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“Nel condominio di carne” di Valerio Magrelli: Un Viaggio Autobiologico tra Corpo e Psiche, Recensione di Alessandria today
Un’intima esplorazione del corpo umano, tra letteratura e scienza, in una narrazione originale e viscerale
Un’intima esplorazione del corpo umano, tra letteratura e scienza, in una narrazione originale e viscerale “Nel condominio di carne” è un’opera unica nel panorama letterario, in cui Valerio Magrelli esplora il proprio corpo come un “condominio” abitato da innumerevoli entità e memorie. Questo libro rappresenta un viaggio interiore tra anatomia e introspezione, in cui l’autore si racconta…
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Molti anni fa una persona che amo molto mi disse: “Ti manca l’aria? Esci e vai a prenderla.”
Le emozioni non si vivono che attraverso il corpo e il cervello, che le traduce per noi in metafore, è un organo, esattamente come tutti gli altri.
Abbiamo spesso bisogno di perimetrare ciò che sentiamo nei contorni di un’immagine, che ci consenta di focalizzarlo e, più o meno efficacemente e rapidamente, di metabolizzarlo.
Quello che a volte dimentichiamo, però, è che l’immagine che il nostro cervello produce per descrivere la nostra condizione emotiva non è mai casuale, non è mai soltanto una metafora: è, al contrario, un’indicazione precisa, che arriva dalle esigenze reali del corpo, inteso come sistema integrato, di cui il cervello si fa messaggero.
Vedi tutto nero? Fai una passeggiata all’alba.
Ti prude la lingua? Mettila in uso e parla.
Senti sfuggire la terra sotto ai piedi? Appoggiali bene al suolo, bilànciati sul tuo baricentro.
Ti manca l’aria? Esci e vai a prenderla.
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Lei sa che l’eccitazione sessuale può smuovere anche una montagna con la stessa facilità con cui, una volta saziata, lascia franare i massi. E non importa se, nella caduta, i massi possono spaccarti la testa. Per gli uomini, dopo che l’eccitazione è esplosa come lava di un vulcano, tutto finisce o, per continuare la metafora, si raffredda e si arresta. Mentre lo stesso desiderio incandescente nel corpo di una donna si deposita come semente e cresce fino a trasformarsi in vera e propria brama di possesso. Poi, tiepido, cullato sotto la pelle e nel cuore della donna, il desiderio – lo stesso desiderio poco prima condiviso – si rassegna a rimanere solo come un uccello che cova le proprie uova in uno stato di nostalgico rapimento.
Marcela Serrano - L’ albergo delle donne tristi
Ph Roger Rossell
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Kintsugi la filosofia giapponese come...
"Il Kintsugi non è solo una tecnica di restauro, ma ha un forte valore simbolico. Rappresenta la metafora delle fratture, delle crisi e dei cambiamenti che l’individuo può trovarsi ad affrontare durante la vita.
L’idea alla base è che dall’imperfezione e da una ferita possa nascere una forma ancora maggiore di perfezione estetica e interiore. La particolarità di questa pratica risiede nel fatto che il vaso non viene riparato nascondendo le crepe, ma anzi queste vengono sottolineate attraverso l’oro."
Le ferite del corpo e dell'anima sono curabili e sono guaribili se le viviamo con l'avere fiducia in questo oro, che è balsamo e consapevolezza della forza interiore che ognuno di noi ha.
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l'Eterno e il Tempo
Uno sguardo sul futuro non può prescindere da una riflessione sul tempo. Nella Grecia antica, ad esempio, ci sono tre figure che rappresentano il tempo:
una è Aion, l’eone, il tempo eterno;
l’altra è Chronos, il tempo che scorre, misurato, che divora l’esistenza.
e poi c’è il Kairos, l’opportunità.
Aiòn, "tempo" in greco antico connesso etimologicamente con l’avverbio aèi "sempre”. Un tempo inteso come eternità, come "sempre essente", distinto dal tempo "chrònos" e dal tempo "kairòs".
Rappresentato nelle fonti antiche, letterarie e iconografiche, come un fanciullo o un ragazzo, con il cerchio dello zodiaco (o un serpente) avvolto intorno al corpo. Eraclito scrive: "Aiòn è un bambino che gioca con le tessere di una scacchiera: di un bambino è il regno del mondo". Con Aiòn si allude alla vita come durata, nelle intermittenze e anacronie dell’esistenza personale. Si tratta di una distinzione in parte assimilabile a quella introdotta da Henri Bergson tra tempo della fisica, quantitativo e calcolabile, e durata, dimensione della coscienza irriducibile a qualsiasi logica sommativa e lineare.
Chrònos "tempo" in greco antico inteso come successione di istanti, di ore, di giorni, tempo che rovina e distrugge.
Già nelle fonti letterarie e iconografiche ellenistiche gli attributi mortiferi e distruttivi del tempo-chronos, vengono confusi con gli attributi del dio Kronos, che nel mito divora i suoi figli, ma viene poi ingannato ed evirato dal figlio Zeus. In particolare l’attributo del falcetto, strumento della mietitura e metafora della ciclica rinascita delle messi, passa dalla divinità sincretica Saturno-Kronos al Tempo-Chronos, la cui iconografia andrà sempre più identificandosi con quella della Morte. Kaìros in greco significa "momento opportuno". Questa parola si riferisce al tempo e in special modo intende al "momento fra", cioè quel determinato periodo di tempo in cui interverrà qualcosa che cambierà lo stato attuale delle cose. Si può tradurre come momento propizio, opportunità.
Da notare che su una delle colonne di Delfi, i sette sapienti avevano fatto incidere la massima “kairòn gnôthi" riconosci il momento giusto. Kairos, l’Opportunità, viene interpretato come un fanciullo alato con i capelli lunghi caduti sulle spalle davanti, ma calvo dietro, come a dire che quando il momento favorevole è passato, esso non può essere preso all’ultimo istante per i capelli. Che ora è? Che anno è? L’orologio e il calendario indicano un tempo che ci domina. Egli è Chronos, che ci dà una cifra convenzionale, senza comunicazione con le leggi della natura.
Ma se ci chiediamo: -Che cosa avviene?- ci interroghiamo e scopriamo se è " il tempo opportuno " dei rapporti continui, seppure inavvertiti dalla maggioranza degli uomini, che intercorrono tra il microcosmo e il macrocosmo. Kairos è un tempo rivelatore, ci svela il senso, l’importanza dell’ora che volge, ci suggerisce il mistero della reazione a catena che collega le cause agli effetti, il prima al dopo, che immette l’uomo nel cosmo ed il cosmo nell’uomo, ci rende consapevoli del fatto che tutto è interconnesso. Nel tempo di Kaìros occorre essere aperti per poter cogliere un momento di rottura che precipita la possibilità di mettere in atto ciò che si è preparato. Sta a noi lavorare per cogliere quell'attimo. Carpe diem, direbbe Orazio. Lo stesso fa la cuoca, se sa cogliere l'attimo in cui i suoi piatti, nel forno, son cotti a puntino; lo stesso fa chi governa una barca, se vira al momento opportuno e nel senso giusto e alza o ammaina le vele, lo stesso il pilota che deve sapere quali comandi e in che momento usarli per decollare sollevarsi accelerare, atterrare; l'atleta, se a tempo debito e con la dovuta forza lancia il disco, scocca la freccia, incalza o molla l'avversario, lo stesso il medico, se dosa il farmaco e il punto e la profondità dell'incisione che va praticando.
E il politico che deve conoscere quali provvedimenti faranno il bene del Paese in quel momento storico- economico; l’insegnante che sa quali saperi al momento opportuno e quali competenze sviluppare nel discente con una progettazione adeguata e misurata sull’allievo. Non per caso la più bella immagine di Kairòs, l'istante topico, l'occasione, o l'attimo fortunato, trovata a Traù, nell'attuale Croazia, era forse posta all'ingresso d'uno stadio. Il bassorilievo raffigura un giovane con le ali ai piedi, recante in mano una bilancia posta in equilibrio su un rasoio e, soprattutto, con un gran ciuffo di capelli sulla fronte, ma la nuca rasata. Se sarà passato oltre non sarà più possibile afferrarlo. Sta a noi prevenirne i movimenti e la fuga, sta a noi, in una serie di attimi, scovare, cogliere, afferrare quell'unico frammento di tempo in cui saremo a tempo perfetto con l'armonia cosmica. Comprendere, agire ed operare bene, godere, essere felici: sforzarci e faticare per tutto questo e poi, con semplicità e facilità inattese, riuscire ed uscire dal tempo, dall'indifferenza infinita e divorante di Chrònos, guadagnare, sia pur solo per quell'attimo, il tempo adatto a noi, nella perfezione di ciò che la nostra natura poteva compiere e che di fatto ha saputo compiere.
Così Rainer Maria Rilke dice dell Kairòs greco antico: “E a un tratto, in questo faticoso nessun dove, a un tratto, / l'indicibile punto, dove quel ch'era sempre troppo poco, / inconcepibilmente si trasmuta, salta / in un troppo, vuoto. Dove il conto a tante poste / si chiude senza numeri”.
