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“Nel condominio di carne” di Valerio Magrelli: Un Viaggio Autobiologico tra Corpo e Psiche, Recensione di Alessandria today
Un’intima esplorazione del corpo umano, tra letteratura e scienza, in una narrazione originale e viscerale
Un’intima esplorazione del corpo umano, tra letteratura e scienza, in una narrazione originale e viscerale “Nel condominio di carne” è un’opera unica nel panorama letterario, in cui Valerio Magrelli esplora il proprio corpo come un “condominio” abitato da innumerevoli entità e memorie. Questo libro rappresenta un viaggio interiore tra anatomia e introspezione, in cui l’autore si racconta…
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Jelena Dokić
https://www.unadonnalgiorno.it/jelena-dokic/
Jelena Dokić, tennista che, nel 2002 ha raggiunto la quarta posizione nella classifica mondiale.
Oggi è un’allenatrice, scrittrice e commentatrice televisiva.
Nata a Osijek, in Croazia, il 12 aprile 1983, è professionista dal 1998 e ha vinto sei titoli WTA in singolo e quattro in doppio.
Nel 2000 ha raggiunto la semifinale a Wimbledon e alle Olimpiadi di Sydney.
Si era trasferita a Sydney, in Australia, dove ha preso la cittadinanza, nel 1994, con la famiglia, a causa dei conflitti jugoslavi.
Precoce talento nel tennis, a 16 anni è già nelle classifiche mondiali.
Nel 2001, in polemica con l’organizzazione degli Australian Open, è tornata a Belgrado dove ha preso la nazionalità serbo-montenegrina, pur rimanendo cittadina australiana. Ma questa permanenza ha coinciso con una fase terribile della sua carriera, è scesa fino alla 349ª posizione del ranking mondiale e dichiarato di non voler avere più niente a che fare con suo padre che le faceva da allenatore.
Solo molti anni dopo, nella sua biografia dal titolo Unbreakable, ha raccontato di essere stata vittima di forti e ripetuti abusi fisici, verbali e mentali, da parte del padre, Damar Dokic, considerato uno dei genitori più violenti e pericolosi nella storia del tennis.
Nel 2005 era tornata in Australia e partecipato a vari tornei, ma aveva perso la carica e la forza dei primi anni.
Si è ritirata definitivamente nel 2014.
Ha iniziato, quindi, a lavorare come commentatrice televisiva e pubblicato la sua autobiografia, in cui ha raccontato la sua vita di sofferenze e tentativi di suicidio.
Afflitta da ipertiroidismo, ha preso molto peso, entrando in una continua altalena di forma fisica.
Utilizza i social media per scrivere post motivazionali e molto personali, spesso dedicati alla salute mentale. Contro il body-shaming, ha mostrato tre foto scattate in momenti diversi della sua vita, domandando se fosse meno degna nella foto in cui pesava 120 chili rispetto a un’altra in cui era in perfetta forma atletica. Ha raccontato di essersi rifugiata nel cibo per sfuggire ai traumi e di quanto sia importante non giudicare le persone per il loro aspetto e restare sempre gentili.
Ha raccontato degli abusi ricevuti dal padre da bambina e da adolescente e che lui non fosse stato soddisfatto neppure dopo la semifinale di Wimbledon nel 2000.
Unbreakable parla dell’esistenza di una persona vulnerabile, cresciuta tra abusi fisici e psicologici da parte di un padre che non si è mai scrollato di dosso le ferite del passato e che non è mai riuscito a fare pace con se stesso, riversando le sue frustrazioni sulla figlia. Hanno provato un riavvicinamento, ma non è stato possibile perché l’uomo continua a restare arroccato nelle sue ragioni. Nel libro ha raccontato di quanto le percosse fossero dolorose, anche se non arrivavano mai al punto di impedirle di giocare a tennis. Si è lamentata di come il mondo dello sport abbia preferito voltarsi dall’altra parte anche se, ella stessa, quando la federazione australiana di tennis ha denunciato le violenze nei suoi confronti, aveva difeso pubblicamente il padre. Era talmente assuefatta ai maltrattamenti che li viveva come se fossero normali, fino a quando non ha trovato la forza ed è scappata di notte portandosi via soltanto le sue racchette.
Urlare al mondo la propria sofferenza è stato sicuramente liberatorio e per questo ha deciso di usare post motivanti per altre persone che soffrono.
Ha confessato anche di aver tentato il suicidio, ma tra alti e bassi, continua ad essere una grande professionista del mondo del tennis che adesso vive fuori dal campo e una donna coraggiosa che, nonostante le mille cicatrici, prova ad andare avanti e resistere.
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Faremo questa volta conoscenza con un grande matematico che ha rivoluzionato la geometria e influenzato molti altri campi della conoscenza, ma è universalmente riconosciuto come il padre di quegli strambi oggetti geometrici chiamati frattali.
Sì, avete capito bene, stiamo parlando proprio di lui, Benoit Mandelbrot, scienziato franco-polacco che pur essendo un matematico di formazione, avrebbe meritato il Nobel per l’Economia alla stregua di John Nash, il protagonista del film “A Beautiful Mind”. Aspirò tutta la vita a ottenere un così importante e meritato il riconoscimento, purtroppo senza successo.
La biografia di Mandelbrot non è lineare: nacque a Varsavia nel 1924 da famiglia ebraica, madre medico, padre uomo d’affari. Uno dei suoi zii da parte paterna viveva in Francia ed era un matematico di vaglia. È proprio in Francia che la famiglia di Benoit si rifugiò nel 1936, quando la situazione degli ebrei in Polonia volse al peggio.
Alla fine della guerra il giovane si fece notare come uno dei migliori studenti di matematica dell’università di Parigi, dove si laureò nel 1947.
Da qui scelse di virare verso altri lidi spinto dalla grande aspirazione di potersi dedicare alla matematica applicata.
Approdò quindi al dipartimento di Ingegneria Aeronautica del prestigiosissimo CalTech.
Sotto il sole della California allargò, insaziabile com’era, i suoi campi di ricerca cominciando a interessarsi di teoria dell’informazione, di fisica, di statistica, di logica e struttura del linguaggio, e qui scrisse la sua tesi di dottorato.
Si spostò quindi a Princeton dove ebbe modo di lavorare con John Von Neumann, pioniere della computer Science nonché proprio della teoria dei giochi.
In seguito, una comprensibile nostalgia per l’Europa, unitamente al desiderio di esplorazione scientifica, lo indusse ad attraversare ancora una volta l’Atlantico e venne accolto a braccia aperte dallo psicologo Jean Piaget a Ginevra. Ma ogni realtà era troppo piccola e inadeguata per lui: impossibile relegarlo dietro una cattedra universitaria seppur prestigiosa, o rinchiuderlo in un laboratorio di ricerca. Era troppo eclettico per lasciarsi inquadrare. Da esploratore indomito attraversò nuovamente l’oceano e il suo peregrinare si concluse per modo di dire al Thomas J. Watson Research Center della IBM nello stato di New York.
Gli piaceva autodefinirsi un aspirante Keplero della complessità, paragonandosi al famoso e rivoluzionario scienziato del ‘600. Poi la svolta definitiva.
All’inizio degli anni ’70 un amico matematico gli suggerì di smetterla di pubblicare saggi su argomenti tanto eterogenei e di provare a dirigerli in una direzione più precisa.
Il consiglio fu seguito e Benoit mise a fuoco la sua teoria unificatrice. Diede alla sua brillante idea un nome curioso ed evocativo allo stesso tempo: frattale. Ma cos’è un frattale? Beh, proviamo a spiegarlo nella maniera più semplice possibile. Prendiamo un broccolo romanesco. Non stiamo scherzando: il broccolo romanesco è forse il più semplice e miglior esempio di frattale a nostra disposizione. Questo semplice vegetale, a causa della sua forma stupefacente, alimenta da quasi un secolo a questa parte, profondi e complessi quesiti in biologia e matematica.
E’ infatti un oggetto abbastanza sofisticato che gode di una proprietà sorprendente: guardato a scale diverse sembra sempre la stessa cosa, la sua forma si ripete.
Se ad esempio lo guardiamo sui banchi di un supermercato a una distanza di dieci metri, i nostri occhi e la nostra mente tenderanno a identificarne la forma come una sorta di piramide. A questo punto decidiamo di acquistarlo e ci avviciniamo per vedere il prezzo. Lo prendiamo in mano soppesandolo ben bene. Noteremo per prima cosa che la sua superficie è costituita da rilievi geometrici e bitorzoluti che si ripetono e si intrecciano in una spirale.
Se poi si osserva ancora più da vicino un singolo bitorzolo, si scopre che anche questo è a sua volta fatto di bitorzoli più piccoli che sono disposti secondo lo stesso schema.
Fondamentalmente, quindi, il broccolo romano è “riempito” da una gran quantità di miniature di broccoli romani, ripete la sua struttura come se fosse una matrioska a infiniti pezzi. L’effetto è quasi ipnotico.
A prima vista, questo tipo di strutture sembrano inusuali o addirittura bizzarre, ma si applicano a ogni cosa, dai broccoli romani alla struttura dell’universo, rivelando il segreto della armonia interna della natura.
Se, ad esempio, passeggiando in un bosco ci mettiamo a osservare le cortecce degli alberi, vedremo che esse hanno una struttura simile, con alcune scanalature profonde e altre superficiali.
Se si spezza un ramo ci sembrerà di avere in mano un albero in miniatura. C’è lo stesso gioco di diramazioni che continua in sé stesso. Ma perché la natura preferisce costruire oggetti così complessi?
Nel caso dell’albero la spiegazione è semplice: più è ramificato e più superficie è in grado di coprire, e più superficie copre più aumenta la sua capacità di assorbire anidride carbonica e quindi di produrre ossigeno.
Un esempio simile possiamo averlo guardando i nostri polmoni, che osservati al microscopio appaiono ricoperti da un complicatissimo intrico di vene. La loro funzione è quella di incamerare l’ossigeno che deve essere trasmesso al sistema circolatorio. Capiamo bene che più sono fitte e numerose le vene sulla loro superficie esterna, più agevole ed efficiente sarà il processo di ossigenazione. La geometria frattale è ovunque intorno a noi: felci, cespugli, crateri della Luna, fluttuazioni del mercato azionario, l’incidenza di grandi e piccole alluvioni, i movimenti delle rocce nelle profondità della Terra che causano i terremoti. E’ un elenco sterminato, c’è chi ne fa opere d’arte astratta e addirittura chi pensa che in futuro potremo applicarlo anche alla psiche e ai sentimenti. Ma questa è un’altra storia naturalmente, ben più rischiosa dei mercati finanziari e quindi non ci addentriamo. Una precisazione è doverosa: storicamente i frattali non sono scaturiti all’improvviso dalla mente geniale di Mandelbrot, poiché già alla fine del IX secolo, gli analisti si divertivano a trovare esempi di “funzioni patologiche” che avevano un comportamento inaspettato.
Mandelbrot comunque è di fatto il padre della geometria frattale, ma la radice di questa geometria possiamo trovarla in matematici come Cantor o Peano, che ad esempio aveva definito la curva che porta il suo nome, una linea che riempiva un quadrato. Una evoluzione in questa direzione era stata apportata da Koch: la curva a fiocco di neve che aveva una lunghezza infinita pur contenendo un’area finita. Entrambi gli esempi hanno alcune proprietà in comune.
Innanzitutto sono ottenuti con un processo che si ripete all’infinito, e quindi non possiamo disegnarne che un’approssimazione; in secondo luogo questo processo da un punto di vista matematico viene definito autosimile, nel senso che a ogni passo la figura parziale che si ottiene è una complicazione della struttura creata al passo precedente formata unendo più copie rimpicciolite della struttura stessa.
Addentratosi in questi argomenti di matematica pura Mandelbrot portò avanti il suo percorso scientifico non convenzionale, e pur essendo caratterialmente portato a fare affidamento sull’intuizione, riuscì a dimostrare rigorosamente che si potevano capire questi tipi di strutture complesse applicando e reiterando regole semplici.
Fu quindi effettivamente un piccolo Keplero, ma armato di microscopio.
Con il suo approccio alla matematica quasi visionario, diede luogo a una rara, rivoluzione, cosa insolita in matematica, dove si procede apponendo tasselli di conoscenza gli uni sugli altri, gradualmente e senza i sovvertimenti tipici di altri rami del sapere scientifico. A metà anni ‘70 Mandelbrot era ormai famoso in tutto il mondo, come un marinaio che dalla cima di una nave, ha intravisto per primo una terra sconosciuta. Nella sua autobiografia scrisse che in realtà le nuvole non sono sfere, le montagne non sono coni, le coste di un’isola non sono cerchi e le cortecce non sono lisce. Neppure i fulmini viaggiano secondo una linea dritta.
