#capolavori dimenticati
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pier-carlo-universe · 3 months ago
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Op Oloop – Un viaggio nei meandri della mente e della vita attraverso la penna di Juan Filloy. Recensione di Alessandria today
Con "Op Oloop", Juan Filloy ci regala una storia affascinante e surreale, dove il protagonista si perde nel calcolo e nell'ossessione per la perfezione.
Con “Op Oloop”, Juan Filloy ci regala una storia affascinante e surreale, dove il protagonista si perde nel calcolo e nell’ossessione per la perfezione. Recensione:“Op Oloop” di Juan Filloy è un romanzo straordinario che si colloca nel panorama della narrativa sperimentale latinoamericana, offrendo una narrazione che unisce il surreale con il filosofico. Il protagonista del libro, Op Oloop, è un…
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enkeynetwork · 3 months ago
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grlbts · 11 months ago
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capolavori dimenticati
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puntoelineamagazine · 1 year ago
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QUELLE CHE NON SUONO MAI
Foto: Flavio Pirini © Teatro della Contraddizione Teatro della Contraddizione – Milano Stagione Sperimentale 23/24 27 dicembre 2023 ore 20,45 QUELLE CHE NON SUONO MAI. Capolavori dimenticati del Maestro Pirini con Flavio Pirini (voce), Mell Morcone (pianoforte) Se nel prossimo 2054 lo studioso Flavio Pirini, musicologo pronipote e omonimo del celebre autore, capitasse nel ritrovamento di QUELLE…
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smellofthewolf · 3 years ago
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Recentemente, assieme a @totallyinsignificant ho ri-visto Buffy, la serie degli anni 90′ con la cara Sarah Michelle Gellar, che non penso abbia bisogno di presentazioni. Essendo una delle nostre serie preferite di quando eravamo giovini, volevamo prima di tutto vederla assieme per la prima volta e poi constatare se fosse invecchiata bene oppure no. Fate conto che io, per quanto adori un qualcosa tendo a rivederlo pochissime volte, per cui i miei ricordi sulla serie erano un mix tra il “mi ricordo esattamente ogni cosa” e il “non ricordo assolutamente nulla”. Detto questo eravamo anche reduci da un rewatch di Streghe, non andato a buon fine ahimé, poiché senza andarci pesanti non è stata di mio gradimento, per cui su Buffy ci siamo andati con i piedi di piombo. E se fosse invecchiata malissimo pure quella? E se il fatto che Joss Whedon sia apparentemente una persona fatta di cazzi mi rovinasse questo rewatch? E se Sarah Michelle Gellar non era un dono per tutta l’umanità come ci ricordavamo? Ok, quest’ultima cosa era ovviamente impossibile, ma i dubbi comunque c’erano. Però. Armati di coraggio e di curiosità, nonché di un pacco di fazzoletti dell’eurospin per tamponare le lacrime di tristezza e delusione, l’abbiamo iniziata. E nulla. È bella. Ragazzi è bella. Ok, la computer grafica è terribile, ma è normale, son passati pure degli anni. Tutto il resto però È BELLO . Penso che gli episodi meh si contino sulle dita di una mano, tutto il resto è bello. I problemi degli adolescenti alla fine, anche se si evolvono, se assumono altre forme a causa del mondo che va avanti, bene o male son sempre gli stessi e Buffy riesce a trasformarli nel mostro della settimana e a distruggerli. Ovvio, ci sono alcune cose che per forza bisogna contestualizzarle al periodo in cui andarono in onda, ma cavolo, oh, è bella. Anche oggi regge tantissimo. Per alcune cose oltretutto era super avanti rispetto ai tempi e anche le scene e i momenti che vengono definiti controversi da molti, sono super importanti e potentissimi. E i personaggi? Che belli tutti cavolo. Il mio prefe era Xander ai tempi. Ero un regazzino, per cui non vedevo i difetti, vedevo solo il nerd che parlava nei momenti meno opportuni dicendo cagate e mi ci rivedevo. Oggi rivedendolo pensavo: va che imbecille oh. Odiandolo pure spesso e volentieri per le scelte stupide ed egoiste che fa nella serie. Però proprio per quello, per l’insieme di difetti e problemi che lo rendono il rappresentante perfetto dell’animo umano, io lo adoro. La sua crescita è un sacco bella e in questo rewatch son riuscito ad empatizzare con lui ancora una volta. Infine una piccola menzione per alcuni episodi che non sono solo episodi belli di buffy, ma piccoli capolavori della storia delle serie tv. Per cui se vi siete un po’ dimenticati com’era Buffy, ma da giovani vi piaceva e avete paura di rivederlo, provateci, potreste rimanere piacevolmente sorpresi. Se invece siete giovani e pieni di spirito avventuresco e volete buttarvi in una serie teen ormai (piango) un po’ vintage (credo) dateci un’occhiata. Potrebbe essere una bella finestra sul passato in cui per assurdo ci si può ancora oggi rispecchiare. E niente, a volte vorrei proprio picchiare Joss Whedon sulla pianta dei piedi con una pianta grassa. Mannaggia a lui mannaggia.
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elvioravasio · 5 years ago
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Questo artista si chiama Guy Laramee e crea vere opere d’arte con vecchi libri dimenticati. Dei capolavori non credete? 😃😃 #books #toptags #book #read #reading #lovebooks #libro #booklove #booklover #instagood #booklovers #bookstagram #library #igreads #epicreads #bookworm #leitura #bookish #instabook #igreads #bookishescape #bookshelf #bookaddict #literature #lovebooks #bookoftheday #igbooks #readingforfun (presso Milano Navigli) https://www.instagram.com/p/CAFe6AxIDca/?igshid=km111alggu7r
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fotopadova · 5 years ago
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No, non è la Vivian Maier russa
di Carlo Maccà
-- C'era da aspettarselo. Dopo il fortunoso ritrovamento della Valigia Messicana con gli originali delle foto di Robert Capa, Jim Seymour e Gerda Taro (povera ragazza! vittima due volte: delle bombe dell'armata franchista e della pluripremiata fantabiografia d'una scrittrice che di fotografia non ne capiva una beata favola, volume presto ospite del mio cestino), e dopo il fortunato acquisto e disvelamento del baule di Vivian Maier (anch'essa oggetto di una biografia finta alla quale, vista la precedente esperienza, mi mancò l'ardire di accostarmi), c'era da aspettarsi che altri "inattesi" tesori venissero più o meno (ma sempre!) avventurosamente recuperati e poi offerti all'ammirazione del pubblico.
Non si vuole negare che possano esistere autori di corpus fotografici meritevoli d'essere scoperti o riscoperti. Quello che è avvenuto di recente per Gerda e Vivian, si era già prodotto in passato: si pensi, tanto per fare degli esempi, alle lastre fotografiche di Bellocq salvate da Lee Friedlander, all'Atget parigino valorizzato solo in fin di vita ma soprattutto dopo la morte da Berenice Abbott. Metterei nel numero anche Lartigue, che solo vicino ai settant'anni cominciò lui stesso a rivelare la stupefacente produzione fotografica della propria infanzia e adolescenza.  
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                                        E. J. Bellocq, da Storyville Portraits, c.a 1912.
Da un paio d'anni, con crescente frequenza, un altro baule sta riversando su tutti i media cartacei e virtuali, come dentro a sale d'esposizione in giro per l'Europa, il contenuto fotografico d'un baule russo. Niente d'illegale, niente d'illecito, nessun contrabbando. C'è solo vedere se il materiale merita veramente l'enfasi con cui viene presentato. Per esempio, Rassegna stampa/web di fotografia del mese di Dicembre 2019 curata dalla Redazione di Fotopadova riprendeva da http://www.artslife.com uno scritto di Massimo Mattioli dal titolo "La Vivian Maier russa. Esplode il caso di Masha Ivashintsova, grande fotografa scoperta dopo la morte". Un articolo su Il Fatto Quotidiano del 30 dicembre scorso enfatizzava in un'intera pagina il "Talento Svelato" di Masha: L'Unione Sovietica nascosta negli scatti di una donna - cautamente e saggiamente evitando ogni riferimento alla Maier. Costei invece era tirata in ballo fin dai titoli da innumerevoli siti di attualità d'arte e di fotografia italiani e stranieri che, in massa, si occuparono della miracolosa scoperta:
Masha Ivashintsova la Vivian Maier russa scoperta nel 2017
Masha Ivashintsova, una nuova Vivian Maier?
Masha Ivashintsova and the Discovery of the "Russian Vivian Maier"
https://www.darlin.it/inspiration/gli-splendidi-scatti-ritrovati-della-vivian-maier-russa/2/
https://www.artuu.it/2018/03/27/scoperta-la-vivian-maier-russa/curiosita/
https://cameranation.it/masha-ivashintsova-la-fotografa-ritrovata-come-vivian-maier-ma-in-russia/
Altri:
www.mardeisargassi.it/masha-ivashintsova-la-fotografa-ritrovata
https://www.internazionale.it/foto/2018/07/10/masha-ivashintsova-foto
il confronto lo fanno nel testo. E nemmeno il profilo della Russa in Wikipedia può esimersi di citare la bambinaia fotografa Franco-Americana.
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           Masha Ivashintsova,Tbilisi, Georgian SSR, 1989 vs. Vivian Maier
Soltanto un titolo è fuori dal coro; Masha Ivashintsova, non è la nuova Vivian Maier. (www.pmstudionews.com › NEWS › NEWS ultimissime!)  [il grassetto è nostro] ma il testo si limita a ripetere la negazione: " Nuova Vivian Maier? Non proprio" [il grassetto è nell'originale] senza giustificarla criticamente, accontentandosi di descrivere le condizioni politiche, sociali e culturali nelle quali Masha fotografava segretamente: che fossero totalmente diverse da quelle in cui la Maier viveva e che catturava, e involontariamente "immortalava", è fin troppo banale.
