#conflitti psicologici
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Non è possibile mostrarsi per sempre diversi da ciò che si è.
“Alla gran maggioranza di noi si richiede un’ipocrisia costante, eretta a sistema. Ma non si può, senza conseguenze, mostrarsi ogni giorno diversi da quello che ci si sente: sacrificarsi per ciò che non si ama, rallegrarsi di ciò che ci rende infelici. Il sistema nervoso non è un vuoto suono o un’invenzione. La nostra anima occupa un posto nello spazio e sta dentro di noi come i denti nella bocca. Non si può impunemente violentarla all’infinito”. – Boris Pasternak, ‘Il dottor Živago‘.
Spunti di riflessione
La citazione è tratta dal celebre romando “Il dottor Živago” di Boris Pasternak. Il personaggio fa una profonda riflessione sull’ipocrisia che spesso permea la vita quotidiana delle persone. Pasternak attraverso queste parole denuncia la società, che con le sue convenzioni, obblighi e aspettative, richiede a molti di noi di essere ipocriti, di vivere una sorta di doppia vita in cui ci si mostra diversi da ciò che si è veramente.
In queste frasi si trova tutto il conflitto interiore che si origina da questo modo di vivere, più che mai attuale. Mostrarsi diversi da ciò che si è veramente è un sacrificio interiore, un continuo “violentare” la propria anima, che come ben esprime la citazione, occupa un suo spazio reale dentro di noi. Questa violenza continua alla nostra essenza interiore, al nostro vero sé, può avere conseguenze dannose sul nostro benessere psicologico e emotivo.
Non a caso, Pasternak fa anche riferimento al sistema nervoso, spiegando che questo non è semplicemente un insieme di processi biologici, ma piuttosto un’entità che riflette il nostro essere interiore. E’ importante sottolineare come vivere in un costante stato di ipocrisia può portare a uno squilibrio nel sistema nervoso, una sorta di disarmonia tra ciò che siamo veramente e ciò che mostriamo al mondo.
La riflessione di Pasternak è molto forte e ci chiede di riconsiderare l’importanza di vivere senza compromessi (sia interiori che esteriori), di essere in sintonia con il nostro vero io. Le impalcature esterne, le maschere che abbiamo costruito per difenderci nella vita, non possono sostituirsi alla nostra anima, né soffocare i nostri veri bisogni come persone che hanno una propria unicità. Dunque, bisogna rimettere in discussione tutto, qualora ci si accorga che la vita che stiamo vivendo non rispecchia noi stessi.
Se sentiamo che di fondo c’è un’infelicità che non si può colmare con semplici antitodi di distrazione, è il caso di andare a fondo per scoprire se le nostre istanze interiori trovano spazio nella nostra esistenza.
Contesto storico e conflitti umani
Per comprendere meglio il senso della citazione, dobbiamo approfondire anche il contesto storico in cui fu scritto il romanzo “Il dottor Živago”, pubblicato per la prima volta in Italia nel 1957 e poi diffuso in tutto il mondo.
Il romanzo è ambientato in Russia, principalmente durante la rivoluzione russa e la successiva guerra civile, che hanno avuto luogo tra il 1917 e il 1922. Questo periodo storico è caratterizzato da una profonda agitazione politica, sociale ed economica, con la caduta dello zarismo, l’ascesa dei bolscevichi guidati da Lenin e l’instaurazione del regime comunista.
Nel contesto della rivoluzione russa, emerse uno scontro ideologico tra il nuovo ordine socialista e le tradizioni culturali e comunitarie preesistenti. Il regime comunista cercò di plasmare la società secondo i suoi principi, promuovendo l’uguaglianza sociale e la collettivizzazione dei beni. Tuttavia, questo portò anche a una forte repressione politica, a una limitazione delle libertà individuali e a una censura culturale.
Nel mezzo di questo scenario di tumulto politico e sociale, il protagonista del romanzo, il dottor Yuri Živago, un medico e poeta, naviga tra le sfide personali e le difficoltà esterne. Il romanzo esplora temi universali come l’amore, la guerra, la perdita e l’identità individuale, offrendo anche una critica implicita al regime comunista e alla sua influenza sulla vita quotidiana delle persone.
La citazione si inserisce perfettamente in quell’ambientazione, esprimendo il conflitto psicologico del protagonista e di molte altre persone nel dover vivere in un ambiente in cui l’ipocrisia è diventata la norma. Ogni qualvolta le esigenze umane individuali divergono in modo estremo dalle pressioni sociali e politiche, si genera una tensione che indica il livello di disarmonia tra la necessità di conformarsi alle aspettative della società imposte dal regime e il desiderio di mantenere un senso di integrità e coerenza interiore.
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Tramonto d'Inferno di Antonella Di Martino: Un Thriller Psicologico tra Vita e Morte. Recensione di Alessandria today
Antonella Di Martino esplora l'oscurità della mente umana in un thriller avvincente dove poche ore possono cambiare tutto.
Antonella Di Martino esplora l’oscurità della mente umana in un thriller avvincente dove poche ore possono cambiare tutto. In Tramonto d’Inferno, Antonella Di Martino ci presenta una storia di tensione e introspezione, un thriller psicologico che si svolge in poche, cruciali ore al tramonto. La narrazione segue Max, un uomo la cui decisione sembra irrevocabile: togliersi la vita prima che arrivi…
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NON È FACILE…SIGNIFICA CHE NON ESISTE PIÙ RISPETTO. TRADIRE È UNA SCELTA, E SE SI DESIDERA ANDARE CON UN’ALTRA PERSONA, BASTA CHIUDERE LA RELAZIONE. INUTILE TROVARE BANALI, PIETOSE, MESCHINE SCUSE.
AFFRONTARE IL TRADIMENTO NELLE RELAZIONI: Cause, Conseguenze e Come Sopravvivere
Il tradimento all'interno delle relazioni è un tema complesso e doloroso che può avere un impatto devastante sulla fiducia e sull'equilibrio emotivo dei partner coinvolti. In questo articolo, esploreremo le cause del tradimento, le conseguenze che può avere e come le persone possono affrontare questa difficile situazione.
✅Cause del Tradimento:
Il tradimento può essere causato da una serie di fattori, che vanno dall'insoddisfazione emotiva alla curiosità. Alcune cause comuni includono:
➡️Insoddisfazione Relazionale: Quando uno o entrambi i partner si sentono trascurati, non compresi o insoddisfatti nella relazione, potrebbero essere più inclini a cercare conforto altrove.
➡️Fattori Emotivi e Psicologici: Problemi di autostima, bisogno di conferma o desiderio di avventura possono spingere alcune persone al tradimento.
➡️Opportunità: La vicinanza costante ad altre persone, come colleghi o amici, può creare opportunità per il tradimento.
➡️Problemi di Comunicazione: Una mancanza di comunicazione aperta e onesta nella relazione può portare a incomprensioni e conflitti, aprendo la strada al tradimento.
✅Conseguenze del Tradimento:
Il tradimento può avere conseguenze a breve e lungo termine, sia per i partner coinvolti che per la relazione stessa:
➡️Perdita di Fiducia: Il tradimento distrugge la fiducia, che è uno dei pilastri fondamentali di qualsiasi relazione sana.
➡️Dolore Emotivo: Il partner tradito può sperimentare una gamma di emozioni, tra cui rabbia, tristezza, confusione e senso di abbandono.
➡️Rottura della Relazione: Molti rapporti non riescono a sopravvivere al tradimento, portando alla rottura definitiva.
➡️Effetti sulla Salute Mentale: Il tradimento può avere un impatto negativo sulla salute mentale, causando ansia, depressione e stress.
✅Come Affrontare il Tradimento:
Affrontare il tradimento è un processo difficile che richiede tempo, pazienza e impegno da entrambe le parti:
➡️Comunicazione Aperta: Discutere apertamente dei sentimenti, delle ragioni e delle conseguenze del tradimento può essere il primo passo verso la guarigione.
➡️Considerare la Terapia: La consulenza individuale o di coppia può aiutare a esplorare le dinamiche sottostanti e a sviluppare strategie per la ricostruzione.
➡️Tempo per la Guarigione: Sia il partner tradito che l'infedele hanno bisogno di tempo per elaborare le emozioni e cercare di superare l'evento.
➡️Ricostruzione della Fiducia: La ricostruzione della fiducia richiede sforzo costante, trasparenza e dimostrazione di impegno da parte dell'infedele.
✅In conclusione, il tradimento è un argomento complesso e doloroso che può sconvolgere profondamente le relazioni. Tuttavia, con comunicazione aperta, impegno e tempo, alcune coppie riescono a superare questa difficile sfida e a ricostruire la loro connessione. È importante ricordare che ogni situazione è unica e che la decisione su come procedere spetta alle persone coinvolte.
Roberto Cavaliere Psicoterapeuta
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ISTITUTO ITALIANO PER GLI STUDI FILOSOFICI
PERCHÈ LA GUERRA? Carteggio Albert Einstein - Sigmund Freud
Lettera di Einstein a Freud - Gaputh (Potsdam), 30 luglio 1932
Caro signor Freud,
La proposta, fattami dalla Società delle Nazioni e dal suo “Istituto internazionale di cooperazione intellettuale” di Parigi, di invitare una persona di mio gradimento a un franco scambio d’opinioni su un problema qualsiasi da me scelto, mi offre la gradita occasione di dialogare con Lei circa una domanda che appare, nella presente condizione del mondo, la più urgente fra tutte quelle che si pongono alla civiltà. La domanda è: C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra? E’: ormai risaputo che, col progredire della scienza moderna, rispondere a questa domanda è divenuto una questione di vita o di morte per la civiltà da noi conosciuta, eppure, nonostante tutta la buona volontà, nessun tentativo di soluzione è purtroppo approdato a qualcosa.
Penso anche che coloro cui spetta affrontare il problema professionalmente e praticamente divengano di giorno in giorno più consapevoli della loro impotenza in proposito, e abbiano oggi un vivo desiderio di conoscere le opinioni di persone assorbite dalla ricerca scientifica, le quali per ciò stesso siano in grado di osservare i problemi del mondo con sufficiente distacco. Quanto a me, l’obiettivo cui si rivolge abitualmente il mio pensiero non m’aiuta a discernere gli oscuri recessi della volontà e del sentimento umano. Pertanto, riguardo a tale inchiesta, dovrò limitarmi a cercare di porre il problema nei giusti termini, consentendoLe così, su un terreno sbarazzato dalle soluzioni più ovvie, di avvalersi della Sua vasta conoscenza della vita istintiva umana per far qualche luce sul problema. Vi sono determinati ostacoli psicologici di cui chi non conosce le scienze mentali ha un vago sentore, e di cui tuttavia non riesce a esplorare le correlazioni e i confini; sono convinto che Lei potrà suggerire metodi educativi, più o meno estranei all’ambito politico, che elimineranno questi ostacoli.