Dentro un Chrònos infinito e inesorabile, un Kairòs unico, capace dunque, se colto opportunamente, di renderci, per quell'attimo e per sempre, eterni.
-C. D'Eramo
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO PRIMO - di Gianpiero Menniti
L'UOMO GRECO E L'UOMO CRISTIANO
La tragedia di Sofocle narra del figlio che in apparenza infrange due tabù: uccide il padre e giace con la madre. Ma Edipo non è colpevole: l'origine della vicenda è nel misfatto di Laio, il re che teme il pronunciamento dell'oracolo e decide di assassinare il figlio. Il padre è l'assassino. Edipo è la vittima. Laio è dunque colui che non accetta la metafora della morte come passaggio del testimone al figlio. Non accetta la decadenza del corpo. Non accetta di trasmettere la sua eredità, l'Io che si scioglie nella figura del figlio. Non accetta la condizione che la natura impone per se stessa, per le sue finalità di vita senza scopo. La vita che necessariamente è morte. Così, Laio si ribella, infrange l'ordine e apre le porte al caos. Edipo è la vittima. Inconsapevole, rifiuta il nuovo ordine imposto dagli eventi, non segue la regola dell'equilibrio, nella scia dell'ignota ma presente e angosciosa eredità paterna. Nella sua sfrontata ricerca di verità si condensa la tragedia indicibile, struggente, insanabile. Egli è il figlio che si affaccia al mondo attratto dal suo disvelamento, dalla fiducia nella conoscenza. Anche lui senza misura. Anche lui epigono del caos. La tradizione cristiana ripensa il ruolo del padre, ma non entro "l'aretè", necessità di natura e accoglimento del destino di mortale. L'uomo cristiano coltiva la speranza della salvezza dalla morte e sposta l'asse della verità dall'ordine di natura all'ordine divino. Il Dio non è caos ma è padre. Il Dio non è solo onnipotenza ma è divenuto amore. E Amore vince sulla Natura fino a sovvertirne il corso, fino a superarne la muta indifferenza attraverso il Verbo che è coscienza e ricerca. Ecco che il padre accetta la sentenza di morte del figlio:
«Il più giovane disse al padre: "Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta."» (Luca, 15,12).
Nel mondo ebraico l'eredità chiesta prima della scomparsa del genitore equivaleva ad un delitto, rappresentava il desiderio di sopprimere il padre stesso. Ed era punibile con la sentenza capitale. Ma il padre divide l'eredità e lascia andare il figlio: riconosce che il desiderio della sua morte è nel figlio anelito di libertà, estrema pulsione di conoscenza, inclinazione naturale alla vita che divora la vita. Non si vendica, non si lascia cadere nell'impulso contrastante e sceglie la speranza, confida nella salvezza. E nel ritorno. Quando la speranza si avvera e l'ordine naturale dei sentimenti ancestrali è sovvertito, vinto, sconfitto, il padre cancella il passato (il passato è peccato, il presente è redenzione, il futuro è salvezza) e riabbraccia il figlio ritrovato. La Natura rimane in agguato: l'altro figlio osserva e recrimina e rimprovera:
«Egli si adirò e non volle entrare; allora suo padre uscì e lo pregava di entrare. Ma egli rispose al padre: "Ecco, da tanti anni ti servo e non ho mai trasgredito un tuo comando; a me però non hai mai dato neppure un capretto per far festa con i miei amici; ma quando è venuto questo tuo figlio che ha sperperato i tuoi beni con le prostitute, tu hai ammazzato per lui il vitello ingrassato" » (Luca, 15, 28, 29, 30).
Ma è qui che la parabola evangelica tocca il suo culmine, spesso misconosciuto:
«Il padre gli disse: "Figliolo, tu sei sempre con me e ogni cosa mia è tua; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato."» (Luca, 15, 31, 32).
Il padre, sublimazione dell'Amore, salva anche lui, anche l'altro figlio incapace fino a quel momento di comprendere l'ordine di Dio, il figlio rimasto entro l'ordine di Natura che reclama la vendetta. Ma lo salva davvero? Rembrandt lo pone nella scena, a destra, solenne e torvo di rancore. In severo contrasto con l'espressione di disperata compassione che sorge nell'abbraccio tra il padre e il figlio ritrovato. Chagall lo esclude, ponendolo di spalle e accostandogli una figura ferina di risentimento, in basso a destra. Mentre lascia al centro del mondo che accorre l'atto d'amore del padre, approdo finale ed ascesa nel superamento dell'impeto.
- Rembrandt Harmenszoon van Rijn (1606 - 1669): "Ritorno del figliol prodigo", 1661/1669, Ermitage, San Pietroburgo
- Marc Chagall (1887 - 1985): "Il ritorno del figliol prodigo", 1975, Museo nazionale messaggio biblico Marc Chagall, Nizza
- In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
#thegianpieromennitipolis#arte#arte moderna#arte contemporanea#rembrandt#marc chagall#maria casalanguida
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Quando alla fine dell'estate dovevo rimettere i piedi nelle scarpe, era finita la libertà. Non solo per metafora, perché le libertà procedono dal basso verso l'alto, ma per evidenza: il contatto con la libertà iniziava dalla pianta scalza sul selciato dell'isola d'Ischia, sull'aspro degli scogli. Era l'inspessimento dell'epidermide che diventava buccia. Poi toccava al resto del corpo arrossarsi, far bolle sulla schiena, da bucare con l'ago. Era la mutazione estiva, caduta la pelle di carta velina della città, spuntava l'altra, compatta, colore di carruba, coi peluzzi gialli.
Da adulto ho iniziato a portare sandali per gran parte dell'anno, anche in inverno. Poi ho smesso. Dopo la domanda premurosa e centesima: "Non hai freddo ai piedi?", ho dovuto arrendermi. Quando vado in città o sono in viaggio metto le scarpe chiuse, ma sento i piedi scontenti. Sono abituati a stare all'aria, hanno una loro temperatura indipendente.
Stare sotto al sole è abituale per i mediterranei, ma non resisto a mettermi sdraiato. Cammino lungo le rive, nuoto, scalo qualche scoglio, poi mi copro. Ho dei punti bruciati della pelle sui quali spalmo una protezione, non sul resto del corpo. Mi tengo il sole addosso, pure il sale, una seconda pelle.
Nelle pagine del libro sacro Kohèlet/Ecclesiaste si ripete a cadenza di affanno: "tàhat hashèmesh", sotto il sole. Non è quello delle vacanze, ma quello che pesa sulla schiena piegata dei braccianti. È la più potente, schiacciante forza della natura.
Ho conosciuto questo sole, che sovrasta chi non può mettersi all'ombra. Per questo amo quella degli alberi e continuo a piantarli. Vedo la loro crescita, il tronco che espande il diametro, la chioma che allarga a ombrello il suo riparo in terra.
I pescatori d'Ischia non scherzavano con la forza del sole. Nicola, quello che mi ha insegnato a pescare, portava il basco a bordo, i pantaloni blu rimboccati al ginocchio e una canottiera bianca che non toglieva mai. A lui e agli altri non importava niente l'uniformità dell'abbronzatura.
Borges ha scritto un eroico elogio dell'ombra, quella della sua cecità. Io posso lodare la circonferenza protettiva dei rami di un albero. Durante le mietiture in Africa vicino all'Equatore, in mezzo ai trent'anni, ricordo il sole che calava rapido a terra alle sei di sera e rispuntava alle sei del mattino. Abituato alle oscillazioni di orario del Mediterraneo, chiamavo con la marca di un orologio svizzero quel saliscendi puntuale.
Appena tramontato uscivano in volo fitte schiere di pipistrelli. Volavano basso, sfioravano. I loro scatti vicini di alta pressione mi ricordavano le sforbiciate leggere di un barbiere. A mezzogiorno il sole era così a piombo sulla terra che i corpi non facevano ombra. Buffo camminare in piena luce e non trascinarsela dietro. Non ho dimestichezza con la parola anima, ma con la sua controfigura, l'ombra, con lei sì. Mi gira intorno, mi tiene compagnia meglio di un cane, anche di sera a lume di lampadina, di camino acceso. Non si fa accarezzare.
Quando scalo una parete al sole sento il suo fiato sul collo, sul dorso delle mani. È contatto fisico, non solamente luce. Se mi batte dritto davanti, faccio schermo con il palmo sugli occhi, non uso occhiali di protezione. Come i piedi, anche gli occhi sono fatti per stare alla luce.
" 'O sole nun è ddoro": così inizia una poesia di Rocco Galdieri. Non è d'oro, invece è geografia, per chi è del Mediterraneo. La sua irradiazione feconda la terra, e noi di questo mare mangiamo e beviamo il sole e i suoi derivati.