Banale è pure il fatto che la vicenda della Maier non venga mai apertamente citata in tutte le operazioni di Asya Melkumyan ai fini della promozione dell'opera della madre Masha Ivashintsova. Ciò non basta a evitare il sospetto che si tratti d'una operazione accuratamente pilotata a imitazione del fenomeno americano: la valigia dimenticata, il ritrovamento casuale, le fotografie mai mostrate a nessuno (non soltanto mai messe in mostra), i molti negativi non sviluppati ... In rete era stato postato perfino un filmato che ricostruiva la scoperta: la scaletta appoggiata al soppalco, la salita, l'estrazione della valigia attraverso la porticina, l'apertura del tesoro ... Molte delle fotografie presentate nel sito ufficiale (www.mashaivashintsova.com) includono nell'inquadratura anche i fori di trascinamento della pellicola 135, forse da intendere come certificazione di autenticità: DOCG, immagine come è uscita dal negativo ritrovato e mai stampata, e forse neppure sviluppata, dall'autrice?
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          Masha Ivashintsova, 1° Maggio, Leningrado, USSR, 1974, vs. Vivian Maier (1972?)
Ma il nodo principale della questione è: il richiamo a Vivian Maier avrebbe un significato sostanziale, oltre che episodico? significherebbe un approccio simile alla materia fotografata nella scelta dei soggetti e nel sentire nei loro riguardi - che è quello che conta? E qui non ci siamo. Manca del tutto in Masha lo sguardo pungente verso l'ambiente - soprattutto la strada -, la gente e la società russe, quello sguardo con cui la bambinaia franco-americana penetra la città in cui vive e i suoi abitanti, e spesso bersaglia con palese ironia. Sguardo che avvicina Vivian Maier allo zurighese Robert Frank (più che a Lisette Model, Diane Arbus, Walker Evans e ad altri citati da Geoff Dyer nella prefazione al primo - 2011 - dei numerosi libri a lei dedicati), come se quel tipo di sguardo fosse una peculiarità di osservatori che vengono dal di fuori.
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          Vivian Maier, New York, vs. Robert Frank, Prima cinematografica, Hollywood
Infatti, seppure newyorkese di nascita, ma di padre austriaco presto sparito all'orizzonte e di madre immigrata dalla Francia, Vivian aveva passato i suoi anni più formativi in Francia, assieme alla madre ritornata temporaneamente al paesello natio. Quando rientrò nella Grande Mela, poteva già guardarsi attorno con occhio disincantato. E, colla maturità, trovare un prodigioso equilibrio formale fra quello che vedeva con quell'occhio e valutava colla mente, e quello che inquadrava attraverso l'obiettivo e fissava sulla pellicola. O probabilmente già le rimaneva composto nella mente, tanto che non occorreva neppure che controllasse materialmente il risultato attraverso la stampa.
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          Robert Frank (Salone d'albergo - Miami Beach) vs Vivian Maier
Nulla a che fare coll'occhio bonario con cui la russa guardava la città, i passanti, i bambini, gli amici, gli amanti. E che fissava sulla pellicola con esiti livello amatoriale, seppure ottimo, ma non distinto da un particolare carattere personale.
La Maier è stata giustamente celebrata fin dalla prima uscita come fotografa di strada: Vivian Maier - Street Photographer è il titolo del libro con cui John Maloof la presentò al mondo anglosassone. La sua è fotografia di strada in tutti i sensi: come ambiente, come approccio pratico e come spirito. Perché non diventa street photography ogni fotografia fatta in istrada (mentre sono ormai accettate come tali immagini in ambienti differenti ma risultanti da un identico approccio fattuale e concettuale), ed è difficile trovare fotografie scattate da Masha in piazze o strade che appartengano pienamente e consapevolmente a tale categoria.
Quanto alla Maier, sarebbe importante sapere se il famoso cassone acquistato da Maloof contenesse anche il resto dell'archivio - libri, riviste e giornali - e se fra questo ci fosse materiale attinente alla fotografia. E se vi comparisse in qualche modo anche Ben Shahn, pittore molto in voga a quell'epoca, e fotografo da considerare il vero iniziatore della street photography in senso stretto (https://www.fotopadova.org/post/166879545573). Immigrato dalla Lituania da bambino assieme ai genitori ebrei, fu anch'egli capace di osservare la società e la cultura statunitense con un atteggiamento definibile come "partecipato distacco".
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          Vivian Maier vs Ben Shahn, July 4 Celebration, Ashville, Ohio, 1938.
Se proprio si vuole cercare un punto di contatto fra le personalità di Masha e di Vivian, lo si potrebbe trovare nel ricorso compulsivo all'autoritratto, sia diretto di fronte all'obiettivo, sia indiretto negli specchi e nelle vetrine. Ma questo riguarda un ambito che concerne il rapporto con il sè, piuttosto che con l'altro. Da affidare agli psicologi studiosi del dilagante fenomeno del selfie, piuttosto che alla critica fotografica.
Altri "fortunati ritrovamenti" di valigie, bauli, casse, cassette e cassettine, borse, buste, magari anche sacchi e zaini, si sono susseguiti dal Veneto al Molise, dall'Essex alla Moldavia, e probabilmente da una parte all'altra del mondo. Generalmente si tratta di depositi dimenticati di prodotti di professionisti o mestieranti di provincia, che possono interessare tutt'al più per la cronaca (non la Storia) del luogo e dei suoi abitanti. Oggetti nel migliore dei casi validi per manifestazioni e archivi locali, anche quando sono stati esaltati dai sagaci scopritori e dai loro eventuali esegeti come opere memorabili o finanche capolavori. Fra i loro sconosciuti o dimenticati autori, nessun Malik Sidibé.
Chi volesse portare avanti iniziative che possano valere come scoperte, dovrebbe piuttosto dedicarsi a recuperare e a riproporre l'opera di fotografi di grande valore del passato anche recente, che hanno dato un contributo originale all'avanzamento della fotografia nell'ambiente culturale in cui hanno lavorato, ma che inopinatamente sono passati nel dimenticatoio. Con Fotopadova si tenta di recuperare alla notorietà, nel ricordo delle opere di grande impatto esposte in varie occasioni a Padova attorno agli anni '60, il toscano Paolo Pellegrineschi, grande fotografo e maestro d'una generazione di fotografi toscani. La rete conserva solo rarissime, puramente casuali, tracce suo nome e si i ringrazia Libero Musetti per le presenti e future informazioni sull'autore che considera il proprio Maestro, e chiunque altro voglia contribuire con notizie e materiale in proprio possesso.
Oltre alle poche (5) immagini conservate nell’archivio 3M perché pubblicate nella Rivista Ferrania dal 1959 al 1965, altri documenti si dovranno cercare nelle riviste Tutti Fotografi e Popular Photography di quei decenni; introvabili finora i suoi tre libri sul ritratto fotografico, sul trattamento del negativo e sull’ingrandimento fotografico, che dovrebbero essere illustrati a titolo di esempio, da sue opere.
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Le immagini sono state ricavate, per finalità di diffusione culturale, dalle seguenti fonti:
Masha Ivashintsova: www.mashaivashintsova.com
Vivian Maier: Vivian Maier Fotografa, GEDI 2017
Robert Frank: Gli Americani, Contrasto 2008
Ben Shahn: Ben Shahn Photographer, Da Capo Press, 1973
E. J. Bellocq: Wikimedia Commons.
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rapstories · 5 years ago
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Mai giudicare un libro dalla copertina... e un disco? Perchè no!
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La musica, una forma d’arte che a primo impatto potrebbe sembrare puramente intangibile ed eterea, da decenni invece si serve anche del potenziale comunicativo delle immagini. L’apporto della comunicazione visiva delle cover di cassette, CD, vinili e altri supporti ha infatti plasmato in maniera innegabile l’immaginario non solo di moltissimi artisti, ma anche di interi generi, tra cui ovviamente il rap. Non dovremo quindi sorprenderci se anche tra vent’anni la nuova generazione di rapper dovrà vendere ancora copie fisiche, oltre ad aggiornare il proprio profilo Spotify (o almeno si spera), o qualunque altro sarà il metodo di fruizione della musica nel futuro. Possiamo dire con una buona dose di certezza che la copertina di un disco sarà fondamentale tra vent’anni come tra cent’anni, così come lo è stata e lo è tutt’ora. 
La cover è un aspetto estetico significativo dell’intenzione dell’artista: può essere lo specchio dei suoi interessi come può riassumere il contenuto dell’album. In altri casi può essere semplicemente un mero feticcio estetico, eppure - soprattutto in tempi come questi - il valore della componente estetica è inquantificabile. Che si limiti a restare nel booklet del CD o nella cover del vinile, oppure che si limiti ad essere un file .jpg utilizzato come cover negli store digitali, o ancora che finisca per essere stampato su migliaia e migliaia di accessori e capi di merchandising, l’iconografia di ciascun disco incide in maniera notevole sull’impatto che un disco ha sugli ascoltatori, sul mercato e in generale sulla cultura pop dei tempi correnti e, nel caso dei classici, su quella futura.
