#anello mancante
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noneun · 5 days ago
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Ho appena pubblicato sul mio blog di divulgazione scientifica un articolo provocatorio ma che rimarca qualcosa di assolutamente reale: Homo sapiens non è il culmine dell'evoluzione, ma solo un anello di passaggio tra il passato e un futuro incerto. La nostra postura eretta ci regala mal di schiena, i denti del giudizio ci fanno soffrire, e la sudorazione ci tiene freschi… ma solo fino a un certo punto. L'evoluzione non ha un piano preciso: si adatta come può. E noi? Siamo l'unica specie capace di influenzare il proprio futuro e quello dell'intero pianeta, ma anche la più brava a complicarsi la vita. Se vogliamo che il "ramo" Homo sapiens non si secchi, forse è ora di darsi una mossa.
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pier-carlo-universe · 1 month ago
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"L'anello mancante" di Carmen Laterza: un cozy mystery irresistibile. Recensione di Alessandria today
Un delizioso mix di mistero, dolcezza e colpi di scena
Un delizioso mix di mistero, dolcezza e colpi di scena. “L’anello mancante” di Carmen Laterza, primo volume della serie “Le indagini di Agata Cornero”, è un romanzo perfetto per gli amanti del cozy mystery. Ambientato nella pittoresca cittadina di Fonterone, il libro ci immerge in un’avventura ricca di suspense e dolcezza, guidata dalla carismatica protagonista, Agata Cornero. Agata, dopo anni…
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jazzluca · 7 months ago
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CONVOY [ OPTIMUS PRIME ] C-01 Transformers MISSING LINK
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Per festeggiare i 40 anni dei Transformers, Hasbro e Takara stanno facendo un po' di tutto, giustamente, fra ristampe, riedizioni ed ammodernamenti dei loro storici personaggi, e propabilmente una delle migliori trovate è quella dell'azienda giapponese con la linea Missing Link, e non potevano partire se non da lui, OPTIMUS PRIME / CONVOY ora qui letteralmente anello mancante fra passato e presente.
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Infatti, dopo svariati modellini che erano omaggi, redesign o copie carbone dei settei dei cartoni, finalmente hanno semplicemente preso gli stampi dei giocattoli originali e migliorati con il maggior numero di articolazioni possibile!
In generale per una linea di giocattoli non è una novità, dato che abbiamo ad esempio i Masters of the Universe Origins già da qualche anno, ma effettivamente per i tf è davvero una sorpresa, una chimera auspicata sin da quando il fandom originale ha iniziato a maturare ed a collezionare seriamente i personaggi delle varie serie.
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Forse ci hanno fatto attendere un po' troppo, ma è vero che solo da un quinquennio le linee commerciali dei tf hanno iniziato a possedere quasi tutte le articolazioni mediamente presenti in una normale Action Figure moderna ( non trasformabile! ), così come è almeno dalla Trilogia di Unicron che i tributi ai classicissimi G1 non mancano, sfociati nella linea Classic e proseguiti appunto nelle odierne Generations.
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Ma da par mio, dopo la sbornia recente dei Generations il più possibile fedeli ai settei dei cartoni, sentivo il bisogno di un altro tipo di ritorno alle origini, al look grezzo ma affascinante dei primi giocattoli, che perlopiù comparivano con tali fattezze nei fumetti UK: posto che pare che vogliano continuare a fare i Generations sempre nella prima maniera, non posso che essere entusiasta quindi del fatto di prendere letteralmente i look dei giocattoli originali e darci quella spinta in più assente in quei bellissimi ma legnosi balocchi della nostra infanzia.
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Che poi di suo Optimus Prime degli '80 non è che era sto gran stoccafisso, che grazie alla trasformazione aveva un discreto range di movimento sulle braccia, piegava le ginocchia e ruotava i pugni staccabili… ma lo stesso, a vedere QUESTA versione di Commander dal vivo anche nelle pose minimal lascia davvero di stucco!
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Ma andiamo con ordine, dato che innanzitutto una discreta parte del leone la fa confezione stessa, anche questa presa paro paro dall'originale box Takara, con le immagini di presentazione aggiornate e pure l'art box frontale con Optimus nell'iconica posa dell'attacco in salto vista nel film del 1986. Idem l'interno, con addirittura il giocattolo contenuto nel POLISTIROLO, come un tempo!!
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Quasi inutile dire che il veicolo stesso, il celeberrimo CAMION CON RIMORCHIO "FREIGHTLINER" è sputato all'originale esteticamente, con tanto di ruote in gomma, e parti di metallo, col rubsign sul tettuccio e simboli Autobot ai lati della cabina già stampati. I fari non sono sono più dei semplici fori ma sono scolpiti come tali, mentre aprendo il parabrezza inizialmente non troviamo subito i due sedili per piloti Dianauti, ma un modulo aggiuntivo per potervi alloggiare la Matrice del Comando, novità per questa versione presa dai cartoni animati, come sappiamo. Tale modulo può comunque essere tolto e rivelare appunto i due sedili originali.
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Anche il RIMORCHIO può sembrare uguale al giocattolo del '83-'84, con i supporti per reggersi che ruotano in avanti, ma aprendolo troviamo la prima novità nel COMBAT DECK, ovvero l'assenza del meccanismo che serviva a lanciare le Autobot lì alloggiate.
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In compenso ora il DRONE DI MANUTENZIONE, anche lui del tutto simili alla sua versione originale nell'aspetto e nella posabilità, può staccarsi dalla base, e muoversi forte delle sei ruotine nel modulo inferiore: questa caratteristica, già vista nel Masterpiece 44 in maniera più elaborata, cita una scena nel cartone animato in "Fire in the Sky" dove dal rimorchio usciva un piccolo rimorchietto con sù il drone armato …
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Un ovvio errore di animazione che però diventa una possibilità di giocabilità in più, ma come dicevo di riflesso cancella quella del lancio a molla di ROLLER: anche il piccolo drone su ruote è praticamente uguale al G1, a parte la possibilità di ruotare di 180° la parte centrale del supporto posteriore con il foro per posizionare le armi, facendo così apparire un lampeggiante, come si vede nei cartoni; manco a dirlo, nelle varie colorazioni viste nelle varie uscite del primissimo Optimus, dal blu al violaceo, qui Roller è argentato come in tv!
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Torniamo finalmente alla MOTRICE, che si TRASFORMA in robot nella solita maniera classica, facendo solo attenzione ora ad allargare le anche, dato che non ci sono più le molle ad allargarle automaticamente, mentre FINALMENTE i pugni sono attaccati ai polsi, nascodendosi semplicemente ripiegati verso l'interno dell'addome.
