#apparenza fisica
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pier-carlo-universe · 4 months ago
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Il 64% degli Italiani si Piace, il 95% Ritiene Importante l'Aspetto Fisico: Ecco i Dati del Sondaggio Vamonos-Vacanze.it
Un recente sondaggio condotto da Vamonos-Vacanze.it, tour operator specializzato in vacanze di gruppo, ha rivelato dati interessanti sul rapporto degli italiani con il proprio corpo e l'autostima.
Un recente sondaggio condotto da Vamonos-Vacanze.it, tour operator specializzato in vacanze di gruppo, ha rivelato dati interessanti sul rapporto degli italiani con il proprio corpo e l’autostima. Il 95% degli italiani ritiene importante l’apparenza fisica, mentre il 64% dichiara di piacersi guardandosi allo specchio. Nonostante ciò, solo il 16% degli intervistati si sente sicuro di sé,…
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blacklotus-bloog · 2 months ago
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In chat...
... un fallo è insapore, inodore, un palo, un punto esclamativo privo di valenza che si frappone tra astuzia e intelligenza, tra coraggio e pochezza, è l'oggetto virtuale del desiderio che scorre sulle dita di formiche risparmiatrici di sostanza, intente a perseguire il primato nella strategia dell'irrelevanza nella propaganda del proprio sex appeal solo per approvazione sociale. In chat il fallo è immaginazione è un'app che si accende e spegne con chiunque. La realtà è diversa. Per alcune donne il fallo è un impersonale e disumano ingranaggio del godimento nel sadico esercizio del godimento individuale scevro da emozioni e/ o sentimenti, mero pezzo anatomico senza identità e unità, istericamente utilizzato da donne per lasciare traccia nel loro corpo allo scopo di creare dipendenza nell'uomo. Per altre Donne è estensione della propria mente, la costola che ha dato vita ad Eva, il punto di congiunzione pulsionale con l'Uomo, il midollo del piacere, fisicità della mente. La Donna che si prende cura del fallo non ha come scopo l'orgasmo dell'Uomo ma la sua Estasi, ovvero il viaggio attraverso il corpo mentale della Donna in cui UN UOMO si sente padrone, quel viaggio in cui l'orgasmo alla fine non è semplice scarica fisica ma approdo in una terra in cui essere differenza e non numero, avere identità e non anonimato, avere una casa e non un momentaneo giaciglio essere semplicemnte se stessi senza riserve con pregi e difetti, ma soprattutto difetti, apprezzati come segno distintivo di veridicità. Ci sono enormi differenze tra donne e Donne, uomini e Uomini, apparenza e sostanza, astuzia e intelligenza e consistono nella personalità di chi per indole non lascia tracce ma impronte!
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BLACKLOTUS
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caelora · 3 days ago
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Se si era inizialmente creduto che nel corso del progresso delle scienze tutto ciò che è "trascendentale" sarebbe stato progressivamente soppresso, perché in ultima analisi si poteva ricondurre tutto ad una spiegazione razionale, si dovette poi ammettere che il mondo materiale che per noi è così tangibile, si dimostra invece sempre più simile ad apparenza e si dissolve in una realtà che non è fatta di cose e di materia, ma di forme che predominano. [...] La fisica quantistica ci ha confermato ancora una volta che la nostra esperienza scientifica, la nostra conoscenza del mondo, non rappresenta la realtà ultima ed intrinseca, qualunque significato si voglia attribuire a queste espressioni.
Hans-Peter D��rr, fisico nucleare e quantistico tedesco, "Physik und Transzendenz", Scherz Verlag, 1986.
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rideretremando · 1 year ago
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"IL CONTRARIO DEL PRESTIGIO. LA FORZA, L'AMORE E SIMONE WEIL (2017)
“Non resta / che far torto, o patirlo”, diceva l’Adelchi morente di Manzoni. Aggiungendo subito, a chiosa, che “Una feroce / forza il mondo possiede, e fa nomarsi / dritto”. Il “mondo” rifiutato da Cristo è interamente sottoposto alle leggi della sopraffazione. Niente e nessuno ne è immune, e chi si illude di esserlo sta tirando una coperta ideologica sulla nuda realtà dei fatti. Il massimo che possiamo fare è sospendere a tratti il dominio di questa fisica bruta, trovare un geometrico equilibrio tra le forze e tenere ferme le tensioni contrarie in un’ascesi contemplativa. Non si può cancellare la ferocia che ci governa, solo esercitarsi ad arrestarne provvisoriamente l’azione. Ma la sua natura è così travolgente che anche per fare questo occorre un miracolo. Bisogna venire investiti dalla grazia.
La forza, la grazia: sono i due poli intorno a cui ruotano alcuni dei saggi più importanti di Simone Weil, come “L’Iliade o il poema della forza”, “Non ricominciamo la guerra di Troia” e “L’ispirazione occitana”. Succede spesso, negli ultimi anni, che editori più o meno piccoli ripropongano queste pagine scarne e perentorie composte subito prima e subito dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale; e non penso sia un caso. Da quando è sfumata la speranza diffusa in una palingenesi sociale (e non importa qui discutere la sua fondatezza, negata dalla Weil con argomenti decisivi), ci ritroviamo davanti a un puro potere che può mostrarsi senza pudori, ma al tempo stesso fingere che il suo ordine coincida con la giustizia. Siccome tutti, nessuno escluso, siamo condizionati dalle credenze che la vita comune infonde giorno per giorno in ognuno, questa pedagogia priva di alternative ci persuade col suo ghigno che al di là dell’esistente restano appena velleità, fantasmi, chiacchiere. Così, come sappiamo da mezzo secolo, meno sembra possibile una rivoluzione o un mutamento radicale, più la Storia si traveste da immodificabile Natura. E allora, chi alle leve del potere è più vicino si convince che se è in quella posizione non lo deve anche a un intreccio di combinazioni imperscrutabile, ma soltanto ad alcune caratteristiche eccezionali che lo distinguono, appunto per natura, da chi si trova in basso ed è schiacciato dalla sventura; la quale a sua volta, per usare le parole weiliane, apparirà non il frutto di una serie di casi e di fatalità mai del tutto riconducibili a progetti o a doti umane, bensì qualcosa di molto simile a una “vocazione innata”. In una società che, non importa quanto fantasiosamente, ritiene possibile un altro mondo storico, chi in quello presente non riesce a integrarsi può essere considerato come un’avanguardia, una prefigurazione monca del futuro; in una società dove questa fiducia evapora è solo uno sfigato – termine in cui, significativamente, la sfortuna diventa una qualità negativa del soggetto che la subisce.
Vivere sottoposti al regno della forza implica prima di tutto rimuovere verità del genere. Se infatti questo regno è così potente, è anche perché in fasi storiche come la nostra accorrono a fornirgli giustificazioni ideologiche molte delle intelligenze migliori, più attendibili e più scrupolose; mentre a ricordare che esiste uno iato, sebbene quasi invisibile, tra le differenze di natura e le differenze imposte dal potere, rimangono o un pugno di acrobati della dialettica o una vasta platea di retori davvero velleitari, di chiacchieroni e utopisti da bar o da tastiera. Questo però, come sapevano qualche decennio fa a Francoforte, contrariamente a ciò che si crede non dice nulla sulla legittimità dell’esigenza che balena nella loro oratoria degradata, perché la sua apparenza ridicola e deforme è la veste nella quale sempre vengono imprigionate le istanze sconfitte. Quando la pressione della forza è enorme, chi in quel momento è portato in alto dalla sua onda può scegliersi l’avversario a sua immagine, e sconciarlo fino a farne un relitto kitsch o un comiziante da sagra. Ma specularmente, intanto, le intelligenze impegnate a ripeterci i loro inesauribili “se è così c’è una ragione, sveglia!”, non possono non rivelare al fondo l’ingenuità propria di tutti i cinici, che si illudono di poter calcolare e controllare ciò che non si controlla e non si calcola: cioè la realtà, che per definizione coincide con l’imprevedibile, con l’inatteso, e che prima o poi li prende in contropiede (sotto il cuscino dei perdenti si scopre spesso una copia del “Principe”, diceva Brancati).
Capire perché le cose stanno come stanno è bene, e sfuggire a questa comprensione è segno di infantilismo; ma tessere l’apologia di ciò a cui va reso solo l’onore di riconoscergli che “è ciò che è”, trasformandolo in un “è perché deve essere”, asseconda un bisogno di rassicurazione altrettanto infantile. Chi vuole far tornare i conti con uno stridulo Gott mit uns dimentica quello che, secondo la Weil, il poeta dell’“Iliade” ha espresso nel modo più puro descrivendo la guerra, la situazione per eccellenza in cui il potere si mostra nella sua aperta crudeltà: ossia il fatto che nessuna diversità essenziale separa vincitori e vinti. La forza, anche quando li rende simili a tempeste in apparenza inarrestabili, non è mai un possesso dei guerrieri, ma una corrente che passa dal campo troiano a quello acheo, e viceversa, svilendo gli uomini a “cose” – fulmini gli uni, tronchi mozzati gli altri. E quando agli eroi capita la parte del tronco, della preda, “tremano” tutti, persino il grande Ettore. Eppure basta che la forza torni a sollevarli, ed ecco che la sua droga cancella dalla loro mente questo dato elementare. Allora si sentono di nuovo invulnerabili, oltrepassano il limite della tracotanza e sono puniti dalla Nemesi – un concetto che, osserva la Weil, l’Occidente moderno non ha nemmeno più parole per esprimere.
