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Prime Video: The Jackal - Il thriller mozzafiato sull’assassino più letale della storia. Recensione di italianewsmedia.com
L'intrigante thriller su Prime Video, “The Jackal”, racconta la storia di un assassino senza scrupoli, assoldato dalla mafia russa, e l’unico uomo che potrebbe fermarlo: un terrorista irlandese detenuto.
L’intrigante thriller su Prime Video, “The Jackal”, racconta la storia di un assassino senza scrupoli, assoldato dalla mafia russa, e l’unico uomo che potrebbe fermarlo: un terrorista irlandese detenuto. Prime Video presenta un thriller carico di suspense e adrenalina: The Jackal, un film che trascina gli spettatori in una trama complessa e incalzante. Protagonista è il temibile e letale…
#Adrenalina#Alessandria today#assassino#assassino infallibile#attori eccezionali#Azione#caccia all’uomo#cast stellare#cinema internazionale#Colpi di scena#Criminalità organizzata#Declan Mulqueen#dramma psicologico#Equilibrio politico#Fbi#film ad alta tensione#film d’azione#film su Prime Video#film thriller#giochi di potere#Google News#governo degli Stati Uniti#imperdibile su Prime Video#Intrattenimento#intrigo internazionale#italianewsmedia.com#Killer#killer professionista#Mafia#mafia e potere
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Paolo è il vero fondatore del cristianesimo e fu il più violento e feroce sostenitore della distruzione degli ebrei, tanto da entusiasmare i teologi nazisti. Ma prima di diventare cristiano era ebreo e aveva ucciso molti seguaci del cristianesimo vantandosi di "non sbagliare un colpo". La sua violenza l'aveva usata prima contro i cristiani e poi contro gli ebrei. Un infallibile assassino che combatteva le altre sette, compresa quella capeggiata da Pietro che egli definiva "storpio" "cane" "falso apostolo" "ipocrita" "maiale". Pietro a sua volta insultò Paolo accusandolo di avidità, di imbrogli finanziari, di vigliaccheria, mirando essenzialmente a strappargli il comando della diocesi. Le diaspore tra i seguaci dell'uno e dell'altro sono continuate, a suon di spada anche dopo la loro morte. Buona festa di San Pietro e Paolo.
Democrazia Atea, Facebook
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Da democrazia atea
AMOREVOLI ESEMPI
"Paolo è il vero fondatore del cristianesimo e fu il più violento e feroce sostenitore della distruzione degli ebrei, tanto da entusiasmare i teologi nazisti. Ma prima di diventare cristiano era ebreo e aveva ucciso molti seguaci del cristianesimo vantandosi di "non sbagliare un colpo". La sua violenza l'aveva usata prima contro i cristiani e poi contro gli ebrei. Un infallibile assassino che combatteva le altre sette, compresa quella capeggiata da Pietro che egli definiva "storpio" "cane" "falso apostolo" "ipocrita" "maiale". Pietro a sua volta insultò Paolo accusandolo di avidità, di imbrogli finanziari, di vigliaccheria, mirando essenzialmente a strappargli il comando della diocesi. Le diaspore tra i seguaci dell'uno e dell'altro sono continuate, a suon di spada anche dopo la loro morte. Buona festa di San Pietro e Paolo"
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CAPITOLO 9
Aprì gli occhi alle sette e trenta in punto, con i sensi immediatamente allertati. Non esistevano sveglie in casa sua. La notte, prima di coricarsi, stabiliva mentalmente l'ora del risveglio e tanto bastava. Si innescava una sorta di infallibile automatismo. Così come destarsi significa poter usufruire, da subito, dei suoi pieni poteri. Una macchina perfettamente oleata e pericolosamente efficiente. Uscì dal letto e andò in bagno, si sottopose con piacere al quotidiano rito della pulizia integrale, poi si dedicò al caffè. Più tardi sarebbe uscito. Avrebbe acquistato qualche quotidiano. La carta stampata, generalmente, era più generosa di particolari, rispetto alla televisione. Chi era abituato a scrivere, forse, era più documentato, o più fantasioso.
I caldi raggi di sole che inondavano la sua cucina, lo fecero optare per un fresco abito di lino, color sabbia. Fresco e, soprattutto ampio, tale da poter accogliere e nascondere i ferri del mestiere. Era sempre una piacevole sensazione sentire sulla pelle il fresco del metallo. Avrebbe volentieri aggiunto anche uno dei suoi cappelli, quello di paglia, stile coloniale, ma scartò subito l'idea. Non aveva notato molti cappelli in giro. E nessuno di quella fattura, il che significava: troppo appariscente, troppo riconoscibile. In due parole: niente cappello.
Sceso in strada, la sua austera eleganza divenne, da subito, ombra tra la folla. Scivolava senza lasciare tracce. Ce n'era di gente in giro. Nonostante l'ora e nonostante fosse un qualsiasi lunedì mattina, le vie della capitale brulicavano di uomini, apparentemente senza una meta. Sembrava quasi che, in quella città, nessuno avesse un lavoro da svolgere. Altro punto a favore della bella Roma. Arrivato alla prima edicola, prese un paio di quotidiani. Mentre pagava diede una annoiata occhiata alla montagna di riviste stipate sugli scaffali e tutt'intorno al chiosco. Tutte così simili da sembrare identiche. Stupida futilità in bella mostra, non riusciva a capacitarsi che ci fosse davvero chi potesse leggerle. E, in quella catasta di carta straccia, le peggiori risultavano quelle che, pomposamente, si spacciavano per riviste culturali. Famigerati giornalisti, direttori, editori, tutti a razzolare nello stesso fango, a sporcarsi della stessa merda di cui erano fatti. Edicola. L'edicola, anticamente, era una piccola costruzione appositamente fatta per contenere una statua. La parola latina aedicula derivava da aedes, il cui significato originario era: luogo in cui si accende il fuoco. Forse come traduzione dal sanscrito èdhah, che significava legna da ardere. Curioso che anche lui, nel vedere tale scempio di corpi e di materia grigia in quelle copertine patinate, avesse subito pensato al fuoco. Al fuoco come purificazione.
