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FLORIDIA. “E LA SERA ANDAVAMO AL BAR ROMA”
Cambio di guardia allo storico caffè del Viale. La gestione passa da Salvo Romano a Francesco Romano. La storia continua Oggi il passaggio di consegne fra Salvo e Francesco Romano allo storico Bar Roma: “Sono stati tutti giorni bellissimi – racconta Salvo Romano – e ricorderò sempre con gioia questi anni”. Dal canto suo, la “nuova gestione”, quella di Francesco, assicura continuità…
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“All’epoca frequentavo Robert De Niro, che era a Roma per girare “C’era una volta in America”, il film di Sergio Leone, ed una sera mi chiamò. Mi chiese: -“Gianni, come va? Che hai da fare oggi?”. – Io gli risposi: “Sono con Muhammad Ali stasera, stiamo per andare a cena”. – De Niro sobbalzò e disse: “Con chi è che stai? Cioè, stai andando a cena con Muhammad Ali e non me lo dici? Cioè è il mio idolo di sempre. Io vengo a cena con te stasera Gianni”. Dopo un po’ ricevetti una telefonata di Sergio Leone, per la verità un po’ arrabbiato, e mi disse che De Niro non sarebbe potuto venire perché quella sera avevano un importante incontro per definire alcune scene del film, quindi non si poteva fare nulla. Io gli dissi che in realtà non c’entravo niente, stavo solo andando a cena con Muhammad Alì e Robert si era voluto aggiungere. A quelle parole, Leone disse: – “Cosa??? Cioè tu e Robert state andando a cena con Muhammad Ali e non mi avete detto nulla?”. Volle a tutti i costi accodarsi anche Sergio Leone. A quel punto mi preparai e, una volta pronto, stavo quasi per uscire, ma suonò di nuovo il telefono. Era il premio Nobel Gabriel García Márquez che era a Roma per cenare anche lui con Sergio Leone e De Niro, ma aveva appena appreso che l’incontro era saltato perché c’era una cena con Muhammad Ali. Morale della favola? Ci ritrovammo tutti a cena da “Checco il Carettiere” e mi ricordo che mettemmo tutte le donne da una parte del tavolo e noi dall’altra, perché non volevamo assolutamente farci disturbare; e passammo l’intera serata a fare domande a Muhammad sulla sua carriera e sui suoi match. Ci raccontò tutto. Io, De Niro, Marquez e Sergio Leone ascoltavamo: eravamo tornati tutti bambini”. Gianni Minà https://www.instagram.com/p/CqWL5xjsp33/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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Ieri sera hanno fatto una festa di compleanno sotto casa che è durata fino alle due e mezza di notte, c'era un rumore tipo bidoni che rotolavano che alla fine si è rivelato essere della musica leggera, io non so che musica ascoltano oggi i giovani, mi sembrano tutti dei rincoglioniti, la musica bella era la nostra che ascoltavamo Frank Zappa e Gianni Togni, mica quella di oggi che fa solo rumore. La prossima volta chiamo la polizia, per oltraggio alla sensibilità musicale.
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Non so se troverò mai più una donna con la quale farò l'amore come lo facevo con la mia exragazza.
Una volta abbiamo fatto l'amore d'inverno, poteva essere esattamente un anno fa, in piedi tutti vestiti, al mare, sul marciapiedi di quella casa un po' diroccata, al tramonto. L'abbiamo fatto abbracciati, in silenzio, ascoltando il mare che respirava.
Una volta l'abbiamo fatto d'estate, ma faceva freddo ed eravamo andati in spiaggia, un po' dopo il tramonto. Eravamo vestiti, distesi sotto l'asciugamano perché il vento era forte e c'era tramontana. Guardavamo le prime stelle e ci chiedevamo se si muovessero, ascoltavamo il suono forte del mare in tempesta.
Un'altra volta, anzi tante altre volte, abbiamo fatto l'amore in macchina, toccando con forza i nostri corpi, sentendoli dentro le nostre mani, facendoci anche male, leccandoci le orecchie, il volto, le mani. Sempre vestiti.
Facevamo spesso l'amore così, senza spogliarci. Ora sono molto triste, perché sto provando a ricordare gli altri momenti in cui abbiamo fatto l'amore ma non li rammento. È proprio vero che i ricordi si cancellano quando una scelta ci porta via dal presente. Vorrei piangere, mi manca tanto.
"se ne sono andati via tutti, non c'è più nessun ricordo"... Smette di mancarci chi non si trattiene più neanche nei ricordi, ma mentre io sento di perderli come sabbia tra le dita, mi sforzo per tenerli con me ancora un po' e mi pento di non aver scritto una pagina di diario ogni volta che ho trascorso dei momenti belli con lei.
Occhi umidi, buonanotte
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Oggi ho sognato R., che è stata una di quelle compagne di scuola che mi son portata dietro dalle elementari fino alle superiori. R. mi piaceva perché era sveglissima, i suoi occhi erano lepri sempre leste e pronte a seguire ogni cosa incrociasse il suo sguardo. Ma non era questo a rendermela simpatica, ciò che davvero adoravo di lei era il modo in cui si prendeva cura degli altri. Quando mi invitava a casa sua e studiavamo insieme o guardavano un film o giocavamo a The Sims ricordo che il tempo trascorreva sempre velocissimo e non avevo mai voglia di tornare a casa, cosa rarissima per una bambina timida ed introversa come me. Eppure con R. non parlavamo molto, ma c'intendevamo, ed era questo a farmela sentire casa. Ad esempio: quando mi offriva pane e nutella per merenda portava già due sandwich per entrambe perché sapeva che se ne avesse preparato solo uno avrei voluto ripetere e non avrei saputo come dirglielo. E sembrerà una piccolezza, ma dettagli come questi mi hanno sempre fatto pensare che R. fosse una persona da tenersi vicino, una persona preziosa. Così effettivamente è stato per diversi anni. Addirittura il liceo, io classico lei scientifico, abbiamo finito per frequentarlo nello stesso istituto. Così ogni giorno facevamo il percorso in autobus insieme e, una cuffietta per lei l'altra per me, ascoltavamo per tutto il tragitto Queen, Beatles, Kiss e tutto il rock che potesse passarci per la testa. Ecco, il ricordo più bello che ho con R. penso sia questo: io e lei in silenzio in un autobus sovraffollato di adolescenti che con gli occhi assonnati del mattino o stanchi del rientro da scuola ci sediamo una accanto all'altra, inseriamo le cuffiette e ascoltiamo la nostra musica preferita lasciandoci trasportare.