Dunque lo sguardo omerico è supremamente equo perché non veste di ragioni ciò che non lo merita. Nel poema, l’efferatezza di chi sta vincendo una battaglia non è mai soffusa di una luce apologetica, e nel lamento disperato di chi soccombe non si vede mai il tratto distintivo di un “essere spregevole”. Come poi la tragedia attica, e come la cultura occitana (provenzale, romanica, catara) spazzata via nel tredicesimo secolo dalle crociate, l’“Iliade” ci mostra secondo la Weil una civiltà eccezionalmente consapevole del dominio della forza, e insieme indisponibile a identificare questo dominio con la giustizia. “Solo se si conosce l’imperio della forza e se si è capaci di non rispettarlo è possibile amare” ed essere giusti, conclude la pensatrice francese. Il contrario della forza è l’amore, che nei versi omerici avvolge tutto ciò che è vulnerabile e minacciato dall’annientamento. Ma accedere a questa forma di amore, come si è detto, richiede una capacità sovrumana: appunto perché il mondo umano appartiene alla forza, che quando ci innalza ci acceca, additandoci il miraggio di una realtà senza ostacoli e illudendoci di essere onnipotenti, mentre quando ci schiaccia giù a terra, in una servitù da cui sembra impossibile immaginare una liberazione, ci strappa la “vita interiore” e cancella in noi ogni sentimento.
In questi saggi la Weil si sofferma anche su un altro punto cruciale, che riguarda proprio la copertura ideologica dei rapporti di forza. Siccome il potere si posa sull’uno o sull’altro uomo con un’ampia dose di arbitrio, rendendo radicalmente diversi i destini di individui radicalmente simili, chi vuole mantenerlo senza suscitare rivolte deve saper occultare questo arbitrio e razionalizzarlo. È così che intorno alla forza, fingendosi sua causa, si diffonde l’aura illusoria del “prestigio”, che gli uomini scambiano per qualità innata mentre è l’effetto di un contesto determinato, di un provvisorio gioco di luci i cui riflessi tendono però a moltiplicarsi illimitatamente. Qui forse non è inutile ricordare la nazionalità di Simone Weil, dato che la Francia è stata nel mondo moderno il paese più socializzato, quello dove i fantasmi impalpabili ma pervasivi delle identità pubbliche sono penetrati in ogni fessura dell’esistenza. Né è certo un caso che sia stato un altro francese, pochi anni prima di lei, a eternare letterariamente questi fantasmi nella mappa più ramificata e ricca d’implicazioni che ci sia mai stata fornita. “Solo chi è incapace di scomporre, nella percezione, ciò che a prima vista sembra indivisibile, crede che la situazione faccia corpo con la persona”, ha scritto Marcel Proust, che attraverso i molti strati della sua “Recherche” avvicina all’esperienza quotidiana le essenze platoniche weiliane.
L’analisi dello snobismo, cioè, secondo il critico americano Lionel Trilling, dell’“orgoglio a disagio” di chi non è mai sicuro della propria identità, è appunto l’analisi degli equivoci creati dal “prestigio”. In un universo come quello borghese, dove non esistono più ruoli fissi e garantiti da ordini aristocratici o da fedi nel soprannaturale, questa precarietà è fisiologica; e il romanzo, col suo dinamismo, è nato per rappresentarla. Ma di solito i romanzieri, anche i più estremisti, portano gli equivoci a uno scioglimento: o sotto la loro superficie abbagliante si rivela una certezza solida, inconfutabile, oppure questa superficie diventa il segno di una metafisica, arcana indecifrabilità, cioè in fondo di un’altra certezza, seppure di segno negativo. Proust, invece, dimostra che l’equivoco è la sostanza stessa, la stoffa onirica e fantastica di cui è fatta la pretesa identità di ognuno: una sagoma destinata inevitabilmente a variare a seconda delle luci che il luogo, ma soprattutto il tempo, l’immaginazione e i sentimenti personali o collettivi le proiettano sopra. L’ambiguità, in questo senso, è senza fine. La magia dei nomi trasfigura di continuo la materia, e la materia fa cadere a un tratto il sipario di una convenzione, di una magia effimera. La gelosia stabilisce ragnatele finissime, e non si sa mai se abbia occhi straordinariamente acuti o se straveda. Ogni gesto, ogni parola, ogni episodio racchiudono un gomitolo di equivoci che si intrecciano e si divaricano nel tempo. Volgarità e finezza, bontà e perfidia, onorabilità e impresentabilità, prosaicità e fascino esclusivo, provincialismo grottesco e talento supremo, filisteismo e regalità si scambiano ovunque le parti, e toccano tutti i principali caratteri di questo romanzo di romanzi: Saint-Loup, i Verdurin, Morel, Charlus, Swann, i Guermantes, Rachel, Odette, Bergotte, Albertine, Vinteuil, Cottard, Elstir… e ovviamente il narratore.
Col prestigio, col potere e con i ruoli di vittime e carnefici, questi personaggi cambiano la loro stessa pelle. Ma se è così, non hanno ragione i lodatori di ciò che appare, di ciò che ‘è’ in quanto s’impone? Non basta, per approvarli senza riserve, imprimere un po’ di mobilità eraclitea al loro troppo statico sistema panglossiano, al loro hegelismo mummificato e andato a male? Quale identità nuda o profonda ci resterebbe in mano da difendere, al di là delle mutevoli maschere sociali? Esiste forse là dietro un volto, un ‘noumeno’ che non sia un’astratta, umanistica petizione di principio? Difficile crederci: soprattutto oggi che siamo tutti più socializzati dei vecchi francesi, essendo social e tendendo a una assai più totalitaria indistinzione di ‘intimità’ e ‘pubblicità’. In quel vorticoso primo Novecento, tra Proust e Weil, un altro francese ha messo in bocca a un suo personaggio teatrale una risposta disinvoltamente contraddittoria. “Non state confondendo la gloria e l’amore? Amereste Giocasta se non regnasse?”, chiede Tiresia a Edipo nella “Macchina infernale” di Cocteau. “Domanda stupida e ripetuta mille volte”, ribatte il marito e figlio della regina di Tebe. “Giocasta mi amerebbe se fossi vecchio, brutto, se non sbucassi dall’ignoto? Credete che non ci si possa buscare il mal d’amore toccando l’oro e la porpora?”. Ma poi aggiunge che “i privilegi di cui parlate non sono la sostanza stessa di Giocasta e aggrovigliati così strettamente ai suoi organi da non poterli disunire”. La scena è interessante anche perché qui, come altrimenti in Proust, la politica, cioè il campo per eccellenza del potere, fa tutt’uno con l’amore.
Ma non è, s’intende, l’amore soprannaturale che per la Weil sta sull’altro piatto della bilancia rispetto alla forza. Eppure anche di questo amore è fatto l’amore umano. Chi, che cosa amiamo dunque davvero? È il nostro amore separabile dal prestigio? All’alba della modernità, in una Russia infranciosata, il romantico e ironico Aleksandr Puškin ha lasciato nell’“Onegin” una immagine memorabile della divaricazione tra società e verità su cui è fiorita la nostra cultura. “In quel tempo, in quel deserto, / Lontano dal pettegolezzo, / Io non vi piacqui: questo è certo… / E dunque mi inseguite adesso? / Che cosa a voi mi pone in vista? / Non forse il fatto ch’io apparisca / Per il mio rango in società; / L’esser di ricca nobiltà; / O il marito che in guerra è stato / Ferito e alla corte è in favore? / Non forse che il mio disonore / Da tutti sarebbe osservato, / A voi nel bel mondo recando / Un lusinghevole vanto?”, domanda malinconicamente Tatiana a Eugenio verso la fine del poema, dopo che lui l’ha prima tenuta affettuosamente a distanza, moderando il suo dongiovannismo, quando era una semplice ragazza di campagna, e poi l’ha ardentemente corteggiata quando l’ha vista muoversi da dama impeccabile tra i ricevimenti pietroburghesi.
Non so chi potrebbe rispondere alla domanda di Tatiana. Quanto è grande, specie in un mondo più che mai socializzato, la dose di desiderio mimetico che ci entra in circolo? Quanto influisce sui nostri atti il prestigio, questo vestito imperiale della forza? Se esistessero confini visibili o palpabili tra un’‘essenza’ e un’‘apparenza’, combattere sotto l’insegna di una delle due riuscirebbe relativamente facile. Sarebbe lecito pensare a una lotta di princìpi, confidare in un mutamento progressivo che a poco a poco conduca a esiliare dal mondo la forza magnetica e menzognera del prestigio contrabbandato per cosa salda. Invece il mondo è strutturalmente suo. Perciò una tale etica è ritenuta insufficiente dalla platonica Simone Weil, e contemporaneamente anche dalla sensuale Etty Hillesum. Solo il riconoscimento di questa realtà, la sua accettazione senza risarcimenti e la contemplazione della forza possono sospenderla, tenere in miracoloso equilibrio la bilancia.