Proseguì, a piedi, fino in Via del Corso, cuore pulsante della metropoli, scelse un bar con tavoli all'aperto, si sedette, ordinò un caffè doppio e si immerse nella lettura. Su un tavolo vicino c'era anche un giornale locale, prese anche quello. Titoli a quattro colonne sul vile omicidio di un alto prelato. Tre quotidiani diversi, ma tre articoli in fotocopia. Stessa tecnica di scrittura, stesso sentire. Da una parte si lodava e si santificava il morto, dall'altra si precipitava giù, nel più profondo degli inferi, a braccetto con messer Satanasso, il mostro assassino. Uno altissimo, in cielo, al freddo, esposto alle intemperie, l'altro in basso, al calduccio, vicino al fuoco, in ottima compagnia. Non avrebbe chiesto nulla di meglio. Arrivò la sua ordinazione. Staccò la spina e si concesse anima e corpo alla sua bevanda preferita, che, in quella città, aveva trovato la sua sublimazione. Divina! Sorseggiò con lentezza misurata, fece rotolare la crema in bocca tenendo gli occhi socchiusi, quindi inghiottì. La caffeina entrò in circolo. Tornò alla lettura rinvigorito. Un piccolo articolo in quarta pagina di uno dei quotidiani, richiamò la sua attenzione. Non solo faceva riferimento al ritrovamento di un insolito foglietto ritrovato sulla scena del crimine, ma ne riportava anche il contenuto. Però! Pensò. Chi lo aveva scritto sapeva il fatto suo. E doveva avere delle fonti mica da ridere.
<<E le genti si adirarono; ma è venuta l'ira Tua e il tempo per i morti di essere giudicati, il tempo di dare la mercede ai tuoi servi i profeti e ai santi e ai tementi il tuo nome, piccoli e grandi e di distruggere coloro che distruggono la terra.>>
Lo scribacchino lo aveva frettolosamente liquidato come, un non meglio identificato, passo della Bibbia. L'uomo lo conosceva bene, era L'Apocalisse di Giovanni. Poi l'autore dell'articolo si improvvisò trapezista, fece un triplo salto mortale all'indietro ed un carpiato in avanti per collegare il tutto... udite udite! Alle sette sataniche. Che fenomeno! Pensò sorridendo. "Va bene così." Disse, sottovoce, a se stesso. Si alzò dalla sedia, ripiegò perfettamente i fogli dei giornali e li lasciò sul tavolo a beneficio di chiunque avesse del tempo da perdere. Controllò l'orologio, era ancora presto, avrebbe fatto un salto alla Stazione Termini. Aveva sempre amato le stazioni dei treni. Fin da quando era bambino. Non che gli interessassero gli orari, le partenze e gli arrivi, ci trovava un aria piuttosto familiare. Si sedette in disparte, vicino ai terminali dei treni e si perse ad osservare le varie umanità circolanti, in preda a chissà quale convulsione e, apparentemente, senza una meta precisa. Un formicaio in piena emergenza, soggetto a chissà quali bizzarre leggi divine. Non quelle del branco, o della comunità, comunque. Ogni tanto ne pescava dal mazzo uno a caso e si concentrava su quella figura. Quale sorta di malaugurata disavventura l'aveva condotto in quel crogiolo umano? Dal suo incedere, dal suo guardarsi intorno, più o meno spaesato, dal frenetico guardare, in rapida, o meno, successione sia il suo orologio, che i cartelloni degli orari, se ne potevano trarre importanti informazioni. Ed era possibile formulare delle ipotesi su chi fosse, sul suo lavoro, sull'essere felice o meno di quel lavoro, sulle sue aspettative, i suoi sogni, i pugni presi e dati ad una vita che, troppo spesso, fatichi anche a riconoscere come tua.
Era rilassante. Avrebbe continuato volentieri nel suo gioco, ma era tempo di andare. Quel giorno, il dovere aveva precedenza assoluta. Doveva essere a Piazza di Spagna per mezzogiorno. Non gli restava molto tempo ed era sua abitudine arrivare in anticipo. Decise che avrebbe usato la metropolitana. Sentiva sempre una sgradevole sensazione corrergli lungo la schiena, quando era costretto ad avventurarsi sotto terra, forse retaggio di un passato che non voleva ricordare, ma, oggi, non poteva farne a meno. Farsela a piedi, o con uno dei tanti tram che non passavano mai, avrebbe richiesto troppo tempo. Discese lentamente i gradini che lo avrebbero condotto direttamente nel ventre della grande madre. Evitò, come fosse peste, le scale mobili, che accostava mentalmente alle ben più temibili sabbie mobili. Davano la stessa impressione: inghiottire vite, lo stesso mestiere. Finita la prima rampa, controllò le mappe, per decidere quale linea prendere. Acquistò il biglietto da quelle infernali macchinette che sembravano messe lì a bella posta per farti sentire un incapace. Controllò di nuovo e imboccò il tunnel che lo avrebbe condotto all'altra scalinata. Quella che lo avrebbe portato ancora più sotto, dove sfrecciavano i vagoni. I locali erano affollati. L'andirivieni non mostrava soluzioni di continuità. C'era persino chi dimorava in quel girone dantesco, senza mai uscire al sole, quasi fosse parte dell'arredamento. Fastidioso arredamento. Nel passare davanti ad una di quelle anguste gallerie che si aprivano, chissà con quale funzione, su di una parete del corridoio principale, udì distintamente un gemito soffocato. Rallentò istintivamente il passo, si fermò e tornò lentamente indietro, quasi a sincerarsi della bontà del suo udito. Successe di nuovo, era, senza ombra di dubbio un gemito, forte e chiaro. E non poteva essere il solo ad averlo udito, tutti quelli, ed erano molti, di passaggio in quel momento dovevano averlo sentito. Anche se avevano tirato dritto senza curarsene. guardò meglio e notò l'uomo appena un paio di metri dentro l'imbocco della galleria. Un ragazzotto tarchiato, sui venti, massimo trenta anni, con una vistosa felpa rossa. "Strano posto di osservazione" Pensò. Poi di nuovo il gemito, seguito da uno schiocco secco. Non aveva più dubbi: quella era una voce di donna: Di donna in pericolo. "Tira dritto." Si ordinò. "tira dritto per la tua strada e fregatene. Non è la tua battaglia. Qualunque cosa succeda la dentro, non ti riguarda. Hai una missione, non lo dimenticare. Non commettere passi falsi che potrebbero rovinare tutto. Proprio ora, che sei ad un passo dalla meta". Era combattuto. Maledisse mille volte la decisione di scendere là sotto.