Il rap, genere nato grazie al recupero, al riutilizzo e alla rivisitazioni di canzoni e componimenti già esistenti, anche a livello grafico non è da meno: frequenti sono infatti le citazioni ad artisti, letterati, registi, fotografi e opere provenienti da altri generi e altri medium. Abbiamo deciso di analizzare due esempi piuttosto esplicativi di questa tendenza, ma scavando nel web - soprattutto declinando la ricerca al mondo del rap americano - i risultati sono tantissimi, fin troppi per essere raccolti in un solo elenco; servirebbe una vera e propria antologia.
Il primo esempio è “Quello Che Vi Consiglio Vol. 4″, il quarto capitolo della celebre saga di mixtape di Gemitaiz rapper che ha esordito nel 2009 e che nel decennio successivo si è imposto come una delle voci più autorevoli della scena italiana. La copertina di questa istallazione della saga, risalente al 2013, si ispira alla celeberrima foto di Eisenstaedt. Una cover che cita indirettamente le passione dell’artista per il cinema: nei suoi lavori possiamo trovare riferimenti a Gus Van Sant, Werner Herzog e altri cineasti che hanno ispirato i suoi testi, nonchè ad altri musicisti, autori - tra i più ricorrenti troviamo gli scrittori della beat generation, su tutti Jack Kerouac - e pittori. In questo caso la reinterpretazione dello scatto è tanto apparentemente impercettibile quanto d’effetto: Gemitaiz non si sostituisce agli iconici protagonisti dello scatto, anzi, si mischia allo sfondo. Una scelta che sembra stridere con la mania di protagonismo che è parte integrante dell’attitudine rap, ma che in realtà ben si sposa con l’immaginario del rapper romano, che si è sempre contraddistinto per la capacità di dar voce alle vite di tanti, alle vite dei dimenticati, soprattutto agli esordi della carriera. Nella cover torna a mimetizzarsi tra la folla, cosa che non può più fare nella vita reale a causa della notorietà, ma che gli riesce ancora bene quando prende un foglio e una penna per dedicarsi allo storytelling.
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Il secondo è “Persona“ di Marracash, attesissimo lavoro del rapper di Barona - storico quartiere di Milano -, che arriva a quattro anni di distanza dal suo ultimo lavoro solista. Indubbiamente il disco più atteso di questo 2019, che ha nuovamente consegnato Marracash all’Olimpo degli interpreti di questo genere in Italia, grazie ad un concept album dalle intenzioni tanto ambiziose quanto artisticamente impressionanti. L’album è infatti un’analisi introspettiva ma anche un fortissimo confronto tra Marracash e Fabio Rizzo - questo il nome dell’artista all’anagrafe -, tra persona e personaggio, tra ciò che siamo, ciò che pensiamo di essere e ciò che gli altri percepiscono di noi. E’ davvero possibile ritenere queste tre figure diverse? Esiste un “noi” in quanto noi, oppure esistiamo solo in virtù di ciò che vediamo riflesso di noi negli altri?
Si tratta di un argomento intrigante e complicato, già affrontato dal regista Ingmar Bergman in un film del 1966, dal titolo omonimo del disco di Marracash. La citazione ovviamente non è casuale, così come la scelta della cover del rapper, che ha rivisitato - anche se in maniera impercettibile - proprio una scena carica di pathos dell’opera cinematografica. Caratteristica dell’opera di Bergman è anche una forte natura metatestuale: il regista riflette sul cinema, e lo fa anche con scene d’impatto come quelle in cui si vede una pellicola bruciare o una mano bucata da un chiodo, come nei capisaldi del Surrealismo cinematografico europeo dei vari Buñuel e Léger. Bergman ispirò infatti fortemente il pensiero dei fautori della Nouvelle Vague come di altre correnti cinematografiche del continente, proprio grazie ai suoi lavori e le sue riflessioni tanto uniche da considerarlo uno dei registi più autorevoli della Settima Arte. In periodi dove mezzi semplici, attori semiprofessionisti e bianco e nero erano gli unici strumenti a disposizione, le opere del regista riuscivano e combinarli in un connubio perfetto, orientato all’analisi dell’essere umano. Questo non significa però che ciò che c’è stato prima vada però considerato scadente:così come i dischi precedenti di Marracash hanno tutti un proprio valore intrinseco, allo stesso modo i capolavori neorealisti hanno comunque giovato di importanti strutture e di mezzi di qualità distribuiti da aziende come la Ferrania Film, ricollegabile ai classici del Neorealismo italiano di Fellini e De Sica, incisi in maniera immortale proprio nelle pellicole Ferrania.
In Persona Marracash però non si addentra nel sentiero metatestuale, si limita ad abbracciare il percorso di autoanalisi, e il risultato è liricamente impressionante, sin dalla prima traccia, sin dal primo ascolto. Anche qui ritroviamo svariati riferimenti letterari, artistici e cinematografici, talmente tanti che è difficile tenere il conto. Ci aveva però già abituato a questo modus operandi: era il 2011, usciva il suo disco “King Del Rap”, e il video estratto dall’omonimo singolo era ispirato ad un’opera televisiva che aveva cresciuto l’intera generazione dei ‘90, ossia Willy Il Principe Di Bel Air. Che, guarda caso, in America non era solo un personaggio iconico, ma anche e soprattutto il nome dell’alter ego di Will Smith come rapper. 
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pleaseanotherbook · 6 years ago
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Best of 2018: I dieci libri più belli letti quest’anno
Stilare questa lista è sempre fare i conti con me stessa e le mie letture, fare un bilancio effettivo delle letture dell’anno, capire se il tempo che ho speso per certi libri ne è valso la pena. Vuol dire anche fare a pugni con la sfida di Goodreads e rendermi conto se l’ho vinta o no. Vuol dire concentrarmi su quello che ho letto e tirare fuori il meglio o il peggio. Quest’anno non è andata proprio benissimo, ho letto 91/100 e con tutta la buona volontà non so se avrei potuto fare di meglio. Oddio, considerando che spesso ho preferito cedere alla tentazione di maratonare “drama coreani” forniti dalla mia spacciatrice preferita *ciao Alaisse ciao*, forse avrei potuto leggere di più. Però alla fine fare il tifo per l’ennesima coppia sconclusionata e capire cosa vuol dire 감사 (grazie, per la cronaca), mi sembrava molto più gratificante, ma soprattutto rilassante.
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(Gif tratta dal mio drama preferito di quest’anno  This is my first life)
L’idea quest’anno è stata comunque uscire quanto più possibile dalla mia comfort zone, fatta di romance e distopie, che pure non sono mancate, ma sono di certo state accompagnate da sempre più letture di case editrici indipendenti e da scoperte notevoli. Innanzitutto ho iniziato un percorso per approfondire tematiche femministe che mi hanno portato anche a prendere in mano dei saggi, ma anche ad interrogarmi sul ruolo delle donne in libri di donne. A questo proposito ho creato uno scaffale sul mio profilo di Goodreads e scritto diversi articoli qui sul blog.
Ammetto però di non aver trovato il capolavoro della vita come altri anni ha reso stilare questa lista leggermente complicato. Si ho letto libri molto belli, libri che mi hanno fatto riflettere, libri che mi porterò a lungo nel cuore, eppure se ne devo pensare solo uno non ci riesco. Per fortuna non devo farlo, e anzi ve ne lascio ben 10, più qualche extra, che è sempre bello scoprirne di nuovi.
Enjoy!
Strange the dreamer di Laini Taylor
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È il sogno a scegliere il sognatore, e non il contrario: Lazlo Strange ne è sicuro, ma è anche assolutamente certo che il suo sogno sia destinato a non avverarsi mai. Orfano, allevato da monaci austeri che hanno cercato in tutti i modi di estirpare dalla sua mente il germe della fantasia, il piccolo Lazlo sembra destinato a un'esistenza anonima. Eppure il bambino rimane affascinato dai racconti confusi di un monaco anziano, racconti che parlano della città perduta di Pianto, caduta nell'oblio da duecento anni: ma quale evento inimmaginabile e terribile ha cancellato questo luogo mitico dalla memoria del mondo? I segreti della città leggendaria si trasformano per Lazlo in un'ossessione. Una volta diventato bibliotecario, il ragazzo alimenterà la sua sete di conoscenza con le storie contenute nei libri dimenticati della Grande Biblioteca, pur sapendo che il suo sogno più grande, ossia vedere la misteriosa Pianto con i propri occhi, rimarrà irrealizzato. Ma quando un eroe straniero, chiamato il Massacratore degli Dèi, e la sua delegazione di guerrieri si presentano alla biblioteca, per Strange il Sognatore si delinea l'opportunità di vivere un'avventura dalle premesse straordinarie.
Ho iniziato a leggere questo libro alla fine del 2017 e già sapevo che me ne sarei innamorata, così tanto che non ho ancora letto il secondo, perché lo ammetto, ne sono un po’ spaventata. La traduzione italiana, Il Sognatore, è uscita per la Fazi Editore, e a febbraio arriverà nelle nostre librerie anche il secondo. Un fantasy che non è solo un fantasy. Una storia estremamente evocativa, dal passo lento e maestoso, dall’atmosfera magica e sognante, in cui la guerra si avvicenda con la brama per la libertà, per un fantasy che non lascia scampo.