Erri De Luca, Il sole
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Nei giorni scorsi ho assistito a una prova aperta di The Garden, il nuovo lavoro di Gaetano Palermo, con Sara Bertolucci e Luca Gallio, che quest’anno è stato selezionato per la quarta edizione di ERetici_le strade dei teatri, il progetto di accoglienza, sostegno e accompagnamento critico, ideato e curato dal Centro di Residenza dell’Emilia Romagna.
In scena una black box ospita al suo interno un unico fermo immagine che solo alla fine si smaterializza lasciando lo spazio vuoto. Una donna, vestita con una sottoveste rosso mattone, è riversa a terra sul fondo destro del palcoscenico e lì resterà immobile, mossa solo da un respiro lento e profondo.
La dimensione immaginifica e di spaesamento che si crea per lo spettatore è dettata dalla drammaturgia sonora, che ad ogni cambio di brano amplia l’immaginario in nuove visioni, e dall’impianto luminoso, che resta statico dopo una prima accensione a lampi di neon. Per rifarci al titolo ci troviamo davanti a una natura morta, che fa però permeare di vita quell’immagine statica in ogni attimo che passa.
Fotografia o cinema? Teatro o dj set? Installazione o durational performance? O tutto questo insieme? L’impianto del lavoro è decisamente teatrale: come si diceva in principio, c’è una scena nera che si illumina quasi cinematograficamente per restare così, con la stessa tonalità di colore e luce, fino alla fine. Poi c’è la drammaturgia sonora che è ciò che da movimento a un’immagine altrimenti immobile e fa sì che lo spettatore proceda nella giustapposizione di immaginari e di significati.
Il dispositivo che il collettivo artistico mette in opera viene così definito da un crash mediale che fa collasse il cinema nel teatro, il teatro nel dj set, la fotografia nell’installazione e così via. Questo meccanismo inoltre sembra operare su quel piano di reinvenzione del medium di cui parla Rosalind Krauss (2005): facendo collassare sulla scena molteplici media il collettivo porta lo spettatore dentro il processo stesso, rendendo percettibile, grazie alla ripetizione all’infinito della stessa immagine, la finzione della rappresentazione e il funzionamento dell’immaginazione.
La mente così vaga tra le immagini della memoria: da un’apparizione lynchiana a una classica vittima del cinema di Hitchcock, da un corpo collassato durante un rave party al corpo a terra di Babbo Natale nella clip de La Verità di Brunori sas, dai corpi della cronaca nera a quello di Aylan riverso sulla spiaggia greca e così via, continuamente si creano e distruggono immagini nella mente di chi guarda.
In questa pratica mediante la quale si crea un ibrido, per restare anche nella metafora naturale, che incrocia più media, si assiste a una sorta di Iconoclash (Latour, 2005): accade allora che chi guarda si ritrova in una sorta di terra di mezzo, di indecisione dove non sa l’esatto ruolo di un’immagine, di un azione perché, nel caso di The Garden, questo si modifica non appena viene assimilato dell’occhio di chi guarda; e su questa scena ciò che accade è proprio questo: lo spettatore è messo davanti ad un’immagine iconica che cambia costantemente di significato e senso, passando dal sentimento del tragico a quello del comico fino a dissolversi svanendo ironicamente, rompendo il quadro della rappresentazione.
Una delle caratteristiche fondamentali delle immagini è, sempre per Bruno Latour, la loro capacità di scatenare passioni ed è proprio su questo meccanismo che sembra lavorare il collettivo guidato da Palermo che a settembre presenterà al pubblico una prova aperta di questo lavoro presso la Corte Ospitale di Rubiera dove si chiuderà il progetto ERetici.
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*Krauss, R. (2005). Reinventare il medium. Cinque saggi sull'arte d'oggi, a cura di Grazioli E., Mondadori, Milano.
* Latour, B. (2002). What is iconoclash? Or is there a world beyond the image wars. Iconoclash: Beyond the image wars in science, religion, and art, 14-37.
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Smile 2: un sequel che segue gli spunti horror del primo capitolo
Naomi Scott è la nuova protagonista della saga horror diretta da Parker Finn, che continua pedissequamente la storia del primo film di successo. Al cinema.
Gli horror d'intrattenimento sono tornati alla ribalta negli ultimi anni (o forse non se ne sono mai andati) e ogni tanto spicca qualche titolo che fa prepotentemente parlare di sé. Come Smile, la pellicola del 2022 con Sosie Bacon diretta da Parken Finn e basata sul suo omonimo corto di due anni prima.
Il punto in comune tra i due film
L'attrice interpretava una terapeuta che diventava l'ultima vittima di una sorta di parassita demoniaco che passava di ospite in ospite costringendolo ad uccidere, oppure uccidersi davanti ad un'altra persona a cui passare il morbo, entro sette giorni. Il finale era fortemente aperto con la giovane donna che si sacrificava in nome dell'ex fidanzato Joel, col volto di Kyle Gallner, che funge da ponte in Smile 2.
Smile 2: di nuovo nella tana del lupo
La carismatica protagonista del sequel
Sono passati sei giorni dal precedente capitolo, quindi manca poco alla scadenza soprannaturale al centro della storia. La regia di Parker Finn ci porta in medias res dentro questa catena di eventi apparentemente senza fine e arriviamo alla nuova protagonista femminile, la popostar Skye Riley, interpretata questa volta da Naomi Scott, perfetta per il ruolo e per reggere un intero film. La cantante è in lenta risalita dopo un terribile declino fatto di dipendenza da droghe e alcol che ha portato ad un brutto incidente nella sua vita. L'incontro con un vecchio amico, Lewis (Lukas Gage), la fa entrare nella pericolosa orbita di quella maledizione apparentemente infinita, lasciando perplessi la determinata madre-agente (Rosemarie DeWitt), l'ex migliore amica (Dylan Gelula) il timido assistente (Miles Gutierrez-Riley) e il produttore musicale (Raúl Castillo) che pensa solo al profitto.
Un sequel di cui c'era davvero bisogno?
Un'inquietante scena della pellicola
Parker Finn, nel bene e nel male, segue il processo creativo del capitolo inaugurale di questa saga potenzialmente infinita. Partiamo ancora da una buona idea e uno sviluppo interessante, che trasferisce dalla psicologia alla musica il core del racconto. Si instaura così una metafora della fama come qualcosa che ti fagocita e ti risputa fuori lasciandoti inerme e confuso, incapace di prendere decisioni sane e salutari per il futuro della tua vita. La regia passa dalla camera a mano a dei mini-piani sequenza con maestria e anche una buona dose di tensione narrativa, coadiuvata dall'utilizzo di jump scare che, per una volta, fanno davvero saltare sulla sedia e sono ben inseriti all'interno del tessuto narrativo.
Le bellissime coreografie del film
Anche l'estetica, complice la professione della protagonista, è estremamente curata e intrigante, utilizzando colori accesi e luci al neon per raccontare un orrore che si sviluppa da dentro e attraverso i movimenti del corpo, con coreografie meta-narrative. Dopo queste interessanti premesse, che potevano comunque distinguerlo nella massa di horror oramai proposti quasi con l'algoritmo e soprattutto uno dietro l'altro in sala, arriva il taglio con l'accetta (per restare in tema) del buon lavoro fatto, proprio come in Smile, e proprio nel gran finale.
Un terzo atto che rovina il film
Skye perde il controllo
Senza spoilerare nulla, vi dico invece che chiudere in modo anche interessante questa saga, pur avendo a disposizione dei pretesti narrativi che sembrano portare a quel tipo di epilogo, Smile 2 preferisce concludersi in una sorta di labirinto mentale della protagonista che non comprende più cosa sia reale e cosa no - e di conseguenza anche noi spettatori: non in maniera affascinante o accattivante, bensì ridondante e stancante arrivati a quel punto. Non solo: il messaggio finale, del potere della musica che da curativa diventa tossica, sia dal punto di vista dei fan e del fandom sia da chi sta dietro il microfono e deve affrontare il peso del successo, si perde e porta ad un epilogo che apre ad un ulteriore prosieguo della storia. Un vero peccato.
Conclusioni
In conclusione viene da chiedersi l’effettiva utilità di un film come Smile 2 dato che prende tanto il buono quanto il brutto dal capitolo inaugurale riproponendo lo stesso schema narrativo: un interessante punto di partenza e uno sviluppo semi-originale, che in questo caso riflette sulle conseguenze tossiche della fama e sul potere curativo della musica al contrario, per arrivare ad un terzo atto che manda tutto all’aria lasciando aperta la porta all’ennesimo sequel di una catena che non sembra non potersi spezzare, proprio come quella soprannaturale del film.
👍🏻
Naomi Scott, perfetta e carismatica come protagonista.
I jump scare ben assestati.
Una regia che crea tensione e un’estetica affascinante.
La nuova tematica affrontata…
👎🏻
…che però si perde dentro una struttura narrativa fotocopia del primo Smile.
I personaggi secondari sono davvero poco approfonditi.
Il finale annulla quello che di buono ha fatto il film fino a quel momento.