Cosa ne è stato poi di R.? Gli ultimi anni di liceo e i primissimi di università sono stati difficili. Suo papà, un omone gigante e buonissimo, è entrato in ospedale per una operazione di routine e non ne è più uscito. È stato un calvario lungo che tutti, in qualche modo, speravamo potesse concludersi al più presto. Ricordo ancora quando R. mi chiedeva se pensassi che sarebbe sopravvissuto, se il colore giallastro della sua pelle fosse un segnale certo di infezione oppure no. Mi fece tenerezza quella domanda perché chiaramente io non avevo le competenze mediche per risponderle. Eppure R. me la stava ponendo, nella speranza che ciò che i medici si rifiutavano di dirle per occultare il loro errore potessi restituirglielo io. In ogni caso la rassicurai, con le lacrime agli occhi, dicendole che le cose sarebbero andate per il meglio. Lei sorrise, cambiammo argomento e raggiungemmo le nostre amiche. Poi però la mia predizione non si rivelò vera. Suo papà morì da lì a qualche mese dopo un periodo d'agonia che portò tutti, R. compresa, a desiderare che la morte arrivasse ad alleviare le sue sofferenze. "Gli ho detto ti voglio bene attraverso un vetro perché era in terapia intensiva. C'era un microfono però, lui mi ascoltava. Ha sorriso, non lo faceva da un po', ha detto anche io." Mentre lo scrivo mi si stringe il cuore e piango, come piangemmo io e lei quando mi raccontò questa scena e poi il suo dolore. In realtà non ne parlammo così tanto, come sempre trovammo il modo migliore di starci accanto senza bisogno di troppe parole, e fu un sollievo per me, e fu un sollievo anche per lei, credo.
Ora, da quel periodo in poi ho solo ricordi sfumati. R. andò un anno in Erasmus, anche forse per aiutarsi a dimenticare. Ricordo che ne tornò contenta, con una nuova luce negli occhi, quella che aveva perso nell'ultimo periodo. Poi iniziammo a frequentare persone diverse perché vivevamo ambienti universitari distinti. E nulla, poco a poco i nostri contatti si sono diradati. Senza rimpianti né cattiveria, solo col tempo che come spesso accade allontana due vite fino ad un certo momento legatissime, apparentamente impossibili da slegare. Io poi mi sono trasferita in un'altra città, ho studiato e vissuto lì, fino a quando non ho deciso di partire per l'estero. R. invece so che ha finito gli studi vicino casa e poi si è trasferita per lavoro. Questo è tutto ciò che so di lei. Qualche cenno attraverso i social, anche se non ne ha mai fatto un grande uso (altro motivo di stima).
Perché tutto questo discorso su R.? Perché stanotte ho sognato che una mia amica mi diceva che si fosse sposata. Ed io, anche se mi sentivo strana all'idea di non poterle fare gli auguri senza provare un po' di vergogna o timidezza per il tempo trascorso, provavo una grande felicità. Pensavo: che bello, spero proprio sia innamorata e felice. E quindi mi sono svegliata ed ho pensato a tutto ciò che mi ha legato ad R. ed al fatto che anche se ora più nulla apparentemente ci lega per me è un ricordo felice tutto il tempo trascorso con lei e mi auguro e mi augurerò sempre che lei possa essere felice, vivere la migliore vita possibile, portare i suoi occhi-lepre in giro per il mondo e far sua ogni bellezza, ogni piccola gioia.
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mi devo smuovere, mi rendo conto che il mio cervello è ancora bloccato lì, dentro quella casa, in quelle situazioni; la mia mente ripercorre quei momenti e mi sento strano, come se mi mancasse quella vita anche se io odiavo quella vita, infatti mi manca ma mi disgusta altrettanto. stavo riguardando fotografie, guardavo la mia faccia, i miei occhi e il mio volto e mi sono reso conto che io non c'ero li, in quelle fotografie. mi sono reso conto che mi manca avere degli amici ma non mi manca quella vita, non mi manca drogarmi, non mi manca stare chiuso ore di notte e di giorno in casa a fumare, non mi manca vedere gli amici con cui sono cresciuto farsi e farmi con loro, non mi manca infilarmi in quelle storie in cui finivo sempre per darmi del coglions, sapevo di starmi rovinando e mi sono rovinato, ancora di più di quanto non abbiano fatto le persone intorno a me a quei tempi. ma allora perché ci rimango così aggrappato? cosa mi manca? mi manca organizzarmi con loro per fare quelle cose da amici e non da tossici, mi manca andare alle cascate con loro o di organizzare una grigliata durante una giornata di primavera, mi manca andare in mezzo ai pereti e le vigne sempre a fare le grigliate e a bere vino e a ridere mentre ci ascoltavamo quinto dan di Inoki, mi manca dor mmm ire in spiaggia e guardare l'alba la mattina, mi manca partire di notte anche se il giorno dopo si lavorava per andare al lago di Garda, per poter fumare in compagnia della luce arancione dell'autostrada e sentirci liberi, liberi di evadere, liberi cazzo ma da cosa non si sa. mi manca andare a ballare con voi, di abbracciarvi, di sorridervi di sentirmi al sicuro soltanto vedendovi. mi mancate, mi manca mio fratello, mi manca anche mio padre e mi manca anche mia madre nonostante io ci viva insieme a lei, mi mancano non perché stavo bene insieme a loro nella stessa casa, quella casa era a tutti gli effetti l'inferno. non riesco e non mi va neanche di parlarne ma mi manca avere una famiglia e sentirmi in una famiglia, cosa che ormai non sento da troppo, tra poco sono 10 anni; mi manca tattoo, mi manca jack e soprattutto mi manco io. So che mi sono perso da tanto, so che non ci ho neanche provato a ritrovarmi per altrettanto tempo, so che sono riuscito a distruggermi sempre di più, e stavo male sempre di più e ora che vi vedo praticamente mai a volte penso che preferirei quel caos a questa pace ma soltanto perché in quel caos io non ho mai imparato a stare con me stesso, da solo ed ora sto male cazzo perché mi sembra di non riuscire a vivere. Ogni volta che rimanevo solo mi sentivo morire, mi ricordo tremavo nel letto per ore prima di riuscire a dormire. mi sentivo intrappolato nel mio corpo, impotente e sbagliato e non vorrei mai tornare indietro no ma vorrei che fosse andata diversamente, vorrei riuscire ad usarla e non demolirla questa mente e vorrei vorrei vorrei
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Lo spettacolo sta finendo. É l’ultima serata, non si replica. Vorresti replicare, aggiungere nuove scene, nuovi dialoghi, eliminare i nuovi attori, restare in scena in due, raccontare al pubblico che tutto quel che è stato raccontato era ed è tutto sbagliato, che lo sceneggiatore era impazzito, il suggeritore aveva invertito le battute, che non sentivamo bene, che non ascoltavamo bene, recitavamo da cani, ci arrabbiavamo da cani. Tutto scritto al contrario, tutto recitato sbagliato. Io non vorrei più recitare, vorrei dire a tutti come stanno davvero le cose, che solo io conosco i tuoi pensieri, la delusione per la vita, le gioie mancate. Ma non si va più in scena, il pubblico è svanito. Nessun diritto alle repliche. Ma la vita va avanti. Un nuovo spettacolo andrà in scena. Ma ora giù il sipario!