Naturalmente in fase iniziale, non tutta la comunità scientifica era unita nel riconoscere l’importanza e l’utilità dei frattali. Molti si chiedevano se fossero da accantonare o se si potesse davvero sviluppare una teoria matematica che approfondisse la struttura di un broccolo! L’incertezza spronò un’intera generazione di scienziati e matematici che cominciarono a studiare e ad approfondire non solo la forma dei frattali, ma anche i processi che li generavano.
Adesso i frattali hanno valicato i confini della matematica invadendo territori di competenza di molte scienze, fino a quelli dell’arte e della musica. Basta cliccare in rete per avere lo schermo invaso da spirali che si avvolgono su altri vortici, scacchiere che si ripetono, sottili ramificazioni che crescono all’infinito. Sono rappresentazioni grafiche di «frattali» tracciate da potenti programmi di grafica. Tutti siamo cresciuti alla scuola della geometria di Euclide abituandoci a pensare che la natura sia lineare e rigidamente consequenziale. Ma la realtà è molto più complessa, i fenomeni spesso non sono lineari, un insieme di fenomeni sfocia nel caos. Il mondo è dei frattali, dal latino “fractus”, spezzato.
Frattali sono le figure geometriche la cui dimensione non è intera ma frazionaria: il punto non ha dimensioni, la retta ne ha una, il quadrato due, il cubo tre. I frattali invece possono avere qualsiasi altro valore intermedio.
Questa dimensione frazionaria può affascinare sia gli esperti sia chi non ha dimestichezza con la matematica. C’è infatti qualcosa di artistico negli insiemi frattali e non mancano gruppi New Age che adoperano rappresentazioni grafiche dei frattali come strumento per fare meditazione.
Noi ci incantiamo nell’osservarli, al pari del geniale romanziere di solidissima formazione fisico-matematica Arthur C. Clarke, famoso per il racconto che ha poi portato alla realizzazione del film “2001:Odissea nello spazio”. L’universo stesso può essere descritto come un unico gigantesco frattale di frattali. Mandelbrot ha scoperto le leggi geometriche che si nascondono dietro i frattali, le ha tradotte in formule matematiche e poi in programmi per computer. A loro volta i computer hanno permesso di tradurre in immagini le conseguenze delle leggi intuite da matematici, fisici, biologi, dando vita a una geometria informatico sperimentale.
Il meteorologo Lorenz ad esempio, scopritore degli “attrattori strani” – tipico esempio di comportamento caotico – scrisse che “Un battito d’ali di una farfalla ai Tropici può scatenare un nubifragio su New York”.
I frattali di Mandelbrot sono la miglior descrizione del caos a nostra disposizione, che ci sono indispensabili per lo studio dei cosiddetti moti Browniani e dei modelli che cercano di interpretare i movimenti delle particelle che si urtano tra loro all’interno dei fluidi.
Veniamo adesso a un esempio più attuale e interessante di applicazione del concetto di frattale: le commodities. Ma che cosa sono le commodities?
Beh innanzi tutto diciamo che sono oggetti da cui gli investitori non professionisti dovrebbero tenersi alla larga. Per gli speculatori però sono il pane e burro quotidiano, perché chiunque sia un poco addentro all’altissima finanza sa bene che quanto avviene nei mercati è solo in apparenza casuale. Questo argomento circa la casualità o meno di quanto accade in borsa è un argomento ampiamente dibattuto nella comunità degli economisti.
Mandelbrot stesso spese gran parte degli ultimi dieci anni a trovare strutture frattali nei mercati monetari per capire le regole soggiacenti alle grandi fluttuazioni, spalancando la strada a nuovi paradigmi d’interpretazione dei fenomeni statistici.
Un insolito matematico sognatore che, come pochi prima di lui, ha fatto ordine nel caos. Un consiglio per affrontare la malinconia che ci coglie tutti alla fine dell’estate. Possiamo divertirci disegnando un insieme di Mandelbrot. Online si trovano le istruzioni, bastano un foglio e tre matite colorate per immergersi in una realtà fantasmagorica. Se avrete un pochino di pazienza vedrete fiorire sotto le vostre mani un labirinto dalle geometrie esatte, magari non perfette come quelle che vengono disegnate dal computer attraverso costosi programmi di grafica, ma c’è da scommettere che resterete soddisfatti del risultato. Naturalmente potrete fermarvi quando volete, ma più andrete avanti più complesso e pittoresco sarà il risultato.
Alla fine vi sembrerà comunque di aver prodotto un’opera d’arte.
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Piccole Donne
Dolce, ottimista, meravigliosamente vero. Il romanzo Piccole Donne di L. M. Alcott è datato 1868 e sono moltissimi gli adattamenti cinematografici e televisivi che hanno raccontato la storia delle sorelle March.
Meg, Jo, Amy, Beth sono le eroine della vita di sempre, avvolte nella dolcezza genuina e negli stereotipi a cui era solita sottoporsi la donna americana del ‘800. Nella sua visione, la Gerwig ha restituito sullo schermo le emozioni della lettura ed un immaginario collettivo scenograficamente impeccabile. Non ci sono falle, non c’è noia, seppure la durata superi le due ore.
Tecnicamente ineccepibile, ogni inquadratura è un dipinto ad olio. I costumi, le acconciature, quel velo di trucco che risalta le bellezze naturali e l’età di ogni personaggio, caratterizzando la tipicità ed unicità di carattere in piccoli dettagli. Non c’è una rivisitazione in senso stretto del romanzo originale, ma Piccole Donne nasce come autobiografia e si rinventa, tornando sempre a raccontare la vita di chi sceglie di rispolverarlo.
Caro Piccole Donne, sei un gioco di flashback, tra ricordi dell’infanzia nella casa familiare, tutte e quattro insieme ed il presente fatto di stenti e di sacrifici, ma anche di successi editoriali e cambiamenti considerevoli. Jo è la personalità di spicco tra le quattro sorelle e la Ronan supera sé stessa ed i ruoli fin’ora interpretati, meritando molto più della sola candidatura al pregiato Oscar. L’aria della rivalsa, il desiderio di non mollare mai, di reinventarsi sono la spinta motivazionale che hanno condotto la Gerwig alla regia e la Ronan a tatuarsi Jo March sulla pelle. Non ne veste solo i panni, Saoirse Ronan è Jo March.
Dolcissima e bilanciata Meg, intepretata dalla britannica Emma Watson che non ha svestito i panni del personaggio di Belle nel live-action Disney. Nonostante le similitudini tra i due personaggi, la Watson avrebbe dovuto caratterizzare (o personalizzare) la maggiore delle sorelle March, di contro l’opera è ben riuscita a Willa Fitzgerald nella miniserie Piccole Donne, prodotta da BBC One nel dicembre 2017. Meg questa volta la troviamo dopo il matrimonio con John Brooke (James Norton), tra gli stenti e le difficoltà economiche di un marito che non è la Bestia, il principe azzurro della favola.
Non conoscevo Florence Pugh, o quanto meno non mi era mai saltata all’occhio, ma nei panni di Amy ho rivisto la vanità e l’audacia della terza figlia dei March. Capace di grandi capricci, è la “signorina” per eccellenza, la femminilità più spiccata, l’esempio di stereotipo di donna. Ebbene, questa Amy cela e soffre per amore, insegue quanto è meglio per la sua famiglia, agli occhi di Jo è la più viziata delle sorelle, ma a suo modo, Amy cavalca l’onda delle opportunità e stringe i denti. Probabilmente è la più fortunata delle quattro, ma non è forse soggettivo il concetto di “fortuna” quando ci si confronta con antagonismo?
Fragile, cagionevole e delicatissima, Eliza Scanlen è la Beth che ho sempre immaginato leggendo il romanzo. Guancciotte piene, occhi profondi, colori chiari, timida sin dal modo in cui guarda il mondo e si muove. Scalda il cuore del sig. Laurence (Chris Cooper) meglio di quanto non sia mai riuscito il nipote Laury/Teddy (Timothée Chalamet). Ecco un altro personaggio interpretato alla lettera, da far onore alla descrizione e alla fantasia della Alcott. L’intesa fisica e caratteriale tra Teddy e Jo è tangibile, Chalamet riesce a spiccare sullo schermo dando risalto al “figlio acquisito” dei March, amico di ognuna delle figlie, complice nelle circostanze della vita quotidiana.
Mi ha un po’ fatta storcere il naso il capofamiglia sig. March (Bob Odenkirk) privato del simbolo della virilità di tutte le epoche, la barba lunga. Non è un mistero che l’anzianità di un uomo era soprattutto misurata sulla lunghezza della barba, difatti è perfettamente in sincro l’aspetto sbarbato e giovane di Chalamet, ma la rasatura a fior di pelle di Odenkirk rimane un neo di contestualizzazione storica. Allo stesso modo ho considerato un po’ irrealistico l’aspetto sempre allegro e la costante vivacità di Mamy March (Laura Dern), quasi fosse alleggerita del vuoto lasciato dal marito in guerra.
Nota di merito indubbia per la zia March, la straordinaria Meryl Streep non ha bisogno di adulazioni, ma si conferma perfetta in ogni veste, in ogni occasione e puntuale nell’interpretazione.
Insomma...
Autoriale, intima e personale, bellissimo da guardare e da vivere, sopratutto sul grande schermo. Piccole Donne che da sempre insegnano il valore della famiglia, dell’amore, il sacrificio, quei principi che oggi abbiamo bisogno di contestualizzare. Il difficile momento in cui la bambina diventa adulta, il racconto di quelle circostanze che hanno permesso la crescita si svelano sul finale e rendono palese la narrazione di Jo all’editore.
Si conferma una regia coraggiosa e matura quella della Gerwig, al suo secondo lungometraggio d’autore, prendendosi qualche libertà e curando il dettaglio dei titoli di coda, come il testo di un antico libro. Una pagina di letteratura americana ingiallita, ma sempre ricca di emozioni e della freschezza della gioventù delle protagoniste.
Nel 2020 avevamo bisogno della crescita, della bellezza e della bontà di sentimenti 800eschi? Sono certa di sì.
#piccole donne#Greta Gerwig#emma watson#florence pugh#eliza scanlen#Saoirse Ronan#movie#film#film2020#recensione film#recensione#tumblr italia#italian blog#cinema italiano
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Praja - Gallipoli (LE) by Musicaeparole: 29/7 Gabry Ponte, 30/7 Bob Sinclar (Popfest), 1/8 Gianluca Vacchi (...)
House, melodia, hip hop e trap italiana di livello assoluto: alla Praja di Gallipoli (LE), grande disco estiva simbolo del divertimento in Salento e non solo gestita da Musicaeparole il livello artistico e musicale è sempre di livello assoluto. Oltre a dj attivi in tutto il mondo, tra fine luglio e per tutto agosto, alla Praja prendono vita party collettivi e performance di rapper e artisti hip hop di livello assoluto. Segue tutto il programma di ciò che si balla alla Praja fino a domenica 2 agosto 2020.
29/7 Gabry Ponte @ Praja Gallipoli (LE) by Musicaeparole
Gabry Ponte è uno dei pochi veri top dj italiani. Attivo da tempo, è riuscito a diffondere la dance music nel mondo, con composizioni melodiche dal suono scatenato. Con i suoi Eiffel 65 ha messo a segno tanti successi assoluti, tra cui "Blue". Il risultato sono ben 15 milioni di dischi venduti in tutto il mondo. Tra i suoi dischi di maggior successo ci sono "Time To Rock", "Geordie", "La danza delle Streghe" e tanti altri. Sul palco ha un sound irresistibile che mette insieme brani italiani, internazionali ed un sound irresistibile. La sua label, Dance and Love, è tra le più attive in Italia e non solo in ambito dance.
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30/7 Bob Sinclar (nella foto) @ Praja Gallipoli (LE) by Musicaeparole
Bob Sinclar è il dj pop star per antonomasia. Il suo dj set alla Praja di Gallipoli fa parte di PopFest, un superfestival super scatenato. Sinclar Ha lo straordinario potere di smuovere le masse e di far ballare persone di ogni età. Ma la star francese non ha bisogno certo di presentazioni, soprattutto in Italia, dove ha partecipato a tanti spot tv ed è stato super ospite al Festival di Sanremo. Sinclar, che alla Praja di Gallipoli (LE) è di casa, non è solo uno dei re delle notti ibizenche. Dopo essersi esibito a lungo al mitico Pacha, nell'estate 2019 suona soprattutto all'Heart, locale nato dalla creatività del team del Cirque du Soleil e dei fratelli Adrià, celebri chef e ristoratori. Il recente singolo "Eletrico Romantico" lo ha interpretato un mito della musica pop come Robbie Williams ed è senz'altro uno dei brani simbolo di questa stagione. La sua canzone per l'estate 2020 è "I'm on My Way", un brano che mescola con sapienza ritmo, melodia ed energia.
