#anche se il mio nome è il suo cognome
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damiano david bono come il pane
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Il dottore

Avevo un problemino proprio vicino all’ano. Un piccolo bubbone in rilievo che mi dava fastidio. Ero preoccupata e mi sono fatta vedere da mio marito, il quale mi ha detto: “boh... vai a fartelo controllare.” Non che la visione del mio culo completamente aperto lo entusiasmasse eccessivamente. Ho scoperto infatti solo dopo essere sposati che la sua eccessiva affettatezza, i suoi modi gentili che tanto mi avevano affascinato sulle prime erano solo dovuti al fatto che lui si sente… più donna di me! Non mi si accosta praticamente mai. Abbiamo fatto l’amore forse tre volte, in due anni di matrimonio.

In viaggio di nozze, sulla nave andava dietro ai camerieri. Io l’ho sposato un po’ perché comunque mi piaceva e un po’ perché volevo uscire da una mia situazione familiare di estrema indigenza. E poi ero stata abbagliata dall’idea di andare a vivere finalmente lontano da casa, con un uomo e in una grande città, direttamente in una casa di nostra proprietà. I suoi genitori infatti lo hanno forzato a sposarsi per la facciata