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Il cugino che viaggiava
La stanza odorava di pulito, come dev’essere per una stanza d’ospedale. Quando entrai, Roberto era intento a richiudere il barattolino dell’omogeneizzato e a liberare il tavolino da letto col quale aveva tentato ancora una volta di spingere il padre a ingurgitare un mezzo cucchiaino almeno. Si avvicinò per salutarmi e quasi contemporaneamente gli si rivolse per annunciargli la mia presenza, con la voce alta e il tono ostentatamente sorridente, come si fa in questi casi con i malati, ma con l’aria di chi non si aspetta una risposta. Mi avvicinai anch’io, in piedi dall’altra parte del letto. Era quello di sempre, a parte la smorfia sul lato sinistro della bocca. Meno male che gli avevano fatto la barba, sarebbe stato troppo diverso dal solito sennò. Come possono passare per la mente interi scaffali di ricordi ordinati e puliti come le confezioni del supermercato, il tutto solo nei pochi secondi che stetti zitto? Eppure passarono tutti, in quei pochi secondi. Innanzitutto, il racconto che mi avevano fatto i miei del mio battesimo. Sono nato nell’anno santo, il 1950, quando le paure della guerra si erano stemperate in un principio timido di benessere che altro non era se non la possibilità riacquisita dopo mesi o anni di avere di nuovo la pasta e il pane a tavola, il quaderno per la scuola dei figli più grandi che già ci andavano, la radio che si ascoltava ormai liberamente e allegramente e qualche altra cosa ancora. Era anche la possibilità di fare, nel cortile del palazzo, un rinfresco di taralli e vino per il battesimo dell’ultimo nato. Così fu per me, l’ultimo dei figli e l’unico ad avere questo privilegio. Privilegio dicevano i miei, anche se mi chiedevo dove fosse il privilegio visto che la festa era per me ed io non ero in grado di capire quello che succedeva. Alla festa nel cortile suonò lui, Giggino, con il suo sassofono e il suo clarinetto. Suonava tutto sommato in mio onore, e per me fu la prima di una lunga serie di occasioni, tutte perdute, per ascoltare la sua musica. Già allora viaggiava. L’ho conosciuto da bambino così, come il primo dei due cugini che viaggiavano. L’altro, Tonino, s’imbarcava ripetutamente su petroliere e bananiere come sottufficiale meccanico di bordo. Da bambino ero ammirato di questi due cugini, tanto che di uno di essi, Tonino, feci il protagonista di un tema in prima media. Quando erano a terra non mancava la visita agli zii, e uno raccontava di Cina e d’Australia, l’altro, Giggino appunto, di Tenerife, di Beirut e di Turchia, ed era per noi quello più affascinante perché raccontava stralci di vita in crociera, dove – diceva – chi suonava doveva saper suonare tutto, dalla canzone napoletana a quella melodica italiana, al jazz, alla musica classica, all’opera lirica. Apparentemente e furbamente distratti, noi bambini ascoltavamo anche quando raccontava delle donne che “portava in cabina”. Poi Giggino si sposò. Anche il suo matrimonio sapeva di eccezionale: la moglie spagnola, sposata in Turchia, il primo figlio nato lì, in Turchia. E il nostro scherzare su quel bambino, di tre paesi insieme, turco spagnolo e italiano: che festa di mescolanze di nazionalità, di lingue, di origini! Resta tra le immagini più belle quella di Roberto che, quando ci vennero a trovare la prima volta tutti e tre, camminava dritto dritto sotto il tavolo: piccolo com’era camminava già, ma la sua modesta altezza gli consentiva di starci in piedi, sotto il nostro tavolo. E quale fu la mia meraviglia quando, temendo che urtasse, feci per prenderlo ma mi accorsi che non urtava! La nostra vita intanto procedeva, e evidentemente anche la sua con la nascita del secondo figlio e i suoi ritorni periodici dagli imbarchi, dove continuava a suonare ed affinava le sue tecniche col clarinetto: sempre da autodidatta, perché alle spalle aveva solo un periodo di studi con un maestro privato ma non aveva mai potuto iscriversi al Conservatorio, né prima, quando doveva cercare lavoro, né poi, quando doveva mantenere la famiglia. Eppure Giggino era un artista. Io ho sempre pensato che se avesse potuto sarebbe diventato famoso. Aveva la curiosità, quella molla che fa scattare lo studio, e si provava in tutte le arti che incontrava per caso. Una volta mi parlò di un racconto che aveva scritto e che voleva pubblicare, rinunciandoci dopo aver sperimentato le pretese di una casa editrice; a casa nostra per anni è stato appeso al muro un cartone incorniciato nel quale scherzavano fra loro precisissimi arzigogoli geometrici fatti con la china. Quando, verso i miei 18 anni che compivo nel 1968, volli imparare a suonare la chitarra seguendo la moda dei miei amici, venne una volta ad ascoltarmi col mio gruppo e poi, su mia insistente richiesta di un suo giudizio, con delicatezza mi fece capire che non era un gioco facile, che suonare richiedeva una predisposizione e una volontà che dovetti poi ammettere fra me e me di non possedere. Le sue visite continuarono sempre nel tempo, anche a casa mia dopo la morte dei miei genitori. Gli facevo leggere alcune mie timide poesie, e lui le chiedeva per studiarle e farle diventare canzoni. Ne abbiamo fatte quattro o cinque di canzoni, e lui le depositava per i diritti d’autore, incitandomi ad iscrivermi anch’io alla SIAE, cosa che non ho mai voluto fare perché mi sembravano poca cosa. Musicò anche alcune fra le mie traduzioni dialettali da Catullo, lui che non conosceva Catullo ma che lo comprendeva benissimo attraverso quelle mie versioni. Ha creduto più lui in me che io. Quando fra un viaggio e l’altro veniva a farmi visita, spesso mi portava delle modeste somme, che accettavo riluttante solo dopo molte sue insistenze, e che erano la metà dei proventi delle sue canzoni scritte su testi miei e che aveva fatto mettere in programmazione in vari locali da amici che aveva in Sicilia, in Campania e non so dove altro ancora. E poi i figli grandi, lui nonno, e, fedele a se stesso, nonno civico, come mi raccontò, che guidava i bambini ad attraversare la strada la mattina. Ecco, il volontariato era il suo vero destino in quella vecchiaia che arrivò senza che ce ne accorgessimo, vitale e giovane com’era. Ed ora la notizia, che stava male… Tutto questo, incredibilmente, durò tre o quattro secondi al massimo, il tempo di accostare la mia faccia alla sua per dirgli: “Giggì, come va?”, domanda che ne nascondeva un’altra, quella vera: -Mi hai riconosciuto? Non reagiva agli stimoli, diceva Roberto. Non pareva che riconoscesse nessuno, o se riconosceva non lo dava a vedere. Alla mia domanda, però, aprì il lato sano della bocca in un sorriso. Gli sorrisi anch’io, dissi ancora qualcosa, poi, di là, ascoltai da Roberto il racconto dettagliato del suo calvario. Poi me ne andai, con la contentezza di non averlo perduto. Ancora no. Foto di Lia Aurioso per Cinque Colonne Magazine Read the full article
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[✎ TESTO ♫ ITA] 2 Cool 4 Skool - BTS⠸ ❛ Skit : Circle Room Talk ❜⠸ 12.06.13
[✎ TESTO ♫ ITA] BTS
❛ Skit : Circle Room Talk ❜
⟭⟬ Sketch : Chiacchiere in Cerchio ⟭⟬
__💿2 Cool 4 Skool , 12. 06. 2013
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SUGA: Quel periodo era pazzesco, credetemi
JungKook: È ciò che ho sentito dire anche io
SUGA: “Fly” [degli Epik High] era così...
RM: Il video musicale era fantastico
SUGA: La camicia bianca con la cravatta rossa, avete idea di quanto fossi in fissa con quel look, quando ero alle medie, grazie a quel video?