E sì: noi siamo anche i nostri privilegi, gli ori e le porpore di cui non potremmo mai dire, senza apparire tracotanti di fronte al fato, di esserceli guadagnati da soli. Eppure, c’è chi alle origini della nostra civiltà ci ha mostrato uomini spogliati di tutto ciò: uomini ridotti a ‘cose’ passive, resi schiavi o annientati da uomini ridotti a ‘cose’ ciecamente attive come catastrofi naturali. Chi amerà questi nudi? Chi rimarrà vicino a un corpo, a una voce, a un volto totalmente privati di prestigio e di potere? Chi sopporterà di stringere esseri che basta un soffio a cancellare dalla scena, e che non sembrano avere più alcuna dignità umana? Noi tendiamo a immaginare la sventura in chiave eroico-hollywoodiana, a incastonarla in una sequenza in cui lo sconfitto mantiene intatto il suo fascino, la sua forma socializzabile di uomo. Ma proviamo a immaginare invece la vera sventura, cioè una condizione in cui tutte le nostre coordinate vacillano come nel Vangelo vacillarono i discepoli durante la Passione. Immaginiamo una situazione dove ogni circostanza sembra dare ragione al mondo che umilia lo sventurato. Immaginiamo il momento in cui la sventura arriva a toccare l’ultimo strato dell’identità della persona che diciamo di amare – il momento in cui, senza che questa persona si sia inconfutabilmente macchiata di una colpa, le sue attrattive si mutano in un motivo di imbarazzo, di smarrimento o di nausea, in una specie di vergogna senza nome. Immaginiamo tutto questo, e la domanda ci farà tremare.
Forse di una tale figura nuda, senza protezioni sociali e senza neppure il marchio di una minoranza esclusa ma ‘riconosciuta’, non si può predicare nulla. Forse si può dire solo che l’uomo è più di tutto il suo prestigio, di tutte le qualità in cui i “privilegi” si mescolano ambiguamente agli “organi”. Ma questo più non si può descrivere. Come l’anima, si può cogliere solo con un atto di fede. E proprio dalla fessura che lascia tra sé e il resto passa la grazia. È da lì che soffia l’amore trascendente, incondizionato, assoluto: l’amore senza il quale, diceva Denis De Rougemont occupandosi dei provenzali negli anni della Weil e in modi per molti versi opposti, siamo destinati a cadere in un romanticismo calcolatore che non troverà mai un oggetto su cui fermarsi, perché ci sarà sempre qualcosa di più attraente a meritare l’innamoramento.
Solo una decisione mai giustificabile, che è poi il contrario di una facoltà d’opzione, può arrestare questa fuga nell’illimitato. Un decennio prima, montando le tessere del suo discorso sulle “Affinità elettive” e il matrimonio, Walter Benjamin lasciava intravedere una prospettiva molto simile.
Credo che il saggio della Weil sull’“Iliade” sia uno dei due massimi capolavori della saggistica filosofica del Novecento. L’altro, non unilaterale e spoglio ma tormentosamente dialettico, va sotto il titolo di “Minima moralia”. Negli aforismi di Adorno si trova una frase che può stare accanto alla conclusione weiliana: “Sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza”. Il mondo, però, ci consegna un’ingiustizia ulteriore. Di solito si aderisce alla forza là dove la pressione collettiva è troppo intensa rispetto alle convinzioni che potrebbero farci resistere alla sua piena: cioè quando a propria volta, come carnefici, ci si trova in una condizione di debolezza, quando non si è abbastanza sicuri della propria comprensione delle cose da poter rimanere saldi in mezzo alla tempesta insieme a chi è rimasto nudo (la pressione consiste spesso in un sottile gioco di suggestioni atmosferiche incrociate, ma chi voglia vederne rappresentati i tratti più elementari e irresistibili può pensare al Bube di Cassola spinto a picchiare il prete Ciolfi, o al giovane ufficiale Eric Blair, alias George Orwell, accerchiato dalla folla birmana che esige di vederlo abbattere un elefante). Non è questa l’ultima ragione per cui il mondo ci chiude la bocca impedendoci di dire a ogni passo “non è giusto”, e quasi assimilando il nostro comportamento a un fatto di natura. Ma appunto, quasi. Resta quella fessura. Di cui nessuno si può appropriare senza tradirla, ma che nessuna forza può ridurre a sé."
Matteo Marchesini
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alemicheli76 · 4 months ago
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"Autismo yoga campane tibetane: Suoni e silenzi speciali " di di Mauro Pedone, Sergio Starace, Hermes Edizioni. A cura di Alessandra Micheli
3 Nonostante sia nota la mia assurda e inquietante pigrizia, in realtà essa è solo apparenza. Nella mia vita di cose ne ho fatte. Semplicemente amo la mia stabilità mentale e fisica, quindi non chiedo al mio organismo più di quello che può darmi. E scelgo come impiegare le mie energie perché non ho caos da cui sfuggire. Anzi. Ho sempre creduto che questo orrendo mostro del postmoderno fosse…
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scienza-magia · 6 months ago
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Il moto perpetuo della campana di Oxford
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La campana elettrica di Oxford ha una batteria che funziona da 200 anni, ma non si sa come sia possibile. Questa campana alimentata da due batterie suona sin dal lontano 1840 ed è uno degli esperimenti scientifici più longevi al mondo. Da anni è conservata nel Clarendon Laboratory dell'Università di Oxford da cui prende il nome. Quasi non si sente il suono della campana elettrica di Oxford, talmente è flebile. Nonostante ciò, la campana – che è anche conosciuta come "Clarendon Dry Pile" – ha iniziato a suonare già ben prima del 1840, e quindi da quasi due secoli. Ha visto tutto il vecchio secolo e i primi vent'anni di quello nuovo, e anche se è ampiamente invecchiata e sempre più "stanca", va ancora avanti grazie alle due batterie che la alimentano. Come siano fatte al loro interno, però, è ancora un mistero per gli scienziati: se le aprissero la campana si romperebbe, e a quel punto addio a uno degli esperimenti scientifici più longevi di sempre. Ma tutto ha una fine: secondo gli esperti ci vorrà circa una decina d'anni prima che anche questo sistema di batterie arrivi al termine, e finalmente si potranno aprire e studiare. Secondo gli studiosi il suono della campana si sarebbe verificato almeno 10 miliardi di volte, e proprio per questo motivo detiene il Guinness World Record come "la batteria più durevole al mondo". Da dove arriva la campana e l'enigma delle batterie Questo longevo esperimento scientifico è costituito da due campane di ottone, ognuna posizionata sotto una batteria a pila secca, e da una sferetta di metallo dal diametro di 4 millimetri che oscilla perpetuamente tra di esse grazie alla forza elettrostatica e che produce un suono (frequenza di oscillazione di 2 Hertz). Il reverendo Robert Walker, che all'epoca era anche professore di fisica all'Università di Oxford, acquistò la campana dai costruttori di strumenti Watkin and Hill che la avevano realizzata nel 1825 e la portò in classe per mostrarla ai suoi studenti. L'oggetto oggi si trova nel Clarendon Laboratory dell'università – da cui ha preso la prima parte del nome – protetta da ben due strati di vetro. Abbiamo capito perché si chiama Clarendon, ma invece Dry Pile? Tradotto dall'inglese significa "pila a secco". Questa seconda parte del nome le è stata attribuita perché le due batterie somigliano moltissimo a quelle "a muschio secco" realizzate dal prete e fisico italiano Giuseppe Zamboni. Queste batterie erano composte da almeno 2000 paia di dischi di stagnola incollati su carta impregnata di solfato di zinco e rivestiti sull'altro lato con biossido di manganese. Le pile non sono asciutte, ma contengono la giusta quantità d'acqua per fornire l'elettrolita senza causare cortocircuiti. Le batterie della campana di Oxford inoltre sono sigillate al loro esterno con un rivestimento che si ritiene sia di zolfo, e ciò le fa sembrare delle candele (tranquilli, è tutta apparenza: è impossibile che siano candele, sennò la campana non potrebbe funzionare). Tuttavia non è certo che siano pile di questo genere, e per sapere esattamente la loro composizione bisogna aspettare che le batteria muoiano: come abbiamo scritto in precedenza se dovessimo aprirle ora l'esperimento avrebbe fine, e gli scienziati vogliono farlo durare il più a lungo possibile. Perché è in funzione da così tanto tempo? Si pensa che almeno in parte il motivo per cui la campana suona da così tanto tempo sia dovuto al fatto che non richiede molta energia e che non ne spreca molta. Il dottor Robert Taylor dell'Università di Oxford ha spiegato: "Mentre si muove avanti e indietro, la piccola campana di piombo tocca le due batterie da entrambi i lati, e così facendo si carica e si scarica di continuo. Una piccola quantità di carica filtra tra le due estremità e l'unica perdita è la resistenza dell'aria". Quando smetterà di funzionare? La campana ha suonato per tanto tempo, ma non lo farà all'infinito, e presto o tardi smetterà di funzionare. Secondo Taylor ci vorranno tra i 5 anni o i 10 al massimo, visto che negli ultimi 40 anni ha rallentato sempre di più. Perché prima o poi tutte le batterie si esauriscono, e quando finirà l'energia la campana smetterà si suonare, rendendo l'Università di Oxford un po' più silenziosa. Fonti: University of Oxford - Atlas Obscura Read the full article
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levysoft · 9 months ago
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Su Big Think, uno dei portali scientifici più autorevoli al mondo gestito da un noto astrofisico, Ethan Siegel, si discuteva della possibilità che i fotoni, particelle fondamentali della luce, possano esistere in modo indefinito. Siegel parte dal concetto generale che tutto ciò che esiste nell’universo un giorno giungerà al termine, incluso il destino delle stelle, delle galassie e persino dei buchi neri. In altre parole, tutto ha avuto un inizio e avrà anche una fine. Tuttavia, si ipotizza che i fotoni potrebbero essere un’eccezione a questa regola, poiché sembrano avere una vita infinita, almeno in apparenza.
