#alienazione nella modernità
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pier-carlo-universe · 2 months ago
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Op Oloop – Un viaggio nei meandri della mente e della vita attraverso la penna di Juan Filloy. Recensione di Alessandria today
Con "Op Oloop", Juan Filloy ci regala una storia affascinante e surreale, dove il protagonista si perde nel calcolo e nell'ossessione per la perfezione.
Con “Op Oloop”, Juan Filloy ci regala una storia affascinante e surreale, dove il protagonista si perde nel calcolo e nell’ossessione per la perfezione. Recensione:“Op Oloop” di Juan Filloy è un romanzo straordinario che si colloca nel panorama della narrativa sperimentale latinoamericana, offrendo una narrazione che unisce il surreale con il filosofico. Il protagonista del libro, Op Oloop, è un…
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t-annhauser · 2 years ago
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L'ecologismo mediatico come versione aggiornata dell'antico pensiero religioso: se fino a ieri era Dio che ci puniva per i nostri peccati, oggi è la Natura, dea terribile e senziente, antropomorfizzata, dotata di volontà castigatrice, che ci punisce perché come Prometeo abbiamo rubato la fiamma agli dei e recato oltraggio agli antichi Lari del focolare.
Usciamo da questa forma moderna di animismo: né la Natura intende punirci perché abbiamo fatto i cattivi né la modernità intende recarle oltraggio, basta con questa smielata e sdolcinata retorica della Natura ferita e dell'umanità scellerata, basta con questa alienazione metafisica: la natura non ci guarda, non ci punisce, la natura non è un essere senziente.
Detto questo, cerchiamo senz'altro un modo intelligente di rapportarci con l'ambiente che ci circonda, ma per favore basta con questo drammone di terz'ordine in cui ci mettiamo tutti a compiere le nostre piccole azioni eroiche quotidiane nella speranza di essere risparmiati dalla collera degli elementi, non facciamoci compatire.
(e guai a chi mi incolpa di non fare niente per l'ambiente: faccio regolarmente la mia differenziata, non guido, non fumo e non bevo alcolici, sfido chiunque ad avere un'impronta ecologica migliore della mia).
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lamilanomagazine · 2 years ago
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Verona: “L’altro teatro”, la tragicommedia politicamente scorretta al Camploy “Miracoli metropolitani”
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Verona: “L’altro teatro”, la tragicommedia politicamente scorretta al Camploy “Miracoli metropolitani”. Mecoledì 8 marzo al Teatro Camploy fa tappa “Miracoli Metropolitani”, la tragicommedia politicamente scorretta di Carrozzeria Orfeo. Dopo “Thanks for Vaselina” e “Animali da Bar”, i testi più esistenzialisti, e “Cous Cous Klan”, il più distopico, “Miracoli Metropolitani” è, infatti, quello più politico e scorretto. "Miracoli Metropolitani" affronta tematiche politiche e sociali immaginando un futuro possibile, ma non ancora reale. Richiama alla responsabilità individuale e collettiva al fine di prevenire il ripetersi di episodi storici caratterizzati da derive estreme e populiste, come il fascismo, sia come fenomeno politico che esistenziale. In questo senso invita a adottare una prospettiva critica e razionale, orientata alla prevenzione e alla mitigazione dei rischi legati a fenomeni di questo tipo. Con questo testo, Gabriele Di Luca è stato selezionato come autore italiano nel progetto americano ITALIAN PLAYWRIGHTS PROJECT 3a EDIZIONE (2020/22), finalizzato alla promozione della scrittura creativa contemporanea. Nel 2020 è finalista al Premio Le Maschere del Teatro Italiano nella sezione migliore autore di novità italiana. Nel 2022 il testo di ‘Miracoli Metropolitani’ è stato pubblicato dalla casa editrice CuePress. Nello stesso anno, lo spettacolo viene selezionato dalla rivista Birdmen tra i 10 spettacoli imperdibili del 2022. La storia: Mentre le fogne, sature per i continui abusi ambientali, allagano la città, in una cucina fatiscente, si muovono otto personaggi vinti dalla vita: Plinio, ex chef stellato oggi in rovina; la moglie Clara, ex lavapiatti con velleità da imprenditrice; il figlio Igor, ossessionato dal videogame Affonda l’immigrato; Hope, tuttofare etiope mossa da obiettivi moralmente discutibili; Mohamed, professore in Libano, rider sfruttato in Italia; Patty, madre idealista di Plinio, chiamata a un’ultima battaglia: per l’emergenza fogne, il governo ha emanato un decreto di sostegno per i poveri e gli immigrati che scatena la reazione di gruppi di destra. A loro si uniscono Cesare, aspirante suicida divorato dal senso di colpa, e Mosquito, carcerato costretto ai lavori socialmente utili. Uno spettacolo dove si ride tanto, ma dove non si ride affatto… “Miracoli Metropolitani” racconta la solitudine sociale personale: ogni uomo affronta quotidianamente l’incolmabile vuoto che incombe sulla propria esistenza. Siamo di fronte al disfacimento di una civiltà, alla dissoluzione delle relazioni e dell’amore inteso in