La mia recensione
Fame di Roxanne Gay
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In principio è il candore dei dodici anni. Quando pensi che nessuno a cui vuoi bene possa farti del male. Poi succede l'impensabile. Un atto di violenza feroce. E Roxane, annientata dalla vergogna, incapace di parlare o chiedere aiuto, comincia a mangiare, mangiare, mangiare. A barricarsi in un corpo che diventa ogni giorno più inespugnabile dagli sguardi maschili, una fortezza dove nessuno sarà più capace di raggiungerla. Quella di Roxane Gay è la storia di un desiderio insaziabile, di battaglie sempre perse contro un corpo ammutinato, di una lotta contro una cultura che spinge le donne a odiarsi se non corrispondono alle aspettative. Ma la fame di Roxane Gay è anche il motore della sua fenomenale spinta creativa e della sua sulfurea personalità. Oggi è un'intellettuale, attivista e scrittrice, una delle voci più rispettate della sua generazione. Soprattutto una donna che ha trovato le parole per raccontare la propria storia.
Ho scoperto Roxanne Gay per caso e non ho resistito alla voglia di leggere questo libro che è stato davvero illuminante, sia per le tematiche trattate, sia per lo stile dell’autrice. “Fame” mi ha scosso profondamente, mi ha colpito come poche storie prima. È terribile, affilato come un coltello che affonda direttamente nella coscienza. È il tentativo audace di rivelare un segreto e scopre un vaso di Pandora.
La mia recensione
The Penelopiad di Margaret Atwood
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Fedele e saggia, Penelope ha atteso per vent'anni il ritorno del marito che, dopo aver vinto la guerra di Troia, ha vagato per il Mar Mediterraneo sconfiggendo mostri e amoreggiando con ninfe, principesse e dee, facendo sfoggio di grande astuzia, coraggio e notevole fascino, e guadagnandosi così una fama imperitura. E intanto che cosa faceva Penelope, chiusa in silenzio nella sua reggia? Sappiamo che piangeva e pregava per il ritorno del marito, che cercava di tenere a bada l'impulsività del figlio adolescente, che si barcamenava per respingere le proposte dei Proci e conservare così il regno. Ma cosa le passava veramente per la testa? Dopo essere morta e finita nell'Ade, Penelope non teme più la vendetta degli dèi e desidera raccontare la verità, anche per mettere a tacere certe voci spiacevoli che ha sentito sul suo conto. La sua versione della storia è ricca di colpi di scena, dipana dubbi antichi e suggerisce nuovi interrogativi, mettendo in luce la sua natura tormentata, in contrasto con la sua abituale immagine di equilibrio e pacatezza. L'autrice di culto Margaret Atwood, con la sua scrittura poetica, ironica e anticonvenzionale, dà voce a un personaggio femminile di grande fascino, protagonista di uno dei racconti più amati della storia occidentale.
Ho scovato questo volumetto incastrato tra tanti altri nello scaffale dei libri in inglese della Feltrinelli di Porta Nuova qui a Torino. L’idea alla base del libro, questa Penelope protagonista che cerca di sopravvivere tra mille peripezie mi ha colpito tantissimo. La Atwood ricostruisce l’altro lato della storia, quella che si è soliti sottovalutare o relegare in un angolo, ma allo stesso tempo impone al suo lettore di interrogarsi sul senso di perdita che attanaglia chi resta. Perché in fondo è sempre chi resta indietro, chi sorregge il mondo che viene sempre messo da parte.
La mia recensione
La biblioteca di Gould di Bernard Quiriny
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Improvvise resurrezioni di massa, macchine da scrivere programmate per produrre capolavori senza tempo, città assurdamente votate al silenzio, amanti che dopo ogni incontro sessuale si ritrovano nel corpo del partner. Queste e altre storie irresistibili attendono il lettore nei meandri della biblioteca di Pierre Gould, narratore acuto e perfido, regista occulto di questo sorprendente campionario di raffinate fantasie. I racconti de “La biblioteca di Gould” compongono una collezione molto particolare di tradizioni improbabili, di piccole manie eccentriche, di distorsioni in grado di mutare radicalmente lo sguardo sulla realtà in cui viviamo, ma soprattutto di libri, impensabili, fatali, esilaranti. Esattamente come questo di Bernard Quiriny, un’esperienza entusiasmante per chiunque abbia a cuore la letteratura.
Bernard Quiriny è stato la grande scoperta del 2018, edito da una delle mie case editrici preferite, L’Orma Editore, è uno scrittore carismatico e potente che mi ha subito conquistato, anche con “L'affare Mayerling”. Questa è una raccolta fantasmagorica che colpisce dritta l’immaginario di ogni lettore e bibliofilo. Quiriny, sagace e impressionante, accompagna il lettore in un viaggio spassoso e intelligente, mai banale, ma sempre ricco di spunti particolari e affascinanti.
La mia recensione
Amatka di Karin Tidbeck
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Nel mondo che i Pionieri hanno colonizzato valicando un confine di cui si è persa ogni traccia, gli oggetti decadono in una poltiglia tossica se il loro nome non viene scritto e pronunciato con prefissata frequenza. Per evitarne la distruzione, un comitato centrale veglia severamente sulle parole pronunciate dagli abitanti delle colonie, perché la vita in un mondo minacciato dalla disgregazione richiede volontà e disciplina. Vanja, cittadina di Essre, viene inviata dalla sua comune nella gelida colonia di Amatka e troverà ad attenderla i primi fuochi di una rivoluzione sotterranea giocata sulla potenza del linguaggio. Suo malgrado, Vanja dovrà così affrontare le possibilità che si celano dietro il velo di blanda oppressione che assopisce i pensieri e le parole del popolo di Amatka.
Seguo gli amici (si amici perché quando senti qualcuno così vicino puoi solo definirlo amico) di Safarà con un entusiasmo molto intenso e ogni loro uscita è una bella scoperta. Di Amatka mi avevano parlato al Salone del Libro e quando è uscito era già molto carica. Una distopia che si nutre delle parole per plasmare una realtà stupefacente e piena di contraddizioni, dal fascino rivoluzionario per una storia che non ha nessuna risposta e pone invece tantissime domande al lettore.
La mia recensione.
Sadie di Courtney Summers
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Una ragazza scomparsa che ha intrapreso un viaggio verso la vendetta. Una serie – come un podcast che segue gli indizi che si è lasciata alle spalle. E una fine di cui non sarai capace di smettere di parlare. Sadie non ha avuto una vita facile. Crescendo da sola, ha tirato su sua sorella Mattie in una piccola città isolata, cercando di far del suo meglio per darle una vita normale e tenendo le loro teste sopra l’acqua. Ma quando Mattie viene ritrovata morta, l’intero mondo di Sadie crolla. Dopo una indagine della polizia affrettata, Sadie è determinata a portare il killer della sorella alla giustizia e si mette sulle sue tracce per trovarlo. Quando West McCray – una personalità radiofonica che lavora in un segmento sulle piccole dimenticate città americane – sente per caso la triste storia di Sadie da un benzinaio, diventa ossessionato dall’idea di ritrovare la ragazza scomparsa. Inizia il suo podcast per tracciare il viaggio di Sadie, cercando di capire cosa fosse successo, sperando di ritrovarla prima che fosse troppo tardi.
Seguo Courtney Summers dal 2012, da quando ho iniziato a leggere assiduamente in inglese e da allora leggo emozionatissima ogni sua nuova uscita. Non ha fatto di certo eccezione questo libro che ho preso appena uscito. Il racconto di una vita spezzata che cerca irrimediabilmente un riscatto anche quando tutto si unisce per dissuaderla, la ricerca spietata di una speranza in mezzo al caos della povertà e indifferenza. La scrittura spietata e letale di Courtney Summers si unisce ad un tema attualissimo per un libro che non lascia scampa, neanche dopo aver voltato l’ultima pagina.
La mia recensione
Città Sola di Olivia Laing
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Bisogna aver toccato l’abisso per saperlo raccontare. Per descrivere il vuoto avvolgente di una ferita che diventa uno stigma o l’angosciante cantilena che rimbomba in una casa di cui si è da sempre l’unico inquilino. Per restituire con la sola forza della voce certi angoli della metropoli, dove la suburra si fa rifugio e l’esclusione sollievo; per dire il loro improvviso, tragico trasformarsi da giardino delle delizie in inferno musicale. Olivia Laing rompe le pareti dell’ordinario e edifica all’interno della New York reale una seconda città, fatta di buio e silenzio: un’onirica capitale della solitudine, cresciuta nelle zone d’ombra lasciate dalle mille luci della Grande Mela e attraversata ogni giorno dalle storie di milioni di abitanti senza voce. Un luogo in cui coabitano le esperienze universali di isolamento e i traumi privati di personaggi come Andy Warhol, Edward Hopper e David Wojnarowicz; in cui ogni narrazione è allo stesso tempo evocazione e confessione. Quella tracciata da Olivia Laing è una visionaria mappa per immagini del labirinto dell’alienazione. Un flusso narrativo che investe le strade di New York e nel quale si mescolano la morte per Aids del cantante Klaus Nomi e l’infanzia dell’autrice, cresciuta da una madre omosessuale costretta a trasferirsi di continuo per sfuggire al pregiudizio; gli esperimenti sociali di Josh Harris che anticiparono Facebook e i silenzi dell’inserviente-artista Henry Darger che dipinse decine di quadri meravigliosi e inquietanti senza mai mostrarli a nessuno; l’inconsistente interconnessione umana dell’era digitale e l’arida gentrificazione di luoghi simbolici come Times Square.
Quest’anno ho letto diversi libri che hanno al loro centro il tema della solitudine e mai come Città Sola mi hanno lasciata esterrefatta. Complice il web, me lo sono ritrovato sotto gli occhi e avevo aspettative molto alte pur non avendo compreso appieno la trama. Ma queste vite, ai margini eppure sempre al centro dell’attenzione lasciano inevitabilmente un segno. Pittori e fotografi, artisti in ogni forma in una delle città più affascinanti del mondo. Quella New York cosmopolita e indomita che non dorme mai e tutto sempre fagocitare per rigettarlo trasformato e inquieto. Olivia Lang tratteggia la sua storia attraverso le evocazioni di altre vite e di altre storie, mentre fissa quel sentimento di incontrastata solitudine che a tratti, affligge tutti.