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Il ROBOT originale di Optimus aveva il suo fascino innato, è innegabile che sennò non avrebbe avuto il successo che merita, ma ora questo Missing Link ne spalanca le potenzialità, innanzitutto con l'ottima pensata di trasformare quelli che erano semplici adesivi decorativi su avambracci, ginocchia e piedi in dettagli scolpiti e colorati, che solo questo è una gioia per gli occhi.
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Ma ovviamente la parte del leone è nella posabilità aumentata, con doppia articolazione su spalle, rotazione della testa, delle cosce, piedi inclinabili, pugni che ruotano, insomma tutto il pacchetto completo di un moderno Generations, con però le sole mancanze della possibilità di alzare la testa ( ovvero, si può fare grazie alla trasformazione, ma sollevando appunto il pannello che la sostiene ) e con accenno di pochi gradi nella rotazione del bacino, limitata per via del pannello dello stomaco.
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Ma d'altro canto abbiamo la possibilità di piegare il torso in avanti, anche solo se a scatto per una ventina di gradi a occhio, ma è assai gradita anche l'apertura delle mani, nientemeno, così come le ruote anteriori si sollevano per poter alzare per bene le gambe, stando pur sempre attenti all'apparente delicatezza delle articolazioni del bacino.
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A parte quest'ultimo, infatti, il robot è bello solido, forte anche delle parti in metallo, e trasuda talmente tanto carisma che basta anche solo un accenno delle posabilità insite, per far lacrimare dalla gioia i fan della prima ora!
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Passando agli accessori, abbiamo la summenzionata Matrice in più, e lo storico FUCILE IONICO, ora più grosso e rifinito ma sopratutto con l'impugnatura effettiva posteriore e non quella realistica ma inutilizzabile.
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Immancabile anche l'ascia d'energia in plastica trasparente che ingloba uno dei pugni a scelta nella sua base, ma non è compatibile con quelli originali ovviamente. La testa però è compatibile con il casco del testone di Ultra Magnus G1, però, uhmmmm …. :3
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Insomma, come già detto, un'ottima maniera per celebrare il 40ennale dei Transformers, anche il prezzo è un po' elevato, ma tutto sommato a pensarci è lo stesso prezzo per chi cerca un Optimus reissue come nuovo o peggio un vintage con scatola, solo che qui abbiamo le aggiunte summenzionate delle articolazioni ed altro.
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Volendo c'è il C-02 "Anime Edition", ovvero solo la motrice con fucile, Matrice ed ascia con colori più cartoon accurate, tipo gli occhi azzurri invece che gialli, blu meno scuro sulle gambe e dettagli degli "adesivi" non dipinti, ma per un 2/3 del prezzo del C-01 tanto vale prenderselo direttamente completo!
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amusicalweb · 2 months ago
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Compralo subito su amazon link https://amzn.to/4gY0YID guarda il video:https://youtu.be/nx_V0aIbDFA
Nuovissima uscita,originalmente scritta per pianoforte,elaborazione unica al mondo per violoncello e piano da meattentamente rivista,una ciliegina sulla torta, anello mancante delle quattro ballate, realizzazione non facile che costa rinunce ed ore di lavoro visto la complessità strutturale,utile ad alimentare anche il patrimonio culturale antologico violoncellistico.
La Ballata n. 4 in Fa minore op. 52 fu composta da FryderykChopin nel 1842.È l'ultima delle quattro scritte dal musicistache fu pubblicata successivamente e dedicata alla baronessa deRothschild. È considerata la più difficile dal punto di vistatecnico e interpretativo, distinguendosi dalle precedenti per una maggiore complessità strutturale e spunti musicali innovativi maturati durante i percorsi di attività creativa.L’opera fu la preferita da Alfred Cortot nei suoi concerti, dopo averla eseguita come prova d'esame al diploma diconservatorio.
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gaetaniu · 5 months ago
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Gli astronomi trovano il buco nero massiccio più vicino, un anello mancante nella formazione dei buchi neri massicci
Da sinistra a destra: L’ammasso stellare globulare Omega Centauri nel suo complesso, una versione ingrandita dell’area centrale e la regione al centro con la posizione del buco nero di medie dimensioni identificato nel presente studio. Le stelle in rapido movimento appena identificate nell’ammasso stellare Omega Centauri forniscono una solida prova dell’esistenza di un buco nero centrale…
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newsnoshonline · 5 months ago
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Il buco nero più raro della Via Lattea potrebbe nascondersi dietro 7 stelle che "non dovrebbero essere lì" La scoperta dell’anello mancante: un buco nero nascosto nella Via Lattea Gli astronomi hanno individuato un anello mancante nella Via Lattea, contenente un raro buco nero di massa intermedia, risultato di stelle in rapido movimento in un ammasso stellare vicino. Questi buchi neri, più grandi dei buchi neri stellari ma più piccoli di quelli supermassicci, sono estremamente rari e si stimano possano avere una massa da 100 a 100.000 volte superiore a quella del Sole. La ricerca degli IMBH: una sfida per gli astronomi Gli IMBH sono difficili da individuare e confermare, pertanto sono definiti “anelli mancanti” nella nostra comprensione
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brunopino · 1 year ago
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Un pesce fossile di 50 milioni di anni fa, anello mancante dell'evoluzione delle razze. La straordinaria scoperta dei ricercatori di UniTo
Il lavoro ha permesso di ricostruirne non solo l’aspetto, dieta e modo di vita, ma anche di appurare come questa nuova specie di razza miliobatiforme, Dasyomyliobatis thomyorkei, dedicata al cantante dei Radiohead, rappresenti una forma di transizione tra le specie attuali più primitive che si nutrono di prede dal corpo molle e vivono principalmente nei fondali, e quelle più evolute che si…
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netmassimo · 2 years ago
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Un articolo pubblicato sulla rivista "Nature" riporta uno studio sugli archei che appartengono al superphylum proposto chiamato Asgard e in particolare sulle loro caratteristiche che li rendono un possibile anello mancante evolutivo con gli eucarioti. Un team di ricercatori formato dalla collaborazione dei gruppi di lavoro di Christa Schleper dell'Università austriaca di Vienna e di Martin Pilhofer del Politecnico federale di Zurigo ha avuto successo nella coltivazione di una specie appartenente a questo gruppo di microrganismi per poterli studiare in laboratorio. Ciò ha permesso di condurre esami approfonditi delle loro strutture cellulari come l'esteso citoscheletro.