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“AL DI LÀ DEL MARE”, ecco il nuovo singolo di DANIEL MEGUELA
Da venerdì 6 settembre 2024 sarà disponibile in rotazione radiofonica e su tutte le piattaforme di streaming digitale "AL DI LÀ DEL MARE", il nuovo singolo di DANIEL MEGUELA.
"Al di là del mare" è un brano che si immerge nelle rapite debolezze dell'anima e del nostro essere. Le incertezze esistenziali che noi tutti viviamo e la paura del futuro visto attraverso la metafora del mare, dei sui profondi e abissali misteri. La canzone ha un sound di movimento come le stesse eterne onde del mare che contemplate portano ad interrogarsi sulle dinamiche di quel dolore intimo e personale che noi tutti chiamiamo depressione. Tutto questo però viene raccontato da un testo all'apparenza semplice che abbraccia il suono piacevole della canzone stessa ma che tra le sue righe nasconde un malessere più profondo.
Daniel Meguela ha scritto testo e musica del brano con la produzione artistica di David Gionfriddo, mentre il mix e mastering sono stati fatti da Andrea Corvo presso Synthesis Studios. La produzione esecutiva del brano e del videoclip è stata curata dalla 90.01 Evolution di Giusi Ferraro.
Spiega l'artista a proposito del brano: «Nudo di libertà e schiavo di questa realtà. Il momento in cui un uomo si interroga sul significato e sul valore della vita, e lo fa rivolgendosi attraverso il mare, che riflette come uno specchio lo stato d'animo e l'interiorità emotiva. Ho scritto, Al di là del mare nel modo più semplice possibile ma cercando la profondità del mio essere, chiedendomi cosa ancora il futuro ha in servo per me, dove mi porterà questo mio navigare, ora che le mie paure stanno cedendo il passo alle certezze».
Il videoclip di "Al di là del mare", diretto da Valentino Canale, vede Daniel Meguela come protagonista assoluto che interagisce con il mare, interrogandosi sul futuro e sulla paura di vivere. Il mare come uno specchio riflette lo stato d'animo di ognuno di noi e in questo caso è li eterno ad ascoltare i dubbi e il dolore esistenziale dello stesso, regalandogli un tramonto mozzafiato che fa da cornice alla canzone, che però ci dona un sound energico e spensierato che da vita ad una libera interpretazione di chi guarda.
Guarda il videoclip su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=ba7iwKLMAAo
Biografia
Daniel Meguela, classe 1976, già nella primissima infanzia rivela una personalità brillante, eclettica e polivalente. La sua spiccata sensibilità lo porta ben presto a creare un suo mondo melodico fatto di emozioni e musica, tradotte con grande semplicità ed immediatezza.
Inizia fin da subito a comporre i suoi brani, curando personalmente la stesura del testo e della musica. Infatti, nel 1987, a soli 11 anni, si classifica in prima posizione in un festival canoro in occasione di El Clásico a Barcellona, con il brano Se fosse amore.
Negli anni '90 si dedica anche alla danza moderna, passione parallela alla musica, tanto da far parte del corpo di ballo della trasmissione musicale Mio Capitano di RAI2 del 1996.
Nel 1998 partecipa al Contest Live Studio Aperto creato da Claudio Baglioni in occasione del suo concerto "da me a te" presso lo Stadio Olimpico di Roma. Inizia da qui un vigoroso percorso formativo che lo aiuterà a perfezionare la sua vena creativa, con l'ausilio di importanti musicisti e arrangiatori. Questa formazione confluisce naturalmente nella produzione di una grande quantità di brani, anche con lo pseudonimo di Daniel Ventura.
Nel 2006 il brano Saró Qui viene inserito nella compilation Hit Mania Champions.
Dallo stesso anno fino al 2011 inizia a collaborare nell'entourage di Paolo Carta musicista e produttore di Laura Pausini.
Nel contempo siamo nel 2008 esce un suo nuovo lavoro. Un progetto artistico che comprende tra gli altri, due brani: In 8 minuti e Madre Terra, con i quali Daniel inizia a scalare i vertici delle classifiche di Music Box Italia.
Nel 2009 l'attività di studio ricerca musicale, unitamente a quella di scrittura, prosegue in abbinamento a vari tour di promozione radiofonica, come quello di Radio105. Nel corso dell'anno viene realizzato il video del brano Madre Terra che vede la partecipazione professionale di un'intensa Martina Colombari, premiato nella VII edizione del Premio Roma Videoclip La promozione su scala nazionale porta Daniel in varie manifestazioni; partecipa in qualità di ospite: al Premio Pigro dedicato al grande Ivan Graziani, al programma tv di RAI1 FESTA ITALIANA condotta da Caterina Balivo, al TG1 Note ed infine alle presentazioni sala stampa di SANREMO 2010.
II 2015 si apre con l'incontro fortunato tra Daniel e la 90.01 Records, una giovane etichetta discografica, che crede nel suo talento genuino e senza "fumo negli occhi". Inizia così un'intensa collaborazione professionale.
Il 2017 è l'anno della conferma. In un tempo falso sarò vero, trasformerò con te gli ostacoli in pianura, vedrai... è la chiave rivelatrice del singolo Voglio Respirarne uscito il 24 Novembre dello stesso anno, brano che ha anticipato il suo nuovo album dal titolo COMPOSTOUNICO, ovvero una sintesi musicale di esperienze, persone e vita vissuta.
Nel 2018, esce il suo secondo singolo Sei Come Sei la semplicità di un pop melodico, elegante e diretto, che si piazza in alto nelle classifiche YouTube.
Ma è ad Ottobre 2018 che Daniel svela la sua vena sportiva per la sua squadra calcistica del cuore, la S.S.Lazio, incidendo per lei il nuovo inno Più In Alto Degli uomini, di cui è ovviamente autore, ed anch'esso raggiunge subito ottimi risultati di visualizzazioni. L'inno diventa anche sigla di chiusura del noto programma radiofonico QUELLI CHE HANNO PORTATO IL CALCIO A ROMA condotto dal famoso telecronista sportivo Guido De Angelis.
Dopo un periodo di nuove sperimentazioni che lo porta a girare ancora per le più importanti città Europee, Daniel inizia nel 2021 anche a collaborare come ghostwriter per alcune case editoriali.
Nel gennaio del 2024 torna a lavorare al suo terzo album dal titolo, L'Amore mi trattiene. Scritto nei testi e nella musica per l'estremo bisogno di raccontare il mondo sociale e impegnato che ha vissuto con mano, il quale, contiene ben 13 tracce da un sound attraente, calamitato ai suoni dei nuovi artisti del panorama musicale attuale, per competere tranquillamente con le nuove generazioni in grande ascesa, e in collaborazione con il produttore artistico e arrangiatore David Gionfriddo, riesce a dargli un suono unico.
Il 3 maggio 2024 Daniel viene onorato di un riconoscimento importantissimo dalla commissione Medea Odv. La cerimonia, che si è tenuta a Roma a Palazzo Montecitorio, ha visto la partecipazione di numerosi artisti, intellettuali e attivisti impegnati nella promozione della cultura e dei diritti umani attraverso l'arte e la musica. Daniel Meguela è stato riconosciuto per il suo impegno nella produzione di opere musicali che non solo intrattengono, ma sensibilizzano su tematiche di rilevanza sociale e umanitaria.
Il 5 luglio 2024 uscito il suo nuovo singolo "Fuori" accompagnato da un videoclip che vede la partecipazione come attore protagonista il bravissimo attore Jonis Bascir e che viene candidato ai maggiori Short Film Festival del mondo riscuotendo un grande successo: al Rome International Movie Awards ottiene il premio per Miglior Video Musicale, Miglior Regia, Miglior Attore,Miglior Colonna Sonora Originale; al London Indipendent Film Awards vince come Miglior Video Musicale; al Los Angeles Movie and Music Video Awards ottiene il premio come Miglior Attore Video Musicale, Miglior attore non protagonista, Miglior attrice non protagonista, Miglior Video Musicale Europeo; al Castle Film & Media Awards (Bracciano) è stato premiato come Miglior Attore, Miglior Video Musicale e Miglior Colonna Sonora, Lungometraggio; all'Indipendent Shorts Awards Los Angeles; al Berlin Shorts Award. Attualmente finalista del prestigiosissimo Remember the Future Word Film Festival in Cannes.
"Al di là del mare" è il nuovo singolo di Daniel Meguela disponibile sulle piattaforme digitali di streaming e in rotazione radiofonica da venerdì 6 settembre 2024.