Non l’ho ancora recensito, ma presto arriverà la mia recensione.
Gli animali che amiamo di Antoine Volodine
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L'umanità è pressoché scomparsa. Solo una donnina è rimasta ad aggirarsi in mezzo a capanne vuote nella speranza di farsi ingravidare da qualcuno di passaggio. Quanto agli altri superstiti, chissà. Al loro posto una vegetazione a tratti lussureggiante e una sequela di animali, fantastici e non, che entrano ed escono da sogni di sogni in una realtà onirica o comunque surreale. Cinque intrarcane e due Shaggàs compongono questo pastiche letterario, bizzarro, giocoso, immerso in un'atmosfera apocalittica, da fine della Storia, dove l'umorismo del disastro si mescola a una malinconica, smagata rassegnazione.
Questo volumetto mi ha perseguitato per mesi, mentre lo vedevo riflesso sugli scaffali delle librerie, fino a che non mi sono convinta a comprarlo e leggerlo e ammetto che non me ne sono pentita. Volodine è il padre dell’esoterismo, questa corrente un po’ oscura e un po’ spaventosa che unisce atmosfere fantastiche ad altre più post-apocalittiche e che fagocitano sempre un po’ di spiritualismo.
Leggere questo libro è un viaggio in un mondo inaspettato, che confonde e affascina. Un bestiario che è una incerta meraviglia, che consuma fin dalla prima pagina.
La mia recensione
Exit west di Mohsin Hamid
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Saeed è timido e un po’ goffo con le ragazze: cosí, per quanto sia attratto dalla sensuale e indipendente Nadia, ci metterà qualche giorno per trovare il coraggio di rivolgerle la parola. Ma la guerra che sta distruggendo la loro città, strada dopo strada, vita dopo vita, accelera il loro cauto avvicinarsi e, all'infiammarsi degli scontri, Nadia e Saeed si scopriranno innamorati. Quando tra posti di blocco, rastrellamenti, lanci di mortai, sparatorie, la morte appare l'unico orizzonte possibile, inizia a girare una strana voce: esistono delle porte misteriose che se attraversate, pagando e a rischio della vita, trasportano istantaneamente da un'altra parte. Inizia così il viaggio di Nadia e Saeed, il loro tentativo di sopravvivere in un mondo che li vuole morti, di restare umani in un tempo che li vuole ridurre a problema da risolvere, di restare uniti quando ogni cosa viene strappata via. Con la stessa naturalezza dello zoom di una mappa computerizzata, Mohsin Hamid sa farci vedere il quadro globale dei cambiamenti planetari che stiamo vivendo e allo stesso tempo stringere sul dettaglio sfuggente e delicato delle vite degli uomini per raccontare la fragile tenerezza di un amore giovane.
Ho preso in mano questo libro troppo tardi, infatti era uscito già nel 2017, ma lo avevo sempre osservato da lontano un po’ per paura, un po’ perché non pronta a riflettere la società che stiamo vivendo tra le pagine scritte. Poi complice la voglia di mettermi nei panni degli altri l’ho recuperato e dovreste farlo anche voi. Capire il nostro tempo è un atto dovuto non solo alla nostra società ma anche a noi stessi. Mohsin Hamid racconta con una fermezza intensa il terrore che avvolge la fuga dalla guerra e dalla disperazione, regalando al lettore una fotografia precisa e inquietante.
La mia recensione.
Cinque secondi di Mirya
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Cosa saresti, se nessuno ti riconoscesse? Cosa proveresti, se il mondo non ti vedesse? Cosa faresti, se non potessi lasciare alcuna traccia di te? Io sono Mnemosine, e ti racconterò la storia della mia vita, a patto che tu la ricordi. Io sono Mirya, e ti racconterò la vita della mia storia, a patto che tu la dimentichi. E se fosse il contrario? Hai solo cinque secondi per scegliere. Perché il tempo non basta mai.
Non potevo non citare questo libro in questa classifica. Io lo so che sono totalmente di parte, perché l’ho visto nascere, ma è uno di quei libri che ogni volta che ci penso mi contrae, come una molla. E io lo so che Mirya parla con me. Questo è un libro che vivi di istinto, che leggi con il cuore, che fisicamente ti lascia a pezzi, che devi leggere tutto d’un fiato. È una storia mi ha rivoltato, spezzato e ricomposto in una sola seduta di lettura. Leggetela, non ve ne pentirete.
La mia recensione
Bonus tracks
In mezzo a tutto questo però non posso non citare, Made you up di Francesca Zappia uno degli ultimi libri che ho letto nel 2018 e che racconta in maniera molto realistica le malattie mentali ma soprattutto l’incontro scontro di due ragazzi che vogliono solo vivere appieno la loro vita.
Lincoln nel Bardo di George Sauders che gioca tra paranormale e reale e regala ai suoi lettori una storia che racchiude mille altre storie, dai temi universali e un significato che sfugge la logica, mentre accettare la perdita non è mai facile, è sempre appagante vivere l’amore.
Un altro giorno ancora di Bianca Marconero che potrà essere nato come “il libro sui cavalli”, ma un altro giorno ancora è la dimostrazione che una storia d’amore non è mai solo una storia d’amore, che i biondi hanno sempre un fascino speciale, e che basta poco per rendere una storia indimenticabile. La scrittura pulita della Marconero arriva dritta al punto, tracciando un cammino speciale, in grado di emozionare e far sospirare.
Chloe di Leila Awad che shame on me non ho ancora recensito e che merita di essere letto perché è una bellissima fiaba romantica ambientata in un posto speciale, Brygge (tra l’altro è appena uscita una bellissima novella natalizia Sotto la neve).
La scrittrice del mistero di Alice Basso una storia intrecciata dal genio della Basso, che riesce a provocare crampi, far sospirare e tenere in tensione ad ogni pagina letta, senza dimenticare i momenti comici in cui cadere con gioia. Perché in fondo non c’è pace per Vani Sarca. E sempre #TeamBerganza
Quali sono i libri del vostro 2018?
Raccontatemelo in un commento.
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daisyofthegalaxy · 7 years ago
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7th day in NYC - appunti
il Metropolitan Museum of Art è immenso, ho dovuto seguire un itinerario consigliato sulla mia guida perchè altrimenti mi sarei solo persa e avrei visto troppo poco. Nel MET c’è di tutto: arte egizia, greco romana, americana, islamica, sale dedicate all’Oceania... capolavori tra cui trascorrere ore e ore. In più in questo periodo c’era anche una mostra su disegni e schizzi di Michelangelo e una galleria completamente dedicata a Rodin. Insomma vale sempre la pena fare più di un’ora di fila al gelo.
- in una sala enorme è stato ricostruito il Tempio egizio di Dendur dedicato alla dea Iside e questa è una delle opere imperdibili; ma all’arte egizia sono dedicate decine e decine di sale. La cosa assurda è che son capaci di ricostruire interi templi, tombe (vedi la Mastaba di Perneb) ecc così come dovevano essere in Egitto.
- nel luminosissimo atrio della Charles Engelhard Court sculture americane
- bellissime le gallerie di armi e armature
- le sale dedicate alla pittura europea sono infinite e incredibili. Ci sono opere di Van Gogh (nelle foto Iris e un particolare delle spesse pennellate di Wheat Field with Cypresses), Vermeer, Caravaggio, Rembrandt, Picasso, Gauguin, Klimt, Renoir, Monet (ne avrò dimenticati più di metà).
- il calco in gesso di Amore e Psiche di Canova
- una nicchia di preghiera, mihrab, tra le sale dell’arte islamica
- le Tre Grazie, marmo romano.