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31/7 Big Mama with Shorty @ Praja Gallipoli (LE) by Musicaeparole
Big Mama è un party decisamente scatenato dedicato a chi ama le sonorità black, hip hop, latine e reggaeton. Sul palco ballerine e ballerini, in console dj e vocalist di livello assoluto, sul dancefloor grande energia. Il 31 luglio 2020 come special guest per Big Mama sul palco va Shorty, da sempre regista di Albertino e colonna musicale oggi di m2o.
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1/8 Gianluca Vacchi @ Praja Gallipoli (LE) by Musicaeparole
In console durante l'estate 2020 alla Praja di Gallipoli (LE) arriva pure lui, Gianluca Vacchi, Mr. Enjoy". Personaggio internazionale e ormai dj di successo, ha pure scritto una autobiografia in cui racconta delle sue origini ma anche di seduzione e tatuaggi, lifestyle e attività fisica, eleganza e ironia... non manca neppure qualche episodio di follia che hanno contribuito a farlo diventare un fenomeno mondiale.Tra le sue passioni, oltre allo sport, la musica, il ballo e i dj set nei locali più esclusivi, come è ovviamente la Praja...
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2/8 Shade + Djs from Mars @ Praja Gallipoli (LE) by Musicaeparole
Shade, rapper, attore, doppiatore, freestyler e presentatore, ha uno stile ironico e irriverente è una vera star a metà tra pop e dance. Tra i suoi grandi successi, "Senza farlo apposta", interpretato a Sanremo con Federica Carta, mentre a giugno 2020 ha fatto uscire "Autostop". I Djs from Mars sono tra i dj italiani più affermati al mondo. I loro bootleg ed i loro mash up sono sinonimo di divertimento e successo a tutte le latitudini. Hanno collaborato con top dj come David Guetta ed il loro soun fa scatenare davvero ogni luogo del pianeta, Stati Uniti compresi.
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FOTO ARTISTI PRAJA ESTATE 2020 bit.ly/PrajaGuestFoto2020
MEDIA INFO MUSICAEPAROLE http://lorenzotiezzi.it/musicaeparole-club-eventi-festival-puglia-basilicata-tour/
Da vent'anni anni Musicaeparole fa scatenare l'Italia. Durante la scorsa stagione estiva lo staff di questa grande società ha fatto divertire ben 500.000 turisti in ben 250 eventi diversi. Musicaeparole è attiva da sempre soprattutto in Puglia, dove ha dato un contributo importante al turismo giovanile e non solo portando al successo spazi ormai celeberrimi come la Praja di Gallipoli (LE), uno dei più importanti locali estivi italiani o il celebre Clorophilla di Castellaneta Marina (TA). Proprio alla Praja, ad esempio, prende vita Popfest, festival dedicato al pop e sonorità che fanno scatenare: tra i mille dj presenti c'è spesso un certo Bob Sinclar.
INFO PRAJA
Praja - Gallipoli (LE) Lungomare Lido San Giovanni info 348 629 7999 https://www.facebook.com/prajagallipoli/ https://bit.ly/prajagallipoli2020 https://www.instagram.com/prajagallipoli/
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Uno dei momenti cruciali della lotta per la libertà in Irlanda del Nord visto dagli occhi di un militante, morto nel 1981 dopo 66 giorni di sciopero della fame. Attraverso il lucido e impietoso resoconto di "un giorno della sua vita" nel carcere di Long Kesh, Bobby Sands ricostruisce la drammatica esperienza della detenzione: il freddo, la fame, la tortura, l'umiliazione fisica e psicologica di un uomo che non accetta di perdere, insieme ai diritti politici, la dignità della condizione umana. Malgrado il peso dell'angoscia e della sofferenza, la testimonianza di Sands si apre alla speranza, disegnando una mappa dei valori irrinunciabili, un ordine morale che va oltre il mero esercizio del coraggio. Una dettagliata cronologia offre a chiusura del volume, un utile strumento per orientarsi nella storia irlandese degli anni settanta. "Un giorno della mia vita" di Bobby Sands. . . . . . #bobbysands #sands #libro #libri #libros #book #books #bookstagram #libreria #consiglidilettura #librodelgiorno #libriconsigliati #libridaleggere #ulster #irlandadelnord #ira #storia #nonfiction #nonfictionbooks #biografia #autobiografia #dirittiumani #libertà #belfast #indipendenza (presso Belfast) https://www.instagram.com/p/CN1j80NF5-g/?igshid=1h6zp9r0ukkvc
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Testo e foto di Fabio Alcini
Ghemon si presenta al PeM! Parole e Musica in Monferrato per parlare del suo primo libro, Io sono. Diario anticonformista di tutte le volte che ho cambiato pelle e nel farlo racconta di tutta l’evoluzione e di tutti i problemi che lo hanno visto protagonista.
Il rapper avellinese ha un bagaglio di successi ma anche di sofferenze che ha raccontato con pochissimi filtri all’interno, prima, di canzoni nelle quali spesso era anche l’inconscio a parlare. E poi di questo volume (pubblicato da Harper Collins Italia) in cui si parla anche, ma non solo, della battaglia con la depressione.
Nella serata, che vede come sempre il giornalista e direttore artistico del festival Enrico Deregibus a condurre le danze, si parte parlando del libro ma anche di rap e hip hop (con la distinzione in base alla quale il rap è la tecnica e l’hip hop è la cultura di riferimento). Ghemon racconta come ci sia “inciampato” da ragazzino finché non è diventato “le lenti a contatto con cui guardo il mondo“.
Non ha problemi nel dichiararsi “un secchione”, uno che ha lavorato tanto anche per effettuare tutti quei cambi di pelle di cui si parla nel sottotitolo del libro. Così racconta delle origini del rap, che definisce democratico, perché alla portata di tutti, e meritocratico perché se sei bravo vieni ricompensato. Perché funziona tra i ragazzi? Perché fornisce messaggi chiari, veloci e diretti. E’ come Whatsapp: parla sempre di cose vicine e immediate.
Certo ha le sue regole: per esempio per il fatto che parlasse un italiano corretto, che conoscesse la consecutio temporum e che sapesse mettere in fila due congiuntivi “Mi hanno messo all’angolo”, racconta, un po’ ridendo ma un po’ anche no.
Ghemon: quando un motorino non comprato ti salva la vita
Ghemon @ PeM!
Il fatto che il padre non gli abbia comprato il motorino si trasforma in un evento decisivo per la sua vita. Lo ha portato infatti a camminare per strada con il walkman. “Ero ad Avellino, però nella mia testa ero a Brooklyn a girare un video. Se mio padre mi avesse comprato il motorino ora sarei in galera”.
Si arriva a raccontare de La rivincita dei buoni, titolo del primo disco solista del 2007, come provocazione contro il gangsta rap che in quegli anni andava per la maggiore. Ma non bastava: così arriva l’impegno per imparare a cantare con i primi esperimenti non proprio perfetti (Ghemon parla apertamente di “gallina strozzata”).
Ma poi con l’impegno “da secchione” le difficoltà si superano. E’ in questa fase che arrivano le canzoni che parlano della depressione prima ancora che questa abbia un nome e un giudizio clinico.
Sullo schermo intanto scorrono le immagini di alcuni dei video della sua carriera, testimoniando la consistente evoluzione anche fisica, dovuta a un disagio spesso combattuto con il cibo.
Il rap, spiega, è fumettistico al punto da permettere di fabbricarsi una propria personalità del tutto inventata. “Io ho rovesciato il pentolone e ho deciso di dire la verità. A rischio di sembrare fragile“.
Si parla della depressione. Che, spiega, non è un problema “caratteriale” e neanche la mancanza di forza di volontà. Anzi forse è più la mancanza di ciò che sta a monte, all’origine della forza di volontà.
Arriva il trarttamento psichiatrico, affidato all’esperienza del padre dell’allora fidanzata. “Sfido chiunque ad andare a dire cose del genere a tuo suocero”.
Ghemon: 500 sneakers e Massimo Ranieri
C’è spazio anche per momenti più tranquilli, come quando si parla della collezione di sneakers. Ne ha oltre 500, dice di essere l’unico uomo che ha più scarpe della fidanzata e confessa: “Mi è servita in passato. Diciamo che “vuoi salire a vedere la mia collezione di scarpe?” è la nuova edizione di “Vuoi salire a vedere la mia collezione di farfalle?”.
Adesso sono qui, video e canzone d’apertura di Orchidee del 2014, è presentato come uno spartiacque, perché ha significato provare a mettersi in gioco cantando e non rappando, e su musica veramente suonata e non su basi.
Ghemon @ PeM!
E arriva il momento di una rivelazione veramente scabrosa. “Quando mi chiedono che cosa vuoi fare da grande? Rispondo: Massimo Ranieri, voglio fare Massimo Ranieri”. Questo per spiegare l’aspirazione alla versatilità del grande cantante e attore napoletano.
Ma non è la tradizione melodica partenopea alla base delle sue aspirazioni (benché confessi ascolti, conditi fra l’altro da episodi di canto, in stile neo melodico napoletano). Ma è più l’America il motore e il target dei suoi intenti, tanto che racconta come sia nato circa un anno dopo il viaggio di nozze dei genitori a New York: “Dai, lì un bacino se lo saranno dati…”
Si arriva chiacchierando a tempi recenti, per esempio proprio di Adesso sono qui e del suo arrivo, per vie traverse, sul gioco per Playstation e Xbox NBA 2K17, il massimo per un grande appassionato di pallacanestro come Ghemon. Proprio nel periodo in cui le major di casa nostra rifiutavano il suo disco perché il disco non era “strutturato” secondo i loro criteri.
Si chiude con qualche domanda dal pubblico, dalla quale emerge anche qualche dettaglio sull’esperienza sanremese a fianco di Diodato e Roy Paci. E Ghemon racconta di una grande tranquillità durante l’esperienza. “Non mi fa paura. In fondo sarebbe peggio essere a casa con la depressione, no?”
Ghemon: l’intervista
TRAKS è media partner di PeM! e ha ovviamente approfittato per rivolgere qualche domanda faccia a faccia a Ghemon, parlando del libro, di musica e di parecchio altro.
Come nasce il libro?
L’idea di fare un libro era una cosa che avevo io in generale, da appassionato della scrittura e dell’italiano scritto. Che capitasse quando è capitato è stata una coincidenza fortunata. Coincidenza e non caso: stavo facendo una chiacchierata pubblica con una giornalista e una scrittrice perché il Corriere della Sera aveva organizzato un evento per sottolineare punti in comune e differenze della scrittura su se stessi tra un autore di canzoni e una scrittrice.
Alla fine dell’incontro, una persona di quella che è diventata la mia casa editrice, Harper Collins, mi ha presentato un bigliettino, prendendomi effettivamente di sorpresa. Diciamo che me lo sono abbastanza guadagnato sul campo, per fortuna…
Sei molto aperto nei testi delle tue canzoni, anche quando si tratta di parlare di cose che ti hanno colpito molto da vicino. Aprirti nel libro è stato diverso?
Il libro ha dei tempi dilatati rispetto alla canzone, il racconto è più estensivo, si ritorna sulle cose. Io volevo raccontare con dovizia di particolari. Quindi anche soltanto ritornare con la memoria su un ospedale o su un’altra cosa spiacevole non è il massimo.
Ghemon @ PeM!
Però ero talmente tanto stanco, come persona, ma già fin da ragazzino, delle apparenze, che ho iniziato a usare quest’arma abbastanza scocciante della verità. E quindi niente, vado avanti con questa perché mi ha portato bene.
Nel libro dire la verità su determinate cose è stato un po’ più difficile da elaborare ma mi ha aiutato a mettere ordine. A me è tornato utile comunque. Per quello lo chiamo “diario” più che autobiografia.
Ancora più catartico delle canzoni?
Sicuramente ne ha fatto un bel pezzo. Non saprei dire se uno o l’altro. Le canzoni si portano appresso il vantaggio di essere cantate dal vivo, che conclude la catarsi iniziata in studio. Quella è più o meno l’immagine per me: nel momento in cui dal vivo esprimi la canzone e davanti c’è una persona che la riceve, l’energia è messa in maniera definitiva. Il libro ha avuto una vita tutta sua, ma sicuramente è molto catartico.
Da quando lo hai pubblicato quante domande ti hanno già fatto sulla depressione?
Tutte! Ma anche prima… Diciamo che l’argomento trattato ha avuto tre stadi: il “pre”, cioè “so che ce l’ho, ne vorrei parlare perché credo possa essere utile”; il parlarne, che ha portato tantissimi ringraziamenti. E più che solidarietà, perché non volevo la compassione, ma far aprire gli occhi su una cosa della quale si fa fatica a parlare, tantissima gratitudine molto discreta, che ho tanto apprezzato.
E la terza fase, in cui sono adesso: io sto decisamente meglio, parlarne è stata una grandissima responsabilità che andava utilizzata con molta cautela, perché non tutti i casi sono uguali, non tutte le persone sono uguali. Perciò non si possono dare false speranze né affossare le speranze.