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L'attacco all'identità femminile mascherato da difesa dell'inclusività Il sipario sulle Olimpiadi è calato, e meno male che ci sono state le straordinarie soddisfazioni sportive e umane regalateci dagli atleti azzurri. Ciò che invece non finirà, perché inscritto in un percorso che parte da lontano, è l'attacco alle donne, un attacco ormai consolidato a livello internazionale, che questa edizione dei Giochi ha reso evidente. Solo per limitarci agli ultimi giorni, dai giochi «inclusivi» di Parigi è stata infatti esclusa, con una squalifica che ha dello sconcertante, un'atleta afghana, della «squadra dei rifugiati» istituita dal Comitato Olimpico, che aveva mostrato la scritta «Liberate le donne afghane». Nel cuore di un Occidente sempre più orwelliano, la giovane afghana è stata messa fuori gioco per aver ricordato al mondo i motivi per cui era costretta a gareggiare fra i rifugiati, e per i quali tante sue connazionali sono espropriate dei diritti più elementari. Nelle stesse ore, commentando le polemiche che hanno accompagnato le competizioni di pugilato femminile, il presidente del Comitato Olimpico, Thomas Bach, ha affermato che non ci sarebbe un sistema «scientificamente solido» per distinguere uomini e donne. Senza rendersi conto, tra l'altro, che un'affermazione del genere toglie senso alla tradizione di gare sportive divise per categorie maschili e femminili. Se non è scientificamente possibile distinguere gli appartenenti ai due sessi, come si fa a gareggiare separati? Le due questioni sono purtroppo due facce della stessa medaglia. Una medaglia che non ha niente a che fare con i trionfi olimpici, ma che rappresenta le pericolose e sottili forme di un nuovo patriarcato, che in nome di una «inclusività» divisiva vuole cancellare le faticose conquiste delle donne. Sia nel caso dell'afghana sia in quello dell'assegnazione degli atleti alle competizioni dell'uno o dell'altro genere, si tratta di un attacco alla identità femminile, non riconoscendo la realtà del corpo sessuato. È un attacco che in queste Olimpiadi ha compiuto un salto di qualità e cercato una legittimazione planetaria. È infatti proprio sul corpo delle donne che in tante parti del mondo, come in Afghanistan, si esercitano l'oppressione e il controllo più feroci, è per il loro corpo che alle donne vengono sottratte le libertà fondamentali. E oggi si vorrebbe annegare il femminile in una inesistente neutralità del genere, che minaccia l'identità delle donne: ma non quella maschile. Da tempo denunciamo che le battaglie per le pari opportunità sono incompatibili con la «fluidità» di ogni ordine e grado, perché le pari opportunità si fondano sull'esistenza della differenza sessuale. È evidente che a pagarne lo scotto sono le donne perché, per esempio, non si ha notizia di un caso analogo a quello di Imane Khelif in ambito maschile. Così come di nessuna donna con identità «fluida» che chieda di gareggiare con gli uomini, o di entrare in spazi maschili (carceri, bagni, spogliatoi, ecc.). È dunque profondamente contraddittorio che a sostenere la fluidità siano proprio le stesse parti politiche e culturali che pretenderebbero la rappresentanza esclusiva delle battaglie delle donne. Le Olimpiadi francesi, prima ancora che per le acque della Senna, verranno ricordate per questo: per aver segnato un salto quantico nell'attacco alle donne che si nasconde dietro l'ideologia woke. Nei prossimi Giochi, per logica conseguenza, ci aspettiamo che sia abolita la divisione fra maschi e femmine nelle competizioni agonistiche, che potrebbero a questo punto essere accorpate in un unico genere «neutro», per impossibilità di distinguere «scientificamente» gli appartenenti all'uno o all'altro sesso. Sembra uno scherzo, ma non lo è. È il dominio dell'asterisco, la dittatura della schwa. Con la benedizione delle acque opache della Senna, efficace metafora di un'ideologia alla quale continueremo a opporci con tutte le nostre forze.
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO TERZO - di Gianpiero Menniti
L'IDEA IMPRECISA
La suggestione dell'idea come espressione della razionalità, come codice che fornisce identità comune alla comunità degli esseri umani, è molto antica. Il pensiero occidentale è debitore a Platone il quale seppe cogliere nel concetto di "anima" l'incontrovertibile della verità che viene in luce, in opposizione alla doxa delle sensazioni e delle espressioni soggettive: nell'anima, entità invisibile ma generatrice del pensiero, l'idea è "ἀλήθεια", svelamento, uscita dall'oblio, chiarezza, evidenza. Si comprende quale valore abbia la relazione tra luce e tenebre, non solo come metafora dell'incessante ricerca del significato: è la luce la condizione della "forma", del fenomeno, dell'apparire, del reale. "Ιδέαι" sono dunque le entità eterne costitutive della realtà, ne rappresentano l'essenza. Eppure, fuori dalle espressioni matematiche, dei numeri e delle forme geometriche, le idee circolano se fanno storia: si affermano qualora divengano una narrazione condivisa. Se con sant'Agostino l'anima platonica entra a pieno titolo nella dimensione teologica di una religione dei "corpi" - senza il concetto di corpo è impossibile capire il cristianesimo - il riflesso dell'idealismo primigenio che si porta dietro, induce a ritenere la razionalità delle idee il marchio della loro autenticità, del loro ancoraggio saldo alla verità. Così, il pensiero occidentale, da Platone in avanti, ha proseguito nel solco dell'idea come atto generativo, della creazione che ha un'origine rispetto al nulla. Il buio è il nulla. La luce è il primo atto. «In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte.» - Genesi, capitolo primo - Dunque, l'occidente crede nell'essere e nel nulla, nella creazione e nel significato. Ma l'occidente cristiano. Non quello greco. Che non a caso, dimenticando la lezione di Parmenide, ha espresso, magistralmente, l'inquietudine di trovarsi di fronte al baratro del "nulla" nella tragedia. Ecco perché noi siamo cristiani e non più greci: abbiamo risolto la terribile percezione di un'assenza del significato, nella fede in un atto di creazione che ogni essente ha tratto dalle tenebre. Non importa che quest'idea sia imprecisa, non trovi fondamento in un'evidenza: l'idea stessa del rimedio alla morte nel nulla, per quanto inesplicabile, indefinibile, inconsistente sul piano materiale, ha conquistato il mondo e costituito la sua direzione storica. Ecco perché Nietzsche definì questa concezione il "colpo di genio del cristianesimo". Idea imprecisa quanto contraddittoria: Dio non è luce, ma è ciò che non può essere mai svelato. Altrimenti, Dio diverrebbe un concetto, una "cosa" come le altre cose del mondo. Per questa ragione, l'occidente designa il malefico con il termine "Lucifero", colui che porta la luce, colui che vuole svelare, colui che vuole "reificare" il Dio creatore. Idea imprecisa, dunque. Perché la perfezione dell'idea possiede qualcosa di luciferino, in sé. Mentre il dubbio e la ricerca, contengono una tensione vitale che spesso si dimentica o volutamente si tralascia. L'esperienza del viaggio ha più valore della meta. Presunta. Forse inutile.
- Gaetano Previati (1852-1920): "La creazione della luce" - 1913 circa, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma - In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto" 1975, collezione privata
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31 mag 2024 18:16
GLI 80 ANNI DI SABELLI FIORETTI – APRE LE VALVOLE DELLA MEMORIA UNO DEI GRANDI DEL GIORNALISMO, DIRETTORE DI CINQUE GIORNALI, CHE HA INVENTATO UN INEGUAGLIABILE GENERE DI INTERVISTE, IL CORPO A CORPO - “ALAIN ELKANN, A METÀ INTERVISTA, DISSE “BASTA”. AVEVO DOMANDATO DEI FIGLI: “NON TI DÀ FASTIDIO ESSERE MENO RICCO E MENO FAMOSO DI LORO?” – PENNACCHI IMPUBBLICABILE: HA RIPETUTO SOLO “STRONZO, VAFFANCULO E CAZZO��; POI MI PORTÒ IN UN RISTORANTE PIENO DI BUSTI DI MUSSOLINI - BERLUSCONI A ‘’UN GIORNO DA PECORA’’. GLI HO CHIESTO SE ERA FROCIO E LUI MI HA RISPOSTO CHIEDENDOMI SE ERO SICURO NON FOSSI UN PERVERTITO; MENTRE GIORGIO LAURO GLI HA MESSO LE MANETTE: “TANTI ITALIANI VORREBBERO”. E BERLUSCONI HA RETTO LA SCENA IN MANIERA PAZZESCA” -
Estratto dell'articolo di Alessandro Ferrucci per “il Fatto quotidiano”
(Claudio Sabelli Fioretti compie 80 anni il 18 aprile. È uno dei grandi del giornalismo, ha diretto cinque giornali “non sempre bene, mi hanno pure cacciato”. Ha condotto trasmissioni come Un giorno da pecora, con il presidente Cossiga complice fisso. Ha inventato un genere di interviste, il corpo a corpo: “Ho superato le 600. Poi mi sono un po’ rotto le palle”). [...]
Una carriera fulminante.
A Panorama sono diventato in poco tempo redattore capo; da lì mi offrirono di diventare direttore di ABC. Guadagnavo un casino di soldi.
Ti eri montato la testa?
Un pochino; (ride) ero stato assunto da uno scimpanzé.
Anche qui: metafora?