tutte le sue accezioni, all’azzeramento del ragionamento e del vero “incontro” a favore di dinamiche sempre più malate tra le quali un’insensata autoreclusione nel mondo parallelo del Web, pericoloso sostituto del mondo reale. Il risultato è la più totale solitudine esistenziale, un’avversaria molto più temibile dell’Isis. L’alimentazione, il rapporto con il cibo come forma di compensazione al dolore, come alienazione di un Occidente decadente e sovralimentato, sempre più distratto e imprigionato dai suoi passatempi superflui, la questione ambientale, la solitudine e la responsabilità: sono questi i temi attorno ai quali di sviluppa il mondo di ‘Miracoli Metropolitani’. Insomma, un mondo stupido…. I personaggi sono molto diversi tra loro: partendo da situazioni di fallimento, solitudine e fragilità, trovano un modo per connettersi con il pubblico mostrando il loro lato più umano. Nonostante la loro diversità, questi personaggi hanno in comune la ricerca della verità e dei propri desideri più profondi. Nel libro, il tema del cibo viene utilizzato come metafora del consumismo esasperato della modernità, dove il cibo è diventato una moda pericolosa da cavalcare, piuttosto che una necessità primaria. I protagonisti del libro si trovano a dover cucinare piatti strani e spesso precotti per soddisfare le richieste di un mercato globale che vuole pagare sempre meno e mangiare sempre di più. La descrizione dettagliata delle cucine e dei sapori, tuttavia, cerca di restituire al pubblico la concretezza delle tematiche trattate. Scritto prima dell'emergenza Covid-19, immaginava una società chiusa in casa e in crisi. La storia si svolge in un mondo dove i trasporti sono fermi, l'economia è in crisi e la Messa si celebra solo in streaming. L'esplosione delle fogne diventa un simbolo della rivolta della natura contro l'uomo e la società che ha causato danni ambientali e culturali. Il romanzo si chiede come l'umanità reagirebbe a una tragedia di questa portata e se sarebbe in grado di riconoscere i propri errori e di cambiare rotta. Il romanzo è anche un appello ai cittadini a prendere responsabilità per il proprio futuro e per il mondo che ci circonda. Spettacolo di Carrozzeria Orfeo, drammaturgia Gabriele di Luca, regia Gabriele di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi con (in o.a.) Elsa Bossi Patty, Federico Brugnone Mosquito/Mohamed, Ambra Chiarello Hope, Federico Gatti Igor, Barbara Moselli Clara, Massimiliano Setti Cesare, Roberto Serpi Plinio, Barbara Ronchi per la voce della moglie. Musiche originali Massimiliano Setti, scenografia e luci Lucio Diana, costumi Stefania Cempini. Una coproduzione Marche Teatro, Teatro dell’Elfo, Teatro Nazionale di Genova, Fondazione Teatro di Napoli - Teatro Bellini in collaborazione con il Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna “L’arboreto Teatro Dimora | La Corte Ospitale. Il teatro della Carrozzeria Orfeo si ispira all'ideale artistico "Pop", cioè popolare nel senso più alto del termine, con l'obiettivo di creare uno spettacolo aderente alla realtà che porti sempre più pubblico a teatro, combinando impegno civile e sociale con una visione emozionante e divertente della vita. La compagnia ha consolidato la propria community digitale di circa 50.000 contatti e ha intercettato un nuovo pubblico, raggiungendo numerosi sold out nei maggiori teatri italiani. Il teatro Pop della Carrozzeria Orfeo è fatto di drammaturgie originali che combinano ironia e tragica, divertimento e dramma, attraverso storie che possono essere lette a più livelli. La compagnia sperimenta diversi territori di scrittura, recitazione, messa in scena e composizione musicale originale, offrendo una personalissima visione estetica. Biglietti Intero 14 euro - Over65 12 euro - Under30 10 euro - Convenzioni 11 euro In vendita presso Box Office in via Pallone 16 (lunedì/venerdì 90.30-12.30/15.30 – 19, sabato 09.30/12.30 - tel. 045/8011154) - on line su http://www.boxofficelive.it e http://www.myarteven.it Il botteghino del Teatro Camploy sarà aperto la sera dello spettacolo a partire dalle 20. Programma completo su http://www.spettacoloverona.it, http://www.comune.verona.it sulla pagina facebook L’Altro Teatro Verona, sul profilo Instagram L’Altro Teatro Verona.Camploy.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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vittorioballato · 2 years ago
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fotopadova · 5 years ago
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"Percezioni" di Donatello Mancusi
di Renzo Saviolo
-- Nel variegato panorama delle mostre fotografiche attualmente proposte si mette in luce per la sua problematicità, e quindi interesse, il lavoro “Percezioni” di D. Mancusi autore ben noto e documentato nell’ambito cittadino e nazionale. Si tratta di lavori intriganti che, al di là della qualità intrinseca cui si può senza ombra di dubbio attribuire valore, propongono una serie di questioni cui bisogna rispondere se si vuole aprire una porta di accesso al mondo del Mancusi, coscientemente ed anche incoscientemente mostrato.
