all’ombra del relativismo massonico di Washington e degli altri padri fondatori. La concezione massonica per la quale la Verità non esiste (essendo una auto-costruzione “iniziatica” dell’uomo) o, meglio, per la quale essa, inattingibile storicamente, sarebbe diluita un po’ in tutte le fedi sicché nessuna di esse può pretendere un primato sulle altre, è il fondamento irrinunciabile della democrazia liberale. Che lo si voglia o meno, è così. Gli Stati Uniti, infatti, sono il paradiso del settarismo e da lì, da oltreoceano, le più svariate sette sono ritornate in Europa, senza che nessuno possa opporsi al loro, spesso aggressivo, proselitismo anche quando tutto finisce in coartazioni o, a volte, stragi. Come nel caso del suicidio di massa perpetrato dai membri della setta del “Tempio del Popolo”, fondata dal pastore Jim Jones, a Jonestown in Guyana nel 1978. Un episodio, quest’ultimo, forse estremo ma significativo anche perché ricorda, da vicino, la pratica del suicidio rituale, l’“endura” (la morte per fame), del catarismo medioevale, il quale considerando la materia e la carne il male dal quale liberarsi imponeva, a certi livelli iniziatici, ai suoi adepti di ricorrere al suicidio. Il catarismo fu una delle ricorrenti forme di gnosi spuria come lo sono le diverse sette neospiritualiste oggi pullulanti. Venne duramente represso, con la cosiddetta “crociata contro gli albigesi”, ma uno storico imparziale, e nient’affatto simpatizzante con la Chiesa, come Henry Charles Lea, ha ammesso che “una vittoria dei catari avrebbe riportato l’Europa ai tempi selvaggi e primitivi”.
Arriviamo così ad un punto cruciale. L’amico e storico Franco Cardini, cattolico romano per fede, è l’autore di un interessante saggio “Contro Ambrogio” (egli ha promesso di scrivere in futuro anche un altro saggio da titolare “Pro Ambrogio” ma finora non ha mantenuto la promessa). Nella chiusa di tale libro Cardini si chiede se non ci fosse stata la svolta costantiniana, e quindi senza Ambrogio, la Chiesa avrebbe evitato di percorrere la via che poi ha condotto a “crociate” ed “inquisizione”.
Sembrerebbe, quella di Cardini, la solita “pippa” anticristiana e la solita richiesta di infiniti “meaculpa”. Ma non è così, giacché Cardini, storico di primordine, sa molto bene quanto la vulgata su crociate ed inquisizione sia in gran parte falsa e falsificata dalle antiche polemiche anticlericali sette-ottocentesche. Da lui, anche se non solo da lui, lo scrivente ha imparato che la “crociata” non era tale ma soltanto l’innesto del concetto giuridico romano di “ius bellum”, guerra giusta, sull’esperienza spirituale del pellegrinaggio in Terra Santa e che quindi essa fu un “pellegrinaggio armato” ma non una “guerra santa”, dato che in ambito cristiano nessuna guerra, neanche quella “giusta”, tollerata come male a volte necessario per evitare un male maggiore, può essere “santa”. Sempre da lui lo scrivente ha appreso che l’inquisizione ecclesiale è stata in genere relativamente molto più prudente e molto meno dura e facile al ricorso effettivo alla tortura di quella laica che, invece, ha continuato ad usare i suoi strumenti di costrizione fisica anche in tempi di secolarizzazione del potere politico. Lo scrivente ha poi appreso che la vera e propria mattanza di streghe si registra in terra protestante dato che, “Malleus maleficarum” di Kramer e Sprenger, nel XV secolo, a parte, gli inquisitori cattolici iniziarono ben presto a capire la natura folklorica di certe pratiche popolari “stregoniche” e quindi a derubricarle a superstizione che in quanto tale era competenza degli evangelizzatori ma non dei tribunali inquisitoriali. Esemplare il caso di Gostanza la presunta strega di san Miniato, sulla quale Cardini ha curato un libro, salvata, dal linciaggio popolare, dal suo stesso inquisitore. Anche il caso di Galileo Galilei non si è svolto come lo raccontano, in quanto lo scienziato pisano ebbe un trattamento certo non in linea con il truculento immaginario di torture cui sarebbe sato sottoposto per ottenere l’abiura. In realtà, per quanto stiamo sempre parlando di una pressione psicologica processualmente ottenuta, Galilei aspettò il processo ospite riverito nella villa di un cardinale e quale pena canonica gli fu imposta la recita dei salmi penitenziali. Morì, infine, confortato dai sacramenti, lui che mai ripudiò la sua fede cattolica, e dalle cure di una sua figlia suora.