Essendo immune da sentimenti nazionalistici, vedo personalmente una maniera semplice di affrontare l’aspetto esteriore, cioè organizzativo, del problema: gli Stati creino un’autorità legislativa e giudiziaria col mandato di comporre tutti i conflitti che sorgano tra loro. Ogni Stato si assuma l’obbligo di rispettare i decreti di questa autorità, di invocarne la decisione in ogni disputa, di accettarne senza riserve il giudizio e di attuare tutti i provvedimenti che essa ritenesse necessari per far applicare le proprie ingiunzioni. Qui s’incontra la prima difficoltà: un tribunale è un’istituzione umana che, quanto meno è in grado di far rispettare le proprie decisioni, tanto più soccombe alle pressioni stragiudiziali. Vi è qui una realtà da cui non possiamo prescindere: diritto e forza sono inscindibili, e le decisioni del diritto s’avvicinano alla giustizia, cui aspira quella comunità nel cui nome e interesse vengono pronunciate le sentenze, solo nella misura in cui tale comunità ha il potere effettivo di impone il rispetto del proprio ideale legalitario. Oggi siamo però lontanissimi dal possedere una organizzazione sovrannazionale che possa emettere verdetti di autorità incontestata e imporre con la forza di sottomettersi all’esecuzione delle sue sentenze. Giungo così al mio primo assioma: la ricerca della sicurezza internazionale implica che ogni Stato rinunci incondizionatamente a una parte della sua libertà d’azione, vale a dire alla sua sovranità, ed è assolutamente chiaro che non v’è altra strada per arrivare a siffatta sicurezza.
L’insuccesso, nonostante tutto, dei tentativi intesi nell’ultimo decennio a realizzare questa meta ci fa concludere senz’ombra di dubbio che qui operano forti fattori psicologici che paralizzano gli sforzi. Alcuni di questi fattori sono evidenti. La sete di potere della classe dominante è in ogni Stato contraria a qualsiasi limitazione della sovranità nazionale. Questo smodato desiderio di potere politico si accorda con le mire di chi cerca solo vantaggi mercenari, economici. Penso soprattutto al piccolo ma deciso gruppo di coloro che, attivi in ogni Stato e incuranti di ogni considerazione e restrizione sociale, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi, soltanto un occasione per promuovere i loro interessi personali e ampliare la loro personale autorità.
Tuttavia l’aver riconosciuto questo dato inoppugnabile ci ha soltanto fatto fare il primo passo per capire come stiano oggi le cose. Ci troviamo subito di fronte a un’altra domanda: com’è possibile che la minoranza ora menzionata riesca ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e da perdere? (Parlando della maggioranza non escludo i soldati, di ogni grado, che hanno scelto la guerra come loro professione convinti di giovare alla difesa dei più alti interessi della loro stirpe e che l’attacco è spesso il miglior metodo di difesa.) Una risposta ovvia a questa domanda sarebbe che la minoranza di quelli che di volta in volta sono a1 potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò le consente di organizzare e sviare i sentimenti delle masse rendendoli strumenti della propria politica.
Pure, questa risposta non dà neanch’essa una soluzione completa e fa sorgere una ulteriore domanda: com’è possibile che la massa si lasci infiammare con i mezzi suddetti fino al furore e all’olocausto di sé?
Una sola risposta si impone: perché l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di distruggere. In tempi normali la sua passione rimane latente, emerge solo in circostanze eccezionali; ma è abbastanza facile attizzarla e portarla alle altezze di una psicosi collettiva. Qui, forse, è il nocciolo del complesso di fattori che cerchiamo di districare, un enigma che può essere risolto solo da chi è esperto nella conoscenza degli istinti umani.
Arriviamo così all’ultima domanda. Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione? Non penso qui affatto solo alle cosiddette masse incolte. L’esperienza prova che piuttosto la cosiddetta “intellighenzia” cede per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto diretto con la rozza realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata.
Concludendo: ho parlato sinora soltanto di guerre tra Stati, ossia di conflitti internazionali. Ma sono perfettamente consapevole del fatto che l’istinto aggressivo opera anche in altre forme e in altre circostanze (penso alle guerre civili, per esempio, dovute un tempo al fanatismo religioso, oggi a fattori sociali; o, ancora, alla persecuzione di minoranze razziali). Ma la mia insistenza sulla forma più tipica, crudele e pazza di conflitto tra uomo e uomo era voluta, perché abbiamo qui l’occasione migliore per scoprire i mezzi e le maniere mediante i quali rendere impossibili tutti i conflitti armati.
So che nei Suoi scritti possiamo trovare risposte esplicite o implicite a tutti gli interrogativi posti da questo problema che è insieme urgente e imprescindibile. Sarebbe tuttavia della massima utilità a noi tutti se Lei esponesse il problema della pace mondiale alla luce delle Sue recenti scoperte, perché tale esposizione potrebbe indicare la strada a nuovi e validissimi modi d’azione.
Molto cordialmente Suo
Albert Einstein
La risposta di Freud
Caro signor Einstein,
Quando ho saputo che Lei aveva intenzione di invitarmi a uno scambio di idee su di un tema che Le interessa e che Le sembra anche degno dell’interesse di altri, ho acconsentito prontamente. Mi aspettavo che Lei avrebbe scelto un problema al limite del conoscibile al giorno d’oggi, cui ciascuno di noi, il fisico come lo psicologo, potesse aprirsi la sua particolare via d’accesso, in modo che da diversi lati s’incontrassero sul medesimo terreno. Lei mi ha pertanto sorpreso con la domanda su che cosa si possa fare per tenere lontana dagli uomini la fatalità della guerra. Sono stato spaventato per prima cosa dall’impressione della mia - starei quasi per dire: della nostra - incompetenza, poiché questo mi sembrava un compito pratico che spetta risolvere agli uomini di Stato. Ma ho compreso poi che Lei ha sollevato la domanda non come ricercatore naturale e come fisico, bensì come amico dell’umanità, che aveva seguito gli incitamenti della Società delle Nazioni così come fece l’esploratore polare Fridtjof Nansen allorché si assunse l’incarico di portare aiuto agli affamati e alle vittime senza patria della guerra mondiale. Ho anche riflettuto che non si pretende da me che io faccia proposte pratiche, ma che devo soltanto indicare come il problema della prevenzione della guerra si presenta alla considerazione di uno psicologo. Ma anche a questo riguardo quel che c’era da dire è gia stato detto in gran parte nel Suo scritto. In certo qual modo Lei mi ha tolto un vantaggio, ma io viaggio volentieri nella sua scia e mi preparo perciò a confermare tutto ciò che Lei mette innanzi. nella misura in cui lo svolgo più ampiamente seguendo le mie migliori conoscenze (o congetture).
Lei comincia con il rapporto tra diritto e forza. È certamente il punto di partenza giusto per la nostra indagine. Posso sostituire la parola “forza” con la parola più incisiva e più dura “violenza”? Diritto e violenza sono per noi oggi termini opposti. È facile mostrare che l’uno si è sviluppato dall’altro e, se risaliamo ai primordi della vita umana per verificare come ciò sia da principio accaduto, la soluzione del problema ci appare senza difficoltà. Mi scusi se nel seguito parlo di ciò che è universalmente noto come se fosse nuovo; la concatenazione dell’insieme mi obbliga a farlo.
I conflitti d’interesse tra gli uomini sono dunque in linea di principio decisi mediante l’uso della violenza. Ciò avviene in tutto il regno animale, di cui l’uomo fa inequivocabilmente parte; per gli uomini si aggiungono, a dire il vero, anche i conflitti di opinione, che arrivano fino alle più alte cime dell’astrazione e sembrano esigere, per essere decisi, un’altra tecnica. Ma questa è una complicazione che interviene più tardi. Inizialmente, in una piccola orda umana, la maggiore forza muscolare decise a chi dovesse appartenere qualcosa o la volontà di chi dovesse essere portata ad attuazione. Presto la forza muscolare viene accresciuta o sostituita mediante l’uso di strumenti; vince chi ha le armi migliori o le adopera più abilmente. Con l’introduzione delle armi la superiorità intellettuale comincia già a prendere il posto della forza muscolare bruta, benché lo scopo finale della lotta rimanga il medesimo: una delle due parti, a cagione del danno che subisce e dell’infiacchimento delle sue forze, deve essere costretta a desistere dalle proprie rivendicazioni od opposizioni. Ciò è ottenuto nel modo più radicale quando la violenza toglie di mezzo l’avversario definitivamente, vale a dire lo uccide. Il sistema ha due vantaggi, che l’avversario non può riprendere le ostilità in altra occasione e che il suo destino distoglie gli altri dal seguire il suo esempio. Inoltre l’uccisione del nemico soddisfa un’inclinazione pulsionale di cui parlerò più avanti. All’intenzione di uccidere subentra talora la riflessione che il nemico può essere impiegato in mansioni servili utili se lo s’intimidisce e lo si lascia in vita. Allora la violenza si accontenta di soggiogarlo, invece che ucciderlo. Si comincia così a risparmiare il nemico, ma il vincitore da ora in poi ha da fare i conti con la smania di vendetta del vinto, sempre in agguato, e rinuncia in parte alla propria sicurezza.