<<Un guerriero, o un uomo qualsiasi, non può augurarsi di essere in un posto diverso da quello in cui si trova. Un guerriero perché vive per sfida e un uomo comune perché non sa dove la morte andrà a cercarlo.>>
Doveva accettare la sfida. Era parte integrante della sua esistenza. Si appressò calmo, ma deciso, al guardiano della galleria.
"Che cerchi, bello? Gira i tacchi e sgomma, se vuoi continuare a campare!" Lo ammonì sicuro il bullo. Lo fece in un romano storpiato da un caratteristico accento dell'Est Europa.
Rumeno, forse Albanese, pensò l'uomo, tenendosi a distanza di sicurezza e rispondendo: " Mi dispiace, non posso accontentarti. Devo per forza entrare lì dentro. E se tu non sei così stupido come sembri, faresti meglio a correre via e dimenticarti di avermi incontrato."
L'altro non sembrò affatto d'accordo, evidentemente era davvero stupido come sembrava. Fece balenare la lama di un coltello e gli si avventò contro. L'uomo ebbe un velocissimo guizzo laterale, afferrò con la mano destra il polso destro dell'avversario, spezzandolo con una sola torsione. Contemporaneamente, con la sinistra, lo colpì prima al fegato, poi alla mascella, con un rumore secco, molto simile ad uno schiocco di frusta. L'albanese, o quello che era, si afflosciò a terra come un sacco vuoto, senza neanche il tempo di capire, o di emettere un qualsiasi suono. Fulminato. Come chi ha la sfrontatezza di ripararsi sotto ad un albero durante il temporale. L'uomo scavalcò il sacco e si addentrò nell'oscurità, a passi misurati incontro all'ignoto. Dopo pochi metri si ritrovò in una angusta stanza, ricavata direttamente dalla roccia. La tremolante luce di una torcia elettrica , incastrata tra la parete e un pezzo di lamiera abbandonato, illuminava una scena che gli fece salire il sangue agli occhi. Due uomini tenevano inchiodata a terra una ragazza molto giovane, con i vestiti lacerati ed un occhio tumefatto, mentre un terzo, in piedi, con i pantaloni abbassati, sicuramente si stava apprestando a gustare quel boccone rubato, che, ma ancora lo ignorava, lo avrebbe soffocato.
Si fece loro incontro, silenzioso e inevitabile come la morte. Ebbe più di una tentazione ad estrarre la sua fida trentotto e spolverare frammenti di cranio, molti, e di cervello, pochi, per tutto l'ambiente. Ma seppe resistere. Oltre all'eccessivo rumore prodotto, le pallottole sarebbero state una pista da seguire. Potevano essere comparate e associate al suo lavoro. Avrebbero potuto costringerlo all'angolo e farlo cadere. Oltre tutto non erano necessarie. Quella non era una situazione che presentasse difficoltà insormontabili. I velocissimi pensieri furono ricacciati indietro, afferrò per la nuca la bestia che bloccava i piedi della ragazza, lo sollevò da terra con tutte e due le mani e gli sfracellò la faccia contro la ruvida parete di tufo. Il rumore che ne venne fuori fu orribile. Capì subito di aver esagerato, ma, oramai, era andata, non c'era spazio per i ripensamenti. Quella spazzatura aveva smesso di offendere il prossimo con la sua esistenza. I due suoi compari ebbero un attimo di esitazione ed esitare, in guerra, equivale alla sconfitta.
Il primo a riaversi dallo stupore fu il secondo imbalsamatore, quello che si era occupato della parte superiore della preda, tenuta per i capelli e con un coltello a solleticarle la gola. Si alzò di scatto, brandendo quel suo volgare coltello da sub. Un preciso calcio circolare e fu subito disarmato. Un secondo calcio in fronte lo spedì direttamente nel mondo dei sogni. Non era ancora finita. L'uomo ancora non si riteneva soddisfatto. Lo afferrò per i capelli e per il fondo dei pantaloni, lo sollevò sopra la testa e lo scaraventò contro la roccia. Lo schianto fece un bel po' di fracasso, ma, ancora una volta, nessuno che osasse curiosare. Era proprio una gran verità: se vuoi davvero soffrire di solitudine, mischiati con la massa. Una rapida occhiata al suo elegante abito di lino, e la piacevole constatazione che era ancora intonso. Neanche l'ombra di una macchia. Era tempo di prestare attenzione all'attore principale. Al cattivo per eccellenza, che, inebetito dalla paura, era rimasto in piedi con la mascella inferiore appoggiata sul mento e le braghe calate. La ragazza, in evidente stato di shock, singhiozzava sommessamente e tentava di ricoprirsi senza riuscire a coordinare il movimento delle mani.
"Stai bene?" Le chiese l'uomo con dolcezza.
Lei rispose annuendo con gli occhi, ancora atterriti, ma all’interno dei quali iniziava a scorrere la gratitudine. Si mosse come il vento. Afferrò saldamente per il collo il mancato stupratore, premendogli con il pollice sulla trachea, mentre l'altra mano scivolò furtiva nella tasca interna della giacca e ne estrasse la pattada. "Ora è il tuo momento di dimostrare che sei un uomo, non prima." Sussurrò, fissando negli occhi il suo nemico.
"Te prego! Nun m'ammazzà!" Rantolò l'altro, divorato dal terrore.
"Non ho alcuna intenzione di prendermi la tua vita. Non saprei che farmene. Ma se, per te, sia davvero una bella notizia, avrai modo di deciderlo con calma negli anni a venire." Disse, affondandogli la lama nell'inguine e costringendo lo strumento a fare un giro completo. Che non fosse un uomo, lo si era capito fin da subito, ma ora la notizia sarebbe stata ufficiale. Lo avrebbero saputo tutti. Il malcapitato iniziò a contorcersi spasmodicamente in preda al dolore, ma l'aumento della pressione sulla trachea lo fece piombare nel buio. Lo lasciò scivolare a terra come una marionetta cui hanno tagliato i fili e si rivolse, di nuovo, alla donna, abbassandosi e accarezzandole delicatamente il viso livido: "Stai tranquilla, piccola, ora è davvero tutto finito. Nessuno ti farà più del male. Riprendi la tua vita,dimentica e non farti fregare dalla paura."
"Gra...Grazie..." Balbettò lei, con gli occhi ancora gravidi di terrore.