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corallorosso · 4 years ago
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Per 5 giorni la sua famiglia ha ricevuto minacce e insulti. Poi, sabato sera, le botte alla ragazza che ha solo 18 anni. Calci, minacce e spintoni. Tutto con un obiettivo: “affinché il papà capisca”. Uno si chiede: è un episodio di mafia? Oppure siamo tornati agli anni di piombo? No, è tutto per una partita di pallone. Esatto, una partita di pallone. Perché la ragazza è la figlia di Gianluca Grassadonia, allenatore del Pescara, che oggi dovrà incontrare sul campo la Salernitana che se dovesse vincere la partita andrà in serie A. Allora un gruppo di sedicenti tifosi della Salernitana, per mandare un messaggio all’allenatore, hanno aggredito la figlia. Si rimane allucinanti da questa vicenda. Per la violenza espressa ma anche la pericolosa stupidità, l’idiozia scientifica che la circonda. Perché la violenza è sempre stupida, ma aggredire una persona affinché una squadra di pallone vinca qualcosa è il chiaro segnale dell’esistenza di un anello mancante tra l’uomo e la scimmia. Punire con severità esemplare a norma di legge. E alla ragazza e tutta la sua famiglia tutta la solidarietà del mondo per questo vergognoso episodio, che è stato condannato anche dagli altri tifosi e della società stessa, che si sono schierati con la famiglia Grassadonia. Leonardo Cecchi
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Se noi eravamo scimmie e ci siamo evoluti vuol dire che anche le scimmie di oggi possono evolversi e magari quando saranno allo stadio del c.d. "anello mancante" noi saremo talmente evoluti da poterle mandare indietro nel tempo così da creare i nostri primi antenati e chissà magari gli alieni non vengono da altri pianeti ma dal futuro è tutto un cazzo di loop temporale ed io devo darmi alle droghe pesanti chissà chissà
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pier-carlo-universe · 1 month ago
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L'anello mancante di Carmen Laterza: la prima indagine di Agata Cornero. Recensione di Alessandria today
Un intrigante debutto letterario che mescola mistero e introspezione, inaugurando la serie di investigazioni di Agata Cornero.
Un intrigante debutto letterario che mescola mistero e introspezione, inaugurando la serie di investigazioni di Agata Cornero. L’anello mancante segna l’inizio della serie che vede come protagonista Agata Cornero, un’investigatrice dall’intuito affinato e dallo spirito critico. In questo primo romanzo, Carmen Laterza ci guida in un’indagine ricca di dettagli, atmosfere evocative e colpi di…
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Carbonio
Il lettore, a questo punto, si sarà accorto da un pezzo che questo non è un trattato di chimica: la mia presunzione non giunge a tanto, “ma voix est foibe, et même un peu profane”. Non è neppure un autobiografia, se non nei punti parziali e simbolici in cui è un’autobiografia ogni scritto, anzi, ogni opera umana: ma storia in qualche modo è pure. E’, o avrebbe voluto essere, una microstoria, la storia di un mestiere e delle sue sconfitte, vittorie e miserie, quale ognuno desidera raccontare quando sente prossimo a conchiudersi l’arco della propria carriera, e l’arte cessa di essere lunga. Giunto a questo punto della vita, quale chimico, davanti alla tabella del Sistema Periodico, o agli indici monumentali del Beilstein o del Landolt, non vi ravvisa sparsi i tristi brandelli, o i trofei del propri passato professionale ? Non ha che da sfogliare un qualsiasi trattato, e le memorie sorgono a grappoli: c’è fra noi chi ha legato il suo destino, indelebilmente al bromo, o al propilene, o al gruppo –NCO o all’acido glutammico; ed ogni studente in chimica, davanti a un qualsiasi trattato, dovrebbe essere consapevole che in una di quelle pagine, forse in una sola riga, o formula o parola, sta scritto il suo avvenire, in caratteri indecifrabili, ma che diverranno chiari “poi”: dopo il successo o l’errore o la colpa, la vittoria o la disfatta. Ogni chimico non più giovane, riaprendo alla pagina “verhängnisvoll” quel medesimo trattato è percorso da amore o disgusto, si rallegra o dispera.            Così avviene, dunque, che ogni elemento dica qualcosa a qualcuno (a ciascuno una cosa diversa), come le valli o le spiagge visitate in giovinezza: si deve forse fare un’eccezione per il carbonio, perché dice tutto a tutti, e cioè non è specifico, allo stesso modo che Adamo non è specifico come antenato; a meno che non si trovi oggi (perché no?) il chimico-stilita che ha dedicato la sua vita alla grafite o al diamante. Eppure, proprio verso il carbonio ho un vecchio debito, contratto in giorni per me risolutivi. Al carbonio, elemento della vita, era rivolto il mio primo sogno letterario, insistentemente sognato in un’ora e in un luogo nei quali la mia vita non valeva molto: ecco, volevo raccontare la storia di un atomo di carbonio.E’ lecito parlare di “un certo” atomo di carbonio? Per il chimico esiste qualche dubbio, perché non si conoscono fino ad oggi (1970) tecniche che consentano di vedere, o comunque isolare, un singolo atomo; nessun dubbio esiste per il narratore, il quale pertanto si dispone a narrare.            Il nostro personaggio giace dunque da centinaia di milioni di anni, legato a tre atomi d’ossigeno e a uno di calcio, sotto forma di roccia calcarea: ha già una lunghissima storia cosmica alle spalle ma la ignoreremo. Per lui il tempo non esiste, o esiste solo sotto forma di pigre variazioni di temperatura, giornaliere e stagionali, se, per la fortuna di questo racconto, la sua giacitura non è troppo lontana dalla superficie del suolo. La sua esistenza, alla cui monotonia non si può pensare senza orrore, è un’alternanza spietata di caldi e di freddi, e cioè di oscillazioni (sempre di ugual frequenza) un po’ più strette o un po’ più ampie: una prigionia, per lui potenzialmente vivo, degna dell’inferno cattolico. A lui, fino a questo momento, si addice il tempo presente, che è quello della descrizione, anziché uno dei passati, che sono i tempi di chi racconta: è congelato in un eterno presente, appena scalfito dai fremiti moderati dell’agitazione termica.Ma appunto per la fortuna di chi racconta, che in caso diverso avrebbe finito di raccontare, il banco calcareo di cui l’atomo fa parte giace in superficie. Giace alla portata dell’uomo e del suo piccone (onore al piccone e ai suoi più moderni equivalenti: essi sono tutt’ora i più importanti intermediari nel millenario dialogo fra gli elementi e l’uomo): in un qualsiasi momento, che io narratore decido per puro arbitrio essere nell’anno 1840, un colpo di piccone lo staccò e gli diede l’avvio verso il forno a calce, precipitandolo nel mondo delle cose che mutano. Venne arrostito affinché si separasse dal calcio, il quale rimase per così dire con i piedi per terra e andò incontro a un destino meno brillante che non narreremo; lui, tuttora fermamente abbarbicato a due dei tre suoi compagni ossigeni di prima, uscì per il camino e prese la via dell’aria. La sua storia, da immobile, si fece tumultuosa.            