Questo è dunque lo stato originario, il predominio del più forte, della violenza bruta o sostenuta dall’intelligenza. Sappiamo che questo regime è stato mutato nel corso dell’evoluzione, che una strada condusse dalla violenza al diritto, ma quale? Una sola a mio parere: quella che passava per l’accertamento che lo strapotere di uno solo poteva essere bilanciato dall’unione di più deboli. L’union fait la force. La violenza viene spezzata dall’unione di molti, la potenza di coloro che si sono uniti rappresenta ora il diritto in opposizione alla violenza del singolo. Vediamo così che il diritto è la potenza di una comunità. È ancora sempre violenza, pronta a volgersi contro chiunque le si opponga, opera con gli stessi mezzi, persegue gli stessi scopi; la differenza risiede in realtà solo nel fatto che non è più la violenza di un singolo a trionfare, ma quella della comunità. Ma perché si compia questo passaggio dalla violenza al nuovo diritto deve adempiersi una condizione psicologica. L’unione dei più deve essere stabile, durevole. Se essa si costituisse solo allo scopo di combattere il prepotente e si dissolvesse dopo averlo sopraffatto, non si otterrebbe niente. Il prossimo personaggio che si ritenesse più forte ambirebbe di nuovo a dominare con la violenza, e il giuoco si ripeterebbe senza fine. La comunità deve essere mantenuta permanentemente, organizzarsi, prescrivere gli statuti che prevengano le temute ribellioni, istituire organi che veglino sull’osservanza delle prescrizioni - le leggi - e che provvedano all’esecuzione degli atti di violenza conformi alle leggi. Nel riconoscimento di una tale comunione di interessi s’instaurano tra i membri di un gruppo umano coeso quei legami emotivi, quei sentimenti comunitari sui quali si fonda la vera forza del gruppo.
Con ciò, penso, tutto l’essenziale è gia stato detto: il trionfo sulla violenza mediante la trasmissione del potere a una comunità più vasta che viene tenuta insieme dai legami emotivi tra i suoi membri. Tutto il resto sono precisazioni e ripetizioni.
La cosa è semplice finché la comunità consiste solo di un certo numero di individui ugualmente forti. Le leggi di questo sodalizio determinano allora fino a che punto debba essere limitata la libertà di ogni individuo di usare la sua forza in modo violento, al fine di rendere possibile una vita collettiva sicura. Ma un tale stato di pace è pensabile solo teoricamente, nella realtà le circostanze si complicano perché la comunità fin dall’inizio comprende elementi di forza ineguale, uomini e donne, genitori e figli, e ben presto, in conseguenza della guerra e dell’assoggettamento, vincitori e vinti, che si trasformano in padroni e schiavi. Il diritto della comunità diviene allora espressione dei rapporti di forza ineguali all’interno di essa, le leggi vengono fatte da e per quelli che comandano e concedono scarsi diritti a quelli che sono stati assoggettati. Da allora in poi vi sono nella comunità due fonti d’inquietudine - ma anche di perfezionamento - del diritto. In primo luogo il tentativo di questo o quel signore di ergersi al di sopra delle restrizioni valide per tutti, per tornare dunque dal regno del diritto a quello della violenza; in secondo luogo gli sforzi costanti dei sudditi per procurarsi più potere e per vedere riconosciuti dalla legge questi mutamenti, dunque, al contrario, per inoltrarsi dal diritto ineguale verso il diritto uguale per tutti. Questo movimento in avanti diviene particolarmente notevole quando si danno effettivi spostamenti dei rapporti di potere all’interno della collettività, come può accadere per l’azione di molteplici fattori storici. Il diritto si può allora conformare gradualmente ai nuovi rapporti di potere, oppure, cosa che accade più spesso, la classe dominante non è pronta a tener conto di questo cambiamento, si giunge all’insurrezione, alla guerra civile, dunque a una temporanea soppressione del diritto e a nuove testimonianze di violenza, in seguito alle quali viene instaurato un nuovo ordinamento giuridico. C’è anche un’altra fonte di mutamento del diritto, che si manifesta solo in modi pacifici, cioè la trasformazione dei membri di una collettività, ma essa appartiene a un contesto che può essere preso in considerazione solo più avanti.
Vediamo dunque che anche all’interno di una collettività non può venire evitata la risoluzione violenta dei conflitti. Ma le necessità e le coincidenze di interessi che derivano dalla vita in comune sulla medesima terra favoriscono una rapida conclusione di tali lotte, e le probabilità che in queste condizioni si giunga a soluzioni pacifiche sono in continuo aumento. Uno sguardo alla storia dell’umanità ci mostra tuttavia una serie ininterrotta di conflitti tra una collettività e una o più altre, tra unità più o meno vaste, città, paesi, tribù, popoli, Stati, conflitti che vengono decisi quasi sempre mediante la prova di forza della guerra. Tali guerre si risolvono o in saccheggio o in completa sottomissione, conquista dell’una parte ad opera dell’altra. Non si possono giudicare univocamente le guerre di conquista. Alcune, come quelle dei Mongoli e dei Turchi, hanno arrecato solo calamità, altre al contrario hanno contribuito alla trasformazione della violenza in diritto avendo prodotto unità più grandi, al cui interno la possibilità di ricorrere alla violenza venne annullata e un nuovo ordinamento giuridico riuscì a comporre i conflitti. Così le conquiste dei Romani diedero ai paesi mediterranei la preziosa pax romana. La cupidigia dei re francesi di ingrandire i loro possedimenti creò una Francia pacificamente unita, fiorente. Per quanto ciò possa sembrare paradossale, si deve tuttavia ammettere che la guerra non sarebbe un mezzo inadatto alla costruzione dell’agognata pace “eterna”, poiché potrebbe riuscire a creare quelle più vaste unità al cui interno un forte potere centrale rende impossibili ulteriori guerre. Tuttavia la guerra non ottiene questo risultato perché i successi della conquista di regola non sono durevoli; le unità appena create si disintegrano, perlopiù a causa della insufficiente coesione delle parti unite forzatamente. E inoltre la conquista ha potuto fino ad oggi creare soltanto unificazioni parziali, anche se di grande estensione, e sono proprio i conflitti sorti all’interno di queste unificazioni che hanno reso inevitabile il ricorso alla violenza. Così l’unica conseguenza di tutti questi sforzi bellici è che l’umanità ha sostituito alle continue guerricciole le grandi guerre, tanto più devastatrici quanto meno frequenti.
Per quanto riguarda la nostra epoca, si impone la medesima conclusione a cui Lei è giunto per una via più breve. Una prevenzione sicura della guerra è possibile solo se gli uomini si accordano per costituire un’autorità centrale, al cui verdetto vengano deferiti tutti i conflitti di interessi. Sono qui chiaramente racchiuse due esigenze diverse: quella di creare una simile Corte suprema, e quella di assicurarle il potere che le abbisogna. La prima senza la seconda non gioverebbe a nulla. Ora la Società delle Nazioni è stata concepita come suprema potestà del genere, ma la seconda condizione non è stata adempiuta; la Società delle Nazioni non dispone di forza propria e può averne una solo se i membri della nuova associazione - i singoli Stati - gliela concedono. Tuttavia per il momento ci sono scarse probabilità che ciò avvenga. Ci sfuggirebbe il significato di un’istituzione come quella della Società delle Nazioni, se ignorassimo il fatto che qui ci troviamo di fronte a un tentativo coraggioso, raramente intrapreso nella storia dell’umanità e forse mai in questa misura. Essa è il tentativo di acquisire mediante il richiamo a determinati princìpi ideali l’autorità (cioè l’influenza coercitiva) che di solito si basa sul possesso della forza. Abbiamo visto che gli elementi che tengono insieme una comunità sono due: la coercizione violenta e i legami emotivi tra i suoi membri (ossia, in termini tecnici, quelle che si chiamano identificazioni). Nel caso in cui venga a mancare uno dei due fattori non è escluso che l’altro possa tener unita la comunità. Le idee cui ci si appella hanno naturalmente un significato solo se esprimono importanti elementi comuni ai membri di una determinata comunità. Sorge poi il problema: Che forza si può attribuire a queste idee? La storia insegna che una certa funzione l’hanno pur svolta. L’idea panellenica, per esempio, la coscienza di essere qualche cosa di meglio che i barbari confinanti, idea che trovò così potente espressione nelle anfizionie, negli oracoli e nei Giuochi, fu abbastanza forte per mitigare i costumi nella conduzione della guerra fra i Greci, ma ovviamente non fu in grado di impedire il ricorso alle armi fra le diverse componenti del popolo ellenico, e neppure fu mai in grado di trattenere una città o una federazione di città dallo stringere alleanza con il nemico persiano per abbattere un rivale. Parimenti il sentimento che accomunava i Cristiani, che pure fu abbastanza potente, non impedì durante il Rinascimento a Stati cristiani grandi e piccoli di sollecitare l’aiuto del Sultano nelle loro guerre intestine. Anche nella nostra epoca non vi è alcuna idea cui si possa attribuire un’autorità unificante del genere. È fin troppo chiaro che gli ideali nazionali da cui oggi i popoli sono dominati spingono in tutt’altra direzione. C’è chi predice che soltanto la penetrazione universale del modo di pensare bolscevico potrà mettere fine alle guerre, ma in ogni caso siamo oggi ben lontani da tale meta, che forse sarà raggiungibile solo a prezzo di spaventose guerre civili. Sembra dunque che il tentativo di sostituire la forza reale con la forza delle idee sia per il momento votato all’insuccesso. È un errore di calcolo non considerare il fatto che il diritto originariamente era violenza bruta e che esso ancor oggi non può fare a meno di ricorrere alla violenza.
Posso ora procedere a commentare un’altra delle Sue proposizioni. Lei si meraviglia che sia tanto facile infiammare gli uomini alla guerra, e presume che in loro ci sia effettivamente qualcosa, una pulsione all’odio e alla distruzione, che è pronta ad accogliere un’istigazione siffatta. Di nuovo non posso far altro che convenire senza riserve con Lei. Noi crediamo all’esistenza di tale istinto e negli ultimi anni abbiamo appunto tentato di studiare le sue manifestazioni. Mi consente, in proposito, di esporLe parte della teoria delle pulsioni cui siamo giunti nella psicoanalisi dopo molti passi falsi e molte esitazioni?
Noi presumiamo che le pulsioni dell’uomo siano soltanto di due specie, quelle che tendono a conservare e a unire - da noi chiamate sia erotiche (esattamente nel senso di Eros nel Convivio di Platone) sia sessuali, estendendo intenzionalmente il concetto popolare di sessualità, - e quelle che tendono a distruggere e a uccidere; queste ultime le comprendiamo tutte nella denominazione di pulsione aggressiva o distruttiva.