Orbene, per tornare al suo libro di sant’Ambrogio, Cardini ponendosi e ponendoci la domanda, sopra ricordata, ossia se la Chiesa senza svolta costantiniana avrebbe evitato certe pagina dolorose della sua storia, sembra non tener adeguatamente conto della logica stessa dell’Incarnazione per la quale Dio ha accettato di entrare nella storia umana post-adamica, quindi in una storia contrassegnata dal peccato e dalla fallacia umana, assumendosene il rischio, ossia caricandosi il fardello non solo del peccato anche della fallacia e della debolezza degli stessi cristiani, quindi delle loro sempre possibili mancanze di carità. Nella logica dell’Incarnazione, la Chiesa è Corpo Mistico di Cristo e, come tale, non può essere considerata alla stregua di una qualsiasi associazione a scopo religioso, motivo per il quale Essa non poteva non confrontarsi a vario titolo e con varie modalità, storicamente dinamiche, con le culture con le quali sarebbe venuta a contatto ed anche con l’Autorità politica. In altri termini, era inevitabile, per la logica stessa dell’Incarnazione, che, ottenuta da Costantino la libertà religiosa, la Chiesa ottenesse da Teodosio anche la sanzione politica del riconoscimento della primazia spirituale sugli altri culti. Il problema, tutto medioevale, dell’eccesso in senso teocratico di certuni Papi, che illegittimamente oltrepassarono il limite di autonomia del Potere regale, è un altro discorso che esula dall’oggetto proprio di queste riflessioni. Per questa medesima logica “ambrosiana”, secoli dopo, Pio IX, spodestato del potere temporale, giustamente non accettò la tutela offertagli dai Savoia usurpatori mediante la “legge delle guarentigie”, perché si trattava di una legge unilaterale dello Stato italiano, quindi modificabile ad libitum da qualsiasi governo, che riduceva la Chiesa alla stregua di una mera associazione di privati cittadini. Non dunque di un trattato internazionale e bilaterale tra soggetti che si riconoscono reciprocamente ed alla pari sotto il profilo giuridico.
D’altro canto non si può neanche dimenticare che nella logica dell’Incarnazione rientra anche tutto il complesso di opere di assistenza e carità come anche l’intero patrimonio artistico che la Cristianità ha generato e ci ha lasciato in eredità. Senza la svolta costantiniana forse non ci sarebbe stata l’inquisizione ma neanche la cattedrale di Notre Dame a Parigi, non ci sarebbero forse state le crociate ma neanche il Duomo di Firenze, non ci sarebbe stata la stretta unione tra l’altare ed il trono ma neanche la Commedia di Dante e probabilmente non sarebbe sopravvissuta neanche la Chiesa se fosse rimasta una semplice congrega privata di fedeli di un esotico culto di origine palestinese. Quindi senza il “duro” Ambrogio neanche il “serafico” Francesco. Insomma se il Verbo si è fatto carne non sarebbe poi stato possibile che la Chiesa non assurgesse ad una concreta visibilità e corporeità che comporta anche una dimensione giuridica e quindi una continua interrelazione con il Politico. Con tutti i rischi storici del caso. Piaccia o meno.
Ciascun cattolico, come lo scrivente, deve debitamente ed onestamente farsi carico del “peso storico” del passato comprese le sue zone d’ombra ma senza complessi di colpa ed anzi rivendicando le ragioni, misconosciute dai detrattori, di Ambrogio e degli inquisitori, benché – sia chiaro! – senza nostalgie o sogni di restaurazione, impossibile a realizzarsi in termini umani ovvero con mezzi politici ossia in mancanza innanzitutto di una trasformazione interiore che solo orazione e vita sacramentale possono ottenerci da Dio. Dalla fattuale accettazione del mondo nel quale egli vive, tuttavia, il cattolico non deve giungere, come fanno i suoi correligionari “progressisti”, anche ad incensarlo o a fare proprie le ragioni, gli esiti ai quali esse possono portare abbiamo sopra evidenziato, dei “nemici” di ieri (e, senza farci soverchie illusioni, anche di oggi). Ai detrattori del nome cristiano si deve ricordare, piuttosto, che, le vicende storiche della modernità, sono lì a dimostrare quanto loro non si sono dimostrati migliori dei cristiani e che nessuno, né loro né noi cristiani, può scagliare la prima pietra. Un approccio “neopagano” oggi molto di moda – fatto proprio anche da taluni cari amici dello scrivente – dimentica con troppa facilità che, a ben guardare, anche il mondo antico, nonostante il pullulare di culti nella Roma tardoimperiale, non praticava affatto la tolleranza relativista, come quella moderna di tipo massonico, dato che, al contrario, ciascun culto per essere ammesso doveva avere il placet imperiale o senatoriale. Il moltiplicarsi dei culti nella tardo-romanità va piuttosto letto alla luce del fatto che essi, sotto diverse forme, nascondevano più o meno una identica narrazione mitica, mentre la nuova fede cristiana, benché lealissima verso l’Impero, non era riducibile ad un mero mito.