Mi invita a pranzo Francesco Cardella, editore di ABC, sposato con Raffaella Savinelli, la figlia del re delle pipe. Andammo da Giacomo, uno dei migliori ristoranti di Brera. Lui si presentò con Bobo, una scimmia vestita con giacca e cravatta. Bobo si sedette di fronte a me.
Altro che Caligola.
Bobo perché Cardella era molto legato a Craxi.
E al ristorante?
Cardella serio: “Ti voglio ad ABC, ti pago il doppio di Panorama”. “Forse accetto, ma non voglio cenare con una scimmia”. Bobo uscì con la moglie di Cardella, ma la ritrovai nelle riunioni di redazione.
Tuo padre cosa pensava della tua carriera?
Era contento; una volta fu veramente dolce: “Oggi un signore mi ha chiesto se sono tuo parente”. Quando in teoria doveva essere il contrario.
Le tue doti.
Curioso in maniera totale. Quando da bambino andavo alle feste, aprivo tutti i cassetti del padrone di casa.
Hai mai rinunciato a una notizia?
Ho una carriera strana, mi sono occupato di radio, giornali, televisione...
E... ?
Ho realizzato circa 600 interviste, con qualcuno ho litigato.
Chi?
Uno scrittore.
Pennacchi.
Con lui no, piuttosto mi ha rilasciato un’intervista impubblicabile: per tutto il tempo ha ripetuto solo “stronzo, vaffanculo e cazzo”; poi mi portò in un ristorante pieno di busti di Mussolini e altri gingilli del Ventennio. Uno schifo.
Insomma, lo scrittore?
Ruggero Guarini. Mi scrisse un telegramma: “La diffido dal pubblicare l’intervista di cui mi ha mandato copia perché mutila e tendenziosa e comunque non mi ci riconosco”.
Pubblicata?
Sì, mutila e tendenziosa. Gli risposi che probabilmente l’infingardo Panasonic e il tendenzioso Sony mi avevano ingannato.
Due registratori.
Sempre con me; (sorride) oltre a Guarini pure l’attrice Ida Di Benedetto. Lei telefonò addirittura a Cesare Romiti per bloccare l’intervista.
E Romiti?
Mi chiamò: “Claudio, ma che vole questa?”.
Altre liti.
Alain Elkann: a metà intervista disse di aver cambiato idea. E io: “Va bene, ciao”.
Perché?
Eravamo al ministero della Cultura, c’era Sgarbi, invidioso, che entrava e usciva per dargli noia, poi avevo iniziato a domandargli dei figli: “Non ti dà fastidio essere meno ricco e meno famoso di loro?”.
Povero Elkann.
A quel punto disse “basta”. E dopo un po’: “Sei arrabbiato?”. “No, ma a questo punto corro via, ho il treno”. “No, sei arrabbiato”. “ Ti assicuro di no! Ciao, perdo il treno”.
Si convinse?
Mi chiamò pure quando oramai stavo in stazione: “Sei arrabbiato?”.
Hai intervistato più volte Gigliola Guerinoni, la mantide di Cairo Montenotte. Qualcuno supponeva che avevate una storia.
Avevano ragione.
Lo ammetti, quindi?
No. Ero appena arrivato a Il Secolo XIX e venni scaraventato in provincia. Seguii il processo per l’omicidio di Cesare Brin e la Guerinoni passava per essere una strafiga. A me però non piaceva. Ma ottenevo tanti scoop.
Per forza, avevate una storia.
No, ero bravo. Quando a pranzo tutti i giornalisti andavano a magna’, io restavo in aula, lei pure. E mi raccontava molte storie.
Amici.
Per il processo di Appello la prendevo in auto la mattina e la portavo in tribunale.
Sarai stato simpatico ai colleghi….
Sono stato più sulle palle ai giudici, ho perso un casino di soldi.
Che hai combinato?
Colpa della mia scrittura un po' ironica; li prendevo per il culo. E s'incazzavano.
Esempio?
Di un giudice scrissi che l'ultimo giorno si era presentato in aula con ombrellone, ciambella e pinne. Doveva partire per le ferie.
Anche da direttore di Cuore hai perso qualche causa…
Mazzolato.
Quanto?
Diversi milioni di lire, molti di questi a Vincenzo Muccioli e al suo gruppo; eppure pubblicavamo cose vere, denunciavamo malefatte.
A Cuore eravate tosti.
Ho scritto cose tremende, a volte esagerate. Quando Muccioli stava per morire, titolammo: "Tutto pronto all'inferno per l'arrivo di Muccioli"
All'epoca eri coraggioso o spregiudicato?
Il Cuore di Serra era molto più bello del mio. Però era più attento, non gli arrivavano querele. Noi scapestrati. A monsignor Bettazzi facemmo confessare di essersi innamorato da giovane, e a quel tempo era una rivelazione enorme.
Con l'allora ministro Guidi non siete stati teneri.
Quando sono entrato a Cuore la redazione non mi voleva, erano innamorati di Serra; poi si sono innamorati pure di me.
E Guidi?
Appena nominato, c'era la Festa di Cuore a Montecchio e pubblicammo in copertina fotomontaggi di Guidi mentre stava alle parallele, si arrampicava e andava in bicicletta con il titolo: "Si finge disabile per ottenere una poltrona da ministro".
Non molto politically correct.
A Cuore erano tutti politicamente corretti. Quindi venni contestato, anche dai fan della festa di Montecchio, ma fortunatamente mi chiamò lo stesso Guidi e lo misi in diretta: "Claudio, sei il primo ad avermi trattato da persona normale".
La sinistra perbenista.
Venivo da Lotta Continua, nel 1974 parte della liquidazione da Panorama l'ho data a loro.
Estremista.
Quando sono arrivato a Panorama ero democristiano, ma quello era un covo di comunisti. Piano piano li ho scavalcati a sinistra. Ripeto, era il 1968
Canne?
In mia vita ne avrò fumate tre, sempre in serate alternative dove ci mettevamo seduti in circolo, a terra, e passava quest'oggetto bavoso che mi suscitava un po' schifo. E poi ogni volta mi ha causato la stessa reazione
Stordito?
No, andavo in bagno; mi scappava la cacca.
E le serate radical chic milanesi?
Frequentavo tutti, da Inge Feltrinelli a Ornella Vanoni. Ma in realtà i miei amici erano i giovani di Panorama, tipo Chiara Beria, Gianni Farneti, Marco Giovannini, Maria Luisa Agnese, Stella Pende, Valeria Gandus. Ancora ci vediamo.
Ieri (il 6 aprile) Eugenio Scalfari avrebbe compiuto 100 anni. Con te il rapporto non è stato idilliaco.
Ero disoccupato da ABC, chiuso dopo una copertina con scritto "Carabinieri assassini". Andai a Repubblica grazie a Lamberto Sechi, quando Repubblica doveva ancora uscire e ricordo Scalfari che veniva da me a mostrarmi il giornale che stava creando. Il mio ego era estasiato. "Tu sarai il capo dello sport".
Perfetto.
Non so quanti numeri zero abbiamo realizzato, forse venti, ed era imbarazzante perché erano numeri veri, ma con servizi e interviste che poi non uscivano; (sorride) le riunioni con Scalfari erano pazzesche, lui gigione recitava una sorta di messa laica e, nel frattempo, si faceva chiamare da Craxi o da De Mita. Lui li redarguiva e li consigliava.
Ne eri affascinato?
Un pochino; aveva un vizio: quando parlava oscillava la testa da destra a sinistra. Iniziai pure io, e non ero il solo: dopo un po' oscillavamo un po' tutti.
Quando hai smesso di oscillare?
Feci una cazzata; (sorride e torna a prima) la mattina spesso scoprivamo che il numero zero, chiuso la sera precedente, era cambiato.
Come mai?
(Imita la voce di Scalfari) "Sai caro, siamo andati a casa di Marta e Marta ha detto che non andava bene". Marta era la Marzotto. E la stessa Marzotto gli consigliò di togliere lo sport, perché volgare.
Insomma, la cazzata?
Decisero di riaprire lo sport; insomma c'era molta contusione ma non capii che era normale: Repubblica era un giornale allo stato nascente. Non ressi. E me ne andai a Tempo illustrato. Ma quelli di Tempo erano veri matti.
Soluzione?
Chiamai il redattore capo di Repubblica: "Puoi dire a Scalfari che mi cospargo il capo di cenere e mi inginocchio sui ceci? Chiedo scusa. Voglio tornare". E il mio amico, un ottimista, un generoso: "Non ti preoccupare, considera la cosa fatta. Resta al telefono". Dopo poco è tornato: "Ha risposto: nemmeno morto". Me la sono legata al dito.
Ci hai mai fatto pace?
Non lo so, non ci ho più parlato
In comune con Scalfari hai una passione per Spadolini. Hai scritto un libro sull’ex presidente del Consiglio.
Fu un litigio clamoroso. Quando l’editore gli mandò le bozze, decise di sopprimere il capitolo dedicato alla polemica con Capanna che gli contestava di aver scritto per giornali fascisti.
E tu?