Lei vede che propriamente si tratta soltanto della dilucidazione teorica della contrapposizione tra amore e odio, universalmente nota, e che forse è originariamente connessa con la polarità di attrazione e repulsione che interviene anche nel Suo campo di studi. Non ci chieda ora di passare troppo rapidamente ai valori di bene e di male. Tutte e due le pulsioni sono parimenti indispensabili, perché i fenomeni della vita dipendono dal loro concorso e dal loro contrasto. Ora, sembra che quasi mai una pulsione di un tipo possa agire isolatamente, essa è sempre legata - vincolata, come noi diciamo - con un certo ammontare della controparte, che ne modifica la meta o, talvolta, solo così ne permette il raggiungimento. Per esempio, la pulsione di autoconservazione è certamente esotica, ma ciò non toglie che debba ricorrere all’aggressività per compiere quanto si ripromette. Allo stesso modo la pulsione amorosa, rivolta a oggetti, necessita un quid della pulsione di appropriazione, se veramente vuole impadronirsi del suo oggetto. La difficoltà di isolare le due specie di pulsioni nelle loro manifestazioni ci ha impedito per tanto tempo di riconoscerle.
Se Lei è disposto a proseguire con me ancora un poco, vedrà che le azioni umane rivelano anche una complicazione di altro genere. E’ assai raro che l’azione sia opera di un singolo moto pulsionale, il quale d’altronde deve essere già una combinazione di Eros e distruzione. Di regola devono concorrere parecchi motivi similmente strutturati per rendere possibile l’azione. Uno dei Suoi colleghi l’aveva già avvertito, un certo professor G. C. Lichtenberg, che insegnava fisica a Gottinga al tempo dei nostri classici; ma forse egli era anche più notevole come psicologo di quel che fosse come fisico. Egli scoprì la rosa dei moventi, nell’atto in cui dichiarò: “I motivi per i quali si agisce si potrebbero ripartire come i trentadue venti e indicarli con nomi analoghi, per esempio ‘Pane-Pane-Fama’ o ‘Fama-Fama-Pane’.” Pertanto, quando gli uomini vengono incitati alla guerra, è possibile che si destino in loro un’intera serie di motivi consenzienti, nobili e volgari, quelli di cui si parla apertamente e altri che vengono taciuti. Non è il caso di enumerarli tutti. Il piacere di aggredire e distruggere ne fa certamente parte; innumerevoli crudeltà della storia e della vita quotidiana confermano la loro esistenza e la loro forza. Il fatto che questi impulsi distruttivi siano mescolati con altri impulsi, erotici e ideali, facilita naturalmente il loro soddisfacimento. Talvolta, quando sentiamo parlare delle atrocità della storia, abbiamo l’impressione che i motivi ideali siano serviti da paravento alle brame di distruzione; altre volte, trattandosi per esempio crudeltà della Santa Inquisizione, che i motivi ideali fossero preminenti nella coscienza, mentre i motivi distruttivi recassero loro un rafforzamento inconscio. Entrambi i casi sono possibili.
Ho qualche scrupolo ad abusare del Suo interesse, che si rivolge alla prevenzione della guerra e non alle nostre teorie. Tuttavia vorrei intrattenermi ancora un attimo sulla nostra pulsione distruttiva, meno nota di quanto richiederebbe la sua importanza. Con un po’ di speculazione ci siamo convinti che essa opera in ogni essere vivente e che la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stato della materia inanimata. Con tutta serietà le si addice il nome di pulsione di morte, mentre le pulsioni erotiche stanno a rappresentare gli sforzi verso la vita. La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva allorquando, con l’aiuto di certi organi, si rivolge all’esterno, verso gli oggetti. L’essere vivente protegge, per così dire, la propria vita distruggendone una estranea. Una parte della pulsione di morte, tuttavia, rimane attiva all’interno dell’essere vivente e noi abbiamo tentato di derivare tutta una serie di fenomeni normali e patologici da questa interiorizzazione della pulsione distruttiva. Siamo perfino giunti all’eresia di spiegare l’origine della nostra coscienza morale con questo rivolgersi dell’aggressività verso l’interno. Noti che non è affatto indifferente se questo processo è spinto troppo oltre in modo diretto; in questo caso è certamente malsano. Invece il volgersi di queste forze pulsionali alla distruzione nel mondo esterno scarica l’essere vivente e non può non avere un effetto benefico. Ciò serve come scusa biologica a tutti gli impulsi esecrabili e pericolosi contro i quali noi combattiamo. Si deve ammettere che essi sono più vicini alla natura di quanto lo sia la resistenza con cui li contrastiamo e di cui ancora dobbiamo trovare una spiegazione. Forse Lei ha l’impressione che le nostre teorie siano una specie di mitologia, in questo caso neppure festosa. Ma non approda forse ogni scienza naturale in una sorta di mitologia? Non è così oggi anche per Lei, nel campo della fisica?
Per gli scopi immediati che ci siamo proposti da quanto precede ricaviamo la conclusione che non c’è speranza di poter sopprimere le tendenze aggressive degli uomini. Si dice che in contrade felici, dove la natura offre a profusione tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno, ci sono popoli la cui vita scorre nella mitezza. presso cui la coercizione e l’aggressione sono sconosciute. Posso a malapena crederci; mi piacerebbe saperne di più, su questi popoli felici. Anche i bolscevichi sperano di riuscire a far scomparire l’aggressività umana, garantendo il soddisfacimento dei bisogni materiali e stabilendo l’uguaglianza sotto tutti gli altri aspetti tra i membri della comunità. Io la ritengo un’illusione. Intanto, essi sono diligentemente armati, e fra i modi con cui tengono uniti i loro seguaci non ultimo è il ricorso all’odio contro tutti gli stranieri. D’altronde non si tratta, come Lei stesso osserva, di abolire completamente l’aggressività umana; si può cercare di deviarla al punto che non debba trovare espressione nella guerra.
Partendo dalla nostra dottrina mitologica delle pulsioni, giungiamo facilmente a una formula per definire le vie indirette di lotta alla guerra. Se la propensione alla guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all’antagonista di questa pulsione: l’Eros. Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra. Questi legami possono essere di due tipi. In primo luogo relazioni che pur essendo prive di meta sessuale assomiglino a quelle che si hanno con un oggetto d’amore. La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: “ama il prossimo tuo come te stesso”.
Ora, questo è un precetto facile da esigere, ma difficile da attuare. L’altro tipo di legame emotivo è quello per identificazione. Tutto ciò che provoca solidarietà significative tra gli uomini risveglia sentimenti comuni di questo genere, le identificazioni. Su di esse riposa in buona parte l’assetto della società umana.
L’abuso di autorità da Lei lamentato mi suggerisce un secondo metodo per combattere indirettamente la tendenza alla guerra. Fa parte dell’innata e ineliminabile diseguaglianza tra gli uomini la loro distinzione in capi e seguaci. Questi ultimi sono la stragrande maggioranza, hanno bisogno di un’autorità che prenda decisioni per loro, alla quale perlopiù si sottomettono incondizionatamente. Richiamandosi a questa realtà, si dovrebbero dedicare maggiori cure, più di quanto si sia fatto finora all’educazione di una categoria superiore di persone dotate di indipendenza di pensiero, inaccessibili alle intimidazioni e cultrici della verità, alle quali dovrebbe spettare la guida delle masse prive di autonomia. Che le intrusioni del potere statale e la proibizione di pensare sancita dalla Chiesa non siano favorevoli ad allevare cittadini simili non ha bisogno di dimostrazione. La condizione ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione. Nient’altro potrebbe produrre un’unione tra gli uomini così perfetta e così tenace, perfino in assenza di reciproci legami emotivi. Ma secondo ogni probabilità questa è una speranza utopistica. Le altre vie per impedire indirettamente la guerra sono certo più praticabili, ma non promettono alcun rapido successo. E’ triste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la gente muore di fame prima di ricevere la farina.
Vede che, quando si consulta il teorico estraneo al mondo per compiti pratici urgenti, non ne vien fuori molto. E’ meglio se in ciascun caso particolare si cerca di affrontare il pericolo con i mezzi che sono a portata di mano. Vorrei tuttavia trattare ancora un problema, che nel Suo scritto Lei non solleva e che m’interessa particolarmente. Perché ci indigniamo tanto contro la guerra, Lei e io e tanti altri, perché non la prendiamo come una delle molte e penose calamità della vita? La guerra sembra conforme alla natura, pienamente giustificata biologicamente, in pratica assai poco evitabile. Non inorridisca perché pongo la domanda. Al fine di compiere un’indagine come questa è forse lecito fingere un distacco di cui in realtà non si dispone. La risposta è: perché ogni uomo ha diritto alla propria vita, perché la guerra annienta vite umane piene di promesse, pone i singoli individui in condizioni che li disonorano, li costringe, contro la propria volontà, a uccidere altri individui, distrugge preziosi valori materiali, prodotto del lavoro umano, e altre cose ancora. Inoltre la guerra nella sua forma attuale non dà più alcuna opportunità di attuare l’antico ideale eroico, e la guerra di domani, a causa del perfezionamento dei mezzi di distruzione, significherebbe lo sterminio di uno o forse di entrambi i contendenti. Tutto ciò è vero e sembra così incontestabile che ci meravigliamo soltanto che il ricorso alla guerra non sia stato ancora ripudiato mediante un accordo generale dell’umanità. Qualcuno dei punti qui enumerati può evidentemente essere discusso: ci si può chiedere se la comunità non debba anch’essa avere un diritto sulla vita del singolo; non si possono condannare nella stessa misura tutti i tipi di guerra; finché esistono stati e nazioni pronti ad annientare senza pietà altri stati e altre nazioni, questi sono necessitati a prepararsi alla guerra. Ma noi vogliamo sorvolare rapidamente su tutto ciò, giacché non è questa la discussione a cui Lei mi ha impegnato. Ho in mente qualcos’altro, credo che la ragione principale per cui ci indigniamo contro la guerra è che non possiamo fare a meno di farlo. Siamo pacifisti perché dobbiamo esserlo per ragioni organiche: ci è poi facile giustificare il nostro atteggiamento con argomentazioni.
So di dovermi spiegare, altrimenti non sarò capito. Ecco quello che voglio dire: Da tempi immemorabili l’umanità è soggetta al processo dell’incivilimento (altri, lo so, chiamano più volentieri questo processo: civilizzazione). Dobbiamo ad esso il meglio di ciò che siamo divenuti e buona parte di ciò di cui soffriamo.