Ora, però, proprio perché la dichiarazione di rivendicazione senza infingimenti del “peso storico” della tramontata Cristianità non vuol essere, come detto, anche prassi intesa alla restaurazione – che è bene ribadirlo non è cosa operabile con mezzi umani – non è possibile chiudere queste riflessioni senza una ultima considerazione. Il dramma dei secoli cristiani non è stato, come ritengono i cattolici modernisti, quello della svolta costantiniana, ossia del passaggio della Chiesa nel IV secolo, ottenuta la libertà religiosa, alla “prevaricazione”, quanto piuttosto quello del fatto che per tutti quei secoli i cristiani, certo per molteplici fattori spirituali, sociali, politici, economici, sia come singoli sia come comunità, grandissime eccezioni di santità a parte (che non furono poi così poche, comprese quelle della gente comune e conosciute solo a Dio perché non ufficialmente canonizzate), non hanno dimostrato di essere coerenti con la Carità che è parte di e deriva dalla Verità ossia dalla Persona Divino-Umana di Cristo. E’ il problema della “metanoia”, della trasformazione interiore, della “conversione del cuore” al Cuore di Dio. Se i cristiani e la Cristianità hanno mancato in qualcosa è in questo, non nel pretendere il riconoscimento della primazia della Verità. Perché tutti i Papi, fino a Giovanni Paolo II ed a Benedetto XVI, non hanno mai negato che la Verità viene prima della libertà e che senza la Verità non c’è neanche la libertà o che, senza la prima, la seconda finisce per rovesciarsi, come sovente la storia moderna ha dimostrato, nel suo contrario. Se per un liberale il primato spetta alla libertà, per un cristiano, anche per un cristiano del XXI secolo, il primato spetta sempre e comunque alla Verità. Il punto sta tutto nel come attuare tale primato senza violare la libertà altrui e senza imporlo coattivamente agli altri. Qui, appunto, l’unica risposta, quella ad esempio indicata da Papa Benedetto XVI nelle encicliche “Deus caritas est” e “Caritas in Veritate”, è la conversione interiore personale di ciascun cristiano che sappia manifestarsi all’esterno nei rapporti sociali e politici fino a conquistare il cuore degli altri in modo che, poi, tutti insieme, nella Chiesa, si sappia contribuire a rendere possibile e concreta, carnale, una, forse, futura migliore Cristianità anche sociopolitica. Naturalmente solo a Dio piacendo ossia se questo è nei Suoi imperscrutabili disegni.
Luigi Copertino
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tra un tampone e l’altro, approfittatene...;-)
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Scripta volant, verba manent. Wikipedia, Valerio Levino e Brindisi
di Nazareno Valente
Sino all’adozione del telecomando, l’uso del pollice della mano era limitato a poche funzioni di base, prevalente quella di aiutare le altre dita a prendere qualcosa. Da allora s’incominciò a destinarlo allo zapping e, visto che dava buone prove di sé, lo si adoperò in maniera più massiccia per la compilazione e la trasmissione degli sms, con risultati che rasentano la maestria quando si tratta di giovani utilizzatori. Le nuove tecnologie, in definitiva, impongono pure dei mutamenti nell’impiego dei diversi muscoli, oltre che di mentalità, di abitudini e di modi di pensare.
Di pari passo anche l’approccio alle conoscenze si sta modificando: credo lo si debba ad una informazione sempre più rapida e diffusa, che porta all’istante sulla scena degli avvenimenti, e dalla memoria sempre più corta, che brucia tutto in pochi attimi senza consentire, a momenti, neppure il tempo d’accorgersi di cosa sia effettivamente successo.
In questo clima anche i detti popolari vanno modificandosi.
Le parole, sinonimo un tempo di evanescenza perché volavano via con il vento, adesso, memorizzate nei filmati e riproposte in maniera ossessiva, stanno diventando indistruttibili. Al contrario lo scritto, veicolo in passato pressoché unico di conservazione, appare sempre più inconsistente e volatile, essendo oggetto di modifiche, rielaborazioni e cancellazioni.