Cosa sono i fotoni
L’autore spiega che i fotoni sono la base di tutta la radiazione elettromagnetica nell’universo e, fino a oggi, sembrano non decadere in altre particelle. Tuttavia, gli scienziati continuano a porsi domande sulla loro natura e sul loro destino. Ci si chiede, ad esempio, se i fotoni vivano per sempre o se si trasformino in altre particelle. L’articolo prova poi a rispondere alle domande: qual è il ciclo di vita di un fotone e dove va la luce emessa dagli eventi cosmici?
La stanca cosmologia della luce
Per rispondere, l’autore ripercorre la storia della cosmologia, dall’espansione dell’universo fino alle teorie sulla “stanca cosmologia della luce” di Fritz Zwicky. Questa teoria suggerisce che i fotoni perdono energia interagendo con altre particelle nello spazio, il che potrebbe spiegare lo spostamento verso il rosso della luce proveniente da oggetti molto lontani. Tuttavia, le osservazioni non confermano questa ipotesi. L’autore discute anche di altre possibilità: i fotoni potrebbero convertirsi in particelle diverse o interagire con altre particelle nel tempo, perdendo la loro identità originale. Questo potrebbe avvenire tramite la diffusione o la produzione di nuove particelle.
I fotoni sono immortali?
Inoltre, si considera la possibilità che i fotoni possano essere assorbiti dai buchi neri, ma anche questo processo ha i suoi limiti. I buchi neri possono decadere attraverso la radiazione di Hawking, producendo più fotoni di quanti ne abbiano assorbiti. Infine, l’articolo sottolinea che, anche se i fotoni esistenti si allontanano gradualmente verso energie più basse a causa dell’espansione dell’universo, l’energia oscura garantirà che continueranno a essere creati nuovi fotoni. Questo ci porta alla conclusione che, sebbene i fotoni possano trasformarsi e perdere energia nel tempo, non esiste un processo noto che li distrugga completamente.
Perciò, sì: secondo le conoscenze attuali della fisica, i fotoni sono stabili e continueranno a esistere, anche se possono subire trasformazioni nel corso del tempo.
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spaventapanico · 10 months ago
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Il mio nome d’arte sta spopolando, adesso sono quasi un personaggio pubblico. Ho detto a mia madre che alla fine, quel nome, me lo sono presa lo stesso. Lei ci ha tenuto a ribadire che non voleva chiamarmi così quando sono nata, ma che era stato un suo pensiero, una fantasia, di tanto tempo prima. Leggeva quel Gozzi, per studio, e questo qui le mise in testa una certa Marfisa bizzarra. Il nome nobiliare le piacque (ma io sostengo che le piacque ancor di più l’associazione con la bizzarria). Ma bisogna fare attenzione con le fantasie. Quel pensiero, io lo so, non ero ancora io. Non aveva il mio corpo fisico. L’altro nome, quello vero, è stato solo assegnato per convenzione alla mia persona fisica. Ma quello che di me non si vede, era già lì. Ero presente come pensiero. Io ero l��, invisibile. Esistevo come possibilità, un pensiero che era già materia. Neppure mia madre sapeva che ero io. Ma io, prendendomi quel nome, Marfisa, ho preso possesso anche di quella Figlia Immaginaria, e l’ho trasportata nella realtà. Chissà se quella Marfisa del pensiero era simile a quella che adesso le ha rubato il nome. Ma no, no, ero io, lo so. Mia madre, anche senza avere ancora un progetto di genitorialità, non poteva pensare che a me. Qualunque fosse stato il mio nome, non potevo che nascere io. Ero il suo destino. Ma lei mi ha conosciuta con quell’altro nome, che era la mia presenza fisica nel mondo. Marfisa, invece, è il nome della mia anima: è lei che scrive poesie, lei che recita, lei che crede ancora in Dio. E io ora l’ho portata nel mondo. Solo un nome d’arte, o così pare. Io credo che ognuno di noi abbia un nome segreto. Questo è il mio…Ho deciso che dovevo riunire il nome dell’anima- quello pensato- a quello materiale. Ora sono io e non io. Mamma crede di averla immaginata. Quella bambina per lei non è mai esistita, è stata abortita prima ancora di potersi fare embrione. Così, una volta adulta, ne creò un’altra. Ma non sapeva di aver trasferito in essa l’essenza della figlia immaginaria…Così, ora sono due cose. Marfisa sarà la mia apparenza. Una specie di super io. L’altro nome, lo lascio a chi conosce tutto a fondo di me, a chi comprende davvero che l’immaginazione si è concretizzata. A chi sa che se pensi qualcosa, quel pensiero accade. Che se ti piace un certo nome, e la tua coscienza lo dice ad alta voce, quel nome sente il suono di sé e prende vita. E colei che quel nome avrebbe dovuto portarlo, prima o poi verrà a reclamarlo. Come vedete, sono un po’ bizzarra…Questa, madre, la minaccia dei tuoi sogni letterari.
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pier-carlo-universe · 4 months ago
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Il Rapporto degli Italiani con il Corpo: Tra Autostima e Influenza dei Media. Un sondaggio di Vamonos-Vacanze.it rivela che il 64% degli italiani si piace, ma l'importanza dell'aspetto estetico rimane alta con il 95% che lo considera fondamentale
Come vivono gli italiani il rapporto con il proprio corpo? Questa domanda ha trovato risposta grazie a un sondaggio commissionato da Vamonos-Vacanze.it, che ha coinvolto un campione rappresentativo di italiani, indagando quanto l'aspetto fisico influisca
Come vivono gli italiani il rapporto con il proprio corpo? Questa domanda ha trovato risposta grazie a un sondaggio commissionato da Vamonos-Vacanze.it, che ha coinvolto un campione rappresentativo di italiani, indagando quanto l’aspetto fisico influisca sulla percezione di sé stessi. I risultati sono chiari: il 95% degli italiani ritiene l’apparenza estetica un elemento importante nella propria…
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canesenzafissadimora · 2 years ago
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Il vero amore è qualcosa che riguarda le anime, non i corpi.
Per questo gli affetti che dipendono dalla forma fisica sono transitori, compaiono delle rughe, qualche chilo in più o in meno e già non c'è più affetto...
Questo non è amore, questa è un'attrazione magnetica passeggera, basata sull'esteriorità,
senza nessuna profondità, né forza.
Per il vero amore non esistono statura, né età, né apparenza,
è un contatto da anima ad anima, significa amare l'energia che emana dall'altro,
perché questa energia è il riassunto di tutto ciò che quella persona è internamente.
Per questo tipo di sentimento non esistono le distanze, né il tempo,
questo amore non si estingue nemmeno con la morte.
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Enrique Barrios
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thesmellofsilence · 3 years ago
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"In fisica quantistica le particelle che hanno trascorso del tempo insieme, quando interagiscono con il loro ambiente, tornano ad essere indipendenti, separate, e solo in apparenza distanti l'una dall'altra. Ma il legame fra queste particelle è così forte che appena succede qualcosa a una delle due, l'altra, lo sente."
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Vivien:
"Nel vuoto di continuo si formano coppie di particelle.Il loro destino è di incontrarsi e scomparire l'una nell'altra.
Quando due particelle che hanno interagito tra loro vengono separate non esistono più particelle distinte,lo stesso accade quando due persone si innamorano anche se la vita li allontana porteranno sempre dentro di loro una traccia della persona amata.
In fisica quantistica le particelle che hanno trascorso del tempo insieme quando interagiscono con il loro ambiente tornano a essere indipendenti.Solo in apparenza distanti l'una dall'altra ma il legame tra queste particelle è così forte che appena succede qualcosa ad una delle due l'altra lo sente.
Il legame tra due particelle che hanno interagito fra loro è valido solo nel regno microscopico non può essere applicato al nostro mondo perché gli esseri umani sono molto più complicati e imprevedibili."
-Time is up
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4-ball · 3 years ago
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4 capitolo
Cristopher si svegliò un po’ controvoglia, il giorno del matrimonio di sua madre. Era però in ritardo all’appuntamento con Beatrice, programmato prima della cerimonia.
Arrivò da Beatrice al CiakCoffee e stava parlando al telefono.
“Ciao, scusami per il ritardo, ma questa notte non ho chiuso occhio”.