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freedomtripitaly · 5 years ago
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Opere d’arte che si insinuano, meravigliosamente, nella natura e che raccontano storie di persone, di culture e tradizioni di una parte di un Paese, incredibilmente bello e complesso come l’Australia rurale. Imponenti e grandissimi, funzionali ed esteticamente impattanti, sono i silos giganteschi che dominano il panorama campestre australiano e che sono stati scelti da alcuni street artist come tele dei loro capolavori. Quelli che sono da sempre componenti indispensabili delle sterminate coltivazioni di grano dell’Australia rurale, ora sono opere d’arte, motivo di orgoglio degli abitanti delle piccole città di campagna circostanti. The Water Diviner’ silo di Fintan Magee – Fonte Getty Images Opere talmente belle che, il servizio postale del Paese, ha deciso di trasformarle in francobolli per mostrare al mondo tanta magnificenza, ma anche per valorizzare, a livello internazionale, quei territori che a causa di una serie di problemi, tra cui la siccità e il logoramento della popolazione, rischiano di scomparire. Una situazione di crisi che è stata trasformata in un’occasione di rinascita, grazie a questi famosi street artisti che hanno realizzato dei murales monumentali, illustrando la vita rurale, le persone, la storia e l’ambiente naturale. Il primo murales risale al 2015, realizzato a Northam, nell’Australia occidentale, altri artisti sono stati poi coinvolti nel corso del tempo per valorizzare luoghi dimenticati, attingendo elementi dalla realtà del posto. Così è nata la Form’s Public Silo Trail, un sentiero che mappa questi imponenti capolavori e che attira migliaia di visitatori. The Goorambat Silo Artwork di Dvate – Fonte Getty Images E così, da Thallon, città australiana del Queensland, che ha rischiato molte altre di scomparire nel nulla, a Weethalle, piccola città nella regione centro-occidentale del New South Wales, i silos hanno iniziato a prendere vita con le raffigurazioni di uccelli locali e animali da fattoria immortalati al tramonto o quelle relative alle principali attività agricole dei territori. Con il suo inconfondibile stile, l’artista Hense ha reso unici, originali e incredibili i silos a Northam, mentre Rone ha dato nuova vita ai giganteschi granai personalizzandoli con splendidi ritratti. A Weethalle, lo street artist Heesco Khosnaran, è stato in grado di riflettere fedelmente la gente del posto e la sua storia. Per realizzare i murales, l’artista si è ispirato a diverse fotografie raffigurando le principali attività agricole del distretto: tosatura e coltivazione del grano. E così, quella parte di Australia più nascosta, e apparentemente dimenticata, è rinata, mostrandosi al mondo nella sua veste più bella. Il murales di Heesco Khosnaran – Fonte Heesco https://ift.tt/3gStYCV I silos delle terre australiane desolate sono ora opere d’arte Opere d’arte che si insinuano, meravigliosamente, nella natura e che raccontano storie di persone, di culture e tradizioni di una parte di un Paese, incredibilmente bello e complesso come l’Australia rurale. Imponenti e grandissimi, funzionali ed esteticamente impattanti, sono i silos giganteschi che dominano il panorama campestre australiano e che sono stati scelti da alcuni street artist come tele dei loro capolavori. Quelli che sono da sempre componenti indispensabili delle sterminate coltivazioni di grano dell’Australia rurale, ora sono opere d’arte, motivo di orgoglio degli abitanti delle piccole città di campagna circostanti. The Water Diviner’ silo di Fintan Magee – Fonte Getty Images Opere talmente belle che, il servizio postale del Paese, ha deciso di trasformarle in francobolli per mostrare al mondo tanta magnificenza, ma anche per valorizzare, a livello internazionale, quei territori che a causa di una serie di problemi, tra cui la siccità e il logoramento della popolazione, rischiano di scomparire. Una situazione di crisi che è stata trasformata in un’occasione di rinascita, grazie a questi famosi street artisti che hanno realizzato dei murales monumentali, illustrando la vita rurale, le persone, la storia e l’ambiente naturale. Il primo murales risale al 2015, realizzato a Northam, nell’Australia occidentale, altri artisti sono stati poi coinvolti nel corso del tempo per valorizzare luoghi dimenticati, attingendo elementi dalla realtà del posto. Così è nata la Form’s Public Silo Trail, un sentiero che mappa questi imponenti capolavori e che attira migliaia di visitatori. The Goorambat Silo Artwork di Dvate – Fonte Getty Images E così, da Thallon, città australiana del Queensland, che ha rischiato molte altre di scomparire nel nulla, a Weethalle, piccola città nella regione centro-occidentale del New South Wales, i silos hanno iniziato a prendere vita con le raffigurazioni di uccelli locali e animali da fattoria immortalati al tramonto o quelle relative alle principali attività agricole dei territori. Con il suo inconfondibile stile, l’artista Hense ha reso unici, originali e incredibili i silos a Northam, mentre Rone ha dato nuova vita ai giganteschi granai personalizzandoli con splendidi ritratti. A Weethalle, lo street artist Heesco Khosnaran, è stato in grado di riflettere fedelmente la gente del posto e la sua storia. Per realizzare i murales, l’artista si è ispirato a diverse fotografie raffigurando le principali attività agricole del distretto: tosatura e coltivazione del grano. E così, quella parte di Australia più nascosta, e apparentemente dimenticata, è rinata, mostrandosi al mondo nella sua veste più bella. Il murales di Heesco Khosnaran – Fonte Heesco I territori, desolati e dimenticati, dell’Australia rurale, sono rinati grazie alla street art. Così, i silos sono diventati capolavori.
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eventiarmonici · 5 years ago
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Valentina Giovagnini: l’angelo di Sanremo volato via troppo presto
Valentina Giovagnini era una cantautrice raffinata, capace di ammaliare chi l’ascoltava grazie a una voce limpida, forte, suadente, e ad una propria identità musicale, che, se fosse stata figlia di un altro destino, quest’anno avrebbe festeggiato quant’anni; Valentina, invece, non c’è più da molto tempo, ormai, ma resta la meteora del Festival di Sanremo più luccicante degli ultimi decenni.
di Pasquale Di Matteo
Sanremo 2002.
Quando Valentina Giovagnini interpretò “Il Passo Silenzioso della Neve”, si capì subito che quella canzone non c’entrava nulla con il Festival e non solo con quell’edizione, ma con lo stereotipo del brano festivaliero.
Non era il solito motivetto orecchiabile ben strutturato e confezionato ad arte, per restare impresso nella testa al primo ascolto, come poteva esserlo “Doppiamente Fragili” della giovanissima Anna Tatangelo.
“Il Passo Silenzioso della Neve” ti sollevava da terra con i suoi echi di terre lontane, spalancando orizzonti celtici con la magia di una voce pulita, chiara, potente e raffinata, miscelata a un arrangiamento da film in odore di Oscar.
Valentina Giovagnini a Sanremo – Immagine di proprietà del Web
Valentina Giovagnini interpreta “IL PASSO SILENZIOSO DELLA NEVE” – Immagine di proprietà del Web
Insomma, un capolavoro come pochi mai presentati al Festival di Sanremo, certamente l’unico in un’edizione di canzoni senza pretese.
Valentina Giovagnini partecipava tra le nuove proposte, dove si classificò al secondo posto, per una manciata di voti, alle spalle di Anna Tatangelo, (7633, contro 7654), mentre la giuria di qualità la premiò con un paio di 9 e tutti 10, oltre al  premio per il miglior arrangiamento.
Nell’assegnare il suo 10, Enrico Vanzina precisò che “…quella signorina è un’artista, 10!”. 
E Valentina li meritava tutti quei 10, perché nella sua semplicità, nella suo bellissimo volto di porcellana, nei suoi capelli acconciati come la ragazza della porta accanto in un banale sabato pomeriggio, stretta nei suoi abiti di persona comune, che si muoveva sul palco a piedi nudi, con due occhi espressivi e magnetici, con il Festival sembrava proprio non avere nulla a che fare.
Eppure, in quell’edizione fu il valore aggiunto, l’unica nota per cui valga ancora la pena parlarne, la sola artista a portare un’identità fortemente diversa.
Valentina Giovagnini era nata il 6 aprile 1980, in provincia di Arezzo, una terra dove la musica è di casa, a ogni livello.
Ancora minorenne era stata notata dal produttore Davide Pinelli, sotto la cui guida, Valentina aveva raggiunto prima l’edizione autunnale del Festival di Sanremo, nel 2001, riservato esclusivamente alle nuove proposte della discografia, quindi il Festival vero e proprio nel 2002, dove presentò un brano firmato dallo stesso Pinelli e da Vincenzo Incenzo, navigato paroliere, tra gli altri, di Renato Zero, Antonello Venditti, Ornella Vanoni, Michele Zarrillo e Sergio Endrigo.
“Il Passo Silenzioso della Neve”, appunto, una canzone alla quale Valentina donò la sua anima, facendola propria, un’anima celtica, selvaggia, ma dannatamente raffinata.
Così come raffinato era l’album che uscì qualche giorno dopo il secondo posto sanremese, Creatura Nuda, in cui le sonorità celtiche, medievali, a tratti fantasy, davano vita a canzoni ricche di pathos, con testi romantici, ma anche di denuncia.
Valentina Giovagnini Creatura Nuda – Immagine di proprietà del Web
Valentina Giovagnini con la cornamusa – Immagine di proprietà del Web
Nell’album, oltre al pezzo che dava il titolo all’album e a “Il Passo silenzioso della Neve”,  spiccavano: “Senza origine” e “Mi fai vivere”.
Delle 11 tracce di Creatura Nuda, (12 se si considera la versione allemanda di “Senza Origine”), solo il pezzo sanremese era un capolavoro, ma come opera prima si trattava di un album senz’altro notevole, nonché originale, che dimostrava una personalità forte e l’identità unica della Giovagnini.
Tuttavia, dopo un disco d’esordio che gettava le premesse per una carriera davvero interessante, Valentina Giovagnini fu letteralmente abbandonata e riposta nel cassetto dei ricordi per parecchio tempo.
Forse perché lontana dal mondo musicale commerciale, o perché non malleabile come altre, sta di fatto che Valentina e il suo grande talento vennero dimenticati.
Ci si ricordò di lei solo il 3 gennaio 2009, all’indomani della sua morte, avvenuta in seguito a un tragico incidente stradale.
Perché Valentina Giovagnini non venga dimenticata, la famiglia ha dato vita a una ONLUS intitolata alla cantante, che porta avanti progetti in ambito sociale e opere di beneficenza.
L’associazione gestisce anche da alcuni anni il Premio Valentina Giovagnini, riservato ai nuovi talenti.
Valentina Giovagnini è stata una meteora della musica italiana, una delle tante scomparse dopo la settimana del Festival di Sanremo.
Tuttavia, al di là del tragico incidente che l’ha strappata da questo mondo a soli 28 anni, tra le meteore del Festival di Sanremo, quella di Valentina Giovagnini è senz’altro la più luccicante degli ultimi decenni.
Il prossimo 6 aprile, avrebbe compiuto quarant’anni e, se il destino avesse avuto un altro copione, forse Sanremo avrebbe potuto annoverare altri capolavori di questa raffinata artista della musica italiana.