È quanto di solito avviene in Internet, soprattutto in quella fonte di apprendimento veloce qual è Wikipedia, che ormai costituisce l’enciclopedia di più diffuso accesso, dove con tagli, variazioni e rimozioni sembra si scontrino le diverse correnti di pensiero desiderose di imporre il proprio punto di vista. Almeno questo si evince dall’approfondita ricerca del professor Massimo Marchiori, i cui risultati possono essere consultati sul suo sito Negapedia.org. Di là dalle faide, ciò che se ne può ricavare è, a mio avviso, l’aleatorietà della cosiddetta enciclopedia libera, troppo condizionata da chi è l’anonimo compilatore di turno
Non è per altro questo l’unico tema che spingerebbe ad essere cauti nell’utilizzo d’uno strumento che, riassumendo in sé certo tutti i pregi della rete ma, nel contempo, pure tutti i suoi peggiori difetti, meriterebbe un approccio critico e non di accettazione incondizionata, come spesso avviene. Per accreditare in un qualche modo queste mie perplessità, affronterò la questione limitando l’esame ad un argomento d’interesse comune – le antichità del nostro Salento – per il quale fornirò esempi di imprecisioni, di informazioni distorte e, addirittura, di vere e proprie bufale (o, dette con linguaggio moderno, fake news) che, per evitare giudizi frettolosi, verranno distribuiti in più interventi.
In questo primo incontro esamineremo la scheda dedicata da Wikipedia a Marco Valerio Levino1, un personaggio storico talmente legato alla colonia latina di Brindisi da meritare la dedica di una via cittadina.
In generale essa appare formalmente ben costruita, in quanto fornisce per tutti gli avvenimenti – elencati però senza curare i necessari collegamenti – gli appropriati riferimenti alle fonti letterarie antiche. Le carenze non riguardano però i fatti, quanto i contesti in cui essi vengono situati.
Siamo negli anni in cui Annibale ha invaso l’Italia ed ha inferto dure sconfitte ai romani. Una soprattutto, quella di Canne (216 a.C.), ha fatto vacillare l’Urbe la cui disfatta per alcuni mesi è sembrata prossima. Passato il primo momento di sconcerto, Roma si sta riorganizzando, ed è proprio qui che Valerio Levino entra in scena.
L’autore della scheda ce lo presenta come «un politico e generale romano», il che è vero però, forse, meritevole della precisazione che in quel periodo le due carriere non erano distinte, com’è attualmente, ma al contrario un tutt’uno. Chi voleva infatti aspirare alle cariche pubbliche, doveva prima fare un determinato numero di campagne militari o di anni di servizio militare, e chi accedeva alle più alte magistrature diveniva di conseguenza titolare anche dell’imperium militiae, vale a dire del comando supremo dell’esercito in tempo di guerra. Di fatto, se non si faceva politica, non si poteva diventare generali; se si era generali, lo si era perché contestualmente statisti di alto rango. Basta scorrere le diverse schede di Wikipedia stessa riguardanti i principali personaggi romani dell’epoca per ricavare che praticamente tutti, avendo rivestito le magistrature maggiori, erano al tempo stesso politici e capi militari.
Ritroviamo poi che Levino «era praetor peregrinorum (si occupava, cioè, degli affari riguardanti gli stranieri presenti a Roma)» e, detto in questo modo, sembra che il pretore peregrino fosse una specie di dottore commercialista che aiutava gli stranieri nei loro affari a Roma. Nulla di tutto ciò.
Occorre premettere che la pretura, istituita nel 367 a.C., era una magistratura a cui venne principalmente affidato il potere, che i romani denominavano iurisdictio, con cui dirimere i contenzioni che sorgevano tra cittadini romani Il pretore, chiamato urbanus perché amministrava la giustizia a Roma, aveva infatti l’incarico, quando si verificava una lite, di appurare che la pretesa del denunciante meritasse tutela giuridica, di individuare conseguentemente il principio di diritto applicabile alla specifica controversia (ius dicere2) ed infine, al termine di questa fase (in iure), di nominare con il consenso delle parti un giudice (iudicem dicebat). Il giudice, che era un privato cittadino, verificava a questo punto i fatti dichiarati dalle parti, raccoglieva le prove e pronunciava la sentenza sulla base dei termini giuridici fissati dal pretore.
In seguito, divenuta Roma una città in cui confluivano genti di diversa nazionalità e non essendo quell’unico pretore più sufficiente ad occuparsi di tutte le vertenze («non sufficiente eo praetore»3), fu creato nel 242 a.C. un altro pretore, chiamato peregrino per il fatto che amministrava per lo più il diritto tra gli stranieri («creatus est et alius praetor, qui peregrinus appellatus est ab eo, quod plerumque inter peregrinos ius dicebat»4). Dal pronome indefinito utilizzato (plerumque), discende che il pretore peregrino, oltre ad impostare i termini delle controversie tra stranieri (inter peregrinos), amministrava anche quelli tra stranieri e cittadini romani (inter peregrinos et cives), vale a dire, in definitiva, quelli in cui fosse coinvolto almeno uno straniero. Non gli era in aggiunta neppure preclusa la competenza sui contenziosi tra romani (inter cives) e, quindi, agiva in analogia e con gli stessi poteri del pretore urbano.