"Non ringraziarmi. Non mi devi niente. Dimmi: hai con te un cellulare?" Che razza di domanda era? Certo che si, era l'era dei cellulari, tutti ne avevano, anche molti più di uno.
"Si, me lo ha preso quello la." Disse indicando il cadavere. La fiducia iniziava, sospettosa, a mettere fuori la testa.
L'uomo lo raggiunse, frugò nelle tasche estraendo due cellulari. "Qual è il tuo?"
"Quello argentato."
Le porse il suo telefono e mise in tasca l'altro. Avrebbe potuto tornare utile in seguito. "Ascolta, piccola, io devo scappare, una questione di vita o di morte. Chiama i carabinieri. Alla svelta. Fatti venire a prendere."
"Ti prego! Non lasciarmi sola!" Lo implorò.
"Non posso restare, principessa, davvero. E cerca di stare tranquilla, il peggio è passato." Rispose. E sparì come un miraggio.
Scese alla fermata di Piazza di Spagna che erano, ormai le dodici e un quarto. Poteva dire addio al suo appuntamento. La persona che si era ripromesso di vedere era di una precisione maniacale. Mai un minuto prima, mai uno dopo. Sarebbe stata questa la malattia incurabile che lo avrebbe condotto alla tomba, pensò, uscendo nuovamente alla luce del sole. Poco male, il piano era pronto da tempo e studiato fin nei minimi dettagli. Il fallimento non era contemplato. Ne era certo. Avrebbe approfittato di quell'intervallo di tempo per bighellonare oziosamente per il centro. Non uno scopo, né, tanto meno, una meta. Solo colmarsi gli occhi. Si sarebbe ricaricato in vista della sortita notturna, non erano ammessi fallimenti. E non avrebbe fallito.
<<Un guerriero deve essere fluido e scorrere armoniosamente con il mondo che lo circonda, sia esso il mondo della ragione, o quello della volontà.>>
Passeggiava rilassato per le anguste viuzze del centro di Roma, mescolato in quel crogiuolo di lingue dei molti turisti ammirati e storditi di cotanta bellezza. Strade intasate da migliaia di gambe incerte e di nasi all'insù e, ad ogni angolo, risuonava festante quella babele di vocaboli, quasi a formare un tutt'uno. Una sorta di esperanto musicale ed indecifrabile. Passo dopo passo, si ritrovò al cospetto di quella che, in assoluto, era la costruzione che preferiva: il Pantheon. Più di duemila anni di storia, messi lì a scrutarti l'anima e a ricordarti i tuoi limiti e le tue umane miserie. Eppure erano stati degli uomini a costruirlo, non un Dio. Sapeva tutto quello che c'era da sapere su quel tempio. Sapeva che, all'origine, era stato dedicato a tutti gli dei, noti o sconosciuti che fossero. Il nome era la combinazione di due parole greche: pan, che, chiaramente, significava tutto e theos, dio. Lo fece costruire Marco Vespasiano Agrippa, intorno al ventisette avanti Cristo, ma fu completamente modificato sotto il dominio di Adriano, a cavallo tra il centodiciotto ed il centoventotto. Restaurato poi da Settimio Severo e da Caracalla. Fu snaturato e trasformato in chiesa cristiana soltanto nel seicentonove. Maestoso ed emozionante. Nonostante tutto, al di là di qualsiasi considerazione religiosa e filosofica. Stette quasi un'ora a scandagliarlo e soppesarlo con lo sguardo, sia all'esterno che all'interno, fino a che decise che era abbastanza. Parte di quella bellezza era stata assorbita. Era ora di far ritorno alla sua tana. Doveva conservare le energie mentali e fisiche per quella stessa notte. Ne avrebbe avuto bisogno. La buona riuscita di ciò che si apprestava a fare dipendeva esclusivamente da lui stesso. Dalle sue capacità, dal potere personale accumulato. Era deciso a mostrarsi in forma smagliante.
<<Ciò che determina il modo in cui si fa qualsiasi cose è il potere personale. L'uomo è soltanto la somma del proprio potere personale e tale somma decide come vivrà e come morirà.>>
Appena rientrato in casa, si liberò immediatamente degli abiti e delle scarpe ed indossò una comoda tuta da ginnastica. Rimase però a piedi nudi, amava il contatto diretto col suolo. Fosse dipeso da lui, avrebbe abolito qualsiasi tipo di calzatura. Erano gli arti inferiori i primi accumulatori di energie benefiche. Costringerli in una prigione era un reato contro l'umanità.
Scelse con cura il disco da sistemare sul piatto. Soltanto uno, quel pomeriggio, poi sarebbe stato il silenzio il suo unico compagno, fino al momento della caccia notturna, quando l'animale avrebbe di nuovo preso il sopravvento. Il lupo era affamato, non poteva resistere a lungo. Proxima Estacion... Esperanza, Manu Chao fu il prescelto.
<<Se si vuole riuscire in qualcosa, la riuscita deve arrivare dolcemente, con grande impegno, ma senza costrizioni ed ossessioni.>>
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28 Luglio - "TREADSTONE RISORGE" di Robert Ludlum
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Titolo: Treadstone risorge Autore: Robert Ludlum Genere: Thriller Casa Editrice: Rizzoli Lunghezza: 368 pagine Prezzo: Ebook €9,99 – Cartaceo €20,00 Data di pubblicazione: 28 Luglio 2020
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SINOSSI
Treadstone ha cambiato per sempre Adam Hayes, facendo di lui un assassino infallibile e spietato, e gli ha rovinato la vita. Ora che ne è fuori, l’ex agente vuole solamente riconquistare la sua…
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Liliana Heker: la scrittrice che ha parlato della morte con Borges e ha bacchettato Cortázar
Liliana Heker è una delle voci fondamentali della narrativa argentina ed è, inoltre – e soprattutto – un maestro del racconto in un paese di narratori straordinari. Anche se la scrittura si è installata in lei come necessità tra i tredici e i quattordici anni – le era necessario scrivere per dare consistenza a idee debordanti – tuttavia non pensava di diventare scrittore. Dieci anni più tardi pubblicherà il primo libro di racconti, Los que vieron la zara (1966), che ottiene una menzione al Concurso de Casa de las Américas. Così, in estrema sintesi, tutto ha avuto inizio.