Fu colto dal vento, abbattuto al suolo, sollevato a dieci chilometri. Fu respirato da un falco, discese nei suoi polmoni precipitosi, ma non penetrò nel suo sangue ricco, e fu espulso. Si scolse per tre volte nell’acqua del mare, una volta nell’acqua di un torrente in cascata, e ancora fu espulso. Viaggiò col vento per otto anni, ora alto, ora basso, sul mare e fra le nubi, sopra foreste, deserti e smisurate distese di ghiaccio; poi incappò nella cattura e nell’avventura organica.            Il carbonio, infatti, è un elemento singolare: è il solo che sappia legarsi con se stesso in lunghe catene stabili senza grande spesa di energia, ed alla vita sulla terra (la sola che finora conosciamo) occorrono appunto lunghe catene. Perciò il carbonio è l’elemento chiave della sostanza vivente: ma la sua promozione, il suo ingresso nel mondo vivo, non è agevole, e deve seguire un cammino obbligato, intricato, chiarito (e non ancora definitivamente) solo in questi ultimi anni. Se l’organicazione del carbonio non si svolgesse quotidianamente intorno a noi, sulla scala dei miliardi di tonnellate alla settimana, dovunque affiori il verde di una foglia le spetterebbe a pieno diritto il nome di miracolo. L’atomo di cui parliamo, accompagnato dai suoi due satelliti che lo mantenevano allo stato di gas, fu dunque condotto dal vento, nell’anno 1848, lungo un filare di viti. Ebbe la fortuna di rasentare una foglia, di penetrarvi, e di essere inchiodato da un raggio di sole. Se qui il mio linguaggio si fa impreciso ed allusivo, non è solo per mia ignoranza: questo avvenimento decisivo, questo fulmineo lavoro a tre, dell’anidride carbonica, della luce e del verde vegetale, non è stato ancora descritto in termini definitivi, e forse non lo sarà per molto tempo ancora, tanto esso è diverso da quell’altra chimica “organica” che è opera ingombrante, lenta e ponderosa dell’uomo: eppure questa chimica fine e svelta è stata “inventata” due o tre miliardi d’anni addietro dalle nostre sorelle silenziose, le piante, che non sperimentano e non discutono, e la cui temperatura è identica a quella dell’ambiente in cui vivono. Se comprendere vale farsi un’immagine, non ci faremo mai un’immagine di uno happening la cui scala è il milionesimo di millimetro, il cui ritmo è il milionesimo di secondo, ed i cui attori sono per loro essenza invisibili. Ogni descrizione verbale sarà mancante, ed una varrà l’altra: valga quindi la seguente.            Entra nella foglia, collidendo con altre innumerevoli (ma qui inutili) molecole di azoto e ossigeno. Aderisce a una grossa e complicata molecola che lo attiva, e simultaneamente riceve il decisivo messaggio dal cielo sotto la forma folgorante di un pacchetto di luce solare: in un istante, come un insetto preda del ragno, viene separato dal suo ossigeno, combinato con idrogeno e (si crede) fosforo, ed infine inserito in una catena, lunga o breve non importa, ma è la catena della vita. Tutto questo avviene rapidamente, in silenzio, alla temperatura e pressione dell’atmosfera, e gratis: cari colleghi, quando impareremo a fare altrettanto saremo “sicut Deus”, ed avremo anche risolto il problema della fame nel mondo.            Ma c’è di più e di peggio, a scorno nostro e della nostra arte. L’anidride carbonica, e cioè la forma aerea del carbonio, di cui abbiamo finora parlato: questo gas che costituisce la materia prima della vitala scorta permanente a cui tutto ciò che cresce attinge, e il destino ultimo di ogni carne, non è uno dei componenti principali dell’aria, bensì un rimasuglio ridicolo, un’”impurezza” trenta volte meno abbondante dell’argon di cui nessuno si accorge. L’aria ne contiene il 0,03 per cento: se l’Italia fosse l’aria, i soli italiani abilitati ad edificare la vita sarebbero ad esempio i 15000 abitanti di Milazzo, in provincia di Messina. Questo, in scala umana, è un’acrobazia ironica, uno scherzo da giocoliere, una incomprensibile ostentazione di onnipotenza-prepotenza, poiché da questa sempre rinnovata impurezza dell’aria veniamo noi: noi animali e noi piante, e noi specie umana, coi nostri quattro miliardi di opinioni discordi, i nostri millenni di storia, le nostre guerre e vergogne e nobiltà e orgoglio. Del resto, la nostra stessa presenza sul pianeta diventa risibile in termini geometrici: se l’intera umanità, circa 250 milioni di tonnellate, venisse ripartita come un rivestimento di spessore omogeneo su tutte le terre emerse, la “statura dell’uomo” non sarebbe visibile a occhio nudo; lo spessore che si otterrebbe sarebbe di circa sedici millesimi di millimetro.            Ora il nostro atomo è inserito: fa parte di una struttura, nel senso degli architetti; si è imparentato e legato con cinque compagni, talmente identici a lui che solo la finzione del racconto mi permette di distinguerli. E’ una bella struttura ad anello, un esagono quasi regolare, che però va soggetto a complicati scambi ed equilibri con l’acqua in cui sta sciolto; perché ormai sta sciolto in acqua, anzi, nella linfa della vita, e questo, di stare sciolti, è obbligo e privilegio di tutte le sostanza che sono destinate a (stavo per dire “desiderano”) trasformarsi. Se poi qualcuno volesse proprio sapere perché un anello, e perché esagonale, e perché solubile in acqua, ebbene, si dia pace: queste sono fra le non molte domande a cui la nostra dottrina sa rispondere con un discorso persuasivo, accessibile a tutti, ma fuori luogo qui.E’ entrato a far parte di una molecola di glucosio, tanto per dirla chiara: un destino ne carne ne pesce, mediano, che lo prepara ad un primo contatto con il mondo animale, ma non lo autorizza alla responsabilità più alta, che è quella di far parte di un edificio proteico. Viaggiò dunque, col lento passo dei succhi vegetali, dalla foglia per il picciolo e per il tralcio fino al tronco, e di qui discese fino a un grappolo quasi maturo. Quello che seguì è di pertinenza dei vinai: a noi interessa solo precisare che sfuggì (con nostro vantaggio, perché non lo sapremmo ridurre in parole) alla fermentazione alcoolica, e giunse al vino senza mutare natura.            