Le sue cause e origini sono oscure, il suo esito incerto, alcuni dei suoi caratteri facilmente visibili. Forse porta all’estinzione del genere umano, giacché in più di una guisa pregiudica la funzione sessuale, e già oggi si moltiplicano in proporzioni più forti le razze incolte e gli strati arretrati della popolazione che non quelli altamente coltivati. Forse questo processo si può paragonare all’addomesticamento di certe specie animali; senza dubbio comporta modificazioni fisiche; tuttavia non ci si è ancora familiarizzati con l’idea che l’incivilimento sia un processo organico di tale natura. Le modificazioni psichiche che intervengono con l’incivilimento sono invece vistose e per nulla equivoche. Esse consistono in uno spostamento progressivo delle mete pulsiona!i. Sensazioni che per i nostri progenitori erano cariche di piacere, sono diventate per noi indifferenti o addirittura intollerabili; esistono fondamenti organici del fatto che le nostre esigenze ideali, sia etiche che estetiche, sono mutate. Dei caratteri psicologici della civiltà, due sembrano i più importanti: il rafforzamento dell’intelletto, che comincia a dominare la vita pulsionale, e l’interiorizzazione dell’aggressività, con tutti i vantaggi e i pericoli che ne conseguono. Orbene, poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più; non si tratta soltanto di un rifiuto intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale, per così dire della massima idiosincrasia. E mi sembra che le degradazioni estetiche della guerra non abbiano nel nostro rifiuto una parte molto minore delle sue crudeltà.
Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è una speranza utopistica che l’influsso di due fattori - un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo indovinarlo. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra.
La saluto cordialmente e Le chiedo scusa se le mie osservazioni L’hanno delusa.
Suo Sigm. Freud
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Jelena Dokić
https://www.unadonnalgiorno.it/jelena-dokic/
Jelena Dokić, tennista che, nel 2002 ha raggiunto la quarta posizione nella classifica mondiale.
Oggi è un’allenatrice, scrittrice e commentatrice televisiva.
Nata a Osijek, in Croazia, il 12 aprile 1983, è professionista dal 1998 e ha vinto sei titoli WTA in singolo e quattro in doppio.
Nel 2000 ha raggiunto la semifinale a Wimbledon e alle Olimpiadi di Sydney.
Si era trasferita a Sydney, in Australia, dove ha preso la cittadinanza, nel 1994, con la famiglia, a causa dei conflitti jugoslavi.
Precoce talento nel tennis, a 16 anni è già nelle classifiche mondiali.
Nel 2001, in polemica con l’organizzazione degli Australian Open, è tornata a Belgrado dove ha preso la nazionalità serbo-montenegrina, pur rimanendo cittadina australiana. Ma questa permanenza ha coinciso con una fase terribile della sua carriera, è scesa fino alla 349ª posizione del ranking mondiale e dichiarato di non voler avere più niente a che fare con suo padre che le faceva da allenatore.
Solo molti anni dopo, nella sua biografia dal titolo Unbreakable, ha raccontato di essere stata vittima di forti e ripetuti abusi fisici, verbali e mentali, da parte del padre, Damar Dokic, considerato uno dei genitori più violenti e pericolosi nella storia del tennis.
Nel 2005 era tornata in Australia e partecipato a vari tornei, ma aveva perso la carica e la forza dei primi anni.
Si è ritirata definitivamente nel 2014.
Ha iniziato, quindi, a lavorare come commentatrice televisiva e pubblicato la sua autobiografia, in cui ha raccontato la sua vita di sofferenze e tentativi di suicidio.
Afflitta da ipertiroidismo, ha preso molto peso, entrando in una continua altalena di forma fisica.
Utilizza i social media per scrivere post motivazionali e molto personali, spesso dedicati alla salute mentale. Contro il body-shaming, ha mostrato tre foto scattate in momenti diversi della sua vita, domandando se fosse meno degna nella foto in cui pesava 120 chili rispetto a un’altra in cui era in perfetta forma atletica. Ha raccontato di essersi rifugiata nel cibo per sfuggire ai traumi e di quanto sia importante non giudicare le persone per il loro aspetto e restare sempre gentili.
Ha raccontato degli abusi ricevuti dal padre da bambina e da adolescente e che lui non fosse stato soddisfatto neppure dopo la semifinale di Wimbledon nel 2000.
Unbreakable parla dell’esistenza di una persona vulnerabile, cresciuta tra abusi fisici e psicologici da parte di un padre che non si è mai scrollato di dosso le ferite del passato e che non è mai riuscito a fare pace con se stesso, riversando le sue frustrazioni sulla figlia. Hanno provato un riavvicinamento, ma non è stato possibile perché l’uomo continua a restare arroccato nelle sue ragioni. Nel libro ha raccontato di quanto le percosse fossero dolorose, anche se non arrivavano mai al punto di impedirle di giocare a tennis. Si è lamentata di come il mondo dello sport abbia preferito voltarsi dall’altra parte anche se, ella stessa, quando la federazione australiana di tennis ha denunciato le violenze nei suoi confronti, aveva difeso pubblicamente il padre. Era talmente assuefatta ai maltrattamenti che li viveva come se fossero normali, fino a quando non ha trovato la forza ed è scappata di notte portandosi via soltanto le sue racchette.
Urlare al mondo la propria sofferenza è stato sicuramente liberatorio e per questo ha deciso di usare post motivanti per altre persone che soffrono.
Ha confessato anche di aver tentato il suicidio, ma tra alti e bassi, continua ad essere una grande professionista del mondo del tennis che adesso vive fuori dal campo e una donna coraggiosa che, nonostante le mille cicatrici, prova ad andare avanti e resistere.
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Bussano alla porta, Bussano alla porta, il film diretto da James Cameron, è il sequel in live action del film campione d'incassi Avatar del 2009. La storia è ambientata diversi anni dopo gli eventi visti nel primo Avatar. Ritroveremo i due protagonisti Jake Sully (Sam Worthington) e Neytiri (Zoe Saldana) ancora insieme e con figli al seguito, pronti a esplorare lo sconfinato mondo di Pandora e ad affrontare nuovi conflitti con l'umanità. La coppia si troverà inoltre a fare i conti con i problemi coniugali, legati all'educazione dei propri figli. È la storia della famiglia Sully, ma anche di un popolo che dovrà affrontare diversi pericoli, nuove battaglie e tragedie per capire fin dove è disposto ad arrivare pur di tenersi al sicuro e sopravvivere.
Scheda del film Bussano alla porta
Data di uscita: 14 dicembre 2023 Genere: Avventura, Fantascienza, Azione Anno: 2023 Regia: James Cameron Attori: Sam Worthington, Zoe Saldana, Kate Winslet, Sigourney Weaver, Edie Falco, Jamie Flatters, Michelle Yeoh, Britain Dalton, Jack Champion, Bailey Bass, Stephen Lang, Joel David Moore, Trinity Jo-Li Bliss, Jemaine Clement, Matt Gerald, Cliff Curtis, Giovanni Ribisi, Oona Chaplin, CCH Pounder, Keston John, Brendan Cowell, Chloe Coleman Paese: USA Durata: 190 min Formato: 2D e 3D Distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures Sceneggiatura: James Cameron, Josh Friedman Fotografia: Russell Carpenter Montaggio: David Brenner, James Cameron, John Refoua, Stephen E. Rivkin, Ian Silverstein Musiche: Simon Franglen Produzione: Twentieth Century Fox, TSG Entertainment, Lightstorm Entertainment
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Leggi Anche Bussano alla porta Film
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Disregolazione emotiva in adolescenza caratteristiche
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Disregolazione emotiva in adolescenza caratteristiche
L’adolescenza è un periodo di notevoli cambiamenti fisici, emotivi e psicologici. Durante questo periodo, gli adolescenti possono sperimentare una vasta gamma di emozioni e possono avere difficoltà a gestirle in modo efficace. La disregolazione emotiva può essere definita come l’incapacità di gestire in modo adeguato le emozioni o di regolare adeguatamente l’intensità o la durata delle emozioni.
Alcune caratteristiche della disregolazione emotiva in adolescenza possono includere:
Fluttuazioni emotive: gli adolescenti possono passare rapidamente da un’emozione all’altra, senza una transizione fluida.
Intensità emotiva: le emozioni degli adolescenti possono essere molto intense e difficili da gestire.
Comportamenti impulsive: gli adolescenti possono agire impulsivamente in risposta alle emozioni, senza pensare alle conseguenze a lungo termine.
Emozioni negative: gli adolescenti possono avere difficoltà a gestire le emozioni negative come la tristezza, la frustrazione o l’ansia.
Comunicazione emotiva: gli adolescenti possono avere difficoltà a esprimere le loro emozioni in modo adeguato o a comprendere le emozioni degli altri.
Se un adolescente sta sperimentando una disregolazione emotiva grave o persistente, può essere utile cercare l’aiuto di un professionista della salute mentale per gestire queste emozioni in modo più efficace.
Come affrontare l’adolescenza di un figlio
Gestire un adolescente può essere un compito impegnativo, soprattutto durante i periodi di cambiamento e di sviluppo intenso che si verificano durante l’adolescenza. Tuttavia, ci sono alcuni modi per gestire un adolescente in modo efficace:
Ascoltare: è importante dare a un adolescente la possibilità di esprimere le proprie opinioni e sentimenti. Cerca di ascoltare attentamente e di comprendere ciò che stanno cercando di dire, anche se non sei d’accordo con loro.
Fornire supporto: gli adolescenti hanno bisogno di supporto durante i loro cambiamenti e sviluppi. Cerca di fornire loro un ambiente sicuro e stabile in cui possono crescere e sperimentare.
Impostare limiti chiari: è importante impostare limiti chiari e coerenti per aiutare gli adolescenti a sviluppare un senso di responsabilità e autocontrollo. Assicurati di spiegare le tue aspettative e di far rispettare i limiti in modo coerente.
Dare loro spazio: gli adolescenti hanno bisogno di privacy e di tempo per sperimentare la loro indipendenza. Cerca di rispettare questo bisogno, ma assicurati di mantenere una certa supervisione per garantire la loro sicurezza.
Fornire opportunità di decisione: gli adolescenti hanno bisogno di imparare a prendere decisioni e a gestire le conseguenze delle loro azioni. Cerca di fornire loro opportunità di fare scelte e di gestire le conseguenze delle loro azioni in modo sicuro.
Mostrare amore e affetto: gli adolescenti hanno ancora bisogno di amore e affetto, anche se potrebbero non sembrarlo. Mostra loro il tuo amore e il tuo affetto in modo costante e sincero.
Gestire un adolescente può essere impegnativo, ma con pazienza, comprensione e amore, puoi aiutare il tuo adolescente a crescere in modo sicuro e sano.
Conflitto Genitori e Figli
Il conflitto tra genitori e figli in adolescenza è normale e può essere una parte naturale dello sviluppo e dell’indipendenza dei figli. Tuttavia, il conflitto eccessivo o cronico può essere difficile per tutti e può avere effetti negativi sulla relazione e sullo sviluppo emotivo e sociale del figlio.