Al primo libro, ne seguirono altri. Saggi, racconti, romanzi, come El fin de la historia (1996), un libro che narra le violenze accadute durante l’ultima dittatura militare e le contraddizioni che allignavano dentro una certa parte della gerarchia. Alla sua pubblicazione, il romanzo generò diverse polemiche, ma questo non disarmò la Heker. Al contrario. Per Liliana Heker, la cosa buona delle polemiche è che permettono di discutere a fondo di certe idee e di arricchirsi nel dibatterle. “Nessuno uccide o muore nella polemica”, ha detto una volta a Julio Cortázar, di cui era ed è una ammiratrice, e con cui polemizzò a lungo, appassionatamente.
Lui è Jorge Luis Borges (1899-1986)
Insieme a Sylvia Iparraguirre e ad Alberto Castillo, che la Heker considera come suo maestro, la scrittrice ha fondato in pieno regime militare El ornitorrinco (1977-1986), una delle riviste letterarie di maggior impatto nella letteratura latinoamericana. Nello stesso periodo (1980), l’era in cui la morte era in agguato in Argentina, l’autrice di Las peras del mal (racconti, 1982) cominciò a lavorare a un libro di interviste, Diálogos sobre la vida y la muerte (2003), attraverso il quale si proponeva di indagare il significato della mortalità come fenomeno biologico e psichico, e i diversi modi in cui, nel corso della Storia, l’uomo ha cercato di convivere con questa insopportabile certezza: la sua condizione mortale. Tra gli intervistati, c’è anche Jorge Luis Borges, che all’epoca aveva ottant’anni, a cui, a dire della Heker, l’idea della morte non provocava alcuna inquietudine. “Parla di Mark Twain, specula di teatro, parla di poesia inglese, parla di morte. È felice di parlare di cose che gli interessano”.
I racconti di Liliana Heker sono stati tradotti e pubblicati, tra gli altri paesi, in Germania, Francia, Russia, Turchia, Olanda, Inghilterra e Polonia. Il romanzo El fin de la historia è stato premiato nel 2010 con il Premio Esteban Echeverría (vinto, tra gli altri, da Borges, da Ernesto Sabato, da Adolfo Bioy Casares e da Silvina Ocampo), e nel 2012 è stato pubblicato in lingua inglese.
La necessità di scrivere. Quando è nata? Come?
“Quell’esigenza, in un certo modo, è iniziata quando avevo quattro anni, nel cortile di casa di mia nonna. Il mondo reale mi sembrava molto poco interessante, quindi mi inventavo delle storie girando per il giardino; se qualcosa non funzionava, tornavo indietro e modificavo la storia, che esigeva nuove modifiche, e così via. Mentre la mia storia si avvicinava alla perfezione (senza mai raggiungerla), io giravo sempre più velocemente, sempre di più. In modo più specifico, la scrittura si è installata in me quando avevo tredici o quattordici anni. Ero una adolescente esagerata: avevo bisogno di correre per le strade per sfogare la mia debordante energia, avevo bisogno di scrivere per dare solidità alle idee che esondavano dentro di me. Tuttavia, non avevo idea di diventare una scrittrice. Scrittore, per me, erano gli altri, gli autori dei libri che amavo, che divoravo con passione. Quando ho dovuto scegliere una facoltà universitaria, ho scelto Fisica. A sedici anni, nello stesso periodo in cui facevo ingresso alla facoltà di Scienze, entrai nella rivista letteraria El grillo de papel, e lì ho incontrato scrittori in carne e ossa, ho scritto i miei primi racconti, ho scelto la letteratura. A ventuno anni, già vicedirettrice della rivista El escarabajo de Oro e con un libro di racconti quasi terminato, abbandonai la carriera di fisica”.
Lei è un maestro del racconto breve, in Argentina è ritenuta un ‘classico’. Esiste un segreto (penso al ‘decalogo’ di Horacio Quiroga, ad esempio) per scrivere il racconto perfetto?
“Poe, Quiroga, Cechov, Flannery O’Connor, Cortázar, Abelardo Castillo, hanno scritto decaloghi o testi scintillanti sull’arte del racconto. Da questa profusione di idee si possono trarre due conclusioni: la prima, evidente, è che non esiste un unico segreto per scrivere un ottimo racconto; la seconda, che ogni vero narratore sa quanto rigore e quanta intensità chieda una situazione, per quanto minima, per estrarne tutta la luce immagazzinata, curando il testo dalla prima frase – ah, l’arte della prima frase! – per poi, come minacciati, retrocedendo o precipitando o dimorando in una specie di apatia, avanzare verso il cuore della radiazione, unica e immutabile, che è la fine. È comprensibile dunque l’ansia di spiegare – rapida e brusca, come corrisponde al narratore – questa strana avventura che è scrivere un racconto. ‘Il racconto è una storia senza versi’, dice Quiroga; ‘Se c’è una pistola caricata nella prima frase, deve esplodere alla fine’, dice Cechov; ‘Il romanzo vince ai punti e il racconto per knock out’, dice Cortázar. Tutte frasi brillanti; nessuna, è chiaro, dice tutta la verità, però serve, a ciascuno di loro, per illuminare ciò che è così nitido e difficile da raggiungere: un buon racconto”.
Quali sono stati i suoi maestri, se ci sono stati? Borges, lo scrittore argentino più noto in Italia, è ancora un maestro di scrittura? È stato un maestro per lei?
“In senso stretto, il mio maestro è stato Abelardo Castillo, senza dubbio uno dei massimi narratori in un paese di grandi narratori come l’Argentina, con cui ho lavorato, per 26 anni, in tre riviste letterarie che sono state fondamentali per la letteratura argentina. I classici che considero miei maestri sono Maupassant e Cechov. Quelli che hanno marcato in maniera singolare la mia narrativa, sono i narratori nordamericani: Saroyan, Hemingway, Cheever, Salinger, Flannery O’Connor, Catherine Porter, Carver. Borges è ancora un maestro, senza dubbio. Insieme a Roberto Artl e a Leopoldo Marechal è lo scrittore fondamentale della letteratura argentina”.
Lei ha vissuto in Argentina sotto il regime di Videla. Cosa significa per uno scrittore vivere in un momento storico in cui la libertà è minima, minata?