“Non preoccuparti, ho appena ordinato. Che hai fatto ieri sera?”
“Niente di che, ho portato Gin a spasso”.
Il barista arrivò con i caffè, lo yogurt con i cereali al miele e i waffles che ordinavano ogni volta.
“Io sono stata a casa invece, avevo dei libri da studiare.”
“Che libri?”
“Filosofia e Storia”. Beatrice era bella ma anche intelligente Aveva lunghi capelli neri con la frangetta e occhi azzurri. Non era una novità che ogni volta che stavano insieme i ragazzi la notavano.
“C’è il compito di fisica la prossima settimana”- ricordò Cristopher.
“Sì, lo so, voglio stare al passo con lo studio”. Cristopher in realtà non aveva ancora toccato il libro di fisica, per non parlare degli altri.
“Forse è meglio che inizio ad andare”. Chiamarono il barista per farsi portare il conto, e fra lui e Beatrice ci fu uno scambio di sguardi più durevole del solito e Cristopher sorseggiava silenziosamente il caffè quasi per non rovinare il momento fra i due.
“Beatrice, avrà forse cinque o sei anni in più di te.”
“Sono stata solo cortese, e poi ha un bel sorriso, a cosa alludi?”
“Niente, niente, so che ti vuoi scordare al più presto del tuo ex, ma non vorrei che ti addentrassi in storie molto più difficili, se non impossibili”- chiarì Cristopher. Beatrice gli fece un sorriso rassicurante.
•••
Cristopher arrivò in tempo alla cerimonia, e salutò tutti i suoi parenti che stavano entrando in chiesa. Salutò suo cugino Michele e andò a sedersi accanto a lui. Poteva notare suo zio Gianpiero dall’altra parte della chiesa, con una ragazza molto più giovane di lei, probabilmente la sua ennesima fidanzata, sua zia Grazia più avanti a lui, il signore e la signora Sorrone, i genitori dello sposo.
Dopo alcuni minuti di attesa, Gabriella arrivò, con un elegante abito bianco svasato e la marcia nuziale iniziò a suonare, e raggiunse Giorgio, e Cristopher sapeva che stava sorridendo dietro il velo bianco, e sorrise anche lui al pensiero.
Il matrimonio ebbe seguito in una locanda con un’ampia pista da ballo, fuori città, nei pressi del Parco Gigliodoro, uno dei parchi più eleganti di Fontana Moscati, il quartiere più in della città.
Arrivò a salutarlo suo zio Gianpiero e la sua nuova fidanzata, che aveva vent’anni in meno di lui.
“Come va Cristopher? Tutto bene a scuola?”
“Si zio, tutto bene. Ti trovo in gran forma”.
“Bene, bene”. Cristopher gli sorrise poi continuò a sorseggiare un po’ di champagne e a camminare al lato della sala, notando l’assistente del wedding planner che aggiustava dei nastri sulla scala che portava al palco. Conosceva quasi tutti in quella cerimonia. Era molto intima ma gli invitati non erano pochi. Notò Isabella, una ragazza che andava a scuola con lui, e non capiva come fosse imparentato con lei. La ragazza mentre parlava con un invitato notò anche lei della presenza di Cristopher, e gli sorrise. Poi Cristopher continuò a camminare e vide sua zia Grazia a uno dei tavoli in fondo che sembrava un po’ giù di morale.
“Zia, tutto bene?”
“Ciao Cristopher. Sì grazie, mi fanno male solo un po’ i tacchi. Credo infatti che li toglierò e li metterò sotto il tavolo”. Si tolse i tacchi e nascose i piedi sotto il tavolo.
“Tua madre e Giorgio li vedo così bene insieme. Sai forse finalmente ha trovato davvero la sua anima gemella, dopo tre matrimoni”. Rivolse un sorriso a Cristopher e lui rispose di cortesia. Sua madre notò curiosa che Cristopher e sua sorella stavano parlando, rivolgendoli un cenno di sorriso, e continuò a parlare con Giorgio.
“Sai, è difficile trovare la propria metà. Soprattutto se quella metà non pensa minimamente che tu possa essere quella giusta per te.”- continuò zia Grazia.
“E cosa potrebbe pensare, zia Grazia?”
“Purtroppo non sono ancora in grado di capire cosa passi dalla mente delle persone. So solo che l’universo non è sempre buono con tutti”. Cristopher gli sorrise e continuò a camminare. Sua zia Grazia era sempre stata un po’ fuori dal comune.
Mentre il pianista stava suonando un motivo allegro, la corrente saltò e la musica smise di suonare. Da un clima un po’ allarmante, Rodolfo, il wedding planner cercò di calmare tutti quanti.
Dopo un brusio ansioso, si sentì un urlo provenire da un tavolo in fondo. La signora Sorrone era in preda a una crisi, vedendo suo marito sanguinante dal cuore, giù a terra. Tutti iniziarono ad agitarsi, ma qualcuno della sicurezza cercò di calmare le persone. Cristopher cercò di avvicinarsi al luogo del delitto. Tutti erano sconvolti.
Il clima di festa era stato scaraventato in un secondo, dopo il blackout e tutti erano in panico. Arrivò la polizia, la scientifica iniziò a supervisionare il luogo del delitto. L’investigatore iniziò a parlare con la moglie e chi era al tavolo con lui. Cristopher era agitato, e andò da sua madre.
“Cristopher, tutto bene?”. Sua madre era spaventata, ma cercò anche di tranquillizzare Giorgio, che se in apparenza cercava di prendere il controllo, non sembrava molto in sé.
L’investigatore Langretti cercò di richiamare l’attenzione di tutti: “Buonasera signori, mi dispiace di questa tragedia, ma se collaboriamo possiamo chiarire quanto è successo in questa sala”.
“Dovete assolutamente rimanere qui perché l’attentatore potrebbe ancora essere fuori di qui. Inoltre bisognerà fare degli accertamenti e per porvi delle domande, prima dei colloqui individuali. Non ve ne andrete di qui almeno per le prossime tre o quattro ore, prima che la scientifica abbia preso tutti gli indizi necessari e la mia scorta abbia perlustrato tutto l’edificio e il parco.”
Così l’investigatore Langretti fece sedere ogni invitato e li dispose di fronte a lui.
“Da quando è iniziata la cerimonia, qualcuno ha visto qualcuno che non era stato invitato?”. Gli invitati si guardarono intorno.
“Qualcuno che non sembrava avesse buone intenzioni? Parlo anche di chi fa parte del catering, qualcuno vi ha fatto supporre che c’era qualcosa che non andava per il verso giusto?”. Cristopher cercò di rammentare quando vide gli invitati alla cerimonia, e poi di quando arrivarono al parco. La famiglia di Isabella non c’entrava, scoprii dopo che era la figlia del cugino di Giorgio. Altre persone estranee dalla sua famiglia e di quella di Giorgio gli parve non esserci state. Il signor Sorrone era un avvocato, e qualcuno ha voluto scegliere il giorno del matrimonio di suo figlio per fargliela pagare per qualche processo che non gli è andato a genio. Le cause potevano essere molte.
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katherineee00 · 4 years ago
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Quando la violenza non è solo fisica...