Ma so anche che quella non è l’unica cosa che definisce la mia vita. Se fossi diabetico non credo che il diabete mi definirebbe come persona. Di conseguenza ora sono anche più tranquillo da quel lato: nonostante le tante domande, so che non è l’unica cosa che faccio, ho tante cose di cui parlare e non rimarrò intrappolato nel personaggio.
Quindi anche le risposte sono state tante…
Tantissime. E’ stato sorprendente, anche il tenore dei messaggi, dei “grazie”. Zero sono state le persone che hanno detto una cosa compassionevole o contraria. Ma anche perché ho soltanto promosso il fatto che se ne parli, che ci si informi, che si contattino persone competenti. E ho raccontato la mia esperienza. Spero di averlo fatto in una maniera dignitosa.
Ci sono anche persone che sono arrivate da lontano, magari leggendo qualcosa su internet e soltanto poi sono arrivati ad ascoltare i dischi. Mi è successo anche con il libro: ed è una gran fortuna che qualcuno abbia letto il libro e poi abbia ascoltato i dischi. Perché così si è proprio capovolta la prospettiva: qualcuno ha letto la mia storia e poi è andato a cercare riscontro nei pezzi.
Ghemon: essendo onesto mi faccio voler bene
A proposito di pezzi: come nasce “Criminale emozionale”?
E’ figlio di questo momento qua. E’ la canzone di uno che si è appena svegliato e ha una gran voglia di fare colazione e mentre sta preparando il caffè se la balla… Spero che la metafora aiuti!
Volevo toccare un argomento: la questione che anche tra amanti le persone si giudicano sempre per l’apparenza. Io lo dico che sono uno che è un po’ “rotto”, con qualche rotella fuori posto… Però sono onesto, e anche se non sono affidabilissimo, essendo onesto mi faccio volere bene.
“Mezzanotte” è uscito l’anno scorso: stai già lavorando a qualcosa di nuovo?
Ghemon @ PeM!
Non ho cose da parte se non un paio abbozzate. Il tour è finito la settimana scorsa, ma sento “brulicare”, c’è qualcosa lì a cui devo andare a dare ascolto. E’ una cosa che farò a breve.
Mi ha sorpreso leggere che uno dei primi dischi che ti ricordi è “… but seriously” di Phil Collins, forse uno non se lo aspetterebbe da Ghemon… Dischi non hip hop che stai ascoltando in questo momento?
Sono un po’ fregato dal fatto che piacendomi la black music, se non sto ascoltando una cosa rap sto ascoltando una cosa soul, oppure una r&b, oppure una jazz… E adesso vado tantissimo di playlist.
Poi ogni tanto mi alzo la mattina e mi dico: “Cavolo c’era quella canzone…” Oggi mi sono messo ad ascoltare le canzoni di un cantante degli anni Settanta molto bravo ma molto poco conosciuto che si chiama Norman Connors… Posso consigliare di andare a cercare le sue canzoni, ce ne sono tante molto belle e di molta sostanza.
E invece uno hip hop?
Uno che sto ascoltando in questo momento, e che in fondo non è neanche tanto hip hop, è di un ragazzo che si chiama Masego: rapper, cantante, sassofonista e anche produttore… Un miscuglio di rap, cantato, una cosa molto libera, che è quello che mi attira di più.
Confesso che avrei voluto fare tutta l’intervista parlando della reunion degli Articolo 31, ma ormai ho finito il tempo. Ma mi devi spiegare una cosa, da insider della scena hip hop. Perché nelle interviste alla domanda: “Chi dei tuoi coleghi ti piace”, ogni rapper risponde: “Nessuno”?
Dirò una cosa che non è proprio un complimento… E’ come se noi fossimo, non voglio dire la serie B, ma il campionato greco… Sappiamo che in Europa c’è già la Premier League, la Liga, la Ligue 1 che sono più avanti…
Parliamone in termini cestistici: l’Eurolega e la NBA…
Esatto, con il basket si riesce a fare meglio. Sicuramente guardi con rispetto e curiosità quello che fanno i tuoi colleghi ma quello a cui ti appassioni di più è quello che viene dalla fonte.
Però un po’ di ragazzi che fanno cose interessanti li ho trovati. Non mi dispiace Tedua, che sta riscuotendo dei buoni numeri. Sicuramente il resto verrà. A me piace Mecna ma si tratta anche di un mio amico.
La trap?
Ci sono tantissime cose che si somigliano tantissimo, ancora non si capisce bene… A parte appunto Tedua, IZI, ragazzi di Genova, che trovo bravi e molto “distinti”. Per il resto faccio fatica a capire chi è chi… Secondo me invece arriveremo tra molto poco a un artista magari giovane, nuovo che però può riprendere a livello di poetica o lirica le cose più rap che si facevano prima.
Come negli Stati Uniti possono essere Kendrick Lamar, Jay Cole: insomma qualcuno che rappresenti non soltanto la parte trap ma anche quella più classica, un volto fresco. Sono sicuro che a breve ce ne sarà uno che farà un buon successo. Quello lo aspettiamo a braccia aperte.
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Ghemon al PeM! 2018: a rischio di sembrare fragile Testo e foto di Fabio Alcini Ghemon si presenta al PeM! Parole e Musica in Monferrato…
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LA SCARZUOLA: LA “CITTÀ IDEALE” DI TOMASO BUZZI A MONTEGABBIONE (TERNI)
BY LUCIA D'ADDEZIO / UMBRIA / 08 APR 2015
http://luoghidavedere.it/luoghi-da-vedere-in-italia/cosa-vedere-in-umbria/visitare-scarzuola-tomaso-buzzi-montegabbione_8096
La Scarzuola, la “città ideale” di Tomaso Buzzi, è un piccolo capolavoro d’architettura protetto dai boschi di una delle zone più selvagge dell’Umbria.
In provincia di Terni (ma a brevissima distanza anche da Perugia), la Scarzuola è un luogo semi-sconosciuto che meriterebbe, forse, una maggiore valorizzazione a livello turistico. O forse no. Perché parte del suo fascino sta anche nel suo essere un minuscolo angolo di Umbria nascostaancora poco conosciuto e frequentato dal turismo di massa.
La Scarzuola si lascerà trovare e ammirare solo dai viaggiatori che avranno la pazienza di cercarla, tra fitti boschi e colline incontaminate. Per raggiungerla dovrai percorrere gli impervi tratti di strada sterrata che separano la città buzziana dal resto del mondo, sopportando lo sballottamento provocato dalle buche e dai sassi che spuntano fuori dalla strada come ostacoliniente affatto casuali posti a protezione di quello che ha tutto l’aspetto di un luogo sacro, quasi mistico.
LA SCARZUOLA: LA SURREALE “CITTÀ BUZZIANA” TRA IL VERDE DELLE COLLINE UMBRE
La Scarzuola si trova a Montegiove, nel comune di Montegabbione. Il nome del luogo deriverebbe dalla Scarza, una pianta palustre che San Francesco utilizzò per costruirsi una modesta capanna nel 1218, quando qui giunse in cerca di un riparo. Proprio in ricordo del passaggio di San Francesco, alla fine del 1200 presso la Scarzuola venne edificato un convento.
Nel 1956 l’architetto, artista e designer Tomaso Buzzi (1900-1981) acquista il terreno e il convento francescano con un piano ben preciso in mente. Nel silenzio dei boschi umbri, Buzzidecise di costruire in gran segreto la sua “città ideale”.
I riferimenti letterari e filosofici di Buzzi sono da un lato l’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna e la “Sforzinda” del Filarete, dall’altro il Parco dei mostri di Bomarzo e il “Vittoriale” di D’Annunzio.
Il risultato è un giardino ermetico-iniziatico che doveva essere per Buzzi una sorta di “autobiografia in pietra”, un lascito ai posteri volutamente incompiuto dove a trasparire doveva essere il Tomaso Buzzi più libero, intimo e primordiale, svincolato finalmente dai limiti e dalle costrizioni che avevano caratterizzato la sua carriera di architetto e artista nel mondo della committenza aristocratica e borghese.
Lo stesso Buzzi cercò di spiegare il suo lavoro alla Scarzuola, da molti considerato eccessivamente eccentrico, a quelli che erano stati fino ad allora i suoi committenti nel “mondo reale” e che adesso non lo riconoscevano più:
Quando sono con voi sono vestito, e in cravatta; quando sono qui, alla Scarzuola, sono nudo, e questo voi non potete sopportarlo. (…) Pur vivendo, in mezzo alla gente del Bel Mondo quasi come uno di loro, e lavorando per i committenti in modo serio e professionale, in verità io vivo una vita di sogno, segreta, in mezzo alle mie carte, i miei disegni e le mie pitture, le mie sculture. E anche la Scarzuola diventa sempre più, in pietra viva, il mio sogno a occhi aperti, sempre più vasto, e complesso, e ricco di significati reconditi, di allusioni, di metafore, di ‘concetti’, di trovate, grandi e piccole, di segreti, di allusioni, echeggiamenti, fantasie, cristallizzazioni, incrostazioni, ricordi. (Tomaso Buzzi)
La visita alla città buzziana è un vero e proprio percorso d’iniziazione neo-illuminista, costellato di complesse e disorientanti simbologie esoteriche e massoniche che hanno lo scopo esplicito di sconvolgere le coscienze dei visitatori.
Buzzi spiega nei suoi appunti che la Scarzuola “deve essere letta e capita solo dagli unhappy few, cioè dagli spiriti rari, d’elezione, che mi sono congeniali, i pochi infelici eletti“. Per tale ragione l’architetto non ha mai fornito una spiegazione univoca dell’opera, che è aperta e non-finita per scelta.
VISITARE LA SCARZUOLA: UN VIAGGIO NEL VIAGGIO
Dopo aver superato la chiesetta che immediatamente accoglie i visitatori della Scarzuola, ci si prepara all’immersione fisica e psicologica nella labirintica “città ideale” di Tomaso Buzzi.
Prima di entrare nella Scarzuola buzziana si passa vicino a un antro scavato nella roccia: in questo luogo si racconta che San Francesco abbia fatto sgorgare una fonte sacra. Il visitatore è posto, qui, di fronte a tre porte: la porta della Gloria Dei conduce alla chiesa e al convento, quindi al divino; la porta della Mater Amoris porta al vascello di cui Cupido è il timoniere; la porta della Gloria Mundi non conduce in nessun luogo ma riporta al luogo di partenza, a dimostrazione della vacuità delle cose terrene.
“Alla Scarzuola, salvo la parte sacra, tutto è un teatro” avverte Tomaso Buzzi. Superati, infatti, l’antico convento di fine Duecento, l’antro di San Francesco e le tre porte, si entra nella città-teatro di Buzzi, costituita da particolarissime costruzioni raggruppate in sette scene teatrali diverse.
Il Teatrum Mundi: l’Anfiteatro principale della Scarzuola
L’Acropoli, fulcro della Scarzuola
La “macchina teatrale” di Tomaso Buzzi ha il suo apice nell’Acropoli del Teatrum Mundi. L’Acropoli consta di una sovrapposizione di diversi edifici incastrati gli uni negli altri come in un puzzle in grado di restituire, però, un corpo unitario e indivisibile. Il convento, la “città sacra”, si contrappone e allo stesso tempo fa parte dell’opera buzziana, la “città profana”.
Il terzo occhio vigila sulla città buzziana e scruta i visitatori, generando sentimenti di diversa natura a seconda del soggetto osservato e osservante. Il grande occhio posizionato al centro del Teatrum Mundi della Scarzuola buzziana ha uno specchio al posto della pupilla: questo pone il visitatore di fronte alla sua immagine, spogliandolo di ogni condizionamento esterno e svelandolo a sé stesso e agli altri.
Nel primo, immenso anfiteatro si possono visitare il Teatro dell’Arnia (a sinistra) e l’Acropoli (a destra). Il Teatro dell’Arnia deve il suo nome al ronzare delle api, detto “buzzicare”, che qui è anche metafora dei pensieri rumorosi e agitati dell’architetto, che lo guidano nella costruzione della sua “città ideale”. Attraversando la “bianca porta del Cielo” (il portale Ianua Coeli), invece, si arriva all’Acropoli.
Il Teatrum Mundi della Scarzuola
Il Teatro dell’Arnia, decorato con decine di api dorate
Veduta dell’Acropoli nella Scarzuola
Dettagli architettonici della Scarzuola
Veduta dell’Acropoli nella Scarzuola
Dal Teatrum Mundi, seguendo un Pegaso alato, si discende costeggiando prima la Torre del Tempo e, successivamente, il Tempio della Madre Terra.
Qui la Gigantessa, un enorme busto di donna dai seni nudi, domina dall’alto la scena. La Gigantessa simboleggia la Madre Terra e sta a guardia di due porte: la Porta della Scienza e della Tecnica e la Porta dell’Arte e della Fantasia.