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Valentina Giovagnini – Immagine di proprietà del Web
Valentina Giovagnini era una cantautrice raffinata, capace di ammaliare chi l’ascoltava grazie a una voce limpida, forte, suadente, e ad una propria identità musicale, che, se fosse stata figlia di un altro destino, quest’anno avrebbe festeggiato quant’anni; Valentina, invece, non c’è più da molto tempo, ormai, ma resta la meteora del Festival di Sanremo più luccicante degli ultimi decenni. Valentina Giovagnini: l’angelo di Sanremo volato via troppo presto Valentina Giovagnini era una cantautrice raffinata, capace di ammaliare chi l’ascoltava grazie a una voce limpida, forte, suadente, e ad una propria identità musicale, che, se fosse stata figlia di un altro destino, quest’anno avrebbe festeggiato quant’anni; Valentina, invece, non c’è più da molto tempo, ormai, ma resta la meteora del Festival di Sanremo più luccicante degli ultimi decenni.
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liviaserpieri · 7 years ago
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“ In altri casi invece mi lascio solo trasportare dalla struttura, come è successo ad esempio con Agnese di Ivan Graziani: lì avevo proprio immaginato tante scene diverse, quindi ogni strofa è arrangiata e vestita in modi diversi perché quella era l’idea che mi ero fatta della canzone. “ (Cristina Donà)
“La malinconia del ricordo della “dolce Agnese” narrata nel singolo omonimo , dal testo intenso ed intimista,fa da corona a questa dolcissima ballad , è ispirata al Rondò in Sol M. composta nel tardo Settecento da Muzio Clementi, brano che ispirò anche numerose altre composizioni, tra cui “A groovy kind of love” , portata al successo da Phil Collins nel 1988.
Il tono del cantautore è tenero, delicato, una carezza che sa di rimpianto e di dolore sopito. La base su cui poggia è affidata soprattutto agli arpeggi della chitarra che “piange dolcemente”, come Graziani narra, citando volutamente George Harrison. Le immagini immerse nella nebbia di strade di provincia, i dolci pomeriggi di agosto, e il volto della ragazza “color del cioccolato” catturano l’immaginario del pubblico, che fa di questo singolo un indubitabile successo.”
http://www.legacyrecordings.it/album/agnese-dolce-agnese/
“Uno dei capolavori di Ivan e uno dei suoi celebri ritratti femminili. Inizia con una citazione da "While my guitar gently weeps" dei Beatles nel primo verso tradotto quasi letteralmente: "Se la mia chitarra piange dolcemente...", per poi inoltrarsi in una dolce e struggente galleria di immagini nostalgiche che rimandano con la mente a giorni lontani e felici mentre il presente del protagonista è fatto di nebbia nei polmoni mentre va in bici la mattina presto (...ma non c'è più Agnese seduta sul manubrio a cantar canzoni...). Come per le altre celebri canzoni di Ivan inseribili in questo filone, da Firenze a Lugano addio, anche per Agnese va sottolineata la grande capacità dell'autore di abbinare un cantato che trasmette il senso di rimpianto per qualcosa che si è perso a bellissime e delicate immagini che portano allo stesso tempo ricordi dolci e amari, oltre a versi dalle soluzioni ardite come "...se continuo a bere i miei liquori inquinati... è vero che quei giorni... non li ho dimenticati..." e malinconicamente struggenti come nel verso finale "Agnese dolce Agnese color di cioccolata adesso che ci penso... non ti ho mai baciata...". La canzone fu anche al centro di un "caso" quando, tempo dopo la sua uscita, Phil Collins pubblicò un brano dal titolo "A groovy kind of love" che musicalmente era praticamente identico ad "Agnese". Ma Phil Collins non aveva plagiato Graziani. Semplicemente entrambi gli artisti avevano rielaborato un brano di Muzio Clementi, musicista del 700, spesso presente nei libri come esercizio di pianoforte. Ivan: "Agnese è autobiografica... mi sono ricordato di questa ragazzina gagliarda... era una ragazzina che mi piaceva ma che si faceva scarrozzare in bicicletta e basta... non faceva altro... Dio bono... ho dedicato una canzone alle mie frustrazioni giovanili..."
http://www.maggiesfarm.it/agnesedolceagnese.htm
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blogexperiences · 4 years ago
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Davide Rigonat - La biblioteca dimenticata
Davide Rigonat – La biblioteca dimenticata
Ventiquattro puntate della rubrica “La biblioteca dimenticata”, appuntamento mensile di segnalazioni e recensioni di libri “dimenticati” curata da Davide Rigonat e ospitata sul blog letterario di Romina Tamerici, raccolte in volume. Un’occasione per scoprire sedici capolavori antichi e moderni di altrettanti autori italiani e stranieri, magari poco conosciuti al grande pubblico ma che…
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pangeanews · 4 years ago
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Cosa ne è di Adelphi? Piccola preghiera di un lettore affezionato: tornate a essere ciò che eravate, pubblicate meno scienziati e giornalisti e più Cvetaeva
Recensire un libro prima che sia pubblicato e prima ancora che se ne sia sfogliata una pagina, non è indice di eleganza. Recensire un libro prima che si sia pubblicato e prima ancora che se ne sia sfogliata una pagina, se si conoscono l’autore e la casa editrice, è forse lungimiranza e monito. L’autore in questione è Michele Manseri, giornalista che scrive di “economia, case e cultura” sul Foglio, il Sole 24 ore e Rivista Studio. Quindi non uno scrittore, non un romanziere, non una penna da cui aspettarsi vergato il suo stesso sangue, sulle pagine. Il suo esordio in narrativa, Addio Monti edito da Minimum Fax, francamente prescindibile. Approda ora alla corte di Calasso (che sembra sempre meno presente nel tessere le trame della sua casa editrice). Steve Jobs non abita più qui è un titolo allettante come una goccia cinese, che sembrerebbe non centrare nulla con Adelphi, con i suoi splendidi color pastello e copertine. Sembrerebbe. Bisogna tornare ai mesi della quarantena, ai mesi in cui il virus era l’unico argomento possibile per quasi (quasi) tutti. I mesi in cui un titolo, Spillover di David Quammen (giornalista anche lui) uscito già nel 2014 e ignorato dai più, si è tramutato nel tomo più venduto dell’anno (e parlo di luglio). Uno dei più venduti da Adelphi da quando è sorta. Uno dei più letti da soprattutto da chi non legge.  La trama, l’inchiesta, le oltre 600 pagine (seicento pagine le leggo solo se sei Tolstoj, Joyce o Vasilij Grossman), dedicate a un pipistrello che diffonde un virus.  Noia abissale e avvilente. Con buona pace di Camus e Manzoni che, sulle epidemie, hanno scritto capolavori immortali e soprattutto più attuali di qualsiasi cosa scritta da marzo a oggi (ma anche dal 1800 in poi). Di Quammen Adelphi ha quindi, annusando la pecunia, pubblicato (e ripubblicato) altri titoli nel corso delle successive settimane. Ma forse non è questo il punto.  La domanda che ci si pone, nasce da un’involontaria  “giusta” osservazione di Nicola Lagioia, in un’imbarazzante (per Lagioia) intervista a Roberto Calasso qualche settimana or sono, a corollario di un’ancor più imbarazzante  edizione del Salone del Libro. Intervista al culmine della quale, dopo una sequela di domande alle quali, Calasso, ha cercato di rispondere celando il disagio, si è arrivati a concludere che “Adelphi si sta gettando alle spalle il Novecento”. Con la replica sin troppo educata e forse anche rassegnata da parte di Calasso: “Non so bene che cosa significherebbe “gettarsi alle spalle il Novecento” e non mi sembra fattibile, oltre che non augurabile. Non mi sembra che il secolo successivo abbia offerto finora qualcosa di meglio”.
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Ecco, appunto, cos’ha da offrire il secolo attuale? Di certo non i libri di Nicola Lagioia. Cos’ha da offrire ancora Adelphi? Gli autori pubblicati che sono le fondamenta di questa casa editrice continuano ad essere editi con parsimoniosa regolarità: Simenon (prima o poi si esauriranno i capolavori dello scrittore francese), Singer, Bernhard. Certo, tra le ultime uscite abbiamo accolto con gioia Rilke e Maugham. Ma, parlo da affezionato e feticista (anche compulsivo) accumulatore di tomi Adelphi, quel che manca o che sembra mancare è l’intuito per scoprire, scavare o ricercare nel nuovo così come quello per recuperare autori mai pubblicati e che sarebbe ora riemergessero dall’oblio, dal buio e dalle tombe. Se per il nuovo, la mancanza d’intuito, può essere perdonabile (la bellezza nel nuovo è merce rara e bisogna davvero esser miracolati), per gli autori dimenticati no. Sia sempre lode ad Adelphi per averci fatto leggere autori immensi quali Tommaso Landolfi, Giorgio Manganelli, Guido Morselli. Ma ora sembra mancare il fiuto, sembra mancare davvero qualcuno che si ponga di fianco a Calasso o che ne erediti la saggezza, la cultura, la spaventosa fame di letteratura e poesia che lacerano l’anima e le carni. Di Roberto Calasso, come è ovvio, non ne nascono molti. Ma attorno ad Adelphi, vi sono case editrici che del nuovo e del riscoperto stanno facendo tesoro. Penso ad Aragno o Iperborea. Alla sempre misteriosa, ineffabile e inafferrabile SE. Tutte case editrici che fanno di forma e sostanza un’entità unica e sublime. I grandi editori sono per lo più inavvicinabili e spesso illeggibili. Adelphi è sempre stata una casa editrice a parte, quella cui classe e sacralità son sempre parse inarrivabili. Qualcosa, pare, scricchiolare. Scriveva Calasso ne “l’impronta dell’editore” che “Un buon editore è quello che pubblica circa un decimo dei libri che vorrebbe e forse dovrebbe pubblicare”. Che ogni libro pubblicato genera un’ombra e tutte queste ombre “ci fanno cenni da luoghi remoti, da spazi che sono tuttora immensi, in attesa di essere di nuovo evocate, nella forma usuale di pagine da leggere”. Chissà se è rimasto ancora qualcosa di questa filosofia. Sarebbe davvero un peccato relegare quei libri color pastello nell’angolo di quelli superflui.