Ogni genere noto ha le sue regole, ed i suoi ambiti (ad esempio il ritratto può ben volere cose diverse da un paesaggio, ma quale paesaggio: naturale, urbano, antropizzato ecc.) con particolarità infinite. Possedendone la chiave ogni cosa si dispone al suo posto e la comprensione è possibile. Ma nella ricerca dei linguaggi contemporanei ciò non si dà più, poiché si cerca non solo soluzione a nuovi problemi formali, ma altresì il corso della storia attuale ci mostra che nuove espressioni hanno attuato la distruzione di ogni forma. e ha fatto pensare alla fine stessa della categoria. Tutto ciò per ribadire il concetto che se non si possiede una chiave di lettura, pur parziale, ipotetica, aleatoria, si rischia di allineare soltanto pensieri in libertà.
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© Donatello Mancusi, da Percezioni (Privato)
Perché tanti problemi per Mancusi? Cerchiamo di rispondere alla domanda base. Cosa vogliono far vedere queste immagini? Si tratta di quattro stanze (le stanze della fotografia di Palazzo Angeli) opera dedicata a un soggetto composito. La prima “Privato” mostra immagini in campo medio e colori naturalistici, figure vestite in abbigliamento d’oggi che, dando le spalle all’osservatore, sono rivolte a guardare la superficie dell’acqua da sole o in coppie. Evidente la caratterizzazione concettuale, che non deve essere presa nella sua sola identità che cela altri sensi. La seconda stanza, intitolata “Piccole storie”, mostra scene di vita dagli spazi molto ben caratterizzati. Più che l’atteggiamento delle figure o della spazialità che queste muovono, secondo canoni universalmente usati, narrano un racconto realistico, con un linguaggio fra i più diffusi. La terza stanza “Carta da parati” mostra primi piani di frammenti di fotografie di oggetti banali prelevati dagli ambiti più diversi e generici e assemblati in modo tale da creare dei patchwork che costruiscono una texture in stile Pop dalle variazioni infinite, dove il loro senso è dato da una casualità che diventa sostanza oggettiva. Il ripetersi di questa impostazione crea delle testure apparentemente banali, ma che nel loro iterarsi all’infinito, finiscono per suggerire un senso al quadro che creano. La quarta “Icona” farebbe pensare a uno scopo diverso da quello messo a punto da Rotella negli anni '50, il quale con i suoi strappi cercava di costruire strutture formali al di là dell’eredità Dadaista. In questo caso è del tutto diverso lo scopo: i manifesti consunti di Moira Orfei mostrano, nella loro progressiva dissoluzione, un’immagine che aveva fascino e bellezza, la quale non solo decade ma passa da simbolo a materia indistinta.
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© Donatello Mancusi, da Percezioni (Piccole storie)
Fin qui è tutto chiaro; ma la definizione della cosa non è la cosa, perché questa è stata creata non per la sua forma oggettiva ma per il senso che contiene. Dunque qui abbiamo una diversità nell’insieme delle quattro mostre che devono trovare il loro comune denominatore. Cosa cerca dunque ub senso comune di fronte a fenomeni cosi disparati? Non di certo la forma, ma se cercassimo oltre? Di fatto il senso ultimo di ogni serie potrebbe contenere un elemento unificante che giustifica il trovare la stessa affermazione dentro fenomeni che, proprio in ragione della loro disparità. arricchiscono e danno senso compiuto alla sezione “Privato”. Si giustificherebbe l’interpretazione, e questa acquisterebbe uno spessore proprio in ragione della sua disparità. Accettiamo questo percorso: le immagini di “Privato” si negano a noi, non guardano noi, da noi sono alienate, si specchiano nel loro vuoto (ben rappresentato dall’acqua). Appartengono ad una dimensione in cui il volgere le spalle è simbolo di rifiuto o di dolente indisponibilità. Le “Piccole storie” trovano nell’uso dello spazio l’elemento più espressivo, un vuoto dilatato che alludono a desolazione più che a vitalità. Le figure umane in rapporto agli spazi dentro ai quali si situano, sono impregnati di un vuoto che si è aperto su di loro. Le “Carte da parati” sono apparentemente giocose, un affastellamento di forme e colori di varie natura, dove non è possibile un’ordinata lettura, data l’indistinta vibrazione testuale cui sottopongono lo sguardo dello spettatore. Ancora una volta un pensiero di negazione. Ma questo è abituale, solo ci si può chiedere sotto quale bandiera l’autore deciderà la sua maschera. Ma è con “Icona” che il gioco si fa stringente ed inevitabilmente rivelatore di ciò che non si può più velare.
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© Donatello Mancusi, da Percezioni (Carte da parati)
Riteniamo questo punto il più chiaro mezzo per svelare il processo. E se I quattro elementi invece di essere incongrui accostamenti senza legami fossero in realtà una cosa sola presentata sotto apparenze diverse?  La “Icona” mostra un processo costruttivo. Dal concettuale di “Privato” al realismo di “Piccole storie” al Pop della “Carta da parati” fino al Dada dell’annullamento della “Icona”, forme di un vuoto, che qui fa pensare al Manzoni degli “Acromi” dove vale lo sbiancare della superficie sempre più priva di connotazione leggibile. Chiave di lettura ipotetica è il processo di de-costruzione cui ci ha abituato il contemporaneo e vedremo allora unificate le eterogeneità diventate unità di un fenomeno di azzeramento della realtà; ormai gioco di alienazione da più di un secolo, quindi linguaggio corrente. Questo ragionamento proponiamo come ipotesi qui e ora. Ricordando Hauser: "ogni ipotesi di lettura diversa può essere un arricchimento capace di infondere nuova vita all’immagine".