Dissi all’editore di non azzardarsi; Spadolini mi telefonò e gli sbattei il telefono in faccia. Ero uno scapestrato.
Con Cossiga due libri-intervista.
È stata la mia passione, potevo chiedergli di tutto: accettava; soprattutto ai tempi di Un giorno da pecora: quando veniva in trasmissione si presentava con una bottiglia di whisky. “Presidente non si può, sono le regole della Rai”. “Me lo vengano a dire”. La volta dopo si fece accompagnare dal direttore generale della Rai.
Rapporto stretto.
Per uno dei libri mi volle in vacanza: “Porta pure tua moglie”. La mattina ci presentiamo a casa sua e troviamo un corteo di sei macchine: mi sono cagato sotto.
Addirittura?
Erano organizzati con modalità anti terrorismo, correvano come folli, fino a quando davanti a una chiesa hanno inchiodato: si doveva confessare. “Presidente è chiusa, non c’è il prete”. Poco dopo hanno trovato il prete.
In vacanza con Cossiga.
La mattina andavo in camera sua. Dormiva con l’assistente. Non sopportava restare solo. Si alzava ma non si vestiva. E ogni mattina lo intervistavo in mutande.
Hai rallentato con le interviste.
Per colpa di Teresa Bellanova, quando era ministro: secondo me ha capito che mi stava sulle palle e per un anno ha rimandato l’appuntamento. Fino a quando ho pensato: ma posso passare la vita appresso a una rompicoglioni? Mi ha fatto passare la voglia.
A Valeria Marini ne hai dedicate tre...
Mi ha dato sempre grandi soddisfazioni: si metteva il rossetto e poi baciava il quaderno dei miei appunti. Baci stellari.
Gianni Boncompagni altro tuo “cliente”.
Uomo divertente, non ti lasciava mai deluso. “Gianni, ma non puoi metterti con una della tua età?”. “Sono tutte morte”.
Su chi hai sbagliato?
In un paio di occasioni sono stato prevenuto, e invece ne sono uscito estasiato.
Nomi.
Il primo è Sandro Bondi: grande umanità, era un po’ patetico, quasi piangeva quando parlava di Berlusconi.
L’altro?
Il generale Vannacci.
Ti piacciono perché offrono un buon titolo.
Anche per quello.
Chi ti ha deluso?
Sergio Japino. Una volta davanti a lui mi sono reso conto di aver dimenticato a casa le domande, e non sapevo cosa chiedergli, non ho memoria, E lui rispondeva a monosillabi.
Tu chiudi le interviste con il gioco della torre. Quindi tra Scalfari e Mieli?
Scalfari, mi ricorda un mio errore e una sua cattiveria. Mentre Mieli mi è sempre stato vicino.
Gruber-Berlinguer.
Con la Gruber ho un buon rapporto, ma ha rifiutato di farsi intervistare. Per me è un peccato mortale, posso odiare per molto meno. Salvo la Berlinguer.
Giletti-Fazio.
Fazio è un altro che non mi ha dato l’intervista; Giletti lo vedo una volta l’anno al premio Nonino, e l’ultima volta ballava vergognosamente in canottiera. Una scena penosa.
Ricci-Bonolis.
Di Ricci ho un ricordo drammatico: a causa sua ho iniziato a girare con due o tre registratori.
Che è successo?
Lo intervistai ma il registratore non aveva funzionato e non gli potevo rivelare l’errore. Ho fatto finta di niente e lui non mi ha chiesto nulla.
Pier Silvio o Marina Berlusconi.
Ho circuito la famiglia Berlusconi, mi sono prestato a situazioni vergognose. Ma per un’intervista sono pronto a qualunque bugia. Se uno mi rivela “tifo per la Salernitana”, rilancio con “anche io!”.
Allora...?
Se l’intervistato aveva qualche contatto con Silvio Berlusconi, ogni volta gli mandavo un biglietto, una frase, qualunque aggancio pur di arrivare a lui.
Fino a quando è venuto ospite a Un giorno da pecora. Puntata storica.
Gli ho toccato i capelli, “sono veri?”, poi gli ho chiesto se era frocio e lui mi ha risposto chiedendomi se ero sicuro non fossi un pervertito; mentre Giorgio Lauro gli ha messo le manette: “Tanti italiani vorrebbero”. E Berlusconi ha retto la scena in maniera pazzesca.
Pier Silvio o Marina?
Salvo Pier Silvio.
Moretti-Sordi.
Amo Sordi. Anche se con Moretti abbiamo in comune Salina.
Che combini a Salina?
Ci vivo sei mesi l’anno, quando non sono a Lavarone per imbottigliare spumante.
Ti occupi di vino?
Come D’alema e Vespa, però il mio è un vino buono.
Come festeggi gli 80 anni? Odio i festeggiamenti. Tu chi sei?
Sono uno molto turbato dall’idea di avere 80 anni e sono molto contento quando le persone mi dicono che ne dimostro 60; sono scontento dall’idea di dover morire: non è giusto. Ho in testa tanti progetti. Con tanta gente che deve morire, perché proprio io?
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Nil Yalter
Nil Yalter, pioniera del movimento artistico femminista mondiale, è vincitrice del Leone d’Oro alla carriera della Biennale Arte di Venezia 2024 per il suo lavoro che unisce impegno femminista e incroci di abitudini e civiltà.
La sua ricerca, che spazia tra pittura, disegno, video e installazioni, approfondisce la condizione delle donne, lo scontro tra le culture, le diaspore, lo sfruttamento delle persone immigrate e la reclusione fisica e mentale.
Ha tenuto mostre in tutto il mondo, le sue opere sono presenti nelle collezioni di importanti musei come l’Istanbul Modern, il Centre Pompidou di Parigi, la Tate Gallery di Londra, il Museum Ludwig di Colonia, il Museo Reina Sofia di Madrid e molti altri ancora.
È nata a Il Cairo, in Egitto, il 15 gennaio 1938, da genitori turchi tornati a vivere in patria quando aveva quattro anni.
Nella seconda metà degli anni Cinquanta ha viaggiato e vissuto in giro per l’Asia e il Medio Oriente.
La sua prima esposizione si è tenuta nel 1957 a Mumbai, in India, presso l’Institut Français.
Nel 1965 si è trasferita a Parigi partecipando alla controcultura francese e ai movimenti femministi (Femmes/Art e Femmes en lutte) che si battevano per il riconoscimento delle donne nel mondo dell’arte.
Nel 1973, ha creato l’installazione Topak Ev, una tenda di feltro a grandezza naturale ispirata alle tradizioni dei popoli nomadi turchi, presentata in una sua personale al Musée d’art moderne de la Ville de Paris. La mostra comprendeva pannelli che raccoglievano disegni, collage, fotografie e descrizioni scritte a mano sulla struttura, con l’obiettivo di stimolare la riflessione sugli spazi femminili privati e pubblici. Con la prima telecamera portatile, in quel contesto, ha filmato le reazioni del pubblico e di bambini e bambine che entravano e uscivano dalla tenda, realizzandone un documentario.
L’anno successivo ha presentato un’altra opera molto significativa, The Headless Woman, un video concentrato sullo stomaco di una danzatrice del ventre e sulle misteriose scritte che la protagonista traccia su di sé, ponendo l’attenzione sull’oggettivazione del corpo delle donne mediorientali.
Negli anni a venire ha creato un’inversione dello sguardo maschile oggettivando il proprio corpo attraverso la telecamera.
La Roquette, Prison de Femmes (realizzata con Judy Blum e Nicole Croiset) è la testimonianza di un’ex detenuta del famoso carcere femminile francese.
L’installazione multimedia Temporary Dwellings, indaga le condizioni di vita e le esperienze di lavoro delle donne migranti in Europa.
Nel 1977, alla 10ª Biennale di Parigi, ha presentato Turkish Immigrants: fotografie e disegni di giovani donne delle periferie che illustrano le condizioni di vita dei lavoratori turchi a Parigi. L’idea è poi stata sviluppata in C’est un dur métier que l’exil (L’esilio è un mestiere difficile), presentata nel 1983 al Centre Pompidou di Parigi e poi portata in importanti musei in giro per il mondo.
Nel 1978 ha allestito una performance che metteva in scena la vita quotidiana in un harem nell’ambito della collettiva Femmes/Art. Il video di quella giornata, ritrovato nel 2011, è stato digitalizzato dalla Biblioteca nazionale di Francia ed è una delle rare testimonianze del movimento artistico femminista francese degli anni settanta.
Nel 1980, al Centre Pompidou, ha presentato Rahime, Femme Kurde de Turquie, video intervista a una donna curda emigrata in Turchia, corredata di disegni e fotografie, dalle quali pendono degli stracci insanguinati, metafora della difficile vita della protagonista.
Dal 1980 al 1995 ha insegnato video arte e installazioni all’Università Pantheon-Sorbona.
Negli anni Novanta, in una fase di esplorazione creativa e di riconoscimenti, ha iniziato a utilizzare i media digitali sperimentando animazione 3D e montaggio elettronico del suono.