Ci sono alcune cause comuni di conflitto tra genitori e figli in adolescenza:
Cambiamenti nei ruoli familiari: gli adolescenti stanno sperimentando l’indipendenza e cercando di definire se stessi come individui separati dai genitori. Questo può portare a conflitti sulla responsabilità e sui doveri all’interno della famiglia.
Differenze di opinioni e valori: gli adolescenti stanno anche sviluppando le loro opinioni e valori e possono avere punti di vista differenti da quelli dei genitori. Questo può portare a conflitti su argomenti come il comportamento, le relazioni o le decisioni future.
Comunicazione: la comunicazione inadeguata o difficile può essere una causa comune di conflitto tra genitori e figli in adolescenza. Gli adolescenti possono avere difficoltà a esprimere i loro sentimenti o a comprendere quelli dei genitori.
Per gestire il conflitto tra genitori e figli in adolescenza, è importante cercare di comprendere i punti di vista dell’altra parte e cercare di comunicare in modo aperto e rispettoso.
Inoltre, è importante cercare di stabilire limiti chiari e coerenti e offrire supporto emotivo e pratico durante questo periodo di cambiamento. Se il conflitto diventa eccessivo o cronico, può essere utile cercare l’aiuto di un professionista della salute mentale per gestire meglio queste dinamiche familiari.
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La “whistleblower” che ha messo nei guai Facebook Domenica, nel corso del programma televisivo 60 Minutes del canale statunitense CBS, Frances Haugen, ex dipendente di Facebook, ha rivelato di essere la whistleblower di una serie di inchieste su Facebook pubblicate negli ultimi giorni dal Wall Street Journal (...) Le inchieste hanno rivelato come il social network avrebbe privilegiato i profitti alla lotta contro la disinformazione, e sarebbe stato a conoscenza dei potenziali effetti negativi che questa scelta avrebbe avuto sulla salute mentale delle persone. Nell’intervista a 60 Minutes, Haugen ha detto che «la cosa che ho visto dentro Facebook più e più volte era che c’erano conflitti di interesse tra ciò che era utile per le persone e ciò che era utile per Facebook. E Facebook, più e più volte, ha scelto di ottimizzare i propri interessi, come fare più soldi». Frances Haugen ha 37 anni, è un’ingegnera informatica statunitense e per 15 anni ha lavorato in grandi società tecnologiche, come Google e Pinterest. (...) Al suo team erano stati dati tre mesi per realizzare un sistema che potesse rilevare violazioni di questo tipo, un tempo che lei considerava troppo esiguo per un compito così grande: il team, infatti, non era poi riuscito a fare quanto richiesto. Haugen ha detto che dentro Facebook c’erano gruppi che avevano compiti enormi, come ad esempio il team responsabile dell’individuazione e della lotta allo sfruttamento delle persone, di cui facevano parte però pochissime persone. Secondo Haugen, Facebook avrebbe volutamente scelto di non incentivare iniziative volte a migliorare la sicurezza degli utenti, per esempio assumendo più persone in questi gruppi. (...) Haugen, scoraggiata dalla mancanza di volontà da parte di Facebook di investire nel contrastare la diffusione delle notizie false, la sera stessa del 2 dicembre aveva deciso di scrivere a un giornalista del Wall Street Journal che l’aveva contattata in precedenza, e aveva iniziato a rivelare le informazioni riservate di cui era a conoscenza. Haugen ha detto che molti di questi documenti erano disponibili a tutti i dipendenti di Facebook, senza nessuna forma di protezione, su Facebook Workplace, la piattaforma utilizzata dai lavoratori del social network per lavorare in gruppo. Nei documenti riservati consegnati da Haugen ce n’era uno che mostrava come Facebook, nonostante avesse ricevuto un rapporto sui disagi psicologici provocati sugli adolescenti da Instagram (social network di proprietà di Facebook), non avesse preso nessuna iniziativa per risolvere il problema. A causa di quest’inchiesta, la sottocommissione per la protezione dei consumatori del Senato degli Stati Uniti ascolterà ora sia i dirigenti di Facebook sia Haugen. Prima di lasciare Facebook, Haugen aveva copiato di nascosto decine di migliaia di pagine di ricerche interne che mostravano come l’azienda avesse mentito sui progressi fatti per contrastare l’odio, la violenza e la disinformazione. Haugen ha detto che alla base del problema ci sarebbero stati gli algoritmi introdotti nel 2018, che secondo lei sarebbero stati pensati per aumentare l’engagement (il coinvolgimento degli utenti): e per Facebook, un modo facile per aumentare l’engagement sarebbe stato quello di pubblicare contenuti che instillassero paura e odio negli utenti. «È più facile infondere nelle persone la rabbia che altre emozioni», ha detto Haugen. Il Post
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Buongiornissimo amici eccoci come promesso al primo "momento frocio of the day" di questa Giornata. Oggi parleremo di sesso biologico, genere, ed identità di genere.
Sesso: è la categoria anatomo-biologica di appartenenza in base alla quale si può essere femmina, maschio, intersessuati (cioè con caratteri maschili e femminili.) o asessuati (ovvero l'assenza dei caratteri sessuali). Il sesso è determinato dall’interazione tra cromosomi e ormoni ed è biologico pertanto lo presentiamo tale alla nascita.
Genere: ruolo, comportamenti e attività che la società considera appropriati per maschi e femmine, ovvero quella veste pubblica vissuta e generalmente riconosciuta come bambina o bambino, ragazza o ragazzo, uomo o donna, frutto dell’interazione di fattori biologici, psicologici e sociali.
Per esempio: ho gli attributi femminili (sesso) e gli altri mi percepiscono donna (ruolo o genere).
Spesso «genere» e «sesso» vengono erroneamente scambiati.
Orientamento sessuale: indica il genere e le caratteristiche sessuali oggetto dell’attrazione erotico-affettiva: ne sono esempi l’omosessualità, l’eterosessualità, la bisessualità ecc.
Identità di genere: è la percezione profonda del proprio genere.
Risponde alla domanda: chi sono?
L’identità di genere non deriva necessariamente dalla biologia, e non riguarda l’orientamento sessuale. Nella maggioranza della popolazione, l’identità, il ruolo di genere e il sesso biologico corrispondono (persone “cisgender”). Prendiamo per esempio una donna cisgender: ho gli attributi femminili (sesso); mi sento donna (identità); gli altri mi percepiscono donna (ruolo o genere).
L’identità di genere è il modo in cui un individuo percepisce il proprio genere: questa consapevolezza interiore porta a dire “io sono uomo e mi sento tale” o “io sono donna e mi sento tale”. Esistono persone nelle quali l’identità di genere e sesso biologico non corrispondono: questa discordanza provoca una serie di conflitti interiori, di sofferenze e prende il nome di “disforia di genere” e viene diagnostica come disturbo dell’identità di genere (DIG).
Viene spesso confusa con il «ruolo di genere», cioè l’insieme di ruoli e comportamenti assegnati storicamente, culturalmente e antropologicamente a uomini e donne, da cui deriva il modo di dire «cose da maschi/femmine». Coloro che si oppongono alla supposta «ideologia di gender» sostengono, ad esempio, che criticare i ruoli tradizionalmente assegnati a uomini e donne significa voler confondere l’identità maschile con quella femminile e addirittura abolire le differenze tra i sessi.
Sono però concetti diversi: l’identità di genere indica un modo di percepire sé stessi (che non può essere modificato da interventi esterni, neppure da terapie psichiatriche), il ruolo di genere identifica invece un insieme di aspettative sociali e culturali rispetto a ciò che un uomo o una donna «devono» fare.
Si parla di «non conformità di genere» quando l’espressione esterna (abiti/comportamenti) non è conforme al sesso.
Agender: sono persone che identificano se stesse come "senza genere" ovvero non si riconoscono nel binariamo "maschile/femminile".
Cisgender: è un aggettivo usato per indicare una classe di identità di genere, in cui esiste una concordanza tra l’identità di genere del singolo individuo e il comportamento o ruolo considerato appropriato per il proprio sesso, ovvero “qualcuno a proprio agio con il genere che gli è stato assegnato alla nascita”. ”Cisgender” viene utilizzato in senso opposto a “transgender”.
Genderqueer/ genderfluid: è l’identità di genere che indica la persona che non si riconosce nel binarismo di genere uomo/donna. Questa persona può considerare la propria identità di genere come qualcosa di “altro” (una sorta di terzo genere a volte indicato come genere X), identificarsi con entrambi i generi, con nessuno dei due o con una combinazione di entrambi.
In genere, le persone genderqueer o genderfluid rifiutano la nozione che nel mondo esistano solo due generi, determinati sulla base del sesso della persona. Molti si identificano anche come transgender, un termine onnicomprensivo che include un’ampia gamma di persone, che intendono il proprio genere come diverso da quello assegnatogli alla nascita in base al sesso fisico. Le persone genderqueer possono transizionare fisicamente tramite operazioni chirurgiche, ormoni e altro ma possono anche decidere di non alterare i loro corpi. Possono anche solo transizionare di genere, assumendo in società abbigliamento e atteggiamenti di un genere diverso da quello a loro assegnato.
Bene amici, nella prossima puntata analizzeremo meglio tutto quanto riguardi la sfera Trans a partire dalla disforia di genere. Stay tuned per altre curiosità sul mondo LGBTQIA+ e che il frocio power sia con voi anche oggi ♥️🤟🌈
#se manca qualcosa sentitevi liberi di aggiungere#o di correggere ciò che ritenete errato#polpetta per il sociale#happy pride month 🌈#questo è uno dei miei argomenti prefe
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“L’uomo torturato dai propri diavoli si vendica intensamente contro il prossimo.” – Franz Kafka
#frase del giorno#franz kafka#vendetta#conflitti interiori#tormenti#pensiero del giorno blog#citazioni letterarie#lato oscuro#traumi psicologici#angoscia#proiezione psicologica
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Lo-fi hip hop: musica triste per fogli di calcolo
Che suono fa la quarantena? Lo-fi hip hop. Che suono fa l’orizzonte distopico della pandemia? Lo-fi hip hop. Che suono fa la generazione Z? Lo-fi hip hop. E la tristezza?, internet?, la produttività?, il relax? Lo-fi hip hop, senza dubbi.