Ii linguaggi artistici sono polivalenti ed ambigui e l’opera è da considerare un apporto positive alla visione del mondo che ognuno porta con sè ed alcuni privilegiati possono comunicare agli altri. Dovremmo accettare l’ipotesi che le stanze rappresentano non quattro ma un solo senso comune a tutti. Questo è un discorso sul tempo bloccato e privo di sviluppo, portatore di un'angoscia che la modernità ci ha fatto ben conoscere come esorcizzare. La febbre è solo lo sfogo del male, il consumarsi in un'energia che ci vede ancora capaci di reagire.
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© Donatello Mancusi, da Percezioni (Icona)
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Percezioni: Mostra fotografica di  Donatello Mancusi
a cura di Gustavo Millozzi - Padova, Palazzo Angeli - Stanze della  Fotografia, Prato della Valle 1/a.
dal 7 giugno al 28 luglio 2019, orario: 10.00 – 18.00, chiuso il martedì - Ingresso libero.
Comune di Padova - Assessorato alla Cultura
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tlmmagazine · 6 years ago
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di Marta Zoe Poretti
"Grazie a questa incredibile giuria e la sua incredibile presidentessa(…) Grazie ai produttori e tutti quelli che hanno reso possibile questo film e questa sceneggiatura bislacca, grazie per averla preso seriamente come i bambini prendono seriamente i giochi.”
Così Alice Rohrwacher ha ringraziato la giuria di Cannes e Cate Blanchett, che hanno scelto di premiare il suo Lazzaro Felice per la Migliore Sceneggiatura. Come per Marcello Fonte, Miglior Attore grazie Dogman di Matteo Garrone, quella della giuria è una linea precisa: premiare la diversità, il coraggio di un cinema che prende solo strade traverse, capace di mirare al cuore senza cedere alle lusinghe dello spettacolo, né agli artefatti tipici dell’autorialità (vera o presunta).
Il cinema italiano conquista così il Festival di Cannes 2018, con due film che non potrebbero essere più diversi, eppure hanno un sostanziale punto in comune: raccontare la tenerezza, attraverso due protagonisti dal candore assoluto, esclusi brutalmente dalla società e dagli uomini. Come a dire che bontà, gentilezza e dedizione rappresentano ormai un dato non realistico, un sintomo di alienazione, o forse la più inaccettabile tra le provocazioni.
Lazzaro Felice arriva oggi nelle nostre sale. Fin dal primo fotogramma, il terzo lungometraggio di Alice Rohrwacher dichiara la sua diversità, che parte dalla scelta di girare il film in 16 millimetri. Lontana dall’estetica del digitale, ma anche dalla perfezione del 35 millimetri (suo nobile fratello maggiore), il 16mm è la pellicola delle avanguardie e del cinema a basso costo, la cui grana spessa, non perfettamente definita risulta oggi quasi straniante. Nell’era del 4K, la scelta stessa del Super16 rappresenta un invito: abbandonarsi a una fiaba insolita, dai tempi dilatati, imperfetta e fuori dal tempo.
Lazzaro (Adriano Tardiolo) è un mezzadro: come a dire uno schiavo, la cui vita appartiene e dipende dalla Marchesina Alfonsina De Luna (Nicoletta Braschi). Il ragazzo non conosce altra realtà che l’Inviolata, le sue piantagioni di tabacco, il casale dove vive con Antonia (prima Agnese Graziani, poi Alba Rohrwacher) e altre decine di contadini, ammassati come fossero bestiame. Come ogni estate, la Marchesa raggiunge l’Inviolata con suo figlio Tancredi (Luca Chikovani). A differenza della madre, il Marchesino odia la tenuta, e nel disperato tentativo di sfuggire alla noia, sceglie come amico proprio Lazzaro. La bontà di Lazzaro ne aveva già fatto una sorta di scemo del villaggio: quello a cui tutti si rivolgono quando hanno bisogno di qualcosa. Ma tra l’indolente nobile e il candido ragazzo, nasce un’amicizia istantanea e vera. Un legame così autentico che finirà per rivoluzionare la vita di tutti, rompendo quel “grande inganno” che esclude l’Inviolata dalla realtà.
Lazzaro felice è un film senza coordinate: attraversa lo spazio e il tempo, mescolando presente e passato, la realtà più cruda e l’incanto della fiaba. Ma le differenze tra città e campagna, libertà e schiavitù non si rivelano che illusorie. Da Vetriolo e Bagnoregio, dagli scenari del viterbese a Castel Giorgio e la provincia di Terni, fino a una strana modernità metropolitana (che è il mash-up di Milano, Torino e Civitavecchia), il film di Alice Rohrwacher racconta una ferita italiana: ancora quella illustrata nel 1975 da Pier Paolo Pasolini con “La scomparsa delle lucciole”. Una società che ha annientato i valori della cultura rurale, senza riempire il vuoto di autentico progresso.