La Torre del Tempo nella Scarzuola
Il terzo occhio fa di nuovo la sua comparsa sulla Torre del Tempo
La Gigantessa (o “Donnone”), la “grande madre” della Scarzuola
La Gigantessa, simbolo della Madre Terra
Si scende ancora e, attraversata la Bocca della balena di Giona (metafora di morte e rinascita), si giunge alla Torre della Meditazione e della Solitudine. Proseguendo lungo la salita naturale offerta dal pendio, si raggiunge la Porta dell’Amore, su cui campeggia la perentoria scritta Amor Vincit Omnia. Qui viene riassunto il viaggio interiore del visitatore, che non potrà che trovare esito positivo nel completamento del cammino iniziatico incoraggiato dalla Scarzuola.
La Bocca della balena di Giona, uno dei passaggi più emblematici del percorso iniziatico buzziano
La Torre della Meditazione (o della Solitudine)
Il cammino in salita verso la Porta dell’Amore
Raggiunta la sommità della collinetta si arriva al tempietto esagonale di Flora e Pomona e al suggestivo Teatro acquatico, le cui geometrie si riflettono nella vasca a forma di farfalla creando ipnotici giochi di luci e colori.
Veduta del Teatro Acquatico della Scarzuola
Proseguiamo fino al Tempio di Apollo, al cui centro svetta lo scheletro di un grande cipresso colpito da un fulmine. Questo teatro è detto anche Teatro di Ciparisso. Il rimando è chiaro. Ciparisso era uno dei giovani amati da Apollo. Dopo aver ucciso accidentalmente il suo animale domestico, Ciparisso chiese al Dio di lasciar scorrere le sue lacrime per sempre. Fu così che Apollo decise di trasformarlo in un cipresso (l’albero produce una resina simile nell’aspetto alle lacrime).
Penso che il cipresso ferito a morte, attraversato dalla cima alle radici dal fulmine è quanto di più vicino al cielo vi sia alla Scarzuola, perché ha avuto una folgorazione, un contatto diretto dal cielo alla terra, è la sola cosa che “sa di cielo”. Per questo lo voglio preservare ad ogni costo. (Tomaso Buzzi)
Il Teatro di Ciparisso nella Scarzuola
La Torre di Babele nella Scarzuola
La Torre di Babele nella Scarzuola
Di fronte al Tempio di Apollo c’è la Torre di Babele, che racchiude una piramide trasparente, simbolo del bambino che ognuno di noi è stato prima di saper parlare e di essere, quindi, corrotto con il passare del tempo con il risultato di essere inesorabilmente allontanato dal divino. La Torre di Babele racchiude anche la Scala musicale delle sette ottave, la scala a chiocciola del Sapere, che collega il Tempio di Apollo all’Acropoli.
L’arrivo (o il ritorno?) all’Acropoli è il raggiungimento dell’Empireo architettonico, il “più alto dei cieli” pensati e realizzati da Buzzi. Il viaggio verso l’illuminazione sembra concludersi in maniera positiva ma, in realtà, Tomaso Buzzi dà per scelta al suo giardino iniziatico di pietraun carattere di non-finito e di indefinito. Il racconto teatrale non finisce mai, semmai assume nuove forme e si innalza verso nuovi stadi di conoscenza e coscienza. E’ in quest’ottica che va vissuto il viaggio nel mondo fantastico della città buzziana, un viaggio diverso per ogni individuo che lo intraprende, un viaggio che non è necessario (né possibile) spiegare in maniera universale e definita.
COME VISITARE LA SCARZUOLA?
Per vedere dal vivo la Scarzuola dovrai innanzitutto prenotare una visita a uno dei seguenti contatti:
tel. 0763/837463
e-mail: [email protected]
Ti verrà dato un appuntamento (insieme ad altri turisti) di fronte all’ingresso della Scarzuola. Nell’ora indicata in sede di prenotazione dovrai presentarti presso la Scarzuola: suonerà una campana e la guida verrà ad aprire la porta per far entrare i visitatori.
Alla morte di Tomaso Buzzi nel 1981 la proprietà della Scarzuola è, infatti, passata a Marco Solari, un personaggio che descrivere come strampalato è usare un eufemismo.
E’ lui ad occuparsi della gestione della Scarzuola e ad accompagnare i visitatori nel viaggio di scoperta della città buzziana. Non lasciarti “spaventare” dall’introduzione incomprensibile che la tua bizzarra guida procederà ad esporti mentre ti accompagna nella Scarzuola. Dopo una presentazione iniziale, potrai scegliere se seguire Marco oppure visitare i vari ambienti della Scarzuola in maniera indipendente.
COME RAGGIUNGERE LA SCARZUOLA?
Raggiungere la Scarzuola non è facilissimo, ma ne vale certamente la pena. La Scarzuola si trova in una posizione abbastanza isolata, nel mezzo dei boschi di Montegiove, una frazione di Montegabbione (Terni).
Per raggiungere la Scarzuola segui queste istruzioni.
Per chi arriva da Firenze/Roma:
A1 uscita Fabro
Fabro Scalo – Montegabbione
Montegiove (1 Km oltre, bivio sulla destra, strada bianca circa 2 Km)
Seguire le indicazioni per “La Scarzuola – Secolo XIII”
Per chi arriva da Perugia:
SR220 Tavernelle – Piegaro
SP59 Montegabbione
Montegiove (1 Km oltre, bivio sulla destra, strada bianca circa 2 Km)
Seguire le indicazioni per “La Scarzuola – Secolo XIII”
Per chi arriva da Todi:
SS3BIS Perugia – Marsciano
SP375 Marsciano – San Venanzo
SR317 Pornello – Montegiove (1 Km prima di Montegiove, bivio sulla sinistra, strada bianca circa 2 Km)
Seguire le indicazioni per “La Scarzuola – Secolo XIII”
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Mary Fairfax Somerville astronoma e matematica
https://www.unadonnalgiorno.it/mary-somerville/
Gli spazi più poveri di stelle sono i più ricchi di nebulose.Mary Fairfax Somerville, astronoma e matematica scozzese è stata la prima donna eletta alla Royal Astronomical Society.
Nacque a Jedburgh, il 26 dicembre 1780, suo padre era vice ammiraglio e sua madre la discendente di una delle famiglie più illustri del paese, ma vivevano in una signorile povertà, la paga del genitore non aumentava con l’avanzare del suo grado.
In famiglia ricevette un’educazione minima, la madre le insegnò a leggere la Bibbia ma non a scrivere, per un anno ebbe modo di frequentare un collegio per ragazze, ma continuò la sua educazione da autodidatta, usando i libri della biblioteca di famiglia, suo zio Thomas Somerville le insegnò il latino. Di nascosto, di notte, leggeva i libri di matematica dei fratelli. Desiderosa di conoscenza e avida di apprendimento, mentre veniva incoraggiata a praticare il ricamo, la danza, a suonare il pianoforte, soffriva per il diverso trattamento che avevano le donne rispetto agli uomini di famiglia. Liberale sin da giovanissima, e contro ogni forma di disparità, attuò una serie di proteste come rifiutarsi di utilizzare lo zucchero, simbolo di sfruttamento e schiavitù.
Dopo l’algebra e la geometria, imparò il greco e frequentò un college che aveva aperto l’ingresso anche alle donne. Grazie al precettore dei fratelli ebbe modo di approfondire le conoscenze scientifiche e entrò per la prima volta in un laboratorio.
Nel 1804 sposò un suo lontano parente, Samuel Greig, da cui ebbe due figli. La necessità di conoscere e approfondire non l’abbandonava nonostante la disapprovazione del marito che la considerava un’attitudine poco adatta a una donna. Rimasta vedova dopo pochi anni, grazie all’eredità riuscì a continuare gli studi. Iniziò a risolvere i problemi matematici della rivista matematica del Military College di Marlow, cosa che le procurò una medaglia d’argento nel 1811. Con lo pseudonimo ‘A Lady’ ebbe varie soluzioni pubblicate nei volumi del Mathematical Repository che dimostrano la sua precoce adozione del calcolo differenziale e il suo contributo alla circolazione e visibilità nella Gran Bretagna dell’inizio del XIX secolo.
Estese i suoi studi all’astronomia, chimica, geografia, elettricità e magnetismo. A 33 anni si comprò una biblioteca di libri scientifici.
Nel 1812 sposò un altro lontano cugino, William Somerville, un colto medico che la incoraggiò nei suoi studi e la introdusse nei più importanti circoli sociali dove ebbe modo di conoscere e scambiare riflessioni con diverse personalità del tempo, scienziati, scrittori e artisti. Col secondo marito ebbe anche altri quattro figli. Nel 1819 si trasferì con la famiglia a Chelsea, dove divenne l’insegnante di matematica di Ada Lovelace, senza il cui algoritmo non ci sarebbe mai stato il computer.
Nel 1838 Mary Fairfax Somerville divenne, insieme a Caroline Lucretia Herschel, membra onoraria della Royal Astronomical Society, onore mai concesso prima a una donna.
Girò molto l’Europa entrando in contatto con tante menti brillanti. Dal 1833 si trasferì col marito in Italia, prima a Firenze e poi a Napoli, dove finì i suoi giorni.
Nel 1868, all’età di 91 anni, la sua fu la prima firma nella petizione di John Stuart Mill per il voto alle donne.
Nella sua autobiografia scrisse che “le leggi britanniche sono avverse alle donne“, descrivendo dettagliatamente gli ostacoli che aveva affrontato da ragazza per ottenere una degna istruzione.
Tra i tanti e importanti libri scritti, Physical Geography, del 1848, è il suo lavoro più noto. Per la prima volta, in un trattato di geografia, oltre alla descrizione dei fenomeni fisici di ogni paese, vi era la spiegazione della loro correlazione con terreni, processi atmosferici e del ruolo svolto dall’essere umano nella modifica dell’ambiente naturale e della bio-geografia.
Mary Somerville è stata la prima studiosa a sostenere, sulla base di prove geologiche, che la terra esisteva da molto prima di quanto affermato nella Bibbia, per questo motivo venne considerata una senza Dio.
Il suo ultimo libro scientifico, Molecular and Microscopic Science, pubblicato nel 1869 a ottantanove anni, è la sintesi delle più recenti scoperte in fisica e chimica. Nello stesso anno completò le sue memorie nell’autobiografia Personal Recollection, poi integrata dalla figlia Martha dopo la sua morte.
Tra le varie onorificenze conferitele in vita venne eletta alla Società Americana di Geografia e Statistica nel 1857, alla Società Geografica Italiana nel 1870, ha fatto anche parte della Società Filosofica Americana.
Nei suoi ultimi anni, nonostante l’età avanzata e la salute cagionevole, aveva perso anche l’udito, non smise mai di leggere libri e risolvere problemi matematici.
È morta a Napoli il 29 novembre 1872, i suoi resti sono sepolti nel Cimitero degli Inglesi.
Nel necrologio del Morning Post si leggeva: “Qualsiasi difficoltà si possa incontrare a metà del diciannovesimo secolo nella scelta di un re della scienza, non c’è alcun dubbio su chi ne sia la regina“.
Il suo monumento funebre che la ritrae seduta su una seggiola venne realizzato dallo scultore calabrese Francesco Jerace nel 1876.
Per Mary Sommerville venne coniata in inglese la parola scientist, scienziato, nel 1834.
Il mondo accademico e culturale ha provato a omaggiarla in tanti modi. Le è stato intitolato il Somerville College dell’Università di Oxford oltre a vari college e scuole in giro per il mondo. Porta il suo nome una delle sale del comitato del Parlamento Scozzese a Edimburgo, così come una piccola isola. È stata effigiata sulla banconota da 10 sterline della Royal Bank of Scotland coniata nel 2017, insieme a una citazione dal suo lavoro The Connection of the Physical Sciences. Questa regina delle scienze ha dato anche il nome a una nave, un asteroide, un cratere lunare e a molte altre importanti cose.
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«Alla fine sono arrivata a credere in una ricerca che io chiamo “La Fisica dell’Anima”, una forza della natura governata da leggi reali quanto la legge di gravità. La regola di questo principio funziona più o meno così: se sei abbastanza coraggiosa da lasciarti indietro tutto ciò che ti è familiare e confortevole e che può essere qualunque cosa, dalla tua casa a vecchi rancori, e partire per un viaggio alla ricerca della verità, sia esterna che interna, se sei veramente intenzionata a considerare tutto quello che ti capita durante questo viaggio come un indizio, se accetti tutti quelli che incontri strada facendo come insegnanti, e se sei preparata soprattutto ad affrontare e perdonare alcune realtà di te stessa veramente scomode, allora la verità non ti sarà preclusa.»