Nel 2007 è stata tra le 120 artiste della mostra itinerante WACK! Art and the Feminist Revolution al Museum of Contemporary Art di Los Angeles.
Lapidation, video del 2009, mostra l’uccisione tramite lapidazione di una ragazza sciita giudicata colpevole di amare un ragazzo sunnita a Baghdad.
Nel 2018 è stata insignita del Premio AWARE (Archives of Women Artists, Research and Exhibitions) alla carriera e ha presentato la video installazione Niqab Blues, successivamente proposta in una versione di scultura in tessuto.
È stata protagonista di una delle diciotto mostre organizzate dal ministero della cultura francese dopo gli attacchi del terrorismo islamista culminati con la strage del Bataclan nate per sottolineare l’importanza dell’arte nella ricostruzione di un legame pacifico tra culture avvelenate da fondamentalismo religioso e colonialismo.
Tutti i suoi video sono stati digitalizzati nella Biblioteca Nazionale Francese.
Per la prima volta alla Biennale di Venezia nel 2024, dove sarà insignita del Leone d’Oro alla Carriera insieme a Anna Maria Maiolino, presenta una riconfigurazione della sua installazione Exile is a hard job, insieme alla sua iconica opera Topak Ev, collocata nella prima sala del Padiglione Centrale dei Giardini.
Il suo inarrestabile attivismo artistico sta, finalmente, in tarda età, ottenendo i giusti riconoscimenti.
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in merito alla crescita spirituale intesa come “cammino”, che ruolo ha il concetto di pellegrinaggio? Senza etichetta confessionale ma concentrandoci solo sullo spirito, qualcosa come il cammino di Santiago potrebbe alimentare quel fuoco che arde dentro di noi?
Il viaggio è una metafora molto usata per il cammino spirituale. All’inizio della trasformazione personale i due viaggi possono addirittura coincidere perché, per cominciare a dedicarsi al proprio stato interiore, eliminare i condizionamenti e maturare autonomia, bisogna staccarsi dal contesto abituale. Uno dei modi più comuni per farlo è proprio quello di viaggiare da soli, trasferirsi o staccarsi in qualche modo dal conosciuto.
Se pensi al pellegrinaggio di qualche secolo fa, quando non c’erano i mezzi di adesso, ti rendi conto che era un vero e proprio ‘viaggio dell’eroe’. Era un cammino lungo, solitario, tortuoso, spesso fatto a piedi o con mezzi di fortuna in ogni tipo di condizioni atmosferiche e, a volte, era anche pericoloso. Questo, per forza di cose, costringeva ad una maturazione psicologica dovuta all’affrontare indipendentemente le avversità e favoriva un contatto importante con le reazioni psicologiche e con la propria coscienza. Il tutto senza neanche considerare, per ora, la sacralità della meta.
Oggigiorno, un viaggio con un potenziale d’impatto tanto forte non esiste neanche. Anche affrontare viaggi comodi da soli e trasferimenti in giovane età è molto raro. L’abitudine alla comodità, alla sicurezza e alla superficialità non ispira certo progetti del genere. I pochi fortunati che riescono ad intraprendere un piccolo viaggio da eroe si accorgono presto che, parallelamente all’avventura esterna, si viene forzati dalla solitudine a vedere ciò che sale al conscio. Questo è ciò che io chiamo il ‘ritiro nel corpo’, perché l’attenzione non viene più soltanto dispersa esternamente ma si ritira più vicino a noi, dirigendosi alle condizioni fisiche, ai dolori, ai disagi del corpo, alle reazioni della mente e alle sensazioni. La concentrazione inoltre migliora naturalmente perché bisogna stare attenti di momento in momento, attività che la routine non stimola. A questo stadio non si è ancora in grado di gestire mente ed emozioni, si subiscono e basta, ma è già l’inizio di una purificazione del subconscio e una prima abitudine a questo processo che, in questa fase, può essere davvero duro. Scegliere di affrontare questo cammino verso l’indipendenza con la giusta prospettiva, con la voglia d’imparare a vivere e di gestire la propria emotività, può davvero cambiare la vita dei giovani e farli approdare ad una maturità ormai introvabile.
Quando si capisce la valenza di questo processo e lo si vuole intensificare, iniziano i tentativi per interiorizzare la capacità di stare con la nostra interiorità, a prescindere dalle condizioni esterne. Questo è quello che chiamo ‘ritiro nella mente’. Qui l’eroe cerca di purificare la sua coscienza sempre, osservando senza giudizi e indulgenze tutto ciò che sale nei pensieri e iniziando anche a sperimentare un contatto totale con le emozioni, che vedrà sparire molto velocemente. Questa è la pratica del conosci te stesso, la meditazione o la purificazione della coscienza. È un’allenamento dell’attenzione che quindi si alza e si concentra di momento in momento. Sono i primi tentativi per interiorizzare la solitudine e aumentare i suoi effetti salutari.
Nonostante il praticante cerchi di farlo sempre, ci sono alcune condizioni esterne che possono aiutare ad approfondire la pratica, prima fra tutte la solitudine esterna, da alternare saggiamente al ritorno agli altri. Avere la coscienza più in ordine è come avere una calamita per le cose spirituali e questo può indurre l’eroe a cercare appositamente luoghi di ritiro o a fare pellegrinaggi. Se il tuo intento è quello di dedicarti in modo concentrato alla pratica di purificazione, il pellegrinaggio, fatto seriamente, può aiutarti certamente ad ‘alimentare il fuoco’, soprattutto se ti porta dove ha vissuto un santo o un illuminato a te particolarmente caro, dove puoi meditare e studiare i suoi insegnamenti. Sono luoghi permeati di sacralità che aiutano effettivamente anche nella pratica. Lo percepirai nettamente, è come avere un aiuto extra. Il tuo scopo poi sarà quello di cercare di stabilizzare il risultato, lì ottenuto, indipendentemente e ovunque sei.
L’ultimo livello di interiorizzazione è ‘il ritiro nel sé’, nel nucleo più profondo che abbiamo dentro, il luogo più sacro che c’è. In questo raccoglimento dimoriamo nella nostra vera natura, che è spirito. I praticanti di questo livello hanno la coscienza abbastanza libera, pulita, in grazia, per questo tornano spesso nello spirito. Hanno una spiccata sensibilità per i luoghi sacri e vengono quasi ‘rapiti’ da un profondo raccoglimento al minimo cenno di sacralità. Anche loro però devono stabilizzarsi in modo più indipendente possibile dalle circostanze esterne e dai luoghi in cui si trovano.
Come vedi, fino alla fine c’è, nel praticante, questo altalenarsi tra la ricerca di condizioni favorevoli esterne per intensificare la pratica e la ricerca di una condizione interna sempre più stabile, a prescindere dalle condizioni. L’intensità e la stabilizzazione sono entrambe importanti: per la prima c’è per forza bisogno di un po’ di solitudine esterna, per un tempo limitato, la stabilizzazione invece è la versione tascabile della pratica, da portare sempre e ovunque, è quella che ci sostiene nelle sfide di ogni giorno. Abitualmente ci si può dedicare all’intensificazione nella caverna della propria stanza e alla stabilizzazione durante le normali attività.
Il punto da comprendere è sempre lo stesso: se è presente la pratica onesta e perseverante, le condizioni favorevoli particolari come i luoghi sacri, i ritiri ecc., che aiutano moltissimo ma non sono essenziali, possono esserci o meno. Se invece si fanno due pellegrinaggi all’anno ma ci si scorda della pratica quotidiana, non si andrà tanto lontano. È tutta questione di serietà.
I luoghi sacri hanno l’effetto di aiutarci nel viaggio più importante: quello dentro di noi! Ci spingono letteralmente dentro, verso colui che è sempre in ogni luogo: l’onnipresente ‘Io Sono’.
Restare ai suoi piedi, abbassando la testa, deve divenire nostro impegno costante.
Buon pellegrinaggio.
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Il fuoco e San Gennaro
Tanti auguri a tutti coloro che portano il nome di San Gennaro.
La tradizione narra che, prima della decapitazione, tentarono di farlo fuori in ogni modo: gli torsero il corpo, lo gettarono nella fossa dei leoni e lo rinchiusero in una fornace…
Ma isso se n’asceva da dint’o fuoco.
Il quadro rappresenta proprio il miracoloso momento in cui il Vescovo Gennaro esce illeso dalle caverne ardenti di Pozzuoli tra lo stupore e la paura degli astanti. I soldati e i lazzari lo guardano a bocca aperta mentre lui volge il suo sguardo ai putti che svolazzano confusamente in cielo.
Il futuro patrono di Napoli conserva i suoi fastosi abiti episcopali e cammina tra la folla e le lance dei soldati come se il fatto non fosse suo. Una metafora di questa terra fulgida, degradata e distratta che tira avanti tra vessazioni e sconfitte.
E tu, San Genna’, nun te scurda’ ‘i chesta città. Mittece a mana toja e facce asci’ pure a nuje da dint’o fuoco.
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