“Per come la intendo io, uno scrittore non spera che il potere di turno gli conceda la libertà. Uno scrittore si assume la propria libertà, abita la libertà nonostante e contro quel potere. Se parliamo di scrittura, uno scrittore, dentro le quattro mura della sua abitazione, è libero di costruire le proprie storie come desidera. Se parliamo di scrittura come testimonianza o come denuncia, lo scrittore dispone di uno strumento prezioso per valicare la censura: sa come maneggiare il linguaggio. La censura non è infallibile; ciò che annienta un intellettuale è l’autocensura. Durante la dittatura militare in Argentina si è sviluppata una delle più formidabili forme di lotta contro un regime dittatoriale e assassino: le Madri di Plaza de Mayo. Inoltre, proprio durante quel periodo di ferocia, sono sorti progetti come il Teatro Abierto, laboratori creativi, riviste culturali. Nel mio caso in particolare, oltre a scrivere racconti, ho fondato con Abelardo Castillo e Sylvia Iparraguirre la rivista letteraria El ornitorrinco, dove, oltre ai nuovi scrittori argentini, si pubblicava la grande letteratura nazionale e internazionale. Fu pubblicato un intellettuale come Sartre, ad esempio; fu pubblicato e studiato un inquietante racconto di Dino Buzzati, Le montagne sono proibite. Inoltre, negli editoriali e negli articoli di El ornitorrinco si trattavano temi come la repressione, la censura e l’autocensura, le sparizioni, i diritti dell’uomo, la follia dei due dittatori – Pinochet e Videla – che volevano portare il nostro popolo alla guerra. In sintesi, senza voler dare a tutto questo un particolare senso eroico, credo che, nonostante alcuni scrittori abbiano agito con agio durante la dittatura militare, ce ne sono stati molti altri che, come potevano, hanno costruito quella che ritengo essere una forma di resistenza culturale”.
Cortázar è, dopo Borges, il più noto scrittore argentino in Italia. So che lei hai avuto una controversia con Cortázar. Puoi spiegarci meglio?
“Premetto, anzi tutto, che ho sempre ammirato e continuo ad ammirare Cortázar, una persona che mi è stata molto vicina. Ciò non toglie che in una circostanza molto precisa io abbia ritenuto necessario polemizzare con lui. Ritengo, come ho detto a Cortázar, che la cosa buona di una polemica è che nessuno muore o viene ucciso, che nessuno vince o perde; la polemica permette una discussione più profonda, e arricchisce sempre. Durante la dittatura, discutere era un mondo come un altro per lottare contro la morte. Fondamentalmente, ciò che rimproveravo a Cortázar era la sua idea per cui in Argentina la letteratura era stata distrutta e che gli scrittori che avevano ancora qualcosa da dire avrebbero dovuto unirsi a lui fuori dal Paese, in esilio. Oltre a farsi chiamare ‘esiliato politico’, cosa che non era (Cortázar era andato in Francia nel 1951 per motivi che, come ha spiegato nel suo diario, non erano politici), considerava l’esilio una pratica e non una fatalità. Fu una polemica ampia e appassionata. Penso che oggi, quattro decenni dopo, sia solo la testimonianza di quei tempi di dittatura. I racconti di Cortázar restano belli e perturbanti come sempre”.
Ci sono scrittori italiani che legge con particolare intensità?
“Decisamente sì. Ci sono scrittori che ho amato nella mia prima adolescenza: Pratolini, Vittorini, Pavese, Calvino, che ho letto con vera devozione. A questi, negli anni, si sono sommati Pirandello, Dino Buzzati, Natalia Ginzburg, Moravia, Tabucchi e altri. Una letteratura eccezionale, senza dubbio”.
Ritiene che i nuovi media – Internet, i social – siano dannosi o vantaggiosi per la pratica della scrittura?
“Nessun mezzo, di per sé, è dannoso o vantaggioso. La questione, sempre, è come lo si utilizza. Io amo la carta e penso che il libro abbia una forma così perfetta che difficilmente potrò scomparire. Però, ovviamente, uso Internet quando mi è necessario. Il problema non è Internet ma ciò che offre in modo indiscriminato a lettori che non sono particolarmente addestrati e che non hanno i mezzi per discernere. Per quanto riguarda i social, io non li uso; mi disturba l’eccesso di comunicazione. Confesso che, di tanto in tanto, mi incanta il silenzio. Per ciò che riguarda la scrittura, Internet dà una risonanza eccessiva al mediocre e allo stupido. Sia chiaro: mediocrità e stupidità sono sempre state scritte. Ma erano meno diffuse di oggi”.
Che disciplina adotta quando scrive?
“Nessuna. Non sono disciplinata. Ci sono momenti in cui mi concentro sull’idea di un racconto o di un romanzo, annoto delle cose, tento di cominciare, e non trovo quello che voglio scrivere. A posteriori, posso dire che sono momenti importanti, ma quando accadono, mi inquietano. Ora, quando sospetto ciò che vorrei fare, posso scrivere dalle cinque della mattina fino alla mattina del giorno dopo. Mi è successo con molti racconti e, con più forza, durante la stesura dei miei romanzi. Quando tengo la storia per la coda, quando comincio a trovare una forma, quando trovo il modo di maneggiare tutto il materiale che ho accumulato per tanto tempo, capisco che posso scrivere per tutto il giorno. Nonostante non sia così, nonostante possa interrompere la scrittura più volte e per diversi motivi, la mia sensazione è esattamente questa: che sto scrivendo tutto il tempo, e che, appena risolto il motivo dell’interruzione, tornerò a lavorare con la stessa energia e la stessa lucidità di prima. Sono momenti privilegiati. Non accadono sempre”.
Ora, cosa sta scrivendo? A quale libro sta lavorando?
“Ora lavoro a un libro saggistico, La trascenda de la escritura [La trascendenza della scrittura]. Suppongo che sia un titolo eloquente. Non vado oltre il titolo, perché ho imparato che non è bene parlare di un libro che, nonostante sia abbastanza chiaro nella mia testa, resta ancora in un perfetto stato di indeterminazione”.
(il servizio è di Maria Soledad Pereira e Davide Brullo)
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Liliana Heker es una de las voces clave de la narrativa argentina y es, además —o sobre todo—, una maestra del cuento en un país de cuentistas fundamentales. Aunque la escritura se le instaló como necesidad entre los trece y los catorce años —necesitaba escribir para darles salida a las ideas y ocurrencias que la desbordaban—, todavía no se le cruzaba la idea de ser escritora. Diez años después, sin embargo, publicaría su primer libro de cuentos, Los que vieron la zarza (1966), y obtendría la Mención Única en el Concurso de Casa de las Américas.