Jimin: Ah, però non-
V: Non ti si addice, hyung, però..?
Jin: Hey, la campanella – andiamo!
J-Hope: Ah, perché menzionare la campanella, oggi saltiamo [lezione]
Jimin: Perché fai così? Dài!
V: Ah, proprio quando si stava creando una bella atmosfera!
SUGA / J-Hope: Saltiamo, possiamo tagliare!
V: Io non ho intenzione di andare!
SUGA: Beh, e quindi? Rap Mon, continua con ciò che stavi dicendo degli Epik High!
RM: Sì. Quindi, non appena ho sentito quella traccia, ho iniziato a rappare. Cioè, letteralmente, con “Fly” mi sembrava di volare!
SUGA: Anche questo vostro Suga-nim ha iniziato a rappare dopo aver ascoltato quel brano ~
RM: Proprio nello stesso modo. È stato così per tutti, sul serio!
SUGA: Ad ogni modo, in quel periodo andava così per tutti ~
RM: E mentre noi ascoltavamo “Fly”, che cosa faceva il nostro Hope-y Hope?
J-Hope: A differenza dei nostri rapper, io andavo matto per il ballo!
Jimin: Ovviamente ~
J-Hope / RM: Nato col ballo nel sangue-
J-Hope: Sono nato per essere un ballerino. Scommetto che era lo stesso anche per Jimin!
Jimin: Ovvio che sì. C'è nessun altro, tra noi, che sognava di imparare la danza classica?
RM / J-Hope / V: Nessuno!
V: No, nessuno, (*ironico) va via!
RM: Quell'istante di silenzio [dopo la tua domanda] non ti ha detto nulla?
Jimin: Nemmeno uno di voi?
RM: Non sapevamo bene come risponderti
Jimin: Sì ma è stato proprio solo un istante di silenzio
J-Hope: E Taehyung, qual era il tuo sogno?
V: Ho studiato il sassofono per tre anni
J-Hope: E perché non lo suoni più?
JungKook: Il sassofono?
V: Ah... Perché mi fa(ceva) male la bocca
SUGA: Ah, perché ti fa(ceva) male la bocca? Aww.. ti fa(ceva) tanto male?
RM: Suoni molto falso, lo sai, sì?
V: Sì, perché mi fa(ceva) male la bocca
SUGA: Doveva farti proprio tanto male (*sarcastico)
Jimin: (*ironico) Hai una bocca incredibile
RM: Mi fa male il cuore [*a sentire questa battuta]
J-Hope: E il nostro Jin hyung? Qual era il tuo sogno?
Jin: Io? Beh, il mio sogno era vivere come mio padre: uscire di casa alle 7 del mattino e rientrare alle 6 di sera [dopo lavoro] e mangiare la cena preparata da mia moglie
J-Hope: Oh, davvero il massimo ~
V: Wow, sul serio, è-
RM: Sì, anche io. C'è stato un periodo [della mia vita] in cui pensavo quello fosse il massimo possibile.
SUGA: Beh, a me sembra questo [*fare musica / stare insieme] il massimo
RM: Non l'hip-hop o cose simili
Jimin: Incredibile
RM: A cosa serve l'hip-hop, quando quello [*una vita da impiegato regolare] è il massimo [che si possa desiderare]?
Jimin: Ma non puoi disfarti dell'hip-hop così, hyung!
SUGA: L'ha buttato sotto il tram senza esitazioni!
RM: Hey, così è come se insultaste mio padre! [*per converso, dicendogli di non svalutare l'hip-hop]
Jimin: Perché te ne stai disfando così?
RM: Hey, no! Non insultate mio padre!
SUGA: JungKook, qual era il tuo sogno?
JungKook: Io? Ah... Non me lo ricordo...
Insegnante: Razza di ragazzacci, cosa pensate di fare? Non andate a lezione?!
RM / SUGA / V: Ah, quanto urla!
Insegnante: Ah, dovrei veramente fare qualcosa, sciogliere questo club. Razza di impertinenti!
Jimin / J-Hope: Stiamo andando [a lezione]
Insegnante:Andate!
BTS: Ora andiamo, ora andiamo! / Ci scusi ~ / Sì signore! / D'accordo
Jin: Visto? Ve l'avevo detto che dovevamo andare!
⠸ ita : © Seoul_ItalyBTS | eng: © BTS_Trans⠸
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Non ti meriti che neanche per sbaglio ti dedichi un post qua, ma anche se non ci parliamo e non ti meriti niente da me, un po’ mi manchi e non lo sai. Ti odio perché non ci sei e per te tutti i momenti con me evidentemente non hanno avuto importanza. E mi chiedo come sia possibile dato che sembravi sincero, forse più sincero di me. Mi aspetto un qualcosa da te, te che ti ricredi e mi cerchi ma so e ho la conferma che non lo farai. Tu non mi vuoi e mi dispiace perché in te, in noi, un minimo ci credevo. Ed era da anni che non lo facevo. Non so dove sei, non so se ascolti qualche canzone che solo io e te ascoltavamo e per sbaglio ti vengo in mente. Lo vorrei tanto ma so che questa cosa succede solo a me. Ti penso durante la giornata, a volte forse un po’ troppo. Te ne sei andato, male e senza un perché. O meglio al perché ci sono dovuta arrivare da sola. Ma nonostante tutto, nonostante i sorrisi, le risate, le cazzate, le cose serie fatte con te, tutto mi manca come l’aria. Dopo tanto ero felice di stare con qualcuno e hai rovinato tutto. Che ci sta eh, ma non come è successo tra noi. Meritavo qualche spiegazione in più, qualche scusa in più, un saluto di addio. Ma in ogni caso mi manchi Giacomo. E vorrei non fosse così
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La mia generazione guidava senza casco, senza cinture, pagava cash, non era connessa, andava in autostrada a 180 Km/h con gioiellini turbo, che altro che, le auto a pile.
I locali chiudevano alle 2 e alle 3 di notte stavamo in qualche paninoteca a farci un panozzo, fare le cinque solo se c'era da guzzare…
Andavamo in bicicletta su due ruote e in motorino spesso con una sola, oggi vedo “uomini” che guidano il monopattino elettrico con i piedi nella posa del pliè da perfetta ballerina di danza classica e l'espressione col mento orgogliosamente in alto come se fossero gladiatori alla guida di una biga, che diciamolo fate atrofizzare le ovaie a ogni milf che incrociate.
Se nevicava era un modo per divertirci, da bambini con sacchi dell’immondizia sotto il culo in ogni scarpata, se maggiorenni a fare i “traversi” al piazzale dell’Esselunga…Senza caschi, ginocchiere, salva palle…
Ogni famiglia aveva una casa di proprietà o in affitto ma era mantenuta con ordine e dedizione e il vicino ara un amico, non un estraneo… Si andava in vacanza due settimane e ci sdraiavamo sul bagno asciuga il lettino era da vecchi…
A 10 anni la biciletta che ti dava l’indipendenza poi il motorino a 14 a 16 il patentino e i più temerari in vacanza in tenda sul Garda, a 18 anni, la prima auto e la libertà di andare dove cazzo volevamo, la priorità era avere un auto non Che Auto…
L’Auto che diventava il primo letto "prematrimoniale" con buona pace dei sedili e la cura di chi mette i giornali sui finestrini nell’immancabile camporella alla foom…
Siamo ancora tutti vivi, e molti di noi hanno procreato voi.