Uno scenario ferale, dove la sopraffazione e l’esclusione dei più deboli si consolida come norma, finalmente invincibile, già che non corrisponde più a una Signora Marchesa, ma al muro senza volto di una società intera.
lazzaro felice
lazzaro felice
lazzaro felice
  Sia il film di Alice Rohrwacher che Dogman di Matteo Garrone sono l’esempio di un cinema italiano finalmente moderno, che conosce e interpreta le sue radici, su tutte la lezione neorealista: infinitamente replicata, ma raramente così meditata, compresa e riscritta nell’ottica di un racconto contemporaneo.
Con Dogman, Garrone proietta una leggenda della cronaca nera (quella del Canaro della Magliana) nel tempo presente e nello spettrale scenario del Villaggio Coppola di Castel Volturno. Un luogo letteralmente ai confini della realtà, paradiso balneare della criminalità organizzata, ormai tetro monumento alla speculazione edilizia.
Se Garrone è tornato alla stessa location de L’imbalsamatore (2002), anche il legame con Primo Amore (2004) è dichiarato: il volto sinistro e beffardo di Vitaliano Trevisan (che del film era protagonista e sceneggiatore) è tra i primi ad accogliere l’arrivo di Marcello in carcere.
Marcello Fonte è Dogman ma resta Marcello: il premio a Cannes per il Miglior Attore è anche un premio per l’autore, che (ancora una volta) ha scelto un attore vissuto ai margini dello spettacolo per interpretare un uomo ai margini della società. Più oltre, il lavoro di Garrone con Marcello Fonte trova un equilibrio irripetibile tra tragedia classica e quella “teoria del pedinamento” che è alla base della nascita del Neorealismo.
In Dogman, come nella tragedia classica, il destino dell’eroe è noto fin dall’inizio, mentre la storia procede fatale verso una rovina ineluttabile.
Il dispositivo più antico e potente della tragedia incontra qui il cinema di Cesare Zavattini: l’idea di pedinare il personaggio, in un corpo a corpo che rivela attraverso espressioni e gesti comuni l’anima profonda del personaggio.
Dogman diventa così una perfetta tragedia contemporanea, dove umanità e verità si rivelano nel paradosso dell’alterazione iperrealista.
dogman di matteo garrone
marcello fonte, dogman
dogman di matteo garrone
  Meno perfetta la pellicola di Elice Rohwacher, bislacca per la sua stessa autrice, che rinuncia all’equilibrio e rifiuta la dittatura del ritmo, perché risplenda la magia del silenzio, dei primi piani, del suo Lazzaro.
Anche il realismo magico di Lazzaro felice, fiaba e racconto morale dal sostrato dichiaratamente politico, è intimamente legato al Neorealismo e la sua rivoluzionaria idea di profondità e “pedinamento”.
Per questo, poco importa delle imperfezioni: in un mercato impazzito, schiavo di continue nuove uscite (destinate presto a bruciarsi in nome della moltiplicazione dell’offerta) Dogman e Lazzaro felice sono l’affermazione di un cinema necessario, dalla vera urgenza narrativa, che domanda tempo, sensazioni e tutta la nostra attenzione.
#thelovingmemory
#Dogman #LazzaroFelice
#Dogman e #LazzaroFelice : cosa raccontano i film italiani premiati a #Cannes di Marta Zoe Poretti "Grazie a questa incredibile giuria e la sua incredibile presidentessa(…) Grazie ai produttori e tutti quelli che hanno reso possibile questo film e questa sceneggiatura bislacca, grazie per averla preso seriamente come i bambini prendono seriamente i giochi.”
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jamariyanews · 7 years ago
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La Libia nel tempo lungo della guerra globale
2 marzo 2016
di Antonio Pio Lancellotti
 Uno degli effetti più tangibili delle trasformazioni che hanno investito la guerra globale nella contemporaneità è la sua alienazione da qualsiasi forma di dibattito pubblico e politico. Non è un caso che il tema della guerra sia completamente assente nella bagarre elettorale che precede le primarie per le presidenziali statunitensi. Questo è in parte dovuto al neo-isolazionismo che pervade il mondo politico statunitense e che, a partire dal secondo mandato di Obama, ha fatto emergere un nuovo concetto di “interesse nazionale”. Interesse basato sull’aumento della sicurezza interna, sulla protezione dei confini e, dato non secondario, sulla sottrazione del debito pubblico da possibili manovre speculative di potenze straniere, in particolare la Cina. L’exit strategy obamaniana, in particolare dal Medio Oriente e dall’Asia centrale, che non sembra essere messa in discussione da nessuno dei nuovi candidati alla Casa Bianca, è però anche il frutto di una maturata consapevolezza che l’atto di forza nel gestire unilateralmente i conflitti del mondo globalizzato (il cosiddetto golpe nell’Impero tentato dall’amministrazione Bush dopo l’11 settembre 2001) è definitivamente fallito.
La fine dell’unilateralità della governance imperiale e le trasformazioni economiche e politiche che la crisi sistemica ha creato su scala globale hanno lasciato posto alla formazione di nuovi assetti di potere. Ne sono scaturiti fragili equilibri geo-politici tra potenze continentali emergenti i cui interessi, sul piano del controllo delle risorse, dei territori e dei flussi mercantili e finanziari, sono spesso contrapposti.