L’istituzione di questa carica conseguì anche dal fatto che al diritto romano era estraneo il principio della territorialità della legge, per cui non poteva applicarsi agli stranieri l’ordinamento riservato ai romani (ius civile) e, di conseguenza, dovevano elaborarsi norme specifiche5 per risolvere eventuali conflitti sorti con i peregrini basandosi per lo più sul complesso delle norme giuridiche comuni a tutti i popoli (ius gentium). Tranne questa possibilità concessa al pretore peregrino di avvalersi di una procedura più snella – che con il passare del tempo finì per essere sostanzialmente adottata anche dal pretore urbano – non c’era altra differenza sostanziale, tant’è che era il sorteggio a stabilire quale dei pretori eletti dovesse esercitare il potere di “esporre il diritto” inter cives e chi inter peregrinos et cives.
Qualche anno dopo, nel 227 a.C., si decise di creare due nuovi pretori con il compito di governare le due prime province istituite, vale a dire la Sicilia e la Sardegna. Ai tempi di Levino venivano pertanto eletti quattro pretori che per il 215 a.C. furono appunto il nostro Marco Valerio Levino, Appio Claudio Pulcro, Quinto Fulvio Flacco e Quinto Mucio Scevola («praetores inde creati M. Valerius Laevinus iterum, Ap. Claudius Pulcher, Q. Fulvius Flaccus, Q. Mucius Scaevola»6). Alle idi di marzo, quando essi entrarono in carica, a Valerio Levino toccò in sorte la giurisdizione peregrina; a Fulvio Flacco quella urbana; a Claudio Pulcro andò la pretura della Sicilia e a Mucio Scevola quella della Sardegna («Praetores Q. Fulvius Flaccus… urbanam, M. Valerius Laevinus peregrinam sortem in iuris dictione habuit; Ap. Claudius Pulcher Siciliam, Q. Mucius Scaevola Sardiniam sortiti sunt»7).
Ma in quel particolare momento risultava preminente contrastare lo strapotere cartaginese nella penisola e, quindi, impiegare le principali risorse nella guerra in atto. Levino non poté così esercitare la pretura peregrina perché destinato in Apulia per presidiarla con milizie provenienti dalla Sicilia («Valerium praetorem in Apuliam ire placuit… cum ex Sicilia legiones venissent, iis potissimum uti ad regionis eius presidium… »8)
Anche Wikipedia annota l’utilizzo di Levino in attività militari motivandolo con il «periodo di grande crisi per la Repubblica» e facendoci però in aggiunta sapere che «tutti i magistrati civili ricevettero comandi militari». Quest’ultima affermazione denota indubbie lacune nelle conoscenze dell’impianto costituzionale romano ed è alquanto sorprendente.
A rigor di termini, la pretura non può infatti dirsi una magistratura civile – e basterebbe considerare i pretori, mandati, come già riportato, a governare le province ed a guidare le legioni lì destinate, per rendersene conto. Il pretore aveva sì, come nei casi di quello urbano e peregrino, prevalenti funzioni giusdicenti ma risultava anche collega, benché dotato di minore autorità, dei consoli (conlega minor) e, di conseguenza, quando costoro erano lontani da Roma, era incaricato della loro sostituzione (imperium domi). In aggiunta era anche titolare dell’imperium militiae e quindi legittimato a comandare l’esercito ed ad assumere tutte le competenze derivanti da questo potere.
Il coinvolgimento nelle attività militare rientrava in conclusione nelle specifiche prerogative della carica, e non era certo conseguente ad un fatto estemporaneo come la semplicistica conclusione a cui perviene l’enciclopedia libera lascerebbe far credere. Sintomatico in tal senso il passo di Livio che, nel narrare il fatto, afferma che neppure ai pretori eletti per esporre il diritto fu concessa l’esenzione del governo militare («ne praetoribus quidem qui ad ius dicendum creati erant vacatio a belli administratione data est»9). Chiarendo così in maniera inequivocabile che alla carica spettavano compiti di carattere militare, dai quali i pretori urbano e peregrino erano comunemente esentati.