E’ destino del vino essere bevuto, ed è destino del glucosio essere ossidato. Ma non fu ossidato subito: il suo bevitore se lo tenne nel fegato per più di una settimana, bene aggomitolato e tranquillo, come alimento di riserva per uno sforzo improvviso; sforzo che fu costretto a fare la domenica seguente, inseguendo un cavallo che si era adombrato. Addio alla struttura esagonale: nel giro di pochi istanti il gomitolo fu dipanato e ridivenne glucosio, questo venne trascinato dalla corrente del sangue fino ad una fibrilla muscolare di una coscia, e qui brutalmente spaccato in due molecole di acido lattico, il tristo araldo della fatica: solo più tardi, qualche minuto dopo, l’ansito dei polmoni poté procurare l’ossigeno necessario ad ossidare con calma quest’ultimo. Così una nuova molecola di anidride carbonica ritornò all’atmosfera, ed una parcella dell’energia che il sole aveva ceduta al tralcio passò dallo stato di energia chimica a quello di energia meccanica e quindi si adagiò nell’ignava condizione di calore, riscaldando impercettibilmente l’aria smossa dalla corsa e il sangue del corridore. “così è la vita”, benché raramente essa venga così descritta: un inserirsi, un derivare a suo vantaggio, un parassitare il cammino in giù dell’energia dalla sua nobile forma solare a quella degradata di calore a bassa temperatura. Su questo cammino all’ingiù, che conduce all’equilibrio e cioè alla morte, la vita disegna un’ansa e ci si annida. Siamo di nuovo anidride carbonica, del che ci scusiamo: è un passaggio obbligato, anche questo: se ne possono immaginare o inventare altri, ma sulla terra è così. Di nuovo vento, che questa volta porta lontano: supera gli Appennini e l’Adriatico, la Grecia l’Egeo e Cipro: siamo sul Libano e la danza si ripete. L’atomo di cui ci occupiamo è ora intrappolato in una struttura che promette di durare a lungo: è il tronco venerabile di un cedro, uno degli ultimi; è ripassato per gli stadi che abbiamo già descritti, ed il glucosio di cui fa parte appartiene, come il grano di un rosario, ad una lunga catena di cellulosa. Non è più la fissità allucinante e geologica della roccia, non sono più i milioni di anni, ma possiamo bene parlare di secoli, perché il cedro è un albero longevo. E’ in nostro arbitrio abbandonarvelo per un anno o per cinquecento: diremo che dopo vent’anni (siamo nel 1868) se ne occupa un tarlo. Ha scavato la sua galleria fra il tronco e la corteccia, con la voracità cieca e ostinata della sua razza; trapanando è cresciuto, il suo cunicolo è andato ingrossando. Ecco, ha ingoiato e incastonato in se stesso il soggetto di questa storia; poi si è impupato, ed è uscito in primavera sotto forma di brutta farfalla grigia che ora si sta asciugando al sole, frastornata e abbagliata dallo splendore del giorno: lui è là , in uno dei mille occhi dell’insetto, e contribuisce alla visione sommaria e rozza con cui esso si orienta nello spazio. L’insetto viene fecondato, depone le uova e muore: il piccolo cadavere giace nel sottobosco, si svuota dei suoi umori, ma la corazza di chitina resiste a lungo, quasi indistruttibile. La neve e il sole ritornano sopra di lei senza intaccarla: è sepolta dalle foglie morte e dal terriccio, è diventata una spoglia, una “cosa”, ma la morte degli atomi, a differenza della nostra, non è mai irrevocabile. Ecco al lavoro gli onnipresenti, gli instancabili e invisibili becchini del sottobosco, i microrganismi dell’humus. La corazza, con i suoi occhi ormai ciechi, è lentamente disintegrata, e l’ex bevitore, l’ex cedro, ex tarlo, ha nuovamente preso il volo. Lo lasceremo volare per tre volte intorno al mondo, fino al 1960, ed a giustificazione di questo intervallo così lungo rispetto alla misura umana faremo notare che esso è assai più breve della media: questa, ci si assicura, è di duecento anni. Ogni duecento anni, ogni atomo di carbonio che non sia congelato in materiali ormai stabili (come appunto il calcare, o il carbon fossile, o il diamante, o certe materie plastiche) entra e rientra nel ciclo della vita, attraverso la porta stretta della fotosintesi. Esistono alte porte? Sì, alcune sintesi create dall’uomo; sono un titolo di nobiltà per l’uomo-fabbro, ma finora la loro importanza quantitativa è trascurabile. Sono porte ancora molto più strette di quella del verde vegetale: consapevolmente o no, l’uomo non ha cercato finora di competere con la natura su questo terreno, e cioè non si è sforzato di attingere dall’anidride carbonica dell’aria il carbonio che gli è necessario per nutrirsi, per vestirsi, per riscaldarsi, e per i cento altri bisogni più sofisticati della vita moderna. Non lo ha fatto perché non ne ha avuto bisogno: ha trovato, e tuttora trova (ma per quanti decenni ancora?) gigantesche riserve di carbonio già organicato, o almeno ridotto. Oltre al mondo vegetale ed animale, queste riserve sono costituite dai giacimenti di carbon fossile e di petrolio: ma anche questi sono eredità di attività fotosintetiche compiute in epoche lontane, per cui si può bene affermare che la fotosintesi non è solo l’unica via per cui il carbonio si fa vivente, ma anche al sola per cui l’energia del sole si fa utilizzabile chimicamente. Si può dimostrare che questa storia, del tutto arbitraria, è tuttavia vera. Potrei raccontare innumerevoli storie diverse, e sarebbero tutte vere: tutte letteralmente vere, nella natura dei trapassi, nel loro ordine e nella loro data. Il numero degli atomi è tanto grande che se ne troverebbe sempre uno la cui storia coincida con una qualsiasi storia inventata a capriccio. Potrei raccontare storie a non finire, di atomi di carbonio che si fanno colore o profumo nei fiori; di altri che da alghe minute a piccoli crostacei, a pesci via via più grossi, ritornano anidride carbonica nelle acque del mare, in un perpetuo spaventoso girotondo di vita e di morte, in cui ogni divoratore è immediatamente divorato; di altri che raggiungono invece una decorosa semi-eternità nelle pagine ingiallite di qualche documento d’archivio, o nella tela di un pittore famoso; di quelli a cui toccò il privilegio di far parte di un granello di polline, e lasciarono la loro impronta fossile nelle rocce per la nostra curiosità; di altri ancora che discesero a far parte dei misteriosi messaggeri di forma del genere umano, e parteciparono al sottile processo di scissione duplicazione e fusione da cui ognuno di noi è nato. Ne racconterò invece soltanto ancora una, la più segreta, e la racconterò con l’umiltà e il ritegno di chi sa fin dall’inizio che il suo tema è disperato, i mezzi fievoli, e il mestiere di rivestire i fatti con parole fallimentare per sua profonda essenza.  E’ di nuovo tra noi, in un bicchiere di latte. E’ inserito in una lunga catena, molto complessa, tuttavia tale che quasi tutti i suoi anelli sono accetti al corpo umano. Viene ingoiato: e poiché ogni struttura vivente alberga una selvaggia diffidenza verso ogni apporto di altro materiale di origine vivente, la catena viene meticolosamente frantumata, e i frantumi, uno per uno, accettati o respinti. Uno, quello che ci sta a cuore, varca la soglia intestinale ed entra nel torrente sanguigno: migra, bussa alla porta di una cellula nervosa, entra e soppianta un altro carbonio che ne faceva parte. Questa cellula appartiene a un cervello, e questo è il mio cervello, di me che scrivo, e la cellula in questione, ed in essa l’atomo in questione, è addetta al mio scrivere, in un gigantesco minuscolo gioco che nessuno ha ancora descritto. E’ quella che in questo istante, fuori da un labirintico intreccio di sì e di no, fa sì che la mia mano corra in un certo cammino sulla carta, la segni di queste volute che sono segni; un doppio scatto, in su e in giù, fra due livelli d’energia guida questa mia mano ad imprimere sulla carta questo punto: questo”.