Y así, en resumen, empezaría todo.
A ese primer libro, le siguieron otros. Y también ensayos, nouvelles y novelas como El fin de la historia (1996), un texto que señala los atropellos ocurridos durante la última dictadura militar y las contradicciones existentes entre ciertos militantes de jerarquía. Al publicarse, la novela generó polémica, pero eso a ella no la desanimó. Al contrario. Para Liliana Heker, lo bueno de las polémicas es que permiten discutir a fondo ciertas ideas y enriquecerse a partir del debate. “Nadie mata ni muere en ellas”, le dijo cierta vez a Cortázar, de quien fue y sigue siendo admiradora, y con quien polemizó larga y apasionadamente.
Junto con Sylvia Iparraguirre y Abelardo Castillo, a quien en el sentido más riguroso del término Heker considera su maestro, fundó, en pleno régimen militar, El ornitorrinco (1977-1986), una de las revistas literarias de mayor repercusión en la literatura latinoamericana, en la que se publicaron obras de autores nacionales e internacionales, entre ellos de Dino Buzzati, y se trataron temas como la represión, la censura y la autocensura, los desaparecidos y los Derechos Humanos.
En esa misma época —1980—, época en que la muerte acechaba en Argentina, la autora de Las peras del mal (cuentos, 1982) encaró el proyecto de un libro de entrevistas, Diálogos sobre la vida y la muerte (2003), a través del cual se propuso indagar en el significado de la mortalidad como fenómeno biológico y psíquico, y las distintas formas que, a lo largo de la historia, ha concebido el hombre para convivir con ese casi intolerable saber: el de su condición de mortal. Entre los convocados, estuvo Jorge Luis Borges, quien en ese momento tenía ochenta años y a quien, al decir de Heker, la idea de la muerte no parecía inquietarlo en absoluto. “Habla de Mark Twain, habla de la teoría de los conjuntos, habla de la poesía inglesa, habla de muertes. Se lo ve contento de conversar sobre cuestiones que le interesan”.
Los cuentos de Liliana Heker se tradujeron y publicaron en Alemania, Francia, Rusia, Turquía, Holanda y Polonia, entre otros. Su novela El fin de la historia fue distinguida en 2010 con el Premio Esteban Echeverría, otorgado por la Fundación Gente de Letras, y en 2012 se publicó la traducción inglesa del texto.
¿Cómo nació su necesidad de escribir? ¿Cuándo?
En cierto modo, esa necesidad empezó cuando yo tenía cuatro años, en el patio de la casa de mi abuela. El mundo real me parecía muy poco interesante, entonces me inventaba historias mientras daba vueltas en ese patio; si algo no encajaba debía ir hacia atrás y modificar alguna cosa, lo que me exigía nuevas modificaciones, y así sucesivamente. A medida que mi historia se acercaba a la perfección (hecho que nunca ocurría), yo giraba más y más rápido. De un modo más específico, la escritura se me instaló como necesidad entre los trece y los catorce años. Era una adolescente excesiva: necesitaba correr por las calles para darle rienda suelta a mis desbordes de energía, y escribir para darles salida a las ideas y ocurrencias que me desbordaban. Pero ni se me cruzaba la idea de ser escritora. Escritores, para mí, eran los otros, los autores de mis libros amados, que devoraba con pasión. Cuando tuve que elegir una carrera universitaria, elegí Física. Pero a los dieciséis años, al mismo tiempo que ingresaba a la Facultad de Ciencias Exactas, entré a la revista literaria El grillo de papel, y ahí conocí a escritores de carne y hueso, escribí mis primeros cuentos y elegí la literatura. A los veintiún años, ya subdirectora de la revista El escarabajo de Oro y con un libro de cuentos casi terminado, dejé la carrera de física.
Usted es una maestra del cuento. ¿Cuál es el secreto (pienso en el Decálogo del Perfecto Cuentista, de Quiroga, por ejemplo) para escribir un cuento excelente? ¿Hay realmente un secreto?
Poe, Quiroga, Chejov, Flannery O’Connor, Cortázar, Abelardo Castillo, han escrito decálogos o textos deslumbrantes acerca del cuento. De esta profusión se pueden sacar dos conclusiones: la primera, evidente, que no hay un único secreto para la escritura de un cuento; la segunda, que todo verdadero cuentista sabe cuánto rigor y cuánta intensidad requiere que de una situación, acaso mínima, aflore toda su luz guardada, conseguir que el texto se abra en la primera frase –ah, el arte de la primera frase– y, como amenazado, retrocediendo o precipitándose o en apariencia estancándose, avance hacia ese resplandor, único e incanjeable, que es el final. Es entendible entonces la compulsión de explicar –breve y agudamente, como le corresponde a un cuentista—esa aventura impar que es escribir un cuento. “El cuento es una novela sin ripios”, de Quiroga, “Si hay una pistola cargada en la primera línea, el tiro tiene que sonar al final”, de Chejov, “”La novela gana por puntos y el cuento por knock out”, de Cortázar. Todas frases brillantes; ninguna, claro, dueña de toda la verdad, pero iluminadora, cada una de ellas, de eso tan nítido, y tan difícil de lograr, que es un buen cuento.
¿Cuáles son sus maestros, si los hay? Borges, el escritor más conocido en Italia, ¿sigue siendo un maestro? ¿Fue un maestro para usted?
En el sentido más riguroso del término, mi maestro fue Abelardo Castillo, sin duda uno de los mayores cuentistas de un país de cuentistas notables, como es Argentina, y con quien publiqué, durante 26 años, tres revistas literarias que fueron fundamentales en la literatura argentina. Los que considero mis maestros clásicos son Maupassant y Chejov. Y los que han marcado de una manera singular mi narrativa, son los cuentistas norteamericanos: Saroyan, Hemingway, Cheever, Salinger, Flannery O’Connor, Catherine Porter, Carver. Borges es un maestro, sin duda, Considero que él, Roberto Arlt y Leopoldo Marechal son los escritores fundantes de la literatura argentina.
Usted vivió en Argentina durante el régimen de Videla. ¿Cómo es la vida de un escritor en un país donde no hay libertad?