Mangia,prega,ama autobiografia di Elizabeth Gilbert
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Le star della Praja di Gallipoli (LE): tra luglio e agosto ecco Ludwig, Andrea Damante, Jimmy Sax, Ana Mena, Vida Loca, Gabry Ponte, Dj Antoine, Gianluca Vacchi
15/7, 10/8 Ludwig @ Praja - Gallipoli (LE) by Musicaeparole
Romano, classe 1992, è uno dei protagonisti della scena trap italiana. Ha iniziato a far musica a soli 15 anni. Si è esibito nella festa di fine anno 2019 del liceo romano Giulio Cesare, la scuola frequentata e cantata da Antonello Venditti. I testi delle sue canzoni sono spesso ironici. Grande comunicatore sui social, dove racconta e mostra tutta la sua vita, è ormai una star musicale di prima grandezza. Tra i suoi più grandi successi, "Domani ci passa", uscita nel maggio 2019
16/7, 27/7, 10/8 Andrea Damante @ Praja - Gallipoli (LE) by Musicaeparole
Andrea Damante, dj e personaggio ormai celeberrimo. Nato a Gela il 9/3/1990, è cresciuto a Verona, Damante vive da solo dall'età di 19 anni, si definisce pignolo, preciso e testardo e tende a voler avere sempre tutto sotto controllo. Non è più solo un personaggio mediatico. Oggi infatti fa ballare i migliori locali d'Italia. Con oltre 2 milioni di follower su Instagram, i suoi dischi vengono pubblicati da label di riferimento come l'americana Ultra.
18/7 Jimmy Sax @ Praja - Gallipoli (LE) by Musicaeparole
Il vero nome di questo artista del sassofono è Jim Rolland. Oltre che un grande strumentista, è anche un grande intrattenitore, capace di mettere insieme i generi musicali: improvvisa come pochi a ritmo di house, deep, electro e non solo. La sua versione di "No Man No Cry", il capolavoro di Bob Marley, su YouTube ha totalizzato qualcosa come 70 milioni di visualizzazioni. Si è esibito live con tante star tra cui Earth Wind and Fire, David Guetta, Quincy Jones, Cerrone, Bob Sinclar (...)
19/7 Ana Mena @ Praja - Gallipoli (LE) by Musicaeparole
Classe 1997, è una vera icona musicale in ambito reggaeton & dintorni. Deve in Spagna la sua notorietà alla partecipazione come attrice nella serie Marisol, la película. Con Fred De Palma, nelle due ultime estati, ha messo a segno due importanti hit come "D'estate non vale" e "Una volta ancora".
20/7 Vida Loca @ Praja - Gallipoli (LE) by Musicaeparole
Finalmente Vida Loca, musical pop da ballare e da guardare, torna a far emozionare chi ha voglia di far tardi godendosi un mix vincente di pop, urban, & house, coreografie interpretate da ballerini professionisti, video proiezioni, effetti speciali che sanno stupire... Ma cos'è Vida Loca? E' prima di tutto una crew di artisti (dj, artisti, ballerini) che sanno lavorare insieme con l'unico scopo di creare show ed entertainment di livello assoluto. A dare maggiore risalto agli artisti e al loro talento c'è una squadra di tecnici di valore assoluto e tecnologie che di notte di solito non vengono utilizzate: il risultato è che chi balla o beve qualcosa con gli amici, in certo momento, non può che alzare gli occhi e lasciarsi coinvolgere… Vida Loca, più che una semplice festa da discoteca di successo, un format o uno show notturno, è uno spettacolo che segue un "canovaccio" sempre simile e mai uguale... Perché ogni interprete si prende un margine di libertà e improvvisazione, ogni notte.
23/7 Gabry Ponte @ Praja - Gallipoli (LE) by Musicaeparole
Gabry Ponte è uno dei pochi veri top dj italiani. Attivo da tempo, è riuscito a diffondere la dance music nel mondo, con composizioni melodiche dal suono scatenato. Con i suoi Eiffel 65 ha messo a segno tanti successi assoluti, tra cui "Blue". Il risultato sono ben 15 milioni di dischi venduti in tutto il mondo. Tra i suoi dischi di maggior successo ci sono "Time To Rock", "Geordie", "La danza delle Streghe" e tanti altri. Sul palco ha un sound irresistibile che mette insieme brani italiani, internazionali ed un sound irresistibile. La sua label, Dance and Love, è tra le più attive in Italia e non solo in ambito dance.
25/7, 3/8, 22/8 Dj Antoine @ Praja - Gallipoli (LE) by Musicaeparole
Il top dj producer svizzero Dj Antoine, una superstar della scena dei fashion club europei e non solo. Dj Antoine infatti è una vera star. In carriera ha venduto oltre un milione e mezzo di album e ricevuto quaranta dischi d'oro e decine di dischi di platino e multiplatino. E' molto legato all'Italia, parla un buon italiano e non per caso ha remixato pure "Laura non c'è" di Nek. Grande performer e non solo dj e produttore, DJ Antoine negli ultimi anni ha proposto veri e propri inni che hanno conquistato i giovani di mezza Europa. I suoi dj set sono performance sorprendenti, in cui salta continuamente e coinvolge il pubblico in uno show che non dà respiro e mette sempre e comunque il sorriso. Da "Welcome To St. Tropez" a "Ma Cherie", da "House Party" a "Bella Vita" e Sky Is The Limi, il suo sound colorato e divertente è perfetto per chiunque abbia voglia di muoversi a tempo.
26/7, 26/8 Merk & Kremont @ Praja - Gallipoli (LE) by Musicaeparole
Italianissimi, negli ultimi anni i ragazzi hanno ottenuto enormi successi e riconoscimenti come DJ e produttori, partendo dal mondo della dance internazionale grazie al supporto di mostri sacri come Avicii, Steve Angello, Hardwell, Nicky Romero, Bob Sinclar, Zedd e il loro leggendario connazionale Benny Benassi, che li segue dal loro esordio. Da più di 5 anni , Fede e Joe (i due Merk & Kremont) portano in giro per il mondo il loro fiammeggiante DJ set, potendo vantare di aver suonato su alcune delle console più prestigiose del mondo - come Pacha (Ibiza) e l'Ultra Music Festival e Liv di Miami – nonostante la loro giovane età.
28/7 Gué Pequeno @ Praja - Gallipoli (LE) by Musicaeparole
Gué Pequeno, pseudonimo di Cosimo Fini, classe 1980, ha esordito nel 2000 con il collettivo Sacre Scuole per poi affermarsi con i Club Dogo. Il suo precedente album "Sinatra" è uscito due anni fa e ha ottenuto molti riconoscimenti tra cui disco di Platino per l'album. Tra i singoli in esso contenuti "Trap Phone", "Modalità aereo", "Borsello" e "2%", più un disco d'Oro per il pezzo "Bling Bling". A pochi giorni dall'uscita, sulla pagina Spotify di Gué Pequeno tutta la top ten dei brani più ascoltati appartiene al nuovo disco "Mr Fini". Il brano più ascoltato è "Immortale (feat. Sfera Ebbasta)" e supera abbondantemente i 3 milioni di ascolti.
1/8 Gianluca Vacchi @ Praja - Gallipoli (LE) by Musicaeparole
In console durante l'estate 2020 alla Praja di Gallipoli (LE) arriva pure lui, Gianluca Vacchi, Mr. Enjoy". Personaggio internazionale e ormai dj di successo, ha pure scritto una autobiografia in cui racconta delle sue origini ma anche di seduzione e tatuaggi, lifestyle e attività fisica, eleganza e ironia... non manca neppure qualche episodio di follia che hanno contribuito a farlo diventare un fenomeno mondiale.Tra le sue passioni, oltre allo sport, la musica, il ballo e i dj set nei locali più esclusivi, come è ovviamente la Praja...
MEDIA INFO MUSICAEPAROLE: http://lorenzotiezzi.it/musicaeparole-club-eventi-festival-puglia-basilicata-tour/
Tutti i party della Praja di Gallipoli (LE), uno delle decine di locali gestiti da Musicaeparole, una realtà che da circa vent'anni fa ballare e divertire il Sud Italia e non solo, sono invece disponibili a questo link: https://bit.ly/prajagallipoli2020
Tutti i party della Praja - Gallipoli (LE) by Musicaeparole https://bit.ly/prajagallipoli2020 https://www.instagram.com/prajagallipoli/
Praja - Gallipoli (LE) Lungomare Lido San Giovanni info 348 629 7999 https://www.facebook.com/prajagallipoli/
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Just Cavalli Porto Cervo: dopo Steve Aoki (11/8), arrivano nuove star: 13/8 Gianluca Vacchi, 16/7 Jay Santos 17/8 Marco Carola
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Dopo lo scatenato party dell'11 agosto 2019, nell'elegante cornice del Just Cavalli Porto Cervo, meta di ospiti internazionali e top djs, quando in console è arrivato il famosissimo Steve Aoki, super dj planetario si continua a ballare in grande stile.
Mamacita, party dall'anima reggaeton e urban che fa scatenare pure l'Amnesia di Ibiza, prende vita qui il 12, il 15 agosto e pure il 19 agosto. E per il resto è tutto un susseguirsi di dj set di star mondiali.
Il 13 agosto torna Gianluca Vacchi. Personaggio internazionale e ormai dj di successo, ha pure scritto una autobiografia in cui racconta delle sue origini ma anche di seduzione e tatuaggi, lifestyle e attività fisica, eleganza e ironia... non manca neppure qualche episodio di follia che hanno contribuito a farlo diventare un fenomeno mondiale.Tra le sue passioni, oltre allo sport, la musica, il ballo e i dj set nei locali più esclusivi, come è ovviamente c'è Just Cavalli Porto Cervo.
Il 16 agosto è la volta di Jay Santos, una delle poche vere star internazionali della scena latin & reggaeton.
Il 17 infine c'è Marco Carola, star assoluta della musica elettronica. Campano, porta nel mondo il suo sound con il party "Music On". Ambasciatore globale della techno nel mondo, l'artista è originario di Napoli e fin degli anni '90 porta il sound della fiorente scena elettronica della sua città in giro per il mondo. E' semplicemente uno dei dj più rispettati ed amati in assoluto. Nato nel 1975, è conosciuto per la sua tecnica straordinaria e per una sound potente, personale, mai e poi mai ripetitivo.
JUST CAVALLI PORTO CERVO Lo stilista fiorentino di fama internazionale Roberto Cavalli ha rinnovato l'appuntamento per la stagione estiva 2019 e continua ad arricchire il suo concetto di nightlife. Il suo Just Cavalli Porto Cervo è infatti approdato in Costa Smeralda, in una splendida location in cui le tre eccellenze italiane (Fashion, Food e Design) si ritrovano nuovamente per dare vita al suo progetto di hospitality e di entertainment di lusso. Just Cavalli Porto Cervo ha inaugurato Venerdì 12 Luglio 2019 con un Grand Opening d'eccezione.... Gli arredi del Just Cavalli Porto Cervo arrivano direttamente dalla maison, sedie, tavoli, mise en place e cuscini tutto in tema floreale e animalier firmato Roberto Cavalli.
Just Cavalli Porto Cervo Info & reservations +3907891776514 [email protected] Via della Conchiglia, 4 Arzachena www.justcavalliportocervo.com
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8/8 Gianluca Vacchi fa ballare Popfest - Gallipoli (LE) c/o Praja
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La lunga, lunghissima estate della Praja di Gallipoli (LE), grande discoteca estiva gestita da Musicaeparole, organizzatore che fa ballare tutta Italia con grandi eventi e tante disco (www.musicaeparole.it, www.facebook.com/musicaeparoleofficial/) è iniziata in anticipo rispetto al calendario, ovvero l'8 giugno 2019. La stagione di divertimento di questo top club situato a due passi dal mare azzurro di Baia Verde continua poi fino a fine agosto. Lo slogan dell'estate 2019 dice più o meno tutto: we will Rock you! Ovvero la Praja ha intenzione di far scatenare i suoi ospiti, regalando loro un'estate di fuoco...
E cosa succede l'8 agosto? In console arriva lui, Gianluca Vacchi, Mr. Enjoy". Personaggio internazionale e ormai dj di successo, ha pure scritto una autobiografia in cui racconta delle sue origini ma anche di seduzione e tatuaggi, lifestyle e attività fisica, eleganza e ironia... non manca neppure qualche episodio di follia che hanno contribuito a farlo diventare un fenomeno mondiale.Tra le sue passioni, oltre allo sport, la musica, il ballo e i dj set nei locali più esclusivi, come è ovviamente la Praja, in cui si esibisce come dicevamo l'8 agosto 2019.
E' uno degli appuntamenti targati Popfest - People on Pleasure, uno dei festival più grandi d'Europa a livello di numeri e qualità musicale che fa più spesso scatenare la Praja. La formula è perfetta per chi è in vacanza in Salento e vuol ballare la migliore musica pop & dance tra luglio e agosto a Gallipoli. Popfest è un festival che mette in console molti dei top dj internazionali a Gallipoli anche nel 2019... Popfest poi spesso "trasloca" anche al Tinello di Campo nell'Elba, anch'esso gestito da Musicaeparole.