Aprite gli occhi. NON VIVETE in un mondo migliore. Vi hanno portato via tutto il reale, e vi hanno dato in cambio un “metaverso“ ovvero un insieme di mondi virtuali e reali interconnessi, popolati da avatar tutto finto, in cui potete fare quello che dice il padrone e non di più.
Vi hanno convinti che lo Stato dice la verità. Noi non ci abbiamo mai creduto. In questi anni hanno creato un mondo di merda e vi stanno raccontando che è migliore del precedente, ebbene, sono cazzate. E sono cazzate che VOI subirete per tutta la vostra vita, se non la smettete di fare gli appecoronati alle ideologie politiche.
Non esisteva allora, né esiste adesso la "mascolinità tossica", non eravamo timidi, inadatti, l'uomo aveva certi doveri maschili dati dalla sua maggiore corporatura e NON ESISTEVA che dovesse farli la donna, perché l'uomo era intento a sfinarsi le sopracciglia, era cortesia non superiorità, del resto noi le donne le proteggevamo.
Al ristorante l'uomo invitava e l'uomo pagava. Senza supposte idiozie sulla parità di genere che non era certo "chi paga al ristorante" o "chi spacca la legna in cantina". Le donne giravano in gonna e senza reggiseno, senza venir violentate nel primo vicolo da gente SENZA PASSAPORTO!! Ascoltavamo cantanti di qualunque orientamento sessuale o colore della pelle, perché ci piaceva la
loro musica e non con chi andavano a letto… E la musica la pagavamo, ci facevamo un Lp al mese e ce lo gustavamo… la parola fascista la sentivi raramente forse in qualche corteo di protesta, al Marocchino che entrava al bar con tappetti e accendini, gli si dava la balla, e magari gli si pagava un panino e spesso ci soffermavamo a sentire le sue storie non lo prendevamo a legnate con il bastone.
La compagnia non era il branco, anzi spesso la compagnia prendeva provvedimenti su chi le combinava grosse e cercava di farti ragionare… La sera in discoteca si beveva perché non avevi rimorchiato e non sapevi che fare non come oggi che bevete per rimorchiare e poi siete talmente rincoglioniti che non riuscite a concludere perché vomitate…
Già..stavamo meglio noi....
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Caro Roberto,
Da quando non ci sei più ho messo a posto la testa e mi sono data delle regole, come: non supplicare o elemosinare attenzioni, niente stupide ripicche, niente messaggi inutili e altri mille propositi che non posso prometterti riuscirò a rispettare.
Uno di questi ultimi è quello di scrivere tanto, tutte le lettere e i testi che mi pare, ma senza inviarli. Numero di lettere concesse: 1, per questo devo fare attenzione a scegliere con cura le parole da usare.
É finita, me lo hai detto tu. Qualche giorno senza sentirti e ora vedo tutto più chiaramente.
Se ripenso a come ho reagito quel giorno mi picchierei da sola, rispetto la tua scelta e mi spiace che tu abbia dovuto assistere a quella scena pietosa. Potevo decisamente andarmene con molta più dignità, perché per quanto possa fare male non si può obbligare una persona a rimanere.
Ora che ho messo la testa a posto e vedo le cose con lucidità, mi sono resa conto che in fondo non eravamo poi così speciali come credevamo, perché se lo fossimo stati non ci saremmo fatti del male, e che forse hai ragione tu, magari non ci amavamo più da tempo e non l’avevamo neanche capito.
Non fraintendermi, speciali lo siamo stati eccome, mi basta pensare alle serate passate nel pandino sotto la pioggia mentre ascoltavamo la musica a tutto volume, alle volte in cui senza dirmi niente ti presentavi sotto casa mia solo perché morivi dalla voglia di vedermi, al modo in cui ci guardavamo ogni volta che qualcuno diceva qualcosa di divertente o alle farfalle nello stomaco ogni volta che ci baciavamo. Non so perché ma in questi giorni mi é riaffiorato questo ricordo di te che mi chiami, quando ancora ero a Belfast, canticchiando felice in macchina “la tata torna presto” o qualcosa di simile, e mi si scalda il cuore.
Poi però penso all’ultimo periodo, l’ultimo mese più o meno, e a come spesso e volentieri non mi sentissi capita, come se non valessi più il tuo tempo, mentre tutto ciò che volevo io era stare con te e non pensare a nulla se non a guardarti. Sono certa che a quel punto già ci fossero altri problemi, magari anche per colpa mia, ma non lo saprò mai, perché nonostante te lo chiedessi ogni giorno, non hai mai trovato il coraggio di affrontarli.
Mi dispiace per tutto quello che è successo, per i miei errori, perché ho detto di amarti e poi ho agito come se tu non ci fossi, e per i tuoi di errori, perché non sei stato in gradi di capire i miei bisogni.
Quando ho perso te ho perso tutte le certezze che avevo, già ragionavo per due, e pensavo a tutte le cose che avremmo potuto fare insieme una volta finito il lockdown. Volevo organizzare viaggi, vedere Parigi, andare ai concerti, andare a ballare, invitarti fuori a cena, fare lunghi giri in moto, imparare a guidare bene la barca per portarti in giro e fare l’amore nei luoghi più impensabili. Avrei voluto portarti in tanti posti, ma ormai non ci siamo più.
E ora ti odio da morire. Ti odio per la tua indifferenza. Perché se quella domenica mi avessi urlato contro, mi avessi guardato negli occhi o anche solo mi avessi dato l’abbraccio che meritavo, almeno avrei capito che te ne fregava qualcosa di me.
Non fraintendermi, con questo non intendo dire che tu non ci sia stato male, ti conosco abbastanza ormai, ma la differenza è che non sei mai stato capace di farti vedere debole davanti a me. Esageri un po’ con le birre, magari prendi a pugni qualche porta, ma renderti vulnerabile davanti a qualcun’altro proprio non ce la fai.
Fa male da morire perché non ti sei domandato come mi sentissi io, perché non hai mai chiesto ai miei amici come sto, non hai mai passato una serata a casa a chiederti cosa stessi facendo io in quel momento, che canzone stessi ascoltando o a cosa stessi pensando.
Non hai mai avuto l’istinto di scrivermi? Di chiedermi come sto? Se mangio e se continuo a lavarmi i capelli regolarmente? Io ci ho pensato almeno un milione di volte ma mi sono fermata, so che mi risponderesti solo che va tutto bene e che hai bisogno dei tuoi spazi, e io non so se potrei sopportarlo. E allora lo chiedo a tutti i tuoi amici, mentre aspetto che sia tu a scrivermi un semplice “come stai?” e che ti senta pronto per dirmi come ti senti, e invece niente.
Dimmi che non sono così facile da dimenticare come il tuo silenzio mi fa sentire.
Speravo che la fine arrivasse un po’ più tardi, anche di un solo minuto, una sola ora, un solo giorno. Vorrei non averti spinto a dirmi “ti lascio”, ma so che se non lo avessi detto domenica, le cose sarebbero solo peggiorate e probabilmente sarebbe successo comunque. Perché io incasino sempre tutto, anche le cose che mi fanno stare bene, e non perché non siano abbastanza, ma perché spesso sono io quella che non si sente abbastanza.