Se poi, per semplificare, dovessimo considerare i pretori magistrati civili, dovremmo ritenere tali anche le altre magistrature dell’ordinamento romano, e, da quel tutti usato nella scheda, finiremmo per desumere che anche agli edili ed ai questori sia stato assegnato il comando militare. Cosa che, neppure in quel particolare frangente, è avvenuta.
Gli equivoci sulla figura del pretore peregrino si ampliano analizzando la scheda specifica che Wikipedia pubblica per il pretore romano. In questa10 è infatti possibile leggere che il pretore peregrino si occupava «di amministrare la giustizia nelle campagne». Come dire peregrinus contrapposto ad urbanus e, quindi, se questi stava in città, quello errava nelle campagne.
A parte il fatto che non si capisce perché il pretore peregrino dovesse amministrare la giustizia nelle campagne, quando la gran parte (se non la quasi totalità) degli affari svolti anche dagli stranieri avveniva nell’Urbe, questa visione sembra cozzare con le fonti che non hanno mai indicato differenze sui luoghi in cui i pretori svolgevano le loro funzioni. Al contrario, il pretore urbano e quello peregrino amministravano la giustizia a Roma. Lo riferisce a chiare lettere Livio quando ci riporta che i pretori stabilirono vicino alla pubblica piscina il luogo in cui fissare i tribunali dove, per quell’anno, avrebbero detto il diritto («Praetores quorum iuris dictio erat tribunalia ad Piscinam publicam posuerunt… ibique eo anno ius dictum est»11).
Come in altri casi analoghi, questa versione, proposta da Wikipedia sui presunti luoghi di campagna in cui il pretore peregrino amministrava la giustizia, riecheggia un’ipotesi superata, rinvenuta magari in uno dei tanti vecchi testi la cui copia digitale è disponibile in rete. Ed è un chiaro sintomo di come, con un copia e incolla acritico, si finisca per riportare in vita teorie poco attendibili che il mondo scientifico ha ormai abbandonato da tempo12.
Tornando al nostro Levino, Livio ci fa sapere che gli furono affidate anche 25 navi con le quali pattugliare il litorale tra Brindisi e Taranto («et viginti quinque naves datae quibus oram maritimam inter Brundisium ac Tarentum tutari posset»13. Infatti, temendo colpi di mano da parte di Filippo V di Macedonia che nel frattempo s’era alleato con Annibale, il console Tiberio Sempronio Gracco lo aveva mandato a Brindisi per difendere la costa salentina («Brundisium… misit tuerique oram agri Sallentini»14).
L’anno successivo, nel 214 a.C., Levino non poteva essere nuovamente eletto pretore tuttavia, poiché il suo apporto era necessario, gli fu prorogato l’imperium militiae. Era questa una procedura adottata per consentire a chi aveva incarichi militari di portare a termine le azioni belliche che superavano il limite annuale della carica. In questi casi, l’ordinamento romano prevedeva infatti la possibilità di ricorrere alle promagistrature con cui si prorogavano le funzioni militari ai magistrati in scadenza15. E quindi Levino, pur non rivestendo più la carica di magistrato, poté, in forza della prorogatio imperii, continuare le operazioni militari come propretore16.
In quell’anno talmente difficile per Roma la proroga riguardò tutti quelli che guidavano reparti militari, i quali rimasero così nelle rispettive zone d’influenza («Prorogatum deinde imperium omnibus qui ad exercitus erant iussique in provinciis manere»17). Lo stesso capitò a Levino che si vide rinnovato il comando della flotta di stanza a Brindisi, sempre con l’incarico di vigilare su ogni manovra del re macedone Filippo («M. Valerius ad Brundisium orae maritimae, intentus adversus omnes motus Philippi Macedonum regis»18).
Levino diventò quindi di casa a Brindisi19 al punto da eccitare le fantasie dei più noti cronisti brindisini che confezionarono una vicenda epica di cui non si ha alcun riscontro nelle fonti narrative antiche.
Iniziò Giovanni Maria Moricino20 e, naturalmente, gli andò dietro Andrea Della Monaca21 che, com’è noto, ricopiò quasi fedelmente il suo manoscritto. Anche il canonico Pasquale Camassa (figura n. 1) — per il quale, serve ricordarlo, noi brindisini nutriamo una più che giustificata riconoscenza per quanto egli ha fatto per preservare dalla distruzione più d’un nostro monumento storico e per lo sviluppo culturale della nostra città — riprese, sia pure in maniera più succinta, lo stesso racconto. Papa Pascalinu, come affettuosamente viene ricordato in città, nutriva un amore incondizionato per Brindisi, e ciò lo portava già di per sé ad abbellire la ricca storia cittadina con qualche piccola creazione. Qui usò anche la fantasia altrui riportando l’episodio nel suo libro sulla storia di Brindisi22, il cui intento di sfruttare nel migliore dei modi la fortuna di cui godevano in quel particolare periodo le passate glorie dell’impero romano è del tutto evidente sin dal titolo e dal riferimento contenuto sulla copertina (figura n. 2).