Si esagera, ma per chiunque ci si avvicini il lo-fi hip hop sembra capace di rispecchiare porzioni sempre più estese di un sentire comune in maniera immediata, prima di qualsiasi forma di comprensione. Intercetta alcuni tratti del mondo di cui riflette in cambio una versione quintessenziale, il minimo comun denominatore o il simbolo di non si capisce bene cosa; o forse interseca il nucleo di pulsioni alla base delle sue manifestazioni più allucinate: una scatola nera che contiene un mistero o una verità al più basso grado di astrazione.
Molto suona come il lo-fi hip hop, ma è più difficile dire come suoni il lo-fi hip hop. Didascalicamente, è un genere musicale che nasce a metà degli anni dieci e si diffonde quasi interamente su internet, in un iniziale disinteresse dell’industria musicale per cui si crea il fenomeno (molto Gen Z) di artisti con milioni di ascolti che, paradossalmente, nessuno ha mai sentito.
Influenze e origini sono materia di discussione: muzak, smooth jazz, il chopped and screwed e il rap sperimentale di J-Dilla, precursore, padre e pioniere; la disperazione atmosferica del soundcloud rap. Allo stesso modo si inserisce nel continuum della internet-music nostalgica (hypnagocic pop, chillwave, hauntology, vaporwave): l’hip hop oggi è anche un’enorme piattaforma che rimedia le estetiche di generi musicali passati. Qui forse siamo al suo momento vapor.
I canali di diffusione più tipici sono le playlist curate su YouTube, che trasmettono live 24/7. I numeri sono da fenomeno globale: Chilled Cow, per fare un esempio, conta milioni di iscritti e la playlist “lo fi hip radio – beats to study/relax to” viene ascoltata stabilmente da migliaia di ascoltatori.
A marzo 2020 YouTube ne ha interrotto per sbaglio lo streaming, generando uno dei video più lunghi della piattaforma – tredicimila ore – creando una piccola rivolta sui social, che ha attirato l’attenzione della stampa, dell’industria discografica, dei memer, di Tik Tok.
Le playlist oggi sono nell’ordine delle centinaia e sono diffuse su tutti portali di streaming. Ascoltarle significa immergersi in un flusso infinito di tracce strumentali dai suoni lenti (tipicamente tra i 70 e i 90 Bpm – la trap, per capirci, sta sui 140), morbidi, malinconici e, soprattutto, ossessivamente ripetitivi. Il procedimento più tipico è il loop di una base hip hop, con spesso elementi sonori del jazz. Di solito la fruizione è passiva: è un sottofondo musicale per studiare o rilassarsi o lavorare – il fatto che siano considerate attività equivalenti ne costituisce uno degli aspetti più interessanti e dà al genere quel tocco di distopia che fa molto al passo coi tempi; di solito si tira in ballo, e probabilmente a ragione, l’erosione della differenza tra tempo del lavoro e tempo dello svago del capitalismo del XXI secolo (qui ne parla approfonditamente Elia Alovisi su Vice).
Il termine lo-fi sta per low-fidelity. Si riferisce alla pulizia del suono, che è bassa; è un suono sporco. Ma è una faglia concettuale che al netto della sonorità crea un solco in cui si tracciano i confini tra diverse estetiche contemporanee: secondo la distinzione di Adam Harper (si può leggere in Musica Hi-tech, di Riccardo Papacci, Aracne): di solito è lo-fi la musica di “controcultura”. Il suono sporco rimanda all’immediatezza e all’autenticità (il garage rock, il punk, l’indie rock, il grunge), a qualcosa di umano, al calore del passato e si oppone a tutto quello che ne costituisce il contrario: il mercato, il non umano, le macchine, i suoni digitali.
La trap è al versante opposto: è tutto accelerato: l’iperviolenza, l’identificazione spirituale con le campagne di posizionamento dei brand globali, l’immaginario sempre eccessivo, la sacralità dei soldi e l’autotune che disegna traiettorie vocali solo parzialmente umane. Oggi Lo-fi è una categoria slegata dal contesto tecnologico in cui nasce: i produttori aggiungono effetti che sporcano la qualità sonora su un materiale di partenza che di solito è pulito, per creare una patina analogica, nello stesso modo in cui si aggiunge la grana alla foto sui social.
Suoni lenti, artisti senza nome, malinconia, ritmi ossessivi e ipnotici, ossessione per il passato; un senso di stasi sonoro: l’effetto di queste playlist è quello di partecipare a un umore (Kina, producer italiano, tra i principali esponenti del genere, per riferirsi alle sue tracce parla di “mood”) o di esplorare un paesaggio emotivo. Qualcosa di caldo, dolce e accogliente che sa di calma, di un isolamento dal mondo, di casa o di un rifugio e cosparge i timpani di liquido amniotico; qualsiasi cosa stia nel punto logico opposto a un modo accelerato.
Tutto, veramente tutto, nel lo-fi hip hop cospira precisamente a produrre questa sensazione, come una formula alchemica. I beat strumentali teoricamente servono a studiare, rilassarsi o eccetera, ma come fai musicalmente a creare le condizioni per una concentrazione assorta? Qual è il non detto su cui si fonda questo discorso?
In realtà di non detto c’è poco ed è tutto in bella vista: basta scorrere le discussioni sulle live-chat, i commenti sotto le tracce su Youtube o le dichiarazioni dei musicisti per comprendere l’oro verso cui stanno correndo. “It’s the feeling of losing all my anxiety”, dice Beowulf a Mtv.
Fudasca, invece, altro esponente italiano, a Repubblica ha dichiarato che è una musica “motivazionale e generazionale”, che vuole essere “non una medicina, ma un aiuto” e va al punto senza mezzi termini “noi ci rivolgiamo a chi ha problemi di ansia o depressione, e tra quelli nella mia generazione sono in tanti” – incidentalmente, ha ragione, le statistiche denunciano numeri da epidemia su suicidi, ansia, depressione e solitudine per la generazione Z.
Che sia una musica che si prefigga uno scopo, per quanto vago, è evidente nel rapporto con il passato. Veniamo da almeno un decennio di discussioni sulla retromania della cultura contemporanea. La tesi di Simon Reynolds, semplificando, è che potendo disporre dell’enorme archivio di internet e incapaci di creare una novità stilistica, la cultura degli anni zero non ha fatto che riproporre in continuazione gli stili del passato. La nostalgia rimanda a una dimensione più semplice, più autentica e in fin dei conti a una verità più piena, più umana – il luogo dove attingere a dei depositi di senso di cui il presente sembra sprovvisto. “The genre”, dice ancora Beowulf, “is in itself nostalgia” e verrebbe da pensare di essersi trovati di fronte al ritorno in grande stile dellaretromania. Ma le cose sono più complesse.
Se prima il passato era un fine, un oggetto estetico in quanto tale (il vintage, per dirne una) qui la nostalgia è cosciente di sé, del suo uso e della sua funzione. Come i ritmi ossessivi, il rumori della pioggia, un certo immaginario kawaii che ne è la controparte visuale (la gif della sad girl che studia in loop), come i testi tristissimi o romanticissimi (di solito le tracce sono strumentali, ma non sempre, death bed, hit globale di Powfu, è letteralmente una fantasticheria di morte freudiana con tanto di “rifatti una vita, spero troverai qualcun altro, guarda il tuo futuro marito e suo figlio” sussurrato all’amata) insomma il passato come tutto il resto è uno strumento per creare il mooddelle tracce.
Infatti del passato è esibita la finzione. Può essere quella di un Giappone immaginario che rimanda all’infanzia o un passato inventato. Non ricordato, ma creato (e il pubblico ne è assolutamente cosciente: commento tipico su Youtube: mi fa sentire la mancanza della ragazza che non ho mai avuto). Nessuno zoomer si sognerebbe di aprire un hamburgeria gourmet e cercare il senso della vita nelle ricette autentiche di una volta, ma di passeggiare dentro quella nostalgia, di usare quel senso di calma per rendere tollerabile un presente spettrale ed esausto (e quindi usarla per lavorare, studiare), quello sì.
Non c’è un reale feticismo degli anni Ottanta, dei Novanta o di qualsiasi epoca più semplice: l’aspirazione più pura del lo-fi hip non è di “suonare come”, ma proprio quella di essere una benzodiazepina. Di produrre quel senso di dissociazione da sé stessi, di distanza dai propri conflitti irrisolti, di produrre il ronzio chimicamente indotto che sostituisce i pensieri e ossessivi e, muto, ti racconta che persona potresti essere senza i pesi psicologici che trascini.
Non è una novità, la xanax music è una tendenza che ha travalicato i generi e si è imposto come vero e proprio trend per tutti gli anni dieci. Innerva il nucleo bifronte della trap (a ogni Versace salmodiato dai Migos fa eco il Percocet – che è un forte antidolorifico a base oppiodi, in realtà – ripetuto ossessivamente da Future in Mask off) il pop malinconico di Lana Del Rey e qualsiasi cosa sia quello che fa Billie Eilish. Qui è nella sua forma pura, distillata.
Il rapporto tra la musica e la chimica è sempre stato una cartina di tornasole per indagare lo spirito del tempo: la voglia di un mondo nuovo della nuova stagione del rock è tutta nella visione degli psichidelici, le opposte pulsioni nichiliste del punk e della musica da club sono incorniciate idealmente dagli oppiodi e dalla cocaina. L’uso degli empatogeni nei rave, con la possibilità di creare qualcosa di simile a un amore infinito, ma per una sera, racconta tutto di una sottocultura che voleva creare degli spazi temporaneamente utopici.
Il suono ansiolitico del lo-fi hip hop resta contradditorio: è presto per capire quali sia la forma del desiderio di una generazione. Ma qualcosa si sente forte e chiaro, è detto con dolcezza ed è detto ossessivamente. Parla dell’ansia di un presente impossibile, lamenta la proverbiale assenza di alternative, la voglia di un rifugio dal quale navigare ed esprime una pulsione nichilista, una pulsione di morte, ma ecco, senza morte, la ricerca di vuoto lambito da una calma amniotica e da una tristezza pulviscolare. Più che un sogno o un desiderio, è uncerto modo di rifiutare capace di essere cinico e allo stesso tempo dolce, e però di rifiutare un intero mondo, in blocco.
lofi hip hop radio - beats to relax/study to: https://www.youtube.com/watch?v=5qap5aO4i9A
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Come si fa a capire se si è raggiunto il burnout? Il termine si può tradurre in italiano come “esaurimento”, quindi come un decadimento emotivo correlato allo stress da eccessivo lavoro, spiega Valzania. "Nello specifico, la sindrome da burnout è la conseguenza di una condizione stressante intensa e prolungata nel tempo che colpisce soggetti che esercitano professioni di aiuto. Negli ultimi anni, però, il termine è stato esteso a tutti quei contesti professionali che conducono il lavoratore a sperimentare esperienze altamente stressanti". I segnali di un possibile burnout possono essere di diverso tipo. Possono presentarsi dei sintomi fisici e psicosomatici, come emicranie, colon irritabile, insonnia e sintomi psicologici, come stati d’ansia, attacchi di panico, episodi depressivi. Secondo lo psicologo, questi sintomi si ripercuotono sulla sfera lavorativa con comportamenti come assenteismo, conflitti lavorativi, scarsa concentrazione, eccessivo affaticamento.