Según yo lo entiendo, un escritor no espera que el poder de turno le otorgue libertad. Se asume libre y hace uso de su libertad, a pesar y contra ese poder. Si hablamos de escritura a largo plazo, un escritor, dentro de las cuatro paredes de su habitación, es libre de ir construyendo su obra como quiere. En cuanto a la escritura como testimonio y como denuncia, el escritor dispone de una herramienta invalorable para abrirse paso a través de la censura: sabe manejar el lenguaje. La censura no es infalible; lo que silencia a un intelectual es la autocensura. Durante la dictadura militar se desarrolló en Argentina una de las formas más extraordinarias y admirables de lucha contra un régimen dictatorial y asesino: el de las Madres de Plaza de Mayo. Además, hubo durante ese tiempo feroz, acontecimientos como el de Teatro Abierto, solicitadas, talleres de creación y de estudio, revistas culturales. En mi caso particular, además de escribir ficción, fundé, con Abelardo Castillo y Sylvia Iparraguirre, una revista de literatura, El ornitorrinco, en la que no solo se publicó a los nuevos escritores inéditos de Argentina y a una gran literatura nacional e internacional, se reivindicó a intelectuales como Sartre, se publicó, por ejemplo, contextualizándolo, el inquietante cuento de Dino Buzzati “Están prohibidas las montañas”. Además, en los editoriales y los artículos de El ornitorrinco se trataron temas como la represión, la censura y la autocensura, los desaparecidos, los Derechos Humanos, el disparate de dos dictadores –Pinochet y Videla—que querían llevar a nuestros pueblos a una guerra. En síntesis, y sin querer darle a todo esto el menor sentido heroico, creo que, aunque hubo escritores que se sintieron muy cómodos con la dictadura militar, hubo muchos otros que, como pudieron, fueron construyendo lo que considero una resistencia cultural.
Cortázar es, después de Borges, el escritor argentino más conocido en Italia. Yo sé que usted ha tenido una controversia con Cortázar. ¿Puede explicarlo mejor?
Quiero decir, ante todo, que siempre admiré y sigo admirando a Cortázar, y que ha sido para mí una persona entrañable. Lo cual no quiere decir que, ante una circunstancia muy precisa, no haya considerado necesario polemizar con él. Creo, como le dije a Cortázar, que lo bueno de las polémicas es que nadie mata ni muere en ellas, ni siquiera se las ganan o se pierden; permiten una discusión a fondo de ciertas ideas, y eso siempre es enriquecedor. Durante la dictadura, discutir ideas era otro modo de luchar contra la muerte. Básicamente, lo que yo le cuestionaba a Cortázar era que hubiese dicho que, en Argentina, la literatura estaba a aniquilada y que aquellos escritores que teníamos algo que decir debíamos reunirnos con ellos (los escritores exiliados) fuera de la patria. O sea que, además de llamarse a sí mismo “exiliado político”, cosa que no era (se había ido a Francia en 1951 por motivos que, como él mismo explicó en su Diario, no eran políticos), consideraba al exilio, no como una fatalidad sino como una praxis. Fue una polémica extensa y apasionada. Pienso que hoy, luego de casi cuatro décadas, es solo un testimonio de esos tiempos de dictadura. Y que los cuentos de Cortázar siguen tan bellos y perturbadores como siempre.
¿Hay escritores italianos que usted lea con particular intensidad?
Decididamente sí. Hubo escritores que amé desde mi primera adolescencia: Pratolini, Vittorini, Pavese, Calvino, a quienes leí con verdadera devoción. Y a los que, a lo largo de los años, se sumaron Pirandello, Dino Buzzati, Natalia Ginsburg, Moravia, Tabucci, y otros. Una literatura excepcional, sin duda.
¿Piensa que los nuevos medios –pienso en Internet, en las redes sociales—son dañinas o beneficiosas para la práctica de la escritura?
Ningún medio, por sí mismo, es dañino o beneficioso. La cuestión es cómo se los utiliza. Sigo amando el papel, y creo que el libro tiene un formato tan perfecto que difícilmente se podrá superar. Pero claro que recurro a Internet, cuando lo necesito. El problema no reside en Internet sino en lo indiscriminado de lo que ofrece para aquel que no está formado como lector y no está en condiciones de discernir. En cuanto a las redes sociales, no estoy en ninguna; me perturba el exceso de comunicación. Confieso que, de vez en cuando, me encanta estar incomunicada. En cuanto a si afecta la escritura, al menos le da una difusión desmesurada a la mediocridad y a la estupidez. Quiero ser clara: estupideces y mediocridades se han escrito siempre, pero tenían una llegada menos multitudinaria que la actual.
¿Qué disciplina adopta usted cuando escribe?
Ninguna. no soy disciplinada. Hay épocas en las que le doy vueltas a la idea de un cuento o de una novela, anoto cosas, intento comienzos, y no consigo dar con lo que quiero escribir. A posteriori, puedo decir que son períodos necesarios pero, mientras suceden, me resultan inquietantes. Ahora, cuando empiezo a sospechar qué quiero hacer, puedo escribir desde las cinco de la mañana hasta la madrugada del día siguiente. Me ha pasado con muchos cuentos y, más nítidamente, con cada novela. Cuando la tengo agarrada por la cola, cuando empiezo a encontrarle la forma, cuándo vislumbro cómo manejar todo lo disperso que fui acumulando durante largo tiempo, entonces siento que estoy escribiendo todo el día. Aunque en rigor eso no es cierto, aunque puedo interrumpir la escritura varias veces y por diferentes motivos, mi sensación es exactamente esa: que estoy escribiendo todo el tiempo, y que, apenas se resuelva el motivo de la interrupción voy a volver al trabajo con la misma energía y la misma claridad con que lo estaba haciendo. Son épocas privilegiadas. No me suceden siempre.
Ahora, ¿qué está escribiendo?, ¿en qué libro está trabajando?
Ahora estoy trabajando en un libro de no ficción: La trastienda de la escritura. Supongo que el título es elocuente. No voy a ir más allá de ese título porque aprendí que no es bueno hablar de un libro que, aunque en mi cabeza empieza a estar claro, en los hechos sigue en perfecto estado de indeterminación.
L'articolo Liliana Heker: la scrittrice che ha parlato della morte con Borges e ha bacchettato Cortázar proviene da Pangea.
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