Su Facebook e qui sotto tutti gli eventi targati Popfest dall'8 al 25 agosto 2019 https://www.facebook.com/popfesteurope/events
8/8 Gianluca Vacchi @ Praja - Gallipoli (LE) 11/8 Bob Sinclar & Albertino @ Praja - Gallipoli (LE) 12/8 Georgia Mos @ Tinello - Campo nell'Elba (LI) 14/8 Steve Aoki @ Praja - Gallipoli (LE) 18/8 Dj Antoine, Nicola Zucchi @ Praja - Gallipoli (LE) 22/8 Benny Benassi @ Praja - Gallipoli (LE) 25/8 Federico Scavo @ Praja - Gallipoli (LE)
Tutti i party della Praja - Gallipoli sono su Facebook nella sezione eventi: www.facebook.com/prajagallipoli/events/
Praja Gallipoli Lungomare Lido San Giovanni - Gallipoli (LE) 348 6297999 https://www.facebook.com/prajagallipoli/
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Nei momenti difficili, lo ammetto, mando giù i libri di Murakami come fossero aspirina. Su “L’arte di correre”
Una delle ultime volte che mi sono avventurata, quasi correndo, dentro le temibili fauci di un supermercato, un mesetto fa, nella corsia dedicata ai libri e alla musica, ho afferrato e infilato nel carrello un libro di Haruki Murakami. L’arte di correre (tradotto da Antonietta Pastore, Einaudi, 2007), uno dei pochi che non avevo letto (gli altri in esposizione erano: 1q84, Kafka sulla spiaggia, Dance dance dance). Nei momenti difficili, devo ammetterlo, mando giù i libri di Murakami come fossero l’aspirina.
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Il libro è dedicato a tutti i corridori che lo scrittore ha incontrato sulle strade del mondo, a quelli che ha superato e a quelli che lo hanno superato in gara. Ma non si tratta di un romanzo, è una sorta di autobiografia e una riflessione sulla corsa che è anche una lunga chiacchierata sul talento, la creatività e sulla condizione umana (con un corredo fotografico di tutto rispetto: un interessante Murakami sudato, a petto nudo e calzoncini, negli anni ’80, immortalato in Grecia, sulla mitica strada per Maratona). Una volta a casa, mi sono ricordata di leggere questo snello libretto (un peso piuma rispetto agli altri romanzi) quando è iniziata la crociata contro i runner, a causa del coronavirus, e l’arte di correre è diventata un lusso che, in pochissimi, possono permettersi. Fare jogging in un ampio podere o su un tapis roulant? Correre, ahimè, è sempre stato un rischio (basti leggere il numero di animali morti incontra Murakami per strada mentre corre). Non resta che percorrere il campo di una fantasia sconfinata o della memoria.
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Mi sono ricordata delle mie ultime corse campestri al liceo, una vita fa. Quando è stata l’ultima volta che ho corso? (non la corsa per prendere il treno o per arrivare in tempo al lavoro, s’intende). Vista la prossimità ventilata da Murakami fra l’atto di scrivere e quello di correre – in questi giorni, per legge, non si può più correre né tantomeno passeggiare all’aperto – c’è da riflettere (e da temere) sul futuro, imminente declino della buona scrittura. Corro al capitolo quarto, epigrafe: “Correre per strada ogni mattina mi ha insegnato molto riguardo alla scrittura”. Veniamo alle qualità fondamentali di uno scrittore, secondo Murakami: talento, capacità di concentrazione, perseveranza. “La qualità più importante per uno scrittore, non c’è nemmeno bisogno di dirlo, è il talento. Se uno non ha il minimo talento letterario può scervellarsi finché vuole, metterci tutto il suo ardore, non scriverà nulla di valido. Più che una qualità necessaria, questa è una condizione preliminare”. Poi: “La facoltà intellettuale di riversare tutto il talento di cui siamo dotati, intensificandolo, su un unico obiettivo. Chi non è capace di fare questo non riuscirà a portare a compimento nulla di buono. Invece usando in maniera efficace l’energia mentale, in una certa misura si compensa un talento carente”.
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Ecco la giornata-tipo indicata da Murakami (per chi può permettersi di replicarla nella sua vita): “Io di solito mi concentro nel lavoro tre o quattro ore al giorno, al mattino. Mi siedo alla scrivania, e rivolgo la mia mente soltanto a ciò che voglio scrivere. Non penso a nient’altro. Non vedo nient’altro. Uno può avere tutto il talento che vuole, avere la testa piena di splendide idee, ma se per caso ha un terribile mal di denti – tanto per fare un esempio – non riuscirà a scrivere un bel niente. La capacità di concentrazione viene azzerata dal dolore”. Come nella maratona, anche nella scrittura fondamentale è la perseveranza: “Ammettiamo che uno riesca a concentrarsi nella scrittura per tre o quattro ore al giorno: se dopo una settimana si stufa, non potrà mai creare un’opera di una certa lunghezza. A uno scrittore – per lo meno a chi non si accontenta di buttar giù poche pagine – occorre la capacità di continuare a concentrarsi giorno dopo giorno per sei mesi, un anno, due anni di fila”. Poi, chiarisce subito che scrivere un romanzo non è di certo una passeggiata. Al contrario. “Scrivere un romanzo, fondamentalmente, è una sfacchinata, io ne so qualcosa. In sé, l’atto di redigere delle frasi è forse uno sforzo mentale. Ma scrivere fino in fondo un libro intero è qualcosa che si avvicina alla fatica fisica”.
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Insomma, non basta mettersi seduto a un tavolino, con una tazzina di caffè tra le mani: “la maggior parte della gente, giudicando solo dall’apparenza, pensa che il lavoro dello scrittore sia un’attività tranquilla, puramente intellettuale. Basta che uno abbia la forza di sollevare una tazzina di caffè, e prima o poi scriverà qualcosa. Quando si prova a farlo sul serio, però, ci si rende conto che scrivere un romanzo è tutt’altro che riposante. Dovrebbe essere una cosa evidente. Seduti alla scrivania, si focalizzano i nervi su un punto, si solleva la fantasia dal livello terra come un raggio laser, si fa nascere una storia, si scelgono le parole a una a una, si mantengono tutti i fili della trama nella posizione giusta – questo genere di lavoro richiede per un lungo periodo di tempo una quantità di energia molto maggiore di quanto di solito si pensi”. Insomma uno sforzo usurante, che consuma carne e ossa, secondo lo scrittore – maratoneta. Il parallelo scrittura-corsa sembra reggere dunque su un perno fondamentale. La resistenza al dolore.
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In Giappone, più che in occidente, scrive Murakami, si crede che lo scrittore, in quanto tale, debba condurre una vita malsana, indecente, dissoluta e immorale. Uno stereotipo a cui lui si dice abbastanza d’accordo. Per scrivere, in effetti, occorre tirare fuori le ombre, portare il buio alla luce. Murakami ne parla in termini di “elemento tossico”. “Quando decidiamo di scrivere un libro, cioè di creare una storia dal nulla servendoci di parole e frasi, necessariamente estraiamo e portiamo alla luce un elemento tossico che fa parte del nucleo emotivo dell’essere umano. Lo scrittore se lo trova di fronte e, pur sapendo di correre un pericolo, deve maneggiarlo con abilità. Perché senza l’intervento di quell’elemento tossico, un atto creativo dal significato autentico non è possibile – scusate l’esempio terra-terra, ma è un po’ come quando si dice che la parte più buona del pesce palla è quella più vicina al veleno”. In altre parole, l’attività creativa, e nello specifico letteraria, è malsana e antisociale. Perciò – questa la tesi di Murakami – per maneggiare questo materiale altamente tossico, conviene vivere una vita più sana possibile (qualcosa di simile, lo diceva anche Marziale, più lascivo che tossico). E correre quei maledetti quarantadue chilometri. Occorre concentrarsi profondamente.
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Ma lo scrittore maratoneta ci rivela, candidamente, che nel momento più duro, pensa alla birra. Alla birra! “Basta, basta pensare alla birra. E farei anche meglio a evitare di pensare al sole. E al vento. E all’articolo che devo scrivere. Mi devo concentrare soltanto sull’azione di mettere un piede davanti all’altro”. Ma al traguardo, che arriva all’improvviso, Murakami non prova soddisfazione, solo sollievo. E la birra? “Naturalmente è buona. Ma non tanto quanto me l’immaginavo mentre correvo. Non esiste a questo mondo qualcosa che sia all’altezza dell’immagine illusoria che ce ne eravamo fatti quando avevamo perso la lucidità”. Forse ai runner e non solo, costretti, per forza maggiore, all’inattività, potrebbe tornare utile questo mantra che Haruki Murakami rivela di aver appreso da un maratoneta: “Pain is inevitabile. Suffering is optional”. Il dolore è inevitabile nella vita, la sofferenza è opzionale. Forse. “La fatica è una realtà inevitabile, mentre la possibilità di farcela o meno è a esclusiva discrezione di ogni individuo. Credo che queste parole riassumano alla perfezione la natura di quell’evento sportivo che si chiama maratona”.
Linda Terziroli
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“La pace non è la quiete, è piuttosto l’accoglienza dell’irrequietezza”: come la meditazione può diventare un gesto politico rivoluzionario. Su un libro prezioso di Chandra Livia Candiani
Che cos’è la meditazione? Aldilà delle tecniche, che sono molteplici, qual è il fondo comune che non cambia al cambiare delle diverse discipline? Sì può dire che per meditare si devono rispettare almeno tre condizioni: silenzio, immobilità del corpo, attenzione al respiro.
L’attenzione normalmente rivolta ai sensi è costretta a volgersi all’interno. All’interno trova l’inferno di processi mentali allo stato selvaggio, nebulose di pensieri che attraversano fulminee la mente col loro carico di emozioni e ricordi, recriminazioni e giudizi, immagini ed echi di parole dette e sentite, che la disciplina del respiro insegna a lasciar scorrere sullo schermo della mente, senza fissarvi l’attenzione.
La meditazione, se praticata quotidianamente e con senso di avventura, cioè di ricerca, a poco a poco cambia la vita, perché cambia gradualmente il nostro stato di coscienza. C’è una bellissima definizione di Yogananda in proposito: “meditare significa morire al mondo senza morire”. È un lasciar andare tutte le cose cui quotidianamente, e per tutta la vita, rimaniamo aggrappati. Morte, imparare a lasciar andare, sono temi che tornano spesso in “Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione” di Chandra Livia Candiani (Einaudi, 2018): “Da piccola mi sembrava che gli adulti fossero troppo aggrappati, non si lasciavano strappare abbastanza e guarivano troppo presto, non sentivano più il mare dell’inconsistenza sotto i piedi, non erano marinai della morte”. La meditazione è un lavoro quotidiano, ed è necessario praticarla in un luogo che si sia destinato a quella funzione. “La stanza della meditazione” è anche il titolo di uno dei capitoli del libro, quello in cui Chandra parla della propria “stanza vuota”, nella quale è solita praticare e dove accoglie il gruppo di allievi che periodicamente lì si riunisce. Luogo che è nato “intorno a un gesto. Il gesto di inchinarsi, di poggiare la fronte a terra. Di scendere. È bello avere un gesto che si ripete ogni giorno […]. Tenendo fermo il gesto, notiamo che un giorno lo facciamo con commozione, un giorno con rabbia, un giorno di fretta, un giorno siamo innamorati e un’altra volta non lo siamo più, la vita ci ha toccato a fondo, la vita sembra trascurarci, e con tutto questo scorrere di eventi e di stati d’animo, insieme a tutto questo, noi c’inchiniamo”.
Meditare è una via che non sta da qualche parte nella mente, raggiungibile con l’immaginazione, con i pensieri, con l’attività intellettuale, ma è “in un dentro molto prossimo al corpo, molto distante dal carattere, in un’intimità con me che andava oltre me […]”. Ed è soprattutto una via di silenzio solitario e comunitario insieme: “non esiste il silenzio mio o tuo. Fare silenzio insieme è una profondissima comunione. Le diverse esperienze di vita, i diversi stati d’animo possono creare complicità o avversione, il silenzio consapevole unisce”. E ancora: “Ci sono infinite varietà di silenzio. Il silenzio è un po’ come la luce, bisogna affinare i sensi per accorgersi di quante diverse sfumature di luce in una giornata incontriamo”.