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Postilla: son passati alcuni giorni da questo scritto e, in attesa che venga dato alle stampe, mi accorgo, come sempre, di aver ragione. Se solo ne fossi più convinto, di aver sempre ragione. Spulcio tra le anteprime di Adelphi di mezza estate e cosa vedo? Una raccolta di racconti minori di Simenon, Annette e la signora bionda. Racconti minori e quindi relegati direttamente (e giustamente) in edizione “gli Adelphi” (i tascabili, per i poveri) e quindi la riedizione di un altro scienziato, il tanto osannato quanto prescindibile (per chi si ciba di libri) Oliver Sacks: Allucinazioni. Se voglio leggere riguardo la mente umana e i suoi deliri, leggo Dostoevskij, leggo Thomas Bernhard. Di certo non un neurologo. Io, umile e fallibile lettore, sarò sicuramente smentito, nei mesi e negli anni a venire. In Via S. Giovanni sul Muro, se mai verranno a sapere di queste mie righe, rideranno brindando con quello buono. Prima dell’annunciata pubblicazione di un inedito Guido Morselli, prima ancora di tutte le poesie di Marina Cvetaeva, tradotte da Serena Vitale e finalmente incorniciate dai color pastello. Se togliamo lo sporadico (per quanto colmo di beltà) Sonecka, son passati trentun’anni dal meraviglioso Deserti luoghi.  Sarebbe ora di porvi rimedio.
Cosimo Mongelli
*In copertina: Roberto Calasso, la fotografia è tratta da qui
L'articolo Cosa ne è di Adelphi? Piccola preghiera di un lettore affezionato: tornate a essere ciò che eravate, pubblicate meno scienziati e giornalisti e più Cvetaeva proviene da Pangea.
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becomixdatabase · 5 years ago
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[Parliamo solo dei fumetti che compriamo](https://blog.becomix.me/parliamo-solo-dei-fumetti-che-compriamo/ "https://blog.becomix.me/parliamo-solo-dei-fumetti-che-compriamo/")
Lo ripeto, parliamo solo dei fumetti che compriamo. Ok, ok, ok… è un titolo prepotente, ma ci vuole. Viene dato tutto per scontato mentre ci si dovrebbe soffermare sulle basi per rendersi conto che spesso e volentieri si esce dal seminato.
Eppure, in un gioco a due tra autore e lettore, si nasconde uno scontro di diritti tra chi ti propone il proprio lavoro e chi invece ne usufruisce. L’autore ha il diritto di essere retribuito per il lavoro svolto, il lettore ha il diritto di dire la sua sul prodotto che acquista. Da questo rapporto nasce l’esigenza di ribadire che è necessario sudare per guadagnarsi il pane e successivamente potersi lamentare del pane quando fa schifo.
Fatta questa premessa per nulla scontata, passiamo ora a parlare del nostro ruolo di lettori con manie di protagonismo. Dopo aver compiuto il nostro dovere, aver sganciato la grana ed essere ritornati nei nostri stanzini freddi e bui, possiamo finalmente iniziare a sbraitare su quella dannata michetta e vomitare il nostro implacabile giudizio.
A cosa serve fare critica del fumetto? A dire quello che è valido e quello che non lo è. Ci può essere un metodo scientifico nel giudizio di un fumetto? Anche se questa affermazione è probabilmente da scartare in termini assoluti, non si può negare che quando si tratta di un sistema di regole chiuso si possano fare delle considerazioni. Se si possono rintracciare vari sistemi di regole (il fumetto seriale americano, quello italiano, quello francese, il manga, e altro ancora) certo fumetto tende a svincolarsi dall’omologazione e dalle imposizioni delle regole, per seguire logiche uniche. Chi può avvalersi del titolo di critico? Si può asserire che, grosso modo, chiunque si metta a scrivere qualcosa a riguardo di un fumetto è già un critico. Bisogna poi vedere se le informazioni possono essere in qualche modo utili.
Utili a chi? Non di certo all’editore, che già maldestramente cerca di vendere qualche copia a lettori annoiati. Potrebbe servire all’autore emergente, se sa ascoltare giudizi sensati. Potrebbe servire al lettore, forse, sempre se c’è un messaggio e se c’è il lettore. Allora perché Le Fauci? Le Fauci nasce dall’esigenza di unire spazi di critica sul fumetto, per dare una concreta risonanza alla speculazione pura e libera, non inquinata da esigenze editoriali e commerciali.
Citando il primo numero dell’edizione italiana di Metal Hurlant, in un lungo articolo Luca Raffaelli tocca ed esamina punto per punto quello che già all’epoca era considerato il miglior fumettista di sempre. «[Moebius] Innanzitutto ammicca e, se ammicca, vuol dire che ha bisogno di ammiccare, di creare un certo rapporto famigliare col lettore, del tipo “Seguimi, sapendo però fin d’ora che non ti darò un bel niente se non un saggio dei miei effetti speciali, ma ci divertiremo ugualmente.” E questi ammiccamenti valgono poche lire, sono trucchetti stereotipati, del mestiere: non sono né Altan né Jacovitti […].» E via discorrendo. Metal Hurlant aveva il coraggio di criticare in casa il proprio beniamino, con critiche lecite e argomentate. Nella contemporaneità i siti di critica sono diventati occhiello delle case editrici o di Amazon, e senza alcun Moebius all’orizzonte si contano decide di “capolavori annunciati” al mese. Fumetti spazzatura che verranno dimenticati il mese successivo, superati dal nuovo fumetto da promuovere. Ben prima che si parlasse di graphic novel, in Italia il fumetto era considerato come arte alta e degna. Ebbene, è una continua invenzione quella del graphic novel come espressione adulta del fumetto.
Invero, Le Fauci non è qui per demolire, ma per riallacciarsi a un discorso di critica fumettistica seria che si è persa nel tempo o nel web. Non ci interessa guardare al presente, non ci interessa seguire le fiere, non ci interessano gli spettegolezzi degli addetti ai lavori: Le Fauci è qui per parlare del bel fumetto e basta. E cosa è bello? Ce lo spiega Umberto Galimberi con una serie di citazioni, da San Tommaso che affermava “Pulchrum est quod visum placet”, bello è quello che quando lo vedi ti piace. Immanuel Kant, ne La Critica del Giudizio (1790), “Bello è ciò che piace senza concetto e senza scopo”. Thomas Mann, “La bellezza ci può trafiggere come un dolore.” Un’opera è d’arte quando lo sguardo non la esaurisce, viene rimandato a un’ulteriorità di significato. L’incantamento consiste nel fatto che di fronte a quell’opera si continua a cercare quell’ulteriorità di significato rispetto a quello che il sensibile offre. Si potrebbe pensare che la differenza tra gli oggetti e le opere d’arte sia che gli oggetti si esauriscono nello sguardo che ne cattura il significato, nell’opera d’arte lo sguardo non riesce a catturare la totalità del significato. C’è un rimando verso l’ineffabile, l’indicibile, l’invisibile. La bellezza è una cosa che inquieta, una cosa che trafigge, ti paralizza, ti porta alla dimensione del sublime.
Bisogna faticare. Si fatica anche quando si spendono dei soldi. Soldi che potevano sicuramente essere spesi in altro modo, soprattutto se guadagnati sudando. Sudore chiama sudore per questo siamo qui a inquietarci, ad affilare i denti in questo nuovo luogo virtuale che si chiama Le Fauci.
Noi vogliamo parlare solo dei fumetti che compriamo perché ce lo meritiamo come acquirenti e lettori, abbiamo lavorato e sputtanato quei quattro soldi che ci avanzano nella Nona Arte perché ci crediamo veramente. Crediamo negli autori, nel loro lavoro e vogliamo giustamente pagarli per continuare a farci leggere le loro opere (con la speranza che un giorno la percentuale dei diritti d’autore sia più alta rispetto quella del distributore). Noi ci incazziamo quando, affamati, cerchiamo di approfondire il discorso trovandoci di fronte a montagne di comunicati stampa, recensioni vuote, scritte male e di fretta.
Sia chiaro, ovviamente non possiamo fare di tutta l’erba un fascio, ma è evidente che l’intento è quello di alzare l’asticella. Se lo meritano i lettori, se lo meritano i giornalisti e soprattutto se lo meritano gli autori che, sudando più di tutti, cercano ogni volta di proporci un viaggio nuovo. Per questo lavoreremo anche noi a capo chino sulla scrivania, per questo vogliamo sbattere la testa contro il muro e sfondarlo più e più volte. Per scovare tutto quello che compone una tavola, per sviscerare e scoprire ogni nuovo livello di lettura celato.
Siamo qui per divorare ogni cosa del fumetto mondo.
L'originale è stato pubblicato su [https://blog.becomix.me/parliamo-solo-dei-fumetti-che-compriamo/](https://blog.becomix.me/parliamo-solo-dei-fumetti-che-compriamo/ "Permalink")
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