Dall’articolo "'Ho rischiato il burnout da smart working': così lavorare da casa per alcuni è diventato un incubo di Livia Liberatore
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T. Savage-IL POTERE DEL CANE. I mille volti dell'amore e dell'odio, in un territorio aspro, selvaggio e affascinante.
T. Savage-IL POTERE DEL CANE. I mille volti dell’amore e dell’odio, in un territorio aspro, selvaggio e affascinante.
Dal film al romanzo, e ritorno La storia dei Burbank mi aveva già catturato nell’omonimo film di Jane Campion, ma il romanzo di Thomas Savage, che lo ha ispirato, aggiunge emozioni che solo la parola scritta “bene” sa evocare. Sono gli anni 20 nel Montana, in quell’ America profonda dove tutto sembra fermo nel tempo, tranne le passioni, i conflitti psicologici, le onde tumultuose della vita.…
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COME AFFRONTARE LA PAURA DEL CONFLITTO E DIFENDERSI
Paura del Conflitto: Affrontare le Paure per Relazioni Salutari
Quando si sente parlare di una persona che ha paura del conflitto, è comune immaginare situazioni di aggressività, scontri o addirittura guerre. Questa associazione potrebbe derivare dalle esperienze vissute, dove il termine "conflitto" spesso coincide con la violenza o il rischio di arrivare a essa, rendendoci così riluttanti a fronteggiare situazioni difficili.
Tuttavia, è importante sottolineare che un conflitto non è necessariamente sinonimo di violenza, come scopriremo a breve.
Ma cosa significa realmente "conflitto"❓
Il conflitto è una situazione in cui una persona percepisce un'inerzia tra sé stessa e uno o più individui o fattori che sembrano ostacolare il proprio benessere, influenzando pensieri, emozioni e comportamenti.
Arthur Schopenhauer, il famoso filosofo tedesco, sosteneva che la vita umana fosse intrinsecamente caratterizzata da un eterno conflitto.
Nonostante ciò, molte persone preferiscono evitare le discussioni per mantenere la pace e il cosiddetto "quieto vivere". Questa tendenza a evitare il conflitto può portare alla formazione di una vera e propria fobia del conflitto, poiché il silenzio, sebbene inizialmente sembri una strategia difensiva efficace, può causare frustrazione a lungo termine.
Perché le persone temono il conflitto❓Queste persone manifestano sintomi comuni, caratterizzati da pensieri come "è meglio non fare o dire niente per evitare di far arrabbiare gli altri" o "non oserei dirlo perché potrei ferirli". Chi ha paura del conflitto spesso manca di intelligenza emotiva, ossia la capacità di riconoscere e gestire le proprie emozioni e quelle degli altri, oltre a motivare se stessi.
Queste persone sono preoccupate principalmente dall'immagine sociale che proiettano e tendono a evitare il confronto, cercando di mantenere una pace apparente a tutti i costi. Questo atteggiamento passivo alla lunga può portare a disagio e alla perdita della propria dignità.
È importante comprendere che il conflitto è un elemento naturale nelle relazioni umane, necessario per la crescita e la condivisione di idee e culture diverse. Evitare completamente il conflitto può portare alla repressione dei bisogni e alla formazione di disturbi fisici e psicologici, come l'ansia o gli attacchi di panico.
La paura del conflitto spesso ha radici profonde, come traumi passati o esperienze di litigi familiari non gestiti in modo efficace. Superare la paura del conflitto richiede il coraggio di affrontare queste paure e imparare a gestire i conflitti in modo costruttivo, permettendo alle parti coinvolte di trovare soluzioni vantaggiose per entrambi.
In conclusione, la pace non è l'assenza di conflitto, ma piuttosto la capacità di affrontarlo in modo creativo, in modo che entrambe le parti possano trarne beneficio. Affrontare le paure legate al conflitto è essenziale per costruire relazioni sane e per la crescita personale.
Tito Bisson
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Buongiorno... Tutti abbiamo dentro di noi dei conflitti irrisolti. Quando una persona non riesce ad essere sincera, dà vita a disturbi psicologici, sentimenti occulti di dolore relazionati alla bassa autostima, che possono assumere varie forme: attacchi d’ansia, continui cambi d’umore, colpevolezza, reazioni esagerate, tendenza al pessimismo e all’autodistruzione, neurosi e depressione. Ferite emotive con conseguenze fisiche come ulcera, ipertensione, disturbi cardiaci, alimentari, dermatologici, ecc, e altri fattori che non sono patologici, ma che generano dolore (timidezza, vergogna, paura, disturbi psicosomatici).©️L. Graziano https://www.instagram.com/p/CTRMgWdjF6P/?utm_medium=tumblr
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Il metodo scientifico e la grafologia
Traduzione: da un mio articolo pubblicato solo in esperanto sul sito https://pionirojdeesperanto.wordpress.com/2021/01/11/scienca-metodo-kaj-grafologio/
La scrittura è un momento dinamico che esprime la personalità dello scrivente ed imprime sulla carta delle caratteristiche osservabili.
Tramite la grafoanalisi si possono cogliere, come ribadisce il famoso grafologo Firmino Giacometti “l'interazione in atto e delle potenzialità innate, delle pulsioni, delle caratteristiche genetiche, e delle innumerevoli influenze ambientali prenatali e postnatali, sociali e culturali che vi intervengono”.
Alla fine, i grafologi sono arrivati al concetto generale che nei grafismi si trovano non solo inevitabili elementi innati, ma anche tracce dei conflitti causati da contraddizioni e frizioni interagenti tra ciò che è innato e ciò che è acquisito.
La Grafologia è una Scienza.
La Grafologia, da un punto di vista generale, viene considerata una Scienza sperimentale, mentre l'analisi grafologica tramite cui si attiva è di fatto un test psicodiagnostico.
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fonte dell'immagine: https://it.wikipedia.org/wiki/Grafologia#/media/File:Eh-dm-27.JPG
Sopra: questo è il modo di scrivere di Lou von Salomé, scrittrice e psicanalista tedesca, di provenienza russa, che aveva ispirato Nietzsche.
Quanto acuminato è tale modo di scrivere! La sua scrittura esprime una grande energia e vivacità. La scrivente è sicuramente una persona caparbia con un carattere risoluto. Questa è la prima impressione che un grafologo può cogliere di primo acchito osservandola.
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Come per il metodo scientifico:
la grafologia è un procedimento noto (pubblico). Contiene una descrizione esatta di ciò che va fatto e in che modo. Un altro specialista (del settore) è in condizione di seguire le fasi dell'indagine e ripeterle, se occorre
le definizioni e spiegazioni grafologiche sono chiare e precise (segni grafologici)
la raccolta dei dati è oggettiva: non c'è nessun preconcetto per acquisire informazioni valide che riguardano i fenomeni (in esame). Difatti, i segni grafologici sono misurabili e verificabili (la loro misurazione avviene specificatamente per ciascun segno, e in gradi - da un minimo di 1, poco significativo ma che può essere presente, fino ad un massimo di 10, il grado più elevato, che è difficile da raggiungere)
l'approccio, per quanto esso sia rivolto a delle particolarità, cioè alla scrittura di un singolo individuo, è sicuramente 'sistemico' e 'cumulativo' (permettendo di costruire una teoria da concetti centrali). Lo scopo è di traslare verbalmente e il più realisticamente possibile ciò che è stato espresso graficamente, per arrivare all'essenza della personalità, al suo nucleo.
gli scopi del lavoro sono la spiegazione, la comprensione e la previsione (o meglio la diagnosi), affinché il grafoanalista possa mostrare (e dimostrare) le condizioni che hanno prodotto alcuni risultati. Se egli è in grado di eseguire ciò, sarà anche capace di prevedere possibili simili risultati qualora quelle condizioni si ripresenteranno di nuovo. Naturalmente, poiché l'oggetto di studio è l'essere umano, e poiché nessun individuo è identico ad un altro, la faccenda è molto delicata. Relativamente al comportamento umano anche la possibilità di verifica è assai più delicata e richiede molta prudenza! Alla fine, sarà proprio l'analizzato che potrà riconoscersi nell'analisi.
Quando dico comportamento umano, e quando parlo di diagnosi, o condizioni o risultanze, mi riferisco non a specifici FATTI o ATTI ma metto in evidenza conseguenze o situazioni psicologiche che lo scrivente potrebbe attuare..... La volontà di compiere è del tutto libera e personale (si può parlare di libero arbitrio) e può dipendere anche da cause determinanti nella vita reale....
Qui sotto riproduco una immagine che assai bene riepiloga molto sinteticamente come avviene l’indagine psico-grafologica secondo il metodo originale di Girolamo Moretti, fondatore della Scuola grafologica italiana.
In Italia, è vero, è stato molto attivo anche Marchesan, ma egli era più attirato dagli aspetti psicologici da cui iniziava, per poi fare dei controlli sulla scrittura; per la segnica grafologica Marchesan ha preso molti spunti da Girolamo Moretti che, diversamente, è partito dai segni prodotti dal gesto grafico per arrivare a individuarne – su migliaia di campioni di scritture analizzate - le caratteristiche psicologiche. Egli è andato anche oltre: attraverso le combinazioni dei segni (sostanziali, modificanti e accidentali, oltre che fautori e contrari) sempre uniche e irripetibili, appartenenti a ciascun individuo, ha consentito di individuare più profondamente la vera natura psicologica dello scrivente.
#grafologia morettiana#metodo scientifico#analisi grafologiche#Lou von Salomé#Nietzsche#esperanto#pioniroj de esperanto#scuola grafologica italiana#Girolamo Moretti#scuola morettiana
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