Primo Levi
Il sistema periodico
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divina-la-divi · 5 years ago
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PAROLE
Nella nostra lingua esistono circa 250mila lemmi (cosa?) che declinati, coniugati, lavati, stirati e ammirati, costruiscono più di due milioni di parole utilizzabili. Tante.
Con tutti questi termini dovrebbe essere semplice conversare, spiegarsi, descrivere stati d’animo, pensieri, sentimenti, emozioni.
In realtà ne usiamo solo poche migliaia, le statistiche dicono fra 5mila e 50mila circa. Dipende ovviamente dal grado di cultura, dalla curiosità di conoscerle, dal piacere di usarle. E dalle cose da dire.
Dipende.
E comunque per una conversazione e per descrivere un pensiero anche complesso non ne servono molte. Che poi è la loro scelta che è importante; non la quantità, e nemmeno la ricercatezza.
Diffidate di chi ne usa poche vantandosi della propria ignoranza, o di chi troppe, facendo sfoggio di una inutile cultura nozionistica e bulimica con la quale si riempie la bocca di niente, ma soprattutto diffidate di chi le usa a cazzo. Le parole devono essere quelle giuste.
E allora, come i numeri, che se usati correttamente permettono di risolvere i problemi più complessi, o le note musicali, che con la loro combinazione creano meraviglie, anche le parole, soprattutto le parole, accessoriate come si deve da verbi coniugati correttamente, congiunzioni, preposizioni, punteggiatura e tutto quello che serve, potranno trovare le soluzioni, descrivere armonie bellissime, e creare quella Bellezza che è poi la sola cosa che potrebbe salvarci, se fossimo in grado di apprezzarla.
Le parole, dette o sentite, sono delicate ma hanno una forza devastante, fragili come sottilissimo vetro ma dure come il diamante più prezioso. Possono essere gridate, o appena percepibili, accarezzare teneramente sulla guancia, e colpire duro sotto la cintura, vigliaccamente. Sono soffio di aria fresca nell’afa estiva e gelido vento di tramontana in inverno. Possono dare la vita, o negarla, accendere i sogni e distruggerli, come fa uno spillo con una bolla di sapone.
Certo, quelle giuste. A saperle.
Che poi, per rovinare tutto a volte ne basta anche solo una sbagliata, come un anello troppo debole in una catena e che per questo la rende fragile, come un pezzo che non si incastra nel puzzle, e quello giusto sembra che non ci sia nemmeno. Il cervello non la trova, lei è sfuggente, fa la ritrosa, si fa desiderare, si nasconde. Allora cominci a balbettare… come dire… insomma… beh… allora… vediamo… dunque… ricominci il discorso come per prendere una nuova rincorsa… e intanto, cercando di ostentare una sicurezza che non hai, continui a frugare nel mazzo per fare uscire la carta giusta. Oppure, se ti piace scrivere, pisticci incerto sulla tastiera, cerchi di concentrarti, fra un del e un ctrl+z, provi con una musica diversa dal solito blues - Knopfler - Pink Floyd e Morricone, per riprendere a battere lo stesso tempo del tuo cervello.
Tutto per quel pezzo mancante del puzzle.
E più è importante quello che devi dire, più quella cazzo di parola si atteggia a ‘Ombretta sdegnosa del Mississippi’.
Succede quando c’è da descrivere emozioni che si muovono più velocemente di te, che escono dall’anima, che sanno di rabbia e di amore, di dolore e di gioia. Succede quando le parole che cerchi, da dire o da scrivere, si bagnano nelle lacrime e diventano illeggibili, o quando si mettono a ridere di gusto e ti distraggono perché ti metti a ridere con loro. Succede quando sei troppo coinvolto e la passione annebbia la ragione e perfino la logica, o quando c’è da lottare per un diritto, o un’idea, contro avversari troppo più forti di te, e sai che qualsiasi parola non potrà avere la forza che invece servirebbe. Succede quando con quelle parole vorresti portare qualcuno in paradiso, o mandarlo all’inferno.
Succede quando ti aggrappi ancora a una speranza, e provi a difendere quel cazzo di sogno più grande di te.
Ecco. In quei casi, quando le maledette non escono, o non ne trovate di giuste per quello che dovete dire, arrendetevi. Scegliete il silenzio. Le parole che vi mancano sono lì dentro, in quello che non direte.
Ma forse chi deve capire capirà lo stesso.