So che adesso devi sembrare freddo e orgoglioso, ma sappi che non c’è niente di sbagliato nell’esprimere le proprie emozioni e farsi vedere deboli di fronte a chi ti vuole bene. Parla con i tuoi amici, con la tua famiglia, con la psicologa, non sentirti mai un peso, perché sei circondato da persone che a te ci tengono tanto. Se hai paura di non essere capito, o addirittura giudicato, “tu chiamami se senti i mostri, che se ci sto ti vengo a prendere, nonostante tutto” come direbbe Gemitaiz, perché nonostante non siamo più quelli di una volta, ciò che ti ho promesso per me resta vero, io rimango sempre un porto sicuro per te, in cui puoi essere te stesso al 100% e non verrai mai giudicato, questo voglio che sia chiaro.
Comunque andranno le cose io sarò sempre la tua cheerleader, la tua più grande fan. Non ti augurerò mai il male, anzi, ti auguro di lottare e (più avanti) di ricominciare ad amare, senza bisogno di accontentarti. Spero che troverai qualcuno che sappia darti ciò in cui io ho sempre fallito, o che impari a stare bene anche senza. Prego che tu sia felice almeno la metà di quanto io lo sono stata insieme a te.
Mi distrugge pensare che lentamente diventeremo sconosciuti, che ci dimenticheremo del profumo dell’altro e delle nostre espressioni facendo l’amore. Quella camera non sarà più il nostro angolo di intimità e presto ti scorderai del mio corpo, delle mie curve e dei miei nei, e magari un giorno io scorderò i tuoi tatuaggi e le cicatrici che tanto ho amato.
Non saremo più Roby e Laura, la gente non ci guarderà più con invidia, mia mamma smetterà di fare la spesa anche per te e mio papà sarà felice di non dover mai fare le presentazioni ufficiali. Tutti quelli che ci conoscono avevano puntato tutto su di noi, ma forse alla fine siamo stati proprio noi quelli che non ci hanno creduto abbastanza.
Non sopporto l’idea di averti perso, un po’ per volta però so che mi passerà, giorno dopo giorno il dolore diminuirà, la mancanza svanirà e i ricordi non mi faranno più piangere, e forse quando questo succederà potremo addirittura essere amici.
So che tu non credi nell’amicizia tra ex e che ti sembra la cosa più sbagliata del mondo, ma io invece credo che l’errore più grande che due persone che si sono volute bene come noi possano fare sia quello di diventare sconosciuti, di comportarsi come nulla fosse e magari iniziare a parlare male dell’altro alle spalle.
Non dico oggi, non dico domani, e neanche tra un mese, quando sarà il momento lo sapremo, magari quando tornerò dalla Spagna, visto che non mi verrai a trovare. So che funzionerà e che non sarà nulla di strano se anche tu lo vorrai.
Avevamo idee diverse sull’amore è vero, ma ti ringrazio per tutti i ricordi che rimarranno per sempre. Non era il nostro momento e va bene così.
Spero che dopo aver ricevuto questa lettera mi chiamerai, o mi manderai almeno un messaggio, per farmi sapere che l’hai letta, cosa ne pensi e, se te la senti, anche per dirmi come stai o semplicemente per fare due chiacchiere.
Anche se non te ne accorgi io sono lì con te a tenerti per mano.
Per sempre dalla tua parte.
Laura
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Da Ettore Merenda, a tutti ma in particolare ai ragazzi di oggi.
La mia generazione guidava senza casco, senza cinture, pagava cash, non era connessa, andava in autostrada a 180 Km/h con gioiellini turbo, altro che le auto a pile.
I locali chiudevano alle 2 e alle 3 di notte stavamo in qualche paninoteca a farci un panozzo, fare le cinque solo se c'era da guzzare…
Andavamo in bicicletta e in motorino con una sola ruota, oggi vedo “uomini” che guidano il monopattino elettrico con i piedi nella posa del pliè da perfetta ballerina di danza classica e l'espressione col mento orgogliosamente in alto come se fossero gladiatori alla guida di una biga, che diciamolo fanno atrofizzare le ovaie a ogni milf che incrociano…..
Se nevicava era un modo per divertirci, da bambini con sacchi dell’immondizia sotto il culo in ogni scarpata, se maggiorenni a fare i “traversi” in un piazzale e senza caschi, ginocchiere, salva palle…
Ogni famiglia aveva una casa di proprietà o in affitto ma era mantenuta con ordine e dedizione ed il vicino era un amico, non un estraneo… Si andava in vacanza due settimane e ci sdraiavamo sul bagno asciuga, il lettino era da vecchi…
A 10 anni la biciletta che ti dava l’indipendenza poi il motorino a 14 a 16 il patentino e i più temerari in vacanza in tenda sul Garda, a 18 anni, la prima auto e la libertà di andare dove cazzo volevamo, la priorità era avere un auto non che auto…
L’Auto che diventava il primo letto "prematrimoniale" con buona pace dei sedili e la cura di chi mette i giornali sui finestrini nell’immancabile camporella…
Siamo ancora tutti vivi, e molti di noi hanno procreato voi.
Aprite gli occhi. NON VIVETE in un mondo migliore. Vi hanno portato via tutto il reale, e vi hanno dato in cambio un “metaverso“ ovvero un insieme di mondi virtuali ed irreali interconnessi, popolati da avatar tutto finto, in cui potete fare quello che dice il padrone e non di più.
Vi hanno convinti che lo Stato dice la verità. Noi non ci abbiamo mai creduto. In questi anni hanno creato un mondo di merda e vi stanno raccontando che è migliore del precedente, ebbene, sono cazzate. E sono cazzate che VOI subirete per tutta la vostra vita, se non la smettete di fare gli appecoronati alle ideologie politiche.
Non esisteva allora, né esiste adesso la "mascolinità tossica", non eravamo timidi, inadatti, l'uomo aveva certi doveri maschili dati dalla sua maggiore corporatura e NON ESISTEVA che dovesse farli la donna, perché l'uomo era intento a sfinarsi le sopracciglia, era cortesia non superiorità, del resto noi le donne le proteggevamo.
Al ristorante l'uomo invitava e l'uomo pagava. Senza supposte idiozie sulla parità di genere che non era certo "chi paga al ristorante" o "chi spacca la legna in cantina".
Le donne giravano in gonna e senza reggiseno, senza venir violentate nel primo vicolo da gente SENZA PASSAPORTO!!
Ascoltavamo cantanti di qualunque orientamento sessuale o colore della pelle, perché ci piaceva la loro musica e non con chi andavano a letto… E la musica la pagavamo, ci facevamo un Lp al mese e ce lo gustavamo… la parola fascista la sentivi raramente forse in qualche corteo di protesta.
La compagnia non era il branco, anzi spesso la compagnia prendeva provvedimenti su chi le combinava grosse e cercava di farti ragionare… La sera in discoteca si beveva perché non avevi rimorchiato e non sapevi che fare non come oggi che bevete per rimorchiare e poi siete talmente rincoglioniti che non riuscite a concludere perché vomitate…
Già..stavamo meglio noi....