Mi sto controllando con tutte le mie forze per non impazzire, le mani mi tremano, il cuore mi batte così forte che me lo sento in gola, la testa mi vaga da un pensiero all'altro alla velocità della luce, vorrei tirare un pugno così forte da spaccarmi il braccio, da scoppiare a piangere per il dolore lancinante al braccio e non sentire più il dolore che provo dentro. Io ci ho creduto davvero in questa relazione, io davvero ci ho messo tutta me stessa, ho fatto tutti gli sforzi possibili per farla funzionare, e ci tenevo, ci tenevo come a poche cose ho tenuto nella mia vita. Ma lui mi ha fatto sentire un fallimento, mi ha fatto sentire inferiore, mi ha fatto sentire brutta, mi ha fatto sentire stupida, mi ha fatto sentire la seconda scelta, mi ha costretto a cambiare il mio aspetto, a fare di tutto per piacergli esteticamente, a cambiare il mio carattere, mi ha fatto diventare una stronza che punta solo al successo, che se ne frega se agli altri non vanno bene le tua aspirazione o quello che fai. Mi ha fatto entrare in un mondo che non mi apparteneva, un mondo in cui mi sentivo inadeguata, un mondo di persone che badava solo al lusso e alle cose superficiali. Passavo giornate intere a capire come permettermi oggetti di marca che non mi facessero sfigurare in questo mondo, che non mi facessero sentire fuori luogo e giudicata, passavo giornate in cui crollavo, urlavo ai miei genitori e a mia mamma soprattutto, che proprio non se lo meritava, che era uno schifo di mamma, perché mi dava meno di quanto gli altri genitori dessero ai propri figli, perché odiavo quanto mi facesse pesare una spesa, quanto ci dovesse pensare a spendere una cifra a cui invece l'altro mondo in cui ero stata catapultata neanche faceva caso. Certe volte facevo dei pensieri, nella mia semplicità, tipo a come si potesse mettere un condizionatore in ogni stanza e lasciarlo liberamente aperto tutto il giorno senza che i genitori dicessero nulla, a come con tanta facilità si andasse sempre a cena fuori in ristoranti costosi, senza neanche porsi il problema dei prezzi e porsi il problema di avere abbastanza soldi. Pensavo queste cose ma non le dicevo, sarei sembrata una poveraccia, non volevo essere diversa dagli altri, e ho passato così anni della mia vita, come una ragazzina stupida che vuole farsi accettare per quello che non è. Ho iniziato a provar rabbia nei confronti delle mie semplici amiche che sono quelle che non mi hanno mai giudicato se un giorno avevo i capelli fuori posto, se un giorno ero giù di morale, e che ancora adesso mi sono vicine, mi faceva rabbia che avessero meno soldi di me e che non potessimo fare tutte le cose che con i soldi facevo con l'altro mondo, ma che avrei fatto con molto più piacere con loro. Mi sono trovata un lavoro, non volevo dar conto a mia mamma delle mie spese, come le potevo spiegare che avevo bisogno di 50 euro a sera per uscire con gli amici del mio fidanzato? Che avevo bisogno di una borsa di marca perlomeno, non dico tutti i vestiti, ma almeno una borsa di marca che potessi sfoggiare per sembrare a colpo d'occhio una a cui i soldi non mancano. Ora sto lavorando, un lavoro che non mi dispiace ma non si potrebbe dire neanche che mi piace, e sgobbo ogni giorno senza voglia, pensando al fatto che invece di essere là dovrei studiare e che sto perdendo di vista il mio obiettivo principale: diventare un medico. E per la seconda volta non ho passato quel maledetto test, perché ho passato le mie giornate a lavorare su un ambulanza e quando tornavo a casa ero stanca fisicamente e mentalmente e dovevo assolutamente scrivere al mio fidanzato perché sennò mi pareva capace di dimenticarsi di me. Capitava a volte che avessi degli imprevisti, che lavorassi di più o che semplicemente a casa mi mettevo a fare delle cose che non gli dicevo, magari mi guardavo un film, magari stavo a scrivermi con una certa persona ed ero online da tempo, ma lui non si chiedeva cosa stessi facendo, ritornavo sulla sua chat sperando che fosse interessato o preoccupato per quello che facevo ma lui non aveva ancora risposto ai miei messaggi di un'ora prima. Questo perché era concentrato su quello che stava facendo lui, che la maggior parte delle volte era studiare, e riusciva a rimanere concentrato o perché non gli fregava abbastanza di me o perché semplicemente  si fidava. Per lui era facile, di cosa doveva preoccuparsi? Sapeva che io ci tenevo a lui, che ero la persona più sincera di questo mondo e che anche se non ci fossimo sentiti per un po' non c'era nulla di cui preoccuparsi. E a me faceva piacere che fosse così. Dovrebbe essere così per tutte le coppie, ci si dovrebbe sempre fidare ciecamente del proprio fidanzato come se fosse tuo fratello o il tuo migliore amico che anche se non ti scrive, non ti da spiegazioni su qualcosa, o non lo vedi per qualche giorno, non ti passerebbe neanche per l'anticamera del cervello che stia facendo qualcosa che ti fa soffrire. Il problema è che io non mi fidavo di lui. E non mi fidavo non perché mi fossi svegliata un giorno e avessi deciso di fare la fidanzata possessiva e gelosa, ma perché io quando lui era partito per l'America mi ero letteralmente strappata il cuore dal petto, glielo avevo dato in mano e gli avevo detto" portalo con te, ti giuro che mi fido di te e del fatto che lo saprai tenere con cura". Avevo perso i miei amici, perché nessuno accettava come era nata la nostra relazione, forse per il mio bene alcuni o altri perché infastiditi dal fatto che era palese che stessimo prendendo in giro tutti. Ora non saprei dirvi se hanno avuto ragione, all'inizio pensavo che fosse assurdo, che non avesse un senso prendersela in sto modo per qualcosa che non li riguardava affatto, ora, se qualcuno mi venisse a dire" io non potevo sopportare di vedere quanto lui si stesse prendendo gioco di te e quanto tu gli corressi dietro come una stupida" invece di incazzarmi per avermi abbandonato lo abbraccerei e scoppierei a piangere. Se invece mi venissero a dire che eravamo irritanti, tremendi da vedere, che davamo fastidio, che avevamo detto o fatto qualcosa che non dovevamo, gli chiederei il motivo per cui non me lo ha detto prima, gli chiederei scusa se mi rendessi conto che ha ragione e scoppierei comunque a piangere. Sì piangerei un sacco, perché mi sento immensamente sola e solo chi si sente davvero solo può capire quanto, senza cattiveria, si apprezzi chiunque ti stia vicino in quel momento, anche se in  passato lo hai odiato, non ha un carattere che ti va troppo a genio e ci sarebbero questioni da risolvere. Mi sento sola perché nonostante questa persona non mi facesse sentire a mio agio, all’inizio pareva che fossi riuscita a cambiarlo un po', ad aprimi con lui, e a conoscere anche quello che non era solo apparenza di lui. Sentivo che le cose ben o male andassero bene, o meglio, per una coppia che, appena formata, si era trovata con 6 ore di fuso orario e chilometri di distanza le cose non andavano male quanto pensassi. Ogni tanto litigavamo, perché durante la settimana diceva che studiava sempre, e quando ci sentivamo in videochiamata non mi guardava neanche perché giocava alla play. Litigavamo perché tante volte diceva che andava a dormire e invece l'ultimo accesso su Instagram era ore dopo, vedevo foto con gente di cui non mi aveva mai parlato, in luoghi in cui, secondo quello che mi raccontava , non ci era mai stato. Dopo un po' ho iniziato a dubitare di quello che mi diceva, ho iniziato a non dormire la notte, mi svegliavo ogni ora perché se non gli chiedevo io che faceva, dalle sue 5 di pomeriggio che io andavo a dormire alle sue 3 di mattina lui non mi scriveva neanche un messaggio. Ho iniziato a svegliarmi prima la mattina, perché sapevo che lui era sveglio, gli scrivevo e lui mi diceva" ora vado a dormire" come se non mi volesse sentire né dare spiegazioni. E io andavo in università con l'angoscia, la pancia che mi faceva male, la testa che non sapeva a cosa pensare. Allora ho iniziato a “indagare”, controllavo sulla mappa di Snapchat durante la notte se si muoveva, ma nonostante la mappa dicesse che si era spostato dall'altra parte del corridoio del dormitorio lui continuava a dire che era solo una stupida mappa di un social. La mattina allora ho iniziato a chiamarlo in videochiamata, lui puntualmente la prima volta non rispondeva, mi diceva che non gli era arrivata la chiamata o che il telefono gli si bloccava quando cercava di rispondere. Io iniziavo a perdere la pazienza, gli scrivevo" non dire cazzate, rispondi immediatamente" e lui rispondeva, con il fiatone di chi ha appena corso, sempre sul letto, solo, in stanza e al mio" che fai?" rispondeva sempre" niente di che". Un giorno mi disse che non era possibile che io mi fidassi così poco di lui, che questo lo faceva star male e mi chiese una pausa. E da lì di pause ce ne furono altre e di litigate ancora di più. Ogni volta mi chiedevo se fossi io il problema, mi torturavo, mi ripetevo che probabilmente ero io quella che stava rovinando la relazione. Scrivevo ai mie amici, gli amici di cui parlavo prima che dopo un po' hanno preferito allontanarsi da me, chiedendogli che cosa ne pensavano e la maggior parte delle volte mi veniva detto che la dovevo smettere di stressarlo così e che comunque lui era sempre stato così, che non potevo aspettarmi da lui la gentilezza e l'amore del mio ex, e che dovevo piantarla perché come non stava scrivendo a me non stava scrivendo neanche a loro, che ci erano amici da prima che conoscessi loro e lui. E io ci provavo, ma nonostante questo le cose non andavano, io ci provavo ma mi sentivo una cretina a far finta di non vedere. I giorni passavano, lui si era trovato delle "migliori amiche" a suo dire, non sapevo niente di ste qua, non capivo come potesse definirle così se come diceva lui era sempre in stanza a studiare o a giocare alla play, era pure entrato in una confraternita,  era molto spesso là non so a far cosa, ed è pure capitato che mi scrivesse che andava in nottata ad una festa a New York, non chiusi occhio quella notte