La guerra contemporanea, nella sua dimensione multipolare, espande i suoi fuochi ed il suo raggio d’azione, estende le proprie asimmetrie, ma soprattutto contribuisce ad amplificare le forme di controllo e dominio del capitale sulla vita. La guerra contemporanea è quella guerra all’umano che viene compiuta quotidianamente sulle migliaia di persone in marcia verso l’Europa: corpi mobili che esprimono (per ragioni politico-militari, economiche e climatiche) l’impossibilità della riproduzione della vita in alcune aree della Terra. La militarizzazione dei confini e l’uso coercitivo sempre più frequente della forza pubblica sui migranti si intrecciano in maniera inequivocabile con l’aumento della violenza poliziesca nella gestione delle vertenze sociali. Lo abbiamo visto in alcune lotte, localizzate principalmente nel Nord-Italia (vedi la vertenza Prix di Grisignano), che hanno interessato il mondo della grande distribuzione o nello sgombero forzato di case e palazzine occupate per rispondere all’emergenza abitativa. Se da un lato l’uso della coercizione è diretta espressione di una statualità residuale che esprime la propria sovranità solamente nell’egemonia della forza, dall’altro risponde direttamente alle esigenze di un rinnovato rapporto tra capitale e vita, in cui si è rotta qualsiasi forma di mediazione. In entrambi i casi emerge il carattere, molecolare e diffuso, dalla guerra come prassi normalizzata nella risoluzione dei conflitti.
La guerra contemporanea fa oggi i conti anche con l’esautoramento dall’alto dello Stato di diritto, inteso come forma storicamente stratificata di organizzazione della società, basata sull’affermazionede iure della democrazia nella gestione del potere e della partecipazione alla vita pubblica. Sebbene il concetto di democrazia sia troppo complesso da spiegare in poche righe ed abbia spesso rappresentato quella foglia di fico attraverso cui la sinistra istituzionale ha coperto la propria incapacità di leggere le contraddizioni sociali della post-modernità, i nuovi assetti post-democratici impongono una riflessione accurata sul modo in cui le élites riconvertono i propri dispositivi di dominio di classe e normazione giuridica. Le modifiche alla Costituzione francese, in seguito alla dichiarazione dello Stato di emergenza da parte di Hollande dopo gli attentati del 13 novembre 2015, rappresentano un vettore attraverso cui la guerra, interna ed esterna, egemonizza il politico, divenendo elemento costituente dei nuovi assetti di potere.
La guerra sta dunque ridefinendo il suo carattere globale e permanente, il suo continuo trasformarsi nel tempo lungo, e sta drammaticamente acquisendo sempre più il carattere dell’ineluttabilità. Per questa ragione la guerra viene sottratta al dibattito pubblico, diventa questione privata, a tratti oscura, delle élites e dei loro interessi. Viene unilateralmente dichiarata attraverso vertici ad hoc e pianificata mediante accordi governativi che non passano neppure al vaglio parlamentare.
La guerra in Libia da parte della coalizione internazionale, che di fatto è iniziata lo scorso 21 febbraio con l’attacco aereo statunitense a Sabrata (cittadina ad Ovest di Tripoli, da novembre aspramente contesa dall’alleanza Alba libica ed i miliziani dell’Isis), è l’espressione più evidente della completa assenza di un dibattito pubblico.
In Italia il governo Renzi, che ha recentemente stretto accordi con quello statunitense per l’utilizzo della base di Sigonella come luogo di partenza degli 11 droni che verranno utilizzati per colpire le 118 postazioni considerate “sensibili”, si è tenuto ben lontano dall’inserire la guerra in Libia come tema di discussione parlamentare. Nonostante questo il nostro Paese si è da tempo offerto di guidare la coalizione di guerra. Non a caso l’Italia ha ospitato sia la conferenza Onu sulla Libia, tenutasi a Roma lo scorso 13 dicembre, il cui piano di unificazione del Paese è fallito nei giorni scorsi, sia lo “small group” della coalizione, riunitosi alla Farnesina il 2 febbraio, in cui si sono definite le linee guida dell’attacco.
Rispetto all’utilizzo di Sigonella sia Renzi che Gentiloni continuano a nicchiare. Da un lato evocano a sé la piena titolarità della definizione delle regole d’ingaggio, dall’altro delegano completamente all’alleato americano la responsabilità dell’utilizzo di armi d’attacco, come gli AGM-114 Hellfire che partiranno dalla base italiana. E’ ancora tutta da chiarire, inoltre, la disponibilità concessa dal governo italiano di 5.000 soldati da utilizzare in un’eventuale missione di terra. Dopo il fallimento del piano Onu, che aveva come priorità quella di salvaguardare l’unità della Libia attraverso la creazione di un Governo nazionale che fosse espressione sia del parlamento di Tripoli che di quello di Tobruk, l’ipotesi di un intervento di terra sembra diventare, giorno dopo giorno, più concreta. Solo in questo modo verrebbe garantita, sul piano politico e militare, la tripartizione del Paese in tre aree di azione ed influenza (italiana, francese e britannica), che rappresenta l’essenza del piano B studiato dall’Onu già durante la conferenza del 13 dicembre.