Nel caso specifico il tutto prendeva spunto da un passo di Livio.
Lo storico patavino narra di come Annibale, sulla scia dei successi ottenuti, tenti di attirare nella propria orbita le città salentine. Quando non riesce a farlo con le blandizie o con la forza, lo stratega cartaginese utilizza sotterfugi contando sulla eventuale presenza di quinte colonne nelle comunità. L’espediente gli riesce, ma non del tutto, a Taranto dove, grazie all’aiuto di tredici cospiratori quasi tutti giovani nobili («tredecim fere nobiles iuvenes Tarentini coniuraverunt»23), prende la città, senza però essere in grado di espugnare la rocca, in cui si trincerano i resti del presidio romano ed i tarantini rimasti a loro fedeli. Per questo ripiega su Brindisi sperando di poterla avere per tradimento («ad Brundisium flexit iter, prodi id oppidum ratus»24).
Qui s’inserisce papa Pascalinu per narrare che il propretore Valerio Levino, saputo dell’approssimarsi dell’esercito punico, «raccolti i cittadini a parlamento, ricordò ad essi il grande valore, di cui diedero saggio nella sfortunata giornata di Canne»25 e, tanto per rincarare la dose, anche «l’intrepido coraggio dei brindisini sopravvissuti a quell’orrenda carneficina»26. Rincuorò i timorosi, caso mai ve ne fossero stati, e ricordò che Brindisi, diversamente da Taranto, «si era sempre e costantemente serbata fedele a Roma»27 tanto che «alcuni dei suoi concittadini erano stati dalla Repubblica chiamati ad alte ed onorifiche cariche e magistrature»28. Naturalmente le parole di Levino non potevano che fare breccia nei saldi cuori dei brindisini i quali si prepararono alla difesa con simile ardore che Annibale «desisté dall’impresa»29.
Nella realtà, Brindisi non aveva nessuna necessità di essere stimolata a resistere, vivendo una situazione completamente diversa da quella della città ionica. La politica romana ne favoriva in tutti i modi il porto, il che incrementava in maniera considerevole le attività economiche facendola divenire ricca e rinomata. La condizione di colonia latina le consentiva inoltre di fruire, oltre alla più ampia autonomia interna, anche dei privilegi che il diritto latino comportava. Alla fin fine, i Brindisini avevano tutto l’interesse a stare con l’Urbe lasciando cadere ogni tentativo di Annibale che, peraltro, era uno stratega troppo navigato per sperare, anche lontanamente, di poterla prendere con la forza. Si può pertanto ritenere che i Romani contassero sulla fedeltà di Brindisi, mentre dei Tarantini diffidavano, sospettando da tempo che potessero ribellarsi da un momento all’altro («Cum Tarentinorum defectio iam diu… in suspicione Romanis esset»30).
Significativo infine che la manovra cartaginese per impossessarsi di Brindisi venga liquidata da Livio con poche ed essenziali parole: anche qui Annibale sprecò tempo inutilmente («Ibi quoque cum frustra tereret tempus»31). Lo storico patavino non fa invece alcun cenno all’accorato discorso fatto da Levino, per il semplice motivo che questi si trovava da tutt’altra parte, ed in tutt’altre faccende affaccendato. Annibale decide appunto di ripiegare su Brindisi, subito dopo la battaglia di Herdonea. Siamo di conseguenza nel 212 a.C., allorquando Valerio Levino, propretore in Grecia («imperium… Graecia M. Valerio»32), è già da tempo lontano da Brindisi e di fatto impossibilitato a pungolare lo spirito guerriero dei brindisini.
Come dire che ci troviamo di fronte ad una vera e propria fake news da cui anche i compilatori di Wikipedia, non tenendone conto, hanno preso giustamente le distanze.
Ma ci sono occasioni in cui le bufale storiche non risparmiano neppure l’enciclopedia più letta al mondo. Come vedremo nella prossima puntata.