Si potrà credere che tutto questo lavorìo interiore in fondo assomigli molto a una sorta di fuga dalla realtà, assecondando così il luogo comune che vede nella meditazione una specie di droga che ci renderebbe indifferenti al mondo perché focalizzati su un nostro universo interno, pacificati e lontani dalle necessità della vita esteriore, dall’impegno quotidiano nell’azione. Niente di più distante dal vero: anche se “la maggior parte di noi inizia un percorso meditativo in cerca di pace”, ben presto ci si accorge che “quello con cui entriamo in contatto è il caos della nostra mente e la ristrettezza del nostro cuore. La pace non è la quiete, è piuttosto l’accoglienza dell’irrequietezza”. Non si tratta dunque, sottolinea la Candiani, di sottrarsi alla vita, all’azione, alle sue necessità, per “fuggire in un mondo solo interno, in un oltre”, ma “sono seduta (a meditare) perché tutto brucia di illusione e di incantamento e ora so che non voglio più essere incantata, che voglio svegliarmi”. Per questa via l’autrice approda a una delle affermazioni più forti di tutto il libro, che investe un concetto fin troppo abusato come il concetto di “politico” (o meglio, di “atto politico”), ma qui come pulito da ogni incrostazione superficiale. E se conveniamo che la dimensione del politico è diventata oggi, per dirla con Shakespeare, una storia “piena di rumore e furore, che non significa nulla”, Chandra si premura invece di ricordarci che il mondo può cambiare solo se cominciamo a cambiare noi stessi, perché la postura (“fisica e del cuore”, come l’autrice sottolinea in un altro punto) necessaria per meditare è “esporsi all’essere. Dunque, sedersi in meditazione, accogliere in silenzio il respiro, conoscere senza pensare, è un atto politico. Ha una portata collettiva indelebile, mi trasforma e con me trasforma tutto il mondo attraverso il cambiamento del mio atteggiamento verso ogni fenomeno con cui vengo in contatto”.
“Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione” è un libretto aureo nel quale uno può perdersi e ritrovarsi, camminare sulle tracce della poesia, incontrare momenti di autobiografia scabri e tersi come un cristallo e cogliere disseminati per le pagine, come i sassolini bianchi della fiaba, ma così come per caso, con leggerezza, tutta una serie di insegnamenti etici e pratici. E ogni pagina è pervasa da quel tono dolce e profondo, da quello sguardo infantile e guerriero insieme, dolorosamente toccato dalla vita eppure così luminoso, che caratterizza sempre anche tutta la poesia di Chandra. Poesia che d’altronde fa capolino nel libro, e prende la forma di alcuni testi, riportati nei primi capitoli, composti dai bambini durante i seminari che la poetessa tiene nelle scuole primarie di Milano. Perché fare poesia con i bambini? La risposta comprende anche il senso del meditare e, in fondo, dell’incontro: “Peter Bichsel in Quando sapevamo aspettare scrive: «è possibile ascoltare bene solo quando si tollera di non capire». Seminare la meditazione, come pure seminare la poesia a scuola, fra i bambini, significa innanzi tutto invitare a tollerare di non capire, per imparare ad ascoltare e ospitare nel corpo. Incorporare è portare umilmente al corpo ancora e ancora quello che ascoltiamo, finché l’io si stanca e allora noi cambiamo, ci apriamo al non conosciuto”.
È un racconto-saggio-poemetto dal tono colloquiale costellato di saporose citazioni questo testo, dove la stessa lunghezza dei capitoli obbedisce più a una logica di respiro organico che di argomentazione razionale. Ogni capitolo un respiro, e come ogni respiro del corpo è diverso in ampiezza sia dal precedente sia dal successivo, così la lunghezza di ogni sezione sembra seguire un ritmo analogo. Ci si può imbattere allora anche in paragrafi di mezza pagina o nel più breve: un sutra del Buddha – il “sutra del Diamante”, sei righe.
Ci sembra un libro importante questo, perché c’è una strana atmosfera intorno alle pratiche meditative; un risveglio di interesse che mette in luce la grande diversità degli approcci e concorre a creare anche molti equivoci. Meditare è un percorso che mette in gioco tutta la vita della persona, è qualcosa che scardina e consola, mette in crisi e ricentra. E si tratta di un lavoro spirituale. Mai come oggi si avverte una specie di timore a cogliere questo lato della questione. La vulgata New Age mette piuttosto l’accento sul rilassamento, sulla lotta allo stress, sul miglioramento delle prestazioni lavorative – aumento della concentrazione, maggiore energia ecc. –, sulla conservazione della salute, fisica e psichica. Ma questi sono effetti che non esauriscono la portata enorme, spirituale ripetiamo, della meditazione. Ecco allora che questo libro contribuisce, con gentilezza e grazia, a disperdere molti degli equivoci che si sono accumulati sull’argomento, i quali, funzionali come sono al mercato del benessere, certo non aiutano a districarsi in una materia che è complessa e richiede una conoscenza profonda e sottile.
Franco Acquaviva
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“Siamo vivi, siamo soli (e celebrare la vita è tremendamente stupido)”: Massimiliano Parente ha rapito Vasco. Lo abbiamo intervistato
“Solo Parente poteva tirare fuori dal mazzo una storia come questa”, scanzonata quanto profonda. Il protagonista del romanzo, omonimo dell’autore, è uno scrittore che sente di avere un’affinità elettiva con Vasco Rossi – convinzione che peraltro hanno tutti i fan nei confronti dei loro idoli. Egli si persuade quindi che Vasco abbia bisogno di lui e viceversa, ma, invece di sognare di incontrarlo, o limitarsi ad assillarlo sui social come fanno tutti, decide di rapirlo.
In sordina, dietro una storia irriverente e apparentemente disimpegnata, Parente di Vasco (La Nave di Teseo, 2018) restituisce una riflessione distante da qualunque retorica sul senso dell’esistenza, per arrivare infine alla conclusione, come dice lo stesso cantautore, che “questa vita un senso non ce l’ha”.
Parente, al contrario di ciò che gli intellettuali continuano a ripetere nei libri che nessuno compra, ma tutti scrivono, mette nero su bianco la realtà. Filosofi e letterati per centinaia di anni hanno cercato il senso della vita, prevalentemente impelagandosi in assurde discussioni di carattere morale, quando “la vita non è altro che un processo biologico cieco e senza finalità”.
Dalle tue dichiarazioni sembrava avessi smesso di scrivere romanzi – avendo ormai detto tutto. Poi ti sei ritrovato con questa storia fra le mani, che hai messo giù in un mese. Ma, dunque, sentivi di avere ancora qualcosa da comunicare? Qual è il senso – ammesso che i romanzi abbiano un senso – del tuo ultimo lavoro?
È avvenuto tutto alla fine di quest’estate. Ero molto depresso, in particolare per una questione personale che racconto nel libro, e passavo le giornate giocando con la Playstation e ascoltando Vasco. Un giorno ho avuto l’idea di questo romanzo, per raccontare la situazione e perché la storia era divertente. Così l’ho proposta a Elisabetta Sgarbi, che è stata subito entusiasta e mi ha concesso un buon anticipo, spingendo affinché l’opera uscisse a novembre. Senza di lei non ce l’avrei mai fatta. È un editore d’altri tempi, capace di cose che nel panorama editoriale italiano attuale sono sorprendenti, come quando l’anno scorso diede alle stampe la Trilogia dell’inumano. Ne è venuto fuori un romanzo romantico, tragicomico, spassoso, scritto tutto in un mese. Consegnato ai primi di ottobre, è uscito giovedì scorso ed è già alla seconda edizione. Mi sono anche divertito molto a scriverlo. La maggior parte delle cose che racconto sono vere, inclusi gli incontri che ho fatto, esilaranti, per documentarmi su come rapire Vasco, resi possibili grazie alla collaborazione di Emilio Pappagallo, il mio migliore amico, al quale è dedicato il libro e che è anche un personaggio fondamentale del romanzo.
Si tratta del tuo libro con il maggior numero di riferimenti autobiografici, per quanto non sia la prima volta che ti avvali di un protagonista omonimo. Che differenza c’è, sotto questo punto di vista, tra Contronatura e Parente di Vasco?
Sono testi completamente diversi. Contronatura è parte di un’opera di millesettecento pagine che ho impiegato tredici anni a scrivere e su cui ho investito gran parte della mia vita. Viene studiata nelle università, perché diversi studenti hanno capito che è unica nella letteratura occidentale. Per scriverla mi sono distrutto, fisicamente e psicologicamente, pur avendo scritto successivamente altri due romanzi nei quali è venuta fuori la mia vena più comica. Parente di Vasco è un romanzo non pianificato, come un figlio che non hai programmato ma decidi di non abortire. Buttato giù di getto, in un mese, è uscito così come l’ho scritto, con pochissime correzioni. Ripeto, gran parte del merito è della determinazione di Elisabetta Sgarbi. È vero, ho usato molte volte Massimiliano Parente come nome di autofiction, ma qui l’autofiction è minima. Ho messo più il vero me stesso qui che in tutti gli altri romanzi (sebbene un altro personaggio che mi rispecchia molto è Max Fontana, il protagonista de Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler), è una piccola autobiografia che racconta un’avventura tragicomica. È la prima volta, per esempio, che scrivo della morte di mio padre, su cui non ho mai pubblicato neppure un post su Facebook. Quelle pagine hanno colpito molti lettori, tra cui Giampiero Mughini, che ne ha scritto subito, ma anche me stesso quando le ho messe su carta.
Nel romanzo, il protagonista sostiene che la maggior parte della musica, come della letteratura italiana, è caratterizzata da una retorica della vita, diciamo un’esaltazione smodata di questa. Sostiene anche che tale tendenza appartiene solo all’essere umano, infatti, “anche un usignolo canta tutto il giorno, ma non certo per cantare la bellezza della vita”. Se l’arte non deve quindi celebrare la bellezza di essere vivi, qual è la sua funzione dal tuo punto di vista?
Trovo che sia tremendamente stupido celebrare la vita per un essere vivente destinato tra l’altro a morire e a perdere tutto ciò che ama. Che magari si inventa dei paradossi che, tra gli altri grandi primati, fanno di Homo Sapiens una scimmia veramente idiota, come ad esempio la vita dopo la morte. Una minoranza della nostra specie è arrivata a comprendere aspetti incredibili di noi stessi, a mettere piede sulla Luna, a far atterrare robot su Marte, a comprendere la materia fino alle particelle elementari, a rilevare onde gravitazionali scaturite dalla fusione di due buchi neri un miliardo di anni fa, a vedere l’universo fino a una distanza di tredici miliardi di anni luce – incredibile. Ma la maggior parte dell’umanità è ancora capace di parlare a un essere immaginario che vive nel cielo – ridicolo. A me interessa la verità. Siamo l’unica specie vivente che ha impiegato duecentomila anni per arrivare, solo nell’ultimo secolo e mezzo, a conoscere la nostra origine e quella di ogni altra specie vivente. La biologia e la fisica ci hanno svelato molto di ciò che siamo, ma non solo la gente comune, anche la maggior parte dei letterati non se n’è accorta, non studia. Per me un romanzo o ha una funzione epistemologica o è puro intrattenimento, non vale più di una serie tv – tenendo conto che oggi ci sono serie tv più interessanti, anche epistemologicamente, di molti romanzi, sarà che gli sceneggiatori studiano di più. Ritengo che un romanzo debba essere romanzesco, cioè avere una trama solida, ma anche avere un pensiero moderno. Per tal motivo ho elogiato Origin di Dan Brown. Sarà di genere, ma dice cose interessanti, moderne. L’autore ha studiato e sa costruire un romanzo. È anche per questo che ho scelto Vasco Rossi come amico ideale nel testo, e decido di rapirlo, perché nella semplicità dei suoi testi, del suo pensiero, non c’è mai niente di consolatorio, di metafisico, di ruffiano rispetto alla vita di cui parlano i vitalisti. Addirittura, nel romanzo vorrei diventare amico di Vasco per dargli ancora più strumenti per comprendere la realtà, che lui ha comunque intuito. Nel romanzo sostengo che è lui ad aver bisogno di me ancor più che io di lui. In ogni caso di Vasco direi anche che è l’unico poeta che amo, se non pensassi di fargli un torto perché detesto i poeti ancora più dei letterati.
In Contronatura il protagonista sostiene di scrivere per la letteratura, quindi non per il pubblico, e contro la letteratura. In Parente di Vasco, il protagonista dichiara di scrivere la realtà e contro la realtà. Potresti spiegare ai lettori cosa intendi esattamente con questi due concetti?
È lo stesso concetto che mi ha mosso sempre come scrittore cioè dire quello che tutti gli scienziati pensano ma non possono esprimere artisticamente, usando la letteratura. Protestare contro la vita producendo opere contro la vita, ma senza trovare scappatoie metafisiche. Dire quello che molti scrittori hanno detto, per esempio gli esistenzialisti, o giganti come Proust o Beckett, ma in maniera più precisa, usando la scienza. E, ovviamente, senza mai trascurare l’aspetto romanzesco. Sto ricevendo centinaia di messaggi di lettori commossi e divertiti per Parente di Vasco – molti dei quali non erano neppure miei lettori prima –, perché avvertono che questo senso del comico, come anche del tragico, nasce da un approccio profondo con la realtà. Perché siamo vivi, e siamo soli.
Alessandro Paglialunga
L'articolo “Siamo vivi, siamo soli (e celebrare la vita è tremendamente stupido)”: Massimiliano Parente ha rapito Vasco. Lo abbiamo intervistato proviene da Pangea.
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