(Orso Grigio; Luciano Scanzi)
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gaetaniu · 11 months ago
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I ricercatori scoprono le rocce di origine dei primi veri continenti
I mattoni dei primi continenti sono costituiti da tre tipi di rocce granitoidi: la tonalite, la trondhjemite e la granodiorite (TTG). I geologi hanno scoperto un anello mancante nell’enigmatica storia dello sviluppo dei continenti: un’origine rivista che non richiede l’inizio della tettonica a placche o di altri fattori esterni per spiegare la loro formazione. I risultati pubblicati la scorsa…
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gregor-samsung · 5 years ago
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"Fossile vivente", come "anello mancante", è un ossimoro, cioè un accostamento di parole dal senso apparentemente contrastante. Ovviamente, se un organismo è vivente, non può essere un fossile. Ma altrettanto ovviamente, organismi che conosciamo come fossili potrebbero anche vivere ancora, a meno che non usiamo il termine "fossile" riferito unicamente alle cose che si cavano dalla terra (significato tecnico della parola latina fossilis, derivato di fossus, participio passato di fodere, "scavare") e sono estinte. Il che sarebbe piuttosto sciocco. Quindi, "fossile vivente" è forse un termine tecnicamente appropriato, ed è di certo un termine pratico. Charles Darwin pensò fosse pratico. Egli coniò il termine "fossile vivente" nel suo famoso libro "L'origine della specie" (1859), quando lo usò per descrivere primitivi organismi viventi come dipnoi, che considerò i superstiti di antiche diversificazioni, confinati in particolari ambienti dove "la competizione... sarebbe stata meno dura che altrove", ai bacini di acqua dolce, per esempio. La mia definizione preferita è la seguente: un fossile vivente è il rappresentante vivente di un antico gruppo di organismi che si presume estinto (che può essere stato ritenuto a lungo estinto) ma non lo è. Di solito ciò significa, inoltre, che il rappresentante vivente è raro o almeno poco comune e ha un habitat ristretto. È membro di un gruppo che in periodi geologici passati era distribuito estesamente nel tempo e nello spazio, com'è indicato nelle testimonianze fossili, e che si estinse molto tempo fa. Infine, di solito c'è anche la connotazione che il rappresentante vivente è molto primitivo se paragonato ad altri gruppi di organismi, persino strettamente imparentati. Qualsiasi organismo che corrisponda a tali descrizioni è destinato a interessare i biologi. Per esempio, esso ci induce a porci degli interrogativi: come e perché tale specie è sopravvissuta mentre tutte le specie affini sono morte? Che cosa ci dice riguardo alle forme e ai ritmi dell'evoluzione nelle testimonianze fossili e viventi? Che cosa ci dicono i fossili viventi sui gruppi che non sono sopravvissuti e sui gruppi che hanno continuato a prosperare?
Keith S. Thomson, La storia del celacanto, il fossile vivente, Bompiani (traduzione di Fabrizio Ascari; collana Le giraffe), 1993¹; pp. 70-71. [ Ed.ne or.le: Living Fossile: The Story of the Living Coelacanth, Northon & Company Ltd, London, 1991 ]
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levysoft · 5 years ago
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4 novembre 1869. Nel Regno Unito s’inizia a pubblicare un settimanale: Nature, si chiama. Farà parecchia strada. Fino a diventare oggi, insieme alla concorrente Science, una delle riviste scientifiche più importanti e prestigiose al mondo. Di cui Elena Cattaneo parla come “marchio di garanzia della ricerca, contributo prezioso a dibattiti sociali importanti come quelli sui vaccini, terreno che mette a disposizione dei ricercatori di tutto il mondo dati su cui far crescere la scienza”. Qualche numero e dato: nei suoi 150 anni di storia, Nature ha pubblicato un totale di oltre 400mila contenuti; la proporzione delle autrici donne è aumentata nel tempo (si attesta oggi intorno al 30% sul totale); si è allargata anche la provenienza geografica degli autori così come il numero medio di autori per articolo. All’inizio della storia del giornale, le parole chiave che si trovavano più frequentemente nei titoli e negli abstract degli articoli erano aurora, Sole, meteore, acqua e Terra. Rimpiazzate oggi da cellula, quanto, dna, proteina e recettore. Elogi sperticati (e auguri sinceri) a parte, va ricordato che anche riviste blasonate come Nature e Science non sono immuni da critiche: impossibile non citare l’infuocato j’accuse di Randy Shekman, Nobel per la medicina 2013, che le attaccò sostenendo che “rovinano la scienza mercificandone i contenuti e spingendo i ricercatori ad aggiustare i risultati”, un tema che qui su Wired abbiamo trattato estensivamente. Lasciando da parte le controversie, vi proponiamo i dieci articoli più importanti della storia di Nature, quelli che per un motivo o per un altro hanno segnato profondamente la scienza e il modo di fare ricerca.
C’era una volta il kaone
Siamo nel 1947. Due fisici delle particelle, George Rochester e Clifford Butler, che stanno studiando le interazioni tra raggi cosmici e una piastra di piombodel loro rivelatore. E si accorgono di una traccia strana, a forma di V, che nasconde qualcosa di ancora più strano: un piccolo gap tra il vertice della traccia e la piastra di piombo. Il segnale, arguiscono i due, della produzione di una particella invisibile e neutra, circa mille volte più pesante di un elettrone, poi immediatamente decaduta in due particelle neutre. Si trattava del cosiddetto kaone neutro, la cui identificazione darà la stura, a cascata, alla scoperta di molte altre particelle che andranno a comporre il complicato puzzle del Modello standard così come lo conosciamo oggi.
Ecco a voi gli anticorpi monoclonali
1975. Nature pubblica un articolo a firma di due immunologi, Georges Köhlerand César Milstein, in cui si descrive come sia possibile realizzare linee cellulari in grado di produrre anticorpi con una specificità predeterminata. Quelli che passeranno alla storia come anticorpi monoclonali. Ossia anticorpi prodotti da cellule ibride e capaci di riprodursi in vitro all’infinito, in copie identiche o cloni (donde il nome monoclonali): le cellule ibride, o ibridomi, sono a loro volta ottenute dalla fusione tra i linfociti B, un particolare tipo di anticorpi, con cellule di mieloma di topo. Fu proprio questa l’intuizione geniale di Köhler e colleghi – che nove anni più tardi si aggiudicheranno il premio Nobel per la Medicina –: normalmente, infatti, i linfociti B coltivati in laboratorio hanno vita brevissima e quindi non possono essere usati per la produzione di altri anticorpi. L’idea di fonderli con cellule mielomatose, che hanno una sopravvivenza maggiore, rese possibile la produzione di grandi quantità di anticorpi identici e in grado di riprodursi all’infinito. Cambiando così radicalmente la medicina, e in particolar modo l’immunologia e l’oncologia.