e lui non mi scrisse assolutamente niente. E vi sembrerà strano ma nonostante questo, nonostante lui mi facesse sentire inadeguata, nonostante io non sapessi quasi nulla della sua vita, nonostante fossi abbastanza sicura che mi stava nascondendo qualcosa, io ero innamorata di lui, non so perché, era come una sfida per me riuscire a far funzionare il nostro rapporto. A Natale tornò in Italia, io lo accolsi nel migliore dei modi, lo andai a prendere in aeroporto, durante quei 5 mesi avevo fatto tutto quello che potevo fare se non troppo, avevo trascurato gli esami all'università, e non voglio dare interamente la colpa a lui del mio fallimento,  ma se per un secondo voi poteste sentire la brutta sensazione che ho provato quei mesi, quando cercavo di organizzarmi con il fuso orario e lo studio, quando la mia testa non faceva altro che immaginare come stava, cosa stava facendo, il posto in cui si trovava e lo sentivo lontano e sconosciuto come puoi sentire un evento di storia che studi a scuola di anni fa, vi rendereste conto che concentrarsi sullo studio ma anche su te stessa, sugli amici, sui progetti di vita era quasi impossibile. Quel natale io scoprii che  mi aveva mentito su un miliardo di cose, che aveva fatto cose che non mi aveva detto, che si era sentito con gente di cui non mi aveva detto nulla, che si era avvicinato al mondo della droga e che ogni volta che mi diceva di essere in un posto ne era in un altro. Il problema è che non si fermò a quello, non fu una grande e unica delusione, ma queste cose son continuate, per mesi, era quasi diventato un gioco, lui mi diceva balle quasi per dispetto perché sapeva che le odiavo e io attraverso le sue frasi che magari dicevano cose diverse a distanza di settimane, i suoi accessi sui social, i suoi atteggiamenti, dovevo scoprire le sue bugie. Ho iniziato a seguire gente in America, non avevo alba di chi fossero, passavo pomeriggi a guardare le loro foto, le loro storie, a cercare lui in queste foto o addirittura nello sfondo per capire se un certo giorno che mi aveva detto che era in stanza a studiare o dormire era a qualche festa o con qualcuno, e ogni giorno scoprivo cose nuove, e ogni giorno litigavamo, ma litigavamo davvero tanto, ogni volta pareva che fosse arrivata la fine della nostra relazione, piangevo come una pazza, iniziavano a venirmi gli attacchi di panico, per quanto fosse assurda la situazione, per quanto non ci potessi credere che avesse fatto certe cose, ma soprattutto che le avesse fatte dopo che per la miliardesima volta mi aveva supplicato di fidarmi di lui. Era così assurda la situazione, che pareva avesse una malattia, perché non è che i nostri caratteri non fossero compatibili, le cose non funzionassero o cose del genere, semplicemente lui era come se avesse una vita di cui io non ero a conoscenza e non riuscisse a farne a meno,  e scoprivo cose assurde, che mi aveva mentito su cose su cui non aveva senso mentire, o che mi aveva nascosto cose che non avrei mai pensato che avrebbe avuto il coraggio di fare. Nonostante lo facesse di continuo ogni volta cascavo dalle nuvole, perché all'inizio, non c'è stato un momento in cui ho pensato che non fossi più innamorata di lui, che non andava più, era un passare da momenti di assoluta felicità che erano momenti falsissimi perché erano i momenti in cui mi mentiva, in cui io ero concentrata a riprovare a fidarmi di lui e lui si prendeva gioco di me, a momenti in cui non potevo credere di avere una persona del genere al mio fianco. Probabilmente se mi fossi semplicemente " disinnamorata "le cose sarebbero state più semplici, il problema è che io continuavo a esserlo, e continuavo a pensare che lui avesse un problema che bastava solo curare. Per mesi non sono riuscita ad aprire gli occhi sul fatto che stavo diventando pazza, che quello non poteva essere amore, che il suo era un continuo trovare scuse e che ero sempre nervosa, che stavo davvero buttando la mia vita all'aria per lui. Vivevo in un gioco, lui giocava con me, io soffrivo. Perdevo le mie giornate a pensare e a pensare, mi sono letteralmente mangiata il cervello a pensare a ogni cosa che facesse e dicesse per capire se le cose stavano funzionando davvero, lui continuava a dirmi" non mento" ma il problema è che non sapevo se stesse mentendo proprio in quel momento o se era la buona volta che cambiava davvero, ed è davvero una brutta bestia non avere fiducia e non sapere se tutto quello che stai vivendo è realtà o illusione. E il suo non rendersi conto di cosa faceva, la sua non vergogna nel ripetermi ogni volta" da oggi puoi fidarti", la sua sfacciataggine nel dirmi" dai dammi un bacio" mentre io lo guardavo come se fosse un estraneo, con il cuore e la testa in frantumi, per me era disarmante. Dopo quasi due anni, sono cambiata moltissimo, ero la ragazza più ottimista, più ingenua, con voglia di ridere, di ballare e di vivere che potessi incontrare per strada e sicuramente anche il mio essere così non è che fosse perfetto, avevo meno ambizioni, meno dedizione, e certe volte risultavo ridicola agli occhi della gente che non mi conosceva, perché mi comportavo come mi passava per la testa fregandomene del giudizio degli altri, ma almeno ero felice e la gente mi voleva bene, perché non c'era cattiveria in quel che facevo, non c'era giudizio, presunzione o altro. Ad ora penso che mi servirebbe uno psicologo, non so più chi sono, non so più come comportarmi, ho perso tutti e la gente non mi vede più con gli occhi di una volta. Ho il cuore rotto in mille pezzi, non ho fiducia in nessuno, ho capito quanto il mondo è brutto. Avrei preferito che mi picchiassero, che mi investissero con una macchina, sarebbe stato un grande dolore fisico che o mi avrebbe portato alla morte o a una guarigione definitiva poi. Questi tipi di male non ti passano, neanche con il passare degli anni, mentre ti stai divertendo ad una festa ti si attorciglia lo stomaco di colpo perché vedi uno che gli assomiglia, mentre conosci una persona hai paura che possa essere come lui, mentre dormi ti riappare in sogno e ti svegli con l'amaro in bocca e le mani che tremano. Questo male, ti rimane per sempre in un angolo del cuore.
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klimt7 · 5 years ago
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MUTAZIONI
( prima parte )
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La mattina in cui K. si risvegliò senza ombra non fu diversa da tutte le precedenti.
La sveglia suonò all’ora prefissata. I fiumi continuarono a scorrere verso il mare, la luce solare, illuminò costantemente (e continuò a farlo, dall’alba al tramonto), la città in cui era nato e vissuto fino ad allora.
Il sole anche quel  giorno disegnò la sua abituale traiettoria nel cielo, come aveva fatto ininterrottamente per milioni di anni in precedenza, con la sola eccezione delle giornate di cielo coperto.
Nulla in apparenza mutò nel corso degli eventi. La rassicurante continuità con la quale i giorni si susseguono ai giorni, anche quella mattina, venne a dare conforto alle persone che si stavano alzando dai loro letti, per andare incontro ad una nuova giornata.
Lo stesso K. seppure  ancora assonnato, si diresse verso il bagno come al solito. La sequenza dei suoi atti non fu interrotta da nessun moto di sorpresa. Al contrario il fatto che fosse un venerdì, non appena si condensò nella sua mente ancora intorpidita, gli instillò un certo moderato buon umore.
Egli scese poi in cantina e, inforcata la bicicletta, si diresse con poche pedalata sulla strada che conduceva alla Biblioteca della sua Facoltà.
Ora, durante quel primo percorso all’aperto, forse per un difetto d’attenzione, forse per la sua stessa consueta “testa sulle nuvole" - espressione quest'ultima, con la quale era solito abbandonarsi ad una lieve autoironia - nulla venne a modificare la percezione  di sé che egli  aveva maturato nel corso del tempo .
Eppure, se solo avesse abbassato gli occhi fino a terra,  il fatto nuovo, l’avrebbe di certo colpito. Anche i rari passanti delle vie del centro, se soltanto avessero prestato più attenzione a ciò che s’andava disegnando sull’asfalto, avrebbero subitaneamente osservato che solo l’esile silhouette della bicicletta era presente.
Il vorticoso movimento dei raggi delle due ruote, tuttavia, finì anch’esso per scomparire non appena la bici di K. prese velocità.
Qualche fantasioso osservatore, quindi, avrebbe potuto ipotizzare che anche l’ombra di K. avesse seguito quella strada. Se é vero che di ogni corpo lanciato in velocità, tendiamo a perdere i contorni, allora si sarebbe potuto sospettare che anche il corpo di K. quella mattina stesse attraversando lo spazio a folle velocità, causando a tutti coloro che l’avessero osservato, quella bizzarra forma di cecità.
Ma era davvero cosi? E soprattutto, quell'apparente venir meno della propria ombra, come poteva essere interpretato?
Solo molto tempo dopo, dopo che erano accadute molte cose, e avvenimenti definitivi, K. si rammentó di quel venerdì mattina…
Ora, chi si soffermasse a considerare con calma e rigore , la posizione di K., potrebbe valutare  a ragione, del tutto ininfluente questa apparente mancanza di ombra.
Qualcuno potrebbe sostenere la futilità dell'ombra, la sua completa irrilevanza.
D’altra parte, nel corso dei millenni non é forse vero che l’umanità non è riuscita ad escogitare nessun strumento concreto di utilizzo della propria ombra? Men che meno, un suo utilizzo economico.
La Storia non registra a tutt’oggi  nessun tentativo di vendita o di affitto e nemmeno di prestito, o di donazione, della propria ombra.
In altre parole, mai è nato un vero e proprio "mercato di ombre" .
Le uniche notizie reperibili sull'argomento, parlano di sporadici casi di uso della propria ombra quale protezione per i piccoli ospiti di un passeggino . Risulta infatti che qualche madre o nonna abbia utilizzato la propria ombra per sottrarre un bimbo al diretto irraggiamento solare, in spiaggia o in barca... ma la cosa é da ritenersi  a dir poco irrilevante.