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25 Settembre 1980
Non avevo neanche 8 anni ed ero ignaro del mio destino che si andava a delineare negli anni successivi, ma quel maledetto giorno moriva un batterista unico, inimitabile e che ha dato allo strumento una vivacità che nessuno prima di lui era riuscito. John Henry Bonham, noto anche come Bonzo, era e resterà per sempre il Batterista (con la B cubitale) di una della band che è entrata nella storia della musica di prepotenza ed è resta ancora oggi un valido esempio di come si suona e di cosa vuol dire avere una band, I Led Zeppelin. Nonostante le nuove generazioni spesso non li conoscano, non parlo di questo quindi fottetevi hipster di merda, ma ci sono comunque una folta schiera di appassionati anche tra i millenials che godono di questa magnificenza musicale come tanti in passato compreso me. Dopo qualche anno iniziai le lezioni di chitarra classica, ma un giorno insieme a mio cugino (che non è una frase per far ridere) ascoltammo una cassettina dataci dal fratello, che è anch'esso mio cugino, era il 1984, se non erro, e la cassetta conteneva due album dei Led, restammo ad ascoltare con la bocca aperta tutta la cassetta e ogni tanto ci guardavamo nei momenti più salienti dei brani. Alla fine esclamammo wow, ascoltavamo per lo più musica classica e band del momento U2 in testa, il periodo era quello, ma quello che sentimmo ci cambiò la vita completamente. Mi feci fare una copia e tornato a casa la ascoltai per i mesi estivi a seguire cercando in qualche modo di riprodurre almeno parte dei brani con la chitarra. Arrivato davanti al maestro a settembre sentivo che stavo perdendo tempo dietro a quei brani classici didattici e il mio maestro, che era uno che ne sapeva, se ne accorse subito dopo un paio di lezioni e mi chiese se avessi perso interesse nel suonare la chitarra, assolutamente no, risposi, ma vorrei fare altro, sto ascoltando i Led Zeppelin e sono rapito dalle loro frasi musicali (adesso dette riffs) e dalle canzoni che hanno come una magia dentro, ma non saprei cosa. Si mise a ridere e mi disse che quella band aveva rapito milioni di persone in passato, ma che con la morte del batterista aveva chiuso lo scrigno delle magie, vuoi suonare rock? Mi esclamò guardandomi con un sorrisino ammiccante, beh se non è così difficile, devi prima imparare il blues che è la base della musica moderna, ok. Dopo quasi un decennio e alcune band più o meno decenti, in adolescenza si sa si suona per impulso e rabbia ma spesso non si ha il concetto di suonare in gruppo, quindi è facile cadere in errori banali, ma passata questa fase ebbi l'opportunità di suonare la batteria, strumento che mi è sempre piaciuto tantissimo e che suonavo ogni volta che potevo nelle sale durante le prove. Ma non avevo il concetto di suonare come batterista in una band, cioè fare da riferimento ritmico. Mi misi a studiare come un matto, tutti i giorni, 2-3-4 ore al giorno, stick control, rudimenti passati da amici che avevano studiato la batteria, ma quando mi sedevo allo strumento sentivo che c'era qualcosa che non andava, si i tempi li suonavo bene precisi a metronomo e non sbavavo nei passaggi, adesso detti fills, allora mi ricordai che c'era una band con un batterista eccezionale, Bonzo. Inizia a riascoltare tutti gli album ma non come chitarrista, ma come batterista, ho scoperto che non è per forza detto che in una canzone devi fare il metronomo e che non per forza i tempi degli spartiti degli strumenti debbano coincidere, e poi quei colpi di pedale così veloci, diventò una sorta di sfida, un ossessione, devo riuscire ad eseguirli. Adesso che sono passati tanti anni e che ho suonato come batterista in svariate band e come session nel Max Studio di Bow a Londra, lo devo solo ad una persona, John Henry Bonham. Qua il grande Dado spiega la sua grandezza, ma ci sono milioni di video dedicati a lui, semplicemente perchè era il Martello degli Dei.
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Episodio 3 - La fisarmonica
La verità è che già a otto anni avevo cambiato tre case e in ogni casa mio padre aveva portato con sè la sua fisarmonica, che non ha mai saputo suonare. Ai miei genitori piaceva e piace tutt’ora la musica, mia madre è sempre stata più moderna, con lei abbiamo sempre ascoltato la musica del momento che all’epoca significava Umberto Tozzi, anche negli Stati Uniti era molto famoso, erano i tempi di Gloria, poi noi integravamo con stella stai, Ti amo e tanti altri successi dell’autore all’apice della sua carriera, poi avevamo in playlist gli wham, b.b king che cantavamo a squarciagola, gianna nannini, venne poi il tempo dei Queen e Bruce Springsteen, Michael Jackson e Madonna e tutta la musica che passava in radio nelle giornate tipiche americane degli anni ottanta, io e mamma chiamavamo anche in radio per dedicarci le canzoni, la mia più gettonata era Bello Impossibile e ll ballo del qua qua, chiaramente chiamavamo a Radio Italia, forse avevano una stazione lì nel New Jersey, non saprei, ma ad un certo punto la sera prendevamo il telefono e chiamavamo per chiedere una canzone tutta per noi e cantavamo sempre. Mamma cantava, mentre puliva, mentre cucinava, metteva la radio, cantava mentre mi faceva il bagno o rifaceva i letti, wake me up before you go go, mettva su le cassette la isla bonitaaa, I’m a virgin touched for the very first time, I’m a vi i i rgin, when the night has come and the land is dark and the moon is the only light we will see, gloria, gloria, chiesa di campagna, gloria, acqua nel deserto… anche a me aveva comprato un piccolo giradischi con i miei piccoli dischi su cui ascoltavamo le canzoni della disney e cantavamo pure quelle, eravamo pieni di dischi, cassette, musica ovunque e papà invece che di musica ne ascoltava comunque tanta, era un appassionato delle canzoni popolari calabresi, uno dei suoi sogni era quello di imparare a suonare la fisarmonica, tanto che ne aveva comprata una e periodicamente, quando gli prendeva la fissa faceva sedere me e mio fratello a terra, lui predeva una sedia, la metteva davanti a noi, ci si sedeva su e iniziava a premere i tasti dell’aggeggio e a muoverlo senza un metodo chiaro, ma il suono usciva e noi ci divertivamo, mai quanto lui che aveva sempre però la faccia concentratissima. Ovviamente metteva anche lui su la sua musica, non so dire se la preferissi a quella di mamma, ma di certo la sua si ballava e noi ballavamo, ecco la differenza tra lei e lui, lei non ballava, lui non riusciva quasi a farne a meno quando sentiva della musica, ballava tutto e anche io, tanto che quando si andava in giro la predestinata alla pista da ballo ero io e quindi valzer, polka, mazurca, tarantelle, noi ballavamo tutto senza saper ballare, così come veniva, un po’ come abbiamo sempre fatto tutto, la faccia da culo mi è stata insegnata da piccola. L’importante è ballare. Vorrei regalare a mio padre tutti i balli del mondo. Mamma invece un palo fisso al centro della terra. Quando venimmo in Italia, la prima estate che io ricordi, uno dei ricordi più forti che mi porto stretto al cuore è la sera della festa che fecero nel cortile dei miei nonni prima che partissimo, c’erano “i suonatori”, fisarmonica, chitarra e tamburello, i più bravi del vicinato e papà mi fece togliere le scarpe e ballammo per ore, ero piccola e felice e ballavano i miei cugini e ballavano i miei zii e mamma no, ma era bella, mamma era bella come io non lo sono mai stata. In fondo ai miei geni io so perché si chiama tarantella e non è solo una questione di ballo, la mia terra non poteva partorire musica più adatta e ogni volta che la sento è come un incantesimo, mi parte un moto dentro che scende fino alle gambe e mi infuoca le vene e non posso far altro che ballare fino a stare male, finchè non mi resta fiato e non ho più la forza di stare in piedi. Ancora adesso. Papà è invecchiato ed è da tanto che non lo vedo ballare, ma quest’estate gli ho visto saltare un fosso per il lungo e secondo me ancora gli regge, per questo ho scritto tutto sto papiro, perché ho deciso di imparare a suonare il tamburello, vediamo se oltre alle tarantelle imparo pure a suonare Gloria.