Una nuova specie: l’australopiteco
Torniamo indietro al 1925 e cambiamo completamente campo di ricerca, passando alla paleontologia. Raymond Dart, a capo del dipartimento di anatomia della University of Witwatersrand di Johannesburg, in Sudafrica, servendosi dei ferri da maglia di sua moglie estrasse da un pezzo di roccia un fossile piuttosto bizzarro. “Dalla roccia”, racconterà più tardi, “è emersa la faccia di un bambino, con una serie completa di denti da latte. Ero molto orgoglioso del mio bambino di Taungs [Taungs è il luogo di provenienza del fossile, nda]”. Analizzando il reperto, lo scienziato si accorgerà di qualcosa di molto strano. Il fossile ha caratteristiche ibride, simili in parte a quelle di una scimmia e in parte a quelle di un essere umano. Qualcosa di completamente sconosciuto in quel momento. Come racconta su Nature, Dart ipotizzò che il bambino fosse una sorta di anello mancante tra scimmie ed esseri umani e gli assegnò il nome scientifico di Australopithecus africanus. Anche in questo caso, una scoperta del tutto rivoluzionaria.
Dal carbonio al grafene
Si chiama C60, ed è una molecola di carbonio scoperta nel 1985 che appartiene alla stessa famiglia dei più celebri nanotubi di carbonio e del grafene: sono strutture nanoscopiche di atomi di carbonio disposti in un reticolo cristallino. La storia del C60 comincia nel 1970, nei laboratori della Rice University di Houston, in Texas, dove Eiji Osawa, un chimico teorico giapponese, predisse l’esistenza di una molecola stabile di carbonio composta da 60 atomi. La sua intuizione, però, non riscosse particolare interesse dalla comunità scientifica; le cose cambiarono quindici anni dopo, quando il chimico inglese Harry Kroto, esperto in spettroscopia molecolare, si appassionò alla questione e riuscì a identificare con precisione la struttura del C60, esattamente uguale a quella che si vede sulla superficie dei palloni da calcio – una sequenza di pentagoni ed esagoni. È proprio a partire da questa scoperta, premiata con il Nobel per la chimica nel 1996, che si arriverà due decenni più tardi alla scoperta del grafene. E a un altro Nobel, stavolta per la fisica.
C’è un buco nell’ozono
Restiamo nel 1985 e spostiamoci dai laboratori di chimica alla stratosfera sopra i ghiacci dell’Antartide. I dati analizzati da tra scienziati, Joe Farman, Brian Gardiner e Jonathan Shanklin, mostrano senza ombra di dubbio una diminuzione drastica della concentrazione di molecole di ozono sopra due stazioni antartiche, Halley e Faraday. Stando al lavoro dei tre, i livelli di ozono – sostanza indispensabile per schermare il pianeta dalle radiazioni solari – erano cominciati a calare alla fine degli anni settanta, per ridursi di circa un terzo entro il 1984. Un fenomeno che passerà alla storia come buco nell’ozono. E che pare oggi, grazie all���applicazione di protocolli stringenti che hanno vietato la produzione e l’uso di prodotti chimici che si legano all’ozono, essersi fortunatamente ridotto.
Patch-clamp, una rivoluzione per le neuroscienze
Si chiama patch-clamp technique, che forse suona meglio dell’italiano blocco di area, ed è una tecnica sviluppata nel 1976 da Erwin Neher e Bert Sakmann. Una di quelle scoperte che gli anglofoni chiamano breakthrough, rivoluzionaria. E lo è davvero: la patch-clamp technique, con cui si misurano le correnti di ioni che scorrono attraverso i canali posti sulle membrane cellulari, ha consentito ai neuroscienziati di studiare i segnali elettrici con precisione e scala mai raggiungibili prima di quel momento, sia a livello molecolare che di reti di neuroni.
Buchi, buchi, nanobuchi
Trent’anni fa nasce una nuova classe di nanomateriali. Tutto grazie alla formulazione di un principio chimico tutto sommato molto semplice, pubblicato (ovviamente) su Nature: dei template multimolecolari che consentivano l’assemblaggio ordinato di materiali con pori di diametro compreso tra 2 e 50 nanometri. I cosiddetti materiali mesoporosi, che nei decenni successivi, fino ad arrivare ai giorni nostri, hanno trovato larghissimo impiego e applicazioni, specie nel campo del trasporto dei farmaci e della separazione molecolare.
Le cellule diventano riprogrammabili
In principio siamo una sola cellula. Da cui, poi, si originano tutte le altre, che diventano man mano più specializzate e adatte a compiere una particolare attività. È la cosiddetta differenziazione cellulare, un processo che fino agli anni cinquanta si credeva essere sostanzialmente irreversibile. Il lavoro pubblicato nel 1958 da John Gurdon e colleghi cambiò tutto, suggerendo che forse effettivamente poteva esserci un modo per riprogrammare le cellule: una scoperta di importanza epocale per la biologia, da cui deriveranno, in tempi più recenti, i lavori di Takahashi e Yamanaka, che sono riusciti nel 2006 a resettarecellule di topo differenziate e riportarle allo stato pluripotente, quello da cui può originarsi qualsiasi cellula del corpo.
Due eliche, un dna
È probabilmente il paper più famoso della lista, senza voler far torto agli altri. Una paginetta pubblicata il 25 aprile 1953 a firma James Watson e Francis Crick, dal titolo “Molecular structure of nucleic acids: a structure for deoxyrobose nucleic acid”. Tradotto per i non addetti ai lavori: i due scienziati (con la collaborazione di Rosalind Franklin, i cui meriti non sono stati riconosciuti fino ai tempi recenti: ma questa è un’altra – brutta – storia) erano venuti a capo di un mistero rimasto irrisolto per 84 anni. Ossia la struttura dell’acido desossiribonucleico, conosciuto meglio come dna, sede del patrimonio genetico di ogni essere vivente: una doppia elica. E doppio Nobel per la medicina.
Il primo esopianeta attorno a un simil-Sole
Questa è storia più recente, appena tornata agli onori delle cronache. Siamo nel campo dell’astrofisica, e più precisamente nell’ambito della ricerca degli esopianeti, corpi esterni al nostro Sistema solare qualcuno dei quali – si spera – possa avere caratteristiche abbastanza simili alla Terra al punto tale da farci sperare che possa essere la dimora di altre forme di vita. E a questo proposito nella top ten di Nature non poteva mancare il lavoro di Michel Mayor e Didier Queloz, scopritori di un esopianeta orbitante attorno a una stella molto simile al nostro Sole. Il primo del suo genere, distante 50 anni luce dalla Terra, poi battezzato 51 Pegasi b, dal momento che la sua stella si chiama 51 Pegasi.  La loro scoperta ha rappresentato una grande rivoluzione nel campo: da allora, le osservazioni terrestri e quelle effettuate dai telescopi in orbita hanno permesso di scoprire migliaia di nuovi mondi, differenti per forma, dimensione, orbita, tipo di stella madre, ampliando significativamente la nostra conoscenza in materia di formazione planetaria. E aiutandoci a capire dove guardare per cercare altre forme di vita.
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