Pare dunque che l’ombra sia da annoverare fra i fenomeni più inutili che accompagnano l’umanità.
Altri osservatori, al contrario  potrebbero tirare conseguenze inquietanti dall'evento,  facendosi forti del fatto che quel corpo privo d’ombra si sottraeva alle più elementari leggi della Fisica.
Esisteva ancora quel corpo? Era in atto una sconosciuta mutazione per effetto della quale  il primo risultato era questa possibilità di essere attraversati dalla luce?
Di certo rimane che K. arrivò a destinazione, e parcheggiò la sua bicicletta sul piazzale a fianco del massiccio edificio dell'Università, senza un solo minuto di ritardo.
Erano le 8.30.
Il saluto che rivolse ad un amico, seduto nella prima sala della Biblioteca, apparentemente attestava - per quel poco che possa valere questa affermazione- che egli ancora esisteva .  
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pangeanews · 5 years ago
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“Mi deprime l’Italietta del posto fisso, delle false certezze, dei riti compiuti per non pensare, per non mettersi in gioco, per non rischiare nulla”. Dialogo con Andrea Di Consoli
Ippolita Luzzo intercetta Andrea Di Consoli sul treno Roma-Genova. Dalla Stazione Termini con la canzone di Jannacci in testa Prendeva il treno “Prendeva il treno per non essere da meno Prendeva il treno per sembrare un gran signor”. Viaggiando con Andrea, già autore di libri importanti (per Rizzoli ha pubblicato, tra l’altro, La curva della notte e La collera) ci smarriamo nel Diario dello smarrimento (Inshibboleth Edizioni, 2019), ultima sua confessione intima, che ci riporta ad una stazione come casa. Alla nostalgia di casa. Dice infatti Andrea di sentirsi a casa alla Stazione Termini sin da quando arrivò a Roma nel 1996 e a lui ora chiedo quasi fermandolo sui binari “Ma la casa vera dov’è? Cos’è la casa?”.
“La casa è la pace. Ma cosa significa ‘sentirsi a casa’? Non credo di saperlo, non credo di averci mai ragionato a fondo. Nella mia vita ho cambiato tante case. Ma il concetto di ‘casa’ è legato esclusivamente al manufatto che siamo soliti, appunto, chiamare casa? Tuttavia il manufatto è importante, è cruciale, nessuno può negarlo. Per tanti la casa è rifugio, sicurezza, pace. Per altri è prigione, costrizione gabbia. Non so esattamente dove sia casa, per me. Anche perché non ce l’ho. Vivo da sempre in affitto. E la casa in Basilicata, a Rotonda, non è mia, ma dei miei genitori. In ogni caso, non mi sento a casa da nessuna parte. Anzi no, voglio dirla meglio: a volte mi sento a casa a Roma, a volte a Rotonda, a volte a Napoli, a casa della mia compagna. E questa pace ha a che fare con qualcosa di interiore, di psicologico. Il tema è enorme, e non so metterlo bene a fuoco. Forse l’unica certezza che ho sull’argomento è che vorrò essere seppellito a Rotonda, quel giorno. Di questo sono davvero certo. Per il resto, chissà se avrò mai una casa su questa terra dove, appunto, sentirmi in pace, al sicuro. Sinora la pace e la sicurezza li ho vissuti per degli attimi, ma mai interamente, e questo mi pesa, anche perché sento che le forze di un tempo stanno venendo meno, e il nomadismo richiede una grande energia fisica”.
Io mi sono sentita molto a casa nel tuo libro, nei tuoi pensieri. Considerando la casa il nostro corpo, la nostra mente, i nostri abiti e ciò che abbiamo nelle tasche, noi siamo come le lumache e ci portiamo dietro chi abbiamo fatto entrare. Leggendoti, mi sembra di conoscerti da sempre e di conoscere con te persone che io non ho incontrato ma che fanno ormai da anni parte della mia casa. Tu ricordi Rocco Carbone, da me conosciuto per un delizioso articolo di Romana Petri, sua cara amica. Da allora Rocco quasi sta come presenza amicale qui da me, con i suoi libri. Questa è la grande potenza della letteratura, riuscire a dire e a dare oltre il tempo contingente. Riuscire a farci smarrire però facendoci ritrovare, vero?
“Questo vale finché c’è la vita. Finché la vita è sopportabile, decifrabile. Poi vi sono dei momenti in cui purtroppo il buio del dolore non fa più apprezzare niente, tanto che le parole, in quelle circostanze, sono solo chiacchiere. La letteratura è un luogo caldo, fraterno. Ma solo finché c’è la vita, cioè finché la vita è sopportabile. Perdersi, ritrovarsi… A volte mi chiedo cosa ci abbia condotto sin qui, sino a questa scellerata convinzione che possa esistere un ordine, una sicurezza, una normalità. La gente è dilaniata da paure, insicurezze, paranoie, violenze di tutti i tipi, eppure se ti guardi intorno vedi tanta gente che si convince di un ordine assurdo, illusorio, certamente umano, ma ipocrita. Quando mi chiedono perché amo la globalizzazione e le grandi migrazioni io rispondo sempre perché mi deprime l’Italietta del posto fisso, delle false certezze, delle piccole cose di pessimo gusto, dei riti compiuti per non pensare, per non mettersi in gioco, per non rischiare nulla. Perdersi non è la malattia: la malattia è clinicizzare tutto. Considerare matto chi sta nella verità dello smarrimento, del fuoco, della paura, della Wanderung“.
“Nella verità dello smarrimento” troviamo momenti individuali, l’individuo solo senza connessioni, l’individuo alle prese con i figli da crescere, con il lavoro precario e con un tessuto sociale sempre più sfilacciato. E l’individuo nella storia dei cambiamenti sociali ed epocali. Tu hai scritto diversi saggi sulle condizioni nel Mezzogiorno. Condizioni di potere uguali dappertutto. Se pensiamo che nel 1500 durante la signoria dei Medici si tenevano banchetti pubblici. I nobili mangiavano e il popolo assisteva allo spettacolo. Restava per il popolo lo spettacolo rutilante delle portate e i profumi di esotiche vivande e fra loro, fra i poveri, si litigava per i resti, per cosa cadeva dal tavolo. In uno dei tuoi frammenti ci porti a Rotonda dove comandavano quattro famiglie. Bisognava portare doni e riverire. Tu ci dici che si bussava alle porte dei potenti coi piedi perché le mani erano ricolme di doni. La sottomissione di chi aveva bisogno era umiliante. Poi è sembrato per un periodo che ci fosse la possibilità di sconfiggere per sempre l’umiliazione imposta dal forte sul debole con la scuola, con la Costituzione. Vorremmo ancora crederci, anzi invitiamo i nostri figli a crederci quasi come un mantra. Ed è questa una delle altre case che ci appartiene, vero? La scuola, il sapere…
“Sì, ma la cosa più umiliante per noi è constatare che la contestazione delle classi subalterne avviene proprio sul terreno del sapere, considerato come luogo del privilegio, delle élite. Trovo assurdo disprezzare il sapere solo perché le classi dominanti, giustamente, amano sapere, sanno. Mi sembra un autolesionismo assurdo, incredibile. Ma il sapere non è solo uno strumento socio-economico di emancipazione, bensì un allargamento spirituale, che rende più vita la vita, più reale la realtà, più complesse le cose che, troppo spesso, ci sembrano facili per ignoranza, superficialità. Tuttavia, qualcosa della mentalità piccolo-borghese rispetto al sapere va scardinata. Quell’idea della laurea, del concorso pubblico, del posto fisso, la casa al mare, ecc. Quell’idea così angusta e svilita del sapere che ha reso il Sud Italia un deserto abitato da ex aristocratici, da impiegati pubblici e da un lumpenproletariat 2.0. Il sapere emancipa non soltanto da difficili condizioni socio-economiche, ma anche dalla grettezza di chi difende il proprio orto senza pensare al mondo, senza pensare all’infinito”.
C’è stato un vero attacco, hai ragione, a chi ha studiato, a chi possiede una laurea, ed è pur vero che si dovrà ricominciare a ripensare al valore dello studio come forza e non come potenza. E ritornando alle case ideali dove noi abitiamo risento quel tuo “messaggio in bottiglia” che poi tu dici di essere la più atroce delle storie letterarie, da lì io vorrei riprendere idealmente il treno di quel personaggio di Jannacci, il treno di “Prendeva il treno” e con un tuo pezzo ritornare all’amore “La vastità desertica del terreno amoroso, la complessità dei legami tra due individui, che sono come due galassie solitarie destinate a incontrarsi e condannate a collidere. Con la più grande illusione che è la facilità dell’aggancio sensoriale. Quando due persone adulte si incontrano sono sempre diversi i motivi per cui due persone si ritrovano in quel territorio in apparenza stretto, in realtà larghissimo, che è l’amore”. Una delle case più care a tutti noi è la casa dell’amore. Nel Regno Della Litweb indubbiamente noi stiamo tutti con te, Andrea. Con te e con Jannacci “E prende il treno per non essere da meno, E piange e ride per quel grande, assurdo amor!”.  Messaggi in bottiglia dal “Diario dello smarrimento”.
Ippolita Luzzo
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