#La vita ad episodi#la musica#tarantelle#atarassia#di nuova me#mamma e papà#mamma#papà#le vite vissute#ballare#dance dance dance#la mia vita nella mia testa#quello che ricordo#episodio 3#festa#tamburello
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Hey, come stai? Spero bene, io sto bene.
So che probabilmente un po' mi odi, e che non avrai per niente voglia di leggere una delle mie lettere infinite, ma dato che a me non importa te la mando lo stesso, anche perché questa, sarà sicuramente l'ultimo ricordo che avrai di me.
È davvero difficile iniziare una lettera, soprattutto se si tratta di una lettera d'addio.
Non ne ho mai scritte, non mi piacciono gli addi, mi fanno paura, ogni volta che lasciavo un posto non salutavo mai nessuno perché ogni saluto è una cicatrice che ti porti sulla pelle.
Quando leggerai questa lettera sarò già sull'aereo, o probabilmente già atterrata in Italia, avrei voluto vederti un'ultima volta per salutarti, ma non voglio rendere questo addio così vero. Non volevo andarmene senza prima lasciarti un ultimo ricordo, sei stato l'unico ragazzo a cui ho dato l'anima, e a pensarci ancora mi viene da piangere, non mi vergogno di mostrare e dirti ciò che provo, non mi è mai importato di mostrarmi debole, ho dovuto imparare già in giovane età ad apprezzare le persone, perché ne ho perse molte, a cui tenevo. E tu non hai nemmeno idea di quanto io a te ci abbia tenuto, ma d'altronde è sempre stato così tra noi, tu che mi rincorri ed io che scappo, quando in realtà vorrei soltanto rimanere. Una volta un signore mi disse:"quando troverai l'amore vero lo riconoscerai, anche se sarà sbagliato, anche se farà male", e io l'ho riconosciuto, nei tuoi occhi, anche se non sempre è stato giusto, anche se molte volte sono andata a dormire con le lacrime sul viso, anche se a volte mi prendeva la gelosia estrema e non avevo per niente idea di come calmarla.
Volevo dirti che non ti ho dato un'altra possibilità perché non potevo, perché l'amore che ho provato io per te è stato proporzionale al dolore che ho provato dopo, e che ho provato a cercarti in altre braccia, e in altri sorrisi, e mi ci sono buttata senza pensarci nemmeno troppo, sentivo un buco nello stomaco, i giorni si riempivano di nostri ricordi e sentivo la gola soffocare, a giorni mi ritrovavo nei posti in cui avevamo lasciato pezzi di noi, in cui abbiamo riso, litigato, fatto l'amore fino a perdere il fiato, posti che ora non riesco più ad abitare perché ci rivedo ancora, in ogni angolo.
Avrei voluto dirti che se avessi avuto la possibilità di riscrivere la nostra storia ci avrei regalato un finale migliore, un finale col botto, proprio come i film d'amore che a me piacciono tanto e che tu invece non sopporti,ma li sopportavi per me, e già solo questo, a me andava bene.
Volevo dirti che il dolore che ho provato quando te ne sei andato, mi ha cambiata tanto, sono dovuta cambiare nei giorni in cui avrei voluto correre a casa tua e dirti che cazzo con lei non mi sapevi di nulla e che mi mancavi dannatamente, sono dovuta cambiare nei giorni in cui pensavo di star meglio, poi trovavo un nostro ricordo e tutto ricominciava da zero e non c'eri tu lì, ad abbracciarmi. Volevo dirti che tanti mi prenderebbero per pazza se sapessero che ti sto scrivendo tutto ciò, ma l'amore vero è anche questo, saper mettere da parte il rancore, la rabbia, saper riconoscere i propri errori, saper amare oltre il tempo,oltre la distanza.
Io voglio credere che per me esista un altro amore là fuori, che sia bello come lo è stato il nostro, o forse più, ma a volte sai, ho paura di fermarmi qui, tu eri per me l'amore della mia vita, quello di cui tutti parlano, quello che come dice mia madre, o te lo porti all'altare o te lo porti dentro, e serve coraggio per poter ammettere una cosa del genere, dire che sei l'amore della mia vita non è come dire: "oggi ho sentito una canzone che ascoltavamo insieme e mi sei venuto in mente", è riuscire a mettere il cuore dalla parte giusta, a vedere nonostante tutto quello che mi hai provocato, una parte giusta.
L'unica cosa che ancora mi fa male è credere che tutto ciò forse valga solo per me, l'unica cosa che fa male è sapere di doverti portare sempre ad un passo dal cuore, sapere di doverti mettere da parte e continuare la mia vita senza di te, quando avrei voluto semplicemente averti al mio fianco sempre. Non ti auguro più il meglio, perché il meglio eravamo noi, e mi dispiace per com'è finita, mi dispiace che tu non abbia capito fino in fondo il dolore che mi hai provocato, mi dispiace ammettere che forse noi eravamo sbagliati l'un per l'altro, ma ciò non significa che ciò che abbiamo vissuto non sia stato vero, ciò non significa che non ci siamo amati.
Quando sei tornato la prima volta ho sentito il cuore perdere un battito, ero sicura fossi andato avanti, ero sicura mi avessi messa in mezzo alle cose dimenticate, mi sono torturata a pensarti felice con lei, e so che non mi credi, perché io sono forte vero? Non lascio mai trapelare nulla, rimango inarrestabile davanti a cose che mi spezzano l'anima in due, eppure rimango ferma, mia madre diceva sempre che sono le persone che fanno meno rumore, quelle a soffrire di più.
Ti ho amato più di quanto ho amato me stessa, e mi scuso se non sempre sono stata all'altezza, mi scuso se a volte ti ho ferito, se delle volte ti sei sentito trascurato, riconosco che una relazione non finisce mai solo perché uno dei due si è stancato, ma riconosco anche che, se tu mi avessi dato la possibilità di rimediare forse ora non starei qui a scriverti questa stupida lettera, forse ora staremo camminando con un gelato in mano, prendendoci in giro, magari ora staremo litigando su quale film guardare stasera.
Ora però è arrivata l'ora di lasciarti andare, metto un punto, una fine a questa storia, è proprio vero che le persone non muoiono mai, finché il loro ricordo, vive eternamente, ancora, dentro ognuno noi.
-cwtch110
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