Se da un lato l’unità della Libia non sembra più una priorità per nessuno, dall’altro le modalità attraverso cui la diplomazia internazionale sta cedendo il campo all’ipotesi di un conflitto armato di ampia intensità fanno riecheggiare i più beceri istinti coloniali dei Paesi occidentali nel territorio libico. L’Italia in particolare preme sull’acceleratore, nel tentativo di rincorrere francesi ed inglesi nella lotta per il controllo delle risorse petrolifere e naturali.
Il fallimento del piano Onu, e la conseguente guerra che ne scaturisce, vanno inoltre inquadrati nel più generale fallimento della politica internazionale in Libia, la cui incapacità di garantire una stabilità dopo la caduta e l’uccisione di Gheddafi è intrinsecamente connessa alla brutalità con cui sono state condotte le operazioni militari nel 2011, soprattutto da parte degli Stati Uniti. Il vuoto politico ed istituzionale creatosi nel Paese nord-africano dopo la guerra civile e la deposizione di Gheddafi ha avuto un duplice effetto.
Da un lato la barriera che frenava il transito dei migranti dal continente africano all’Europa si è spostata dalla sponda sud del Mediterraneo a quella nord. La Libia storicamente ha svolto un ruolo di regolazione e controllo dei flussi migratori, in particolare dopo gli accordi di Bengasi, siglati nel 2008 tra l’ex leader libico e l’allora presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi, che di fatto hanno reso la Libia la più grande prigione a cielo aperto per migranti di tutto il mondo. La fine del cosiddetto “tappo libico”, correlata con l’aumento delle politiche restrittive sull’immigrazione fatte in Europa, ed in particolare in Italia, ha consegnato migliaia di uomini e donne alla mercé della criminalità organizzata transnazionale, arricchitasi con il traffico di migranti, con le tragiche conseguenze a tutti note.
L’altro effetto che ha avuto la fine del regime è stata l’unificazione, e l’assunzione di un ruolo politico e militare sempre più influente ed organizzato, di quelle milizie jihadiste radicali che in precedenza erano state utilizzate dalle grandi corporation straniere per difendere i propri interessi. Come dice Antonio Mazzeo in una recente intervista rilasciata a Globalproject.info, la nascita dell’Isis in Libia ha avuto una gestazione del tutto simile a quella avvenuta in Siria ed Iraq ed è direttamente connessa con gli effetti della guerra e con il ruolo interno giocato dalle potenze straniere in questi Paesi.
Cinque anni dopo ci ritroviamo con una guerra sulle spalle, un Paese diviso e lacerato da conflitti interni ed un’altra guerra, probabilmente più disastrosa, ancora da cominciare. La sintesi perfetta di un fallimento annunciato ed, al tempo stesso, la perversione della guerra globale nella sua necessità di doversi continuamente riprodurre.
Fonte: Global Project 
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fiammatricoloresicilia · 8 years ago
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LA SCISSIONE DEL PD: SI, NO, FORSE... RIFLESSIONI SULLA SINISTRA
PIÙ A DESTRA DEL MONDO
 di Michele Rallo
Potrebbe sembrare un titolo provocatorio. Soprattutto considerata la matrice destrorsa di chi scrive. Ma così non è, dal momento che il sottoscritto si considera seguace della destra più a sinistra del mondo. Ricordo una frase di Almirante: «Se parliamo di Dio, Patria e Famiglia, non c’è nessuno più a destra di noi. Se parliamo di Stato Sociale, non c’è nessuno più a sinistra di noi.»
Ma lasciamo stare “quella” destra, e torniamo a “questa” sinistra, di cui oggi (scrivo queste note domenica mattina) si deciderà il destino. E – sia detto per inciso – insieme al destino del PD si deciderà il destino del sistema elettorale italiano: se si dovrà rimanere ancorati al sistema anglosassone dei grandi contenitori fungibili (centro-destra e centro-sinistra, repubblicani e democratici, conservatori e laburisti, eccetera); o se, invece, si dovrà prendere atto dell’anima pluralista (e proporzionalista) della democrazia
italiana, muovendosi in direzione di aggregazioni omogenee e non di insalate miste, a sinistra come a destra.
Succeda quel che succeda, comunque, una cosa è certa: in quello che è il contenitore della pseudo-sinistra ufficiale, si è ormai raggiunto il limite massimo di sopportazione verso le politiche di estrema destra economica che hanno raggiunto l’acme con il Vispo Tereso: dall’abolizione dell’articolo 18 alle “tutele crescenti” del Jobs Act, dalla “buona scuola” alla gestione familistica delle crisi bancarie, dalla prosecuzione della funesta pratica delle privatizzazioni alle leggi elettorali liberticide, fino a quella assurda riforma costituzionale (strabocciata dagli elettori) che recepiva i “consigli” della J.P.Morgan e delle banche d’affari americane.