Note
1 Consultabile a questo link https://it.wikipedia.org/wiki/Marco_Valerio_Levino (13.11.2017).
2 Dire il diritto nel senso di esporre (o mostrare) il diritto.
3 Pomponio (… – II secolo d.C.), in Digesti o Pandette dell’imperatore Giustiniano, D.I.2.2.28.
4 Pomponio, Cit., D.I.2.2.28.
5 Il complesso di norme introdotte a seguito di questa attività del pretore peregrino composero lo ius honorarium.
6 Livio (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Dalla fondazione di Roma, XXIII 24, 4.
7 Livio, Cit., XXIII 30, 18.
8 Livio, Cit., XXIII 32, 16.
9 Livio, Cit., XXIII 32, 15.
10 Consultabile a questo link https://it.wikipedia.org/wiki/Pretore_(storia_romana) (13.11.2017).
11Livio, Cit., XXIII 32, 4.
12 Sembrerà strano ma anche la più fantasiosa teoria trova i suoi adepti, a volte del tutto insospettabili.
13 Livio, Cit., XXIII 32, 17.
14 Livio, Cit., XXIII 48, 3.
15 Il ricorso alle promagistrature (propretore e proconsole) iniziò ad essere imponente proprio in occasione della seconda guerra punica; dal secolo successivo la prorogatio imperii fu utilizzata soprattutto per la prosecuzione di azioni militari nelle province. Ai tempi di Silla, quando il consolato e la pretura mantennero solo l’imperium domi, divenendo di fatto magistrature esclusivamente urbane, solo i promagistrati potevano essere a capo delle milizie e governare le province.
16 Il prefisso pro ritengo sia da intendersi nel senso di “a titolo di” o “in qualità di” e non in quello che comunemente diamo in lingua italiano di “al posto di” o “in sostituzione di”.
17Livio, Cit., XXIV 10, 3.
18 Livio, Cit., XXIII 10, 4.
19 Citata più volte da Livio come centro d’azione della flotta guidata dal propretore Levino (livio, Cit., XXIV11,3 e livio, Cit., XXIV 20, 12).
20 G. M. Moricino, Dell’Antichiquità e vicissitudine della Città di Brindisi. Opera di Giovanni Maria Moricino filosofo, e medico dell’istessa città. Descritta dalla di lei origine sino all’anno 1604, Brindisi, Biblioteca pubblica arcivescovile A. De Leo, Manoscritti, ms_D/12, 1760-1761, 104r/107r.
21 A. della Monaca, Memoria historica dell’antichissima e fedelissima città di Brindisi, Lecce 1674, Pietro Micheli, pp. 199/206.
22 P. Camassa, La romanità di Brindisi attraverso la sua storia e i suoi avanzi monumentali, Brindisi 1934, Tipografia del Commercio di Vincenzo Ragione.
23 Livio, Cit., XXV 8, 3.
24 Livio, Cit., XXV 22, 14.
25 P. Camassa, Cit., p. 24.
26 P. Camassa, Cit., p. 24.
27 P. Camassa, Cit., p. 25.
28 P. Camassa, Cit., p. 25.
29 P. Camassa, Cit., p. 25.
30 Livio, Cit., XXV 7, 10.
31 Livio, Cit., XXV 22, 15.
32 Livio, Cit., XXV 3, 6.
#Andrea Della Monaca#Appio Claudio Pulcro#battaglia di Canne#Brindisi#Giovanni Maria Moricino#imperium militiae#Marco Valerio Levino#Nazareno Valente#Pasquale Camassa#praetor peregrinorum#Quinto Fulvio Flacco e Quinto Mucio Scevola#Pagine della nostra Storia#Spigolature Salentine
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Giurisprudenza La controversia vede protagonisti una compagnia aerea e l’Amministrazione fiscale britannica in ordine alla tassazione relativa ad alcuni trasferimenti di azioni È contraria al diritto comunitario la normativa di quello Stato membro che prevede la tassazione di un’operazione di trasferimento di azioni, con cui la titolarità giuridica dell’insieme delle azioni di una società è stata trasferita a un servizio di compensazione per quotarle in Borsa, senza che muti la titolarità effettiva delle azioni stesse.
http://www.fiscooggi.it/giurisprudenza/articolo/corte-ue-no-all-imposta-bollosulla-raccolta-capitali
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Non è giurisdizione del g.a. la controversia tra società a partecipazione totalitaria pubblica
Non è giurisdizione del g.a. la controversia tra società a partecipazione totalitaria pubblica
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Rientra nell’ambito di giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto la designazione del Presidente dell’Organismo di valutazione di una società a partecipazione totalitaria pubblica avente la forma giuridica della società per azioni.
Amministrativo Author:
[cfwc]
[quads id=”1″] Commercialista Roma
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Opposizione a cartelle esattoriali sottese a procedura pignoratizia – ammissibilità – mancata prova della loro giuridica esistenza e rituale notificazione – annullamento Appartiene alla giurisdizione delle Commissioni Tributarie quella controversia con la quale il contribuente contesti l’an ed il quantum…
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