Certo, una parte non secondaria nell’esasperare la situazione l’ha anche avuta la presunzione, la prepotenza, la supponenza, l’arroganza, il padreternismo del ragazzo. È chiaro ed evidente che il Renzi ha gestito tutta la vicenda all’insegna del suo “Io” smisurato, da “Enrico stai sereno” in poi: le riforme scritte nel presupposto di essere sempre lui a vincere le elezioni, la promessa di lasciare tutto se fosse stato sconfitto al referendum, l’incredibile “abbiamo scherzato”, ed infine la pretesa di imporre la sua leadership al PD attraverso un congresso-lampo “cotto e mangiato”, anche a rischio di portare quel partito al tracollo elettorale.
Tutto questo ha di sicuro inciso sul redde rationem in atto. Ma – mi ripeto – a determinare la svolta drammatica di questi giorni è stato un altro fattore: la presa di coscienza che il partito erede del PCI persegue oggi una linea politico-economica che è oggettivamente di destra, di estrema destra. E non mi riferisco certo alla destra politica, quella che Almirante esaltava nella tutela dello Stato Sociale. Mi riferisco all’altra destra, alla destra economica,
quella dei Rotschild e di Wall Street, quella della BCE e del Fondo Monetario Internazionale, quella del debito pubblico e della speculazione finanziaria, quella della globalizzazione e delle privatizzazioni, quella delle pensioni “contributive” e dell’addio al posto fisso, quella della riduzione della spesa pubblica e del massacro sociale.
Orbene, è a questa destra bieca, retrograda, antipopolare che la sinistra italiana si è sottomessa e allineata. Ma – attenzione – questo è un processo che è iniziato ben prima di Matteo Renzi. Il ragazzotto toscano è soltanto il tragico punto d’arrivo di una abiura che viene da lontano: almeno dagli anni ’70, quando i “miglioristi” di Giorgio Napolitano teorizzavano la “moderazione salariale” in funzione anti-inflattiva, quando si buttavano al macero decenni di cultura gramsciana e li si sostituiva con l’intellettualismo radical-chic di “Repubblica” e della spocchia scalfariana.
Andazzo che aveva una brusca impennata con la caduta del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica, quando la classe dirigente del PCI si convinceva dell’ineluttabile trionfo del capitalismo anglosassone e si apprestava a montare sul carro del vincitore. Nel 1991 Achille Occhetto gestiva il congresso che segnava lo scioglimento del PCI e la nascita di un Partito Democratico della Sinistra che avrebbe dovuto «unificare le forze di progresso».
Ed eccole le forze di progresso, prodighe di smorfiette e pacche sulle spalle per quella “grande forza democratica” che si apriva alla modernità, alla moderazione e, in una parola, al mercato. I “progressisti” che facevano gli occhi dolci ai comunisti pentiti erano quelli delle ali sinistre di DC e PSI, quelli che, dopo aver tenuto a battesimo la privatizzazione del sistema bancario italiano
(con Andreatta nel 1981 e con Amato nel 1990), volevano sbolognarsi adesso anche la grande, preziosa industria pubblica del nostro Paese. Il guru della alienazione dei beni pubblici era un giovane virgulto della loro serre: Romano Prodi, allievo prediletto di Beniamino Andreatta, che sarà il dominus incontrastato delle privatizzazioni nella sua qualità di Presidente dell’IRI (1982-89, poi 1993-94). Prodi aveva tutte le carte in regola per fare carriera in uno schieramento della più ortodossa destra economica: a parte i numerosi incarichi ministeriali, sarà consulente della Goldman Sachs (1990-93 e poi dopo il 1997), e financo amico di quello stramiliardario Georges Soros che, con un attacco speculativo mirato, aveva messo in ginocchio la lira italiana nel 1992. Quello stesso Soros – sia detto tra parentesi – a cui il prof. Prodi propizierà poi una laurea honoris causa dall’università di Bologna (1995).
Ebbene, era proprio a Romano Prodi che il PDS (di cui era frattanto divenuto segretario Massimo D’Alema) si rivolgeva nel 1995 per chiedergli di capitanare l’alleanza di tutte le sinistre contro l’odiato Berlusconi. Nasceva così l’Ulivo (PDS + Margherita democristiana) che andava a vincere le elezioni del 1996. Prodi diventava Presidente del Consiglio, con i brillanti risultati che si ricordano.
Ammaliato dalla travolgente esperienza politica dell’Ulivo, il PDS faceva un altro passo verso la socialdemocratizzazione: cambiava ancora nome, si trasformava in DS, Democratici di Sinistra, e si affidava alla guida illuminata di Walter Veltroni, il più “amerikano” dei compagni, quello del ”Yes we can” (1998).
Poi – tutti insieme appassionatamente – DS, Margherita e Ulivo si scioglievano e confluivano nell’ultima creatura: il PD,
Partito Democratico, stesso nome del fratello maggiore americano (2007).
Il resto è storia recente, fino all’arrivo del Vispo Tereso (dicembre 2013) ed ai suoi trionfi.
La Sinistra, intanto, è andata dispersa. Prossimamente – forse – se ne occuperà “Chi l’ha visto?”.
P.S. Per una singolare coincidenza, mentre il PD marcia – forse – verso la scissione, alla sua sinistra nasce un’altra formazione politica, Sinistra Italiana. Si tratta di una iniziativa “di nicchia”, ma certamente di una iniziativa seria. Non credo, invece, che altre proposte – come quella di Pisapia – abbiano molto da dire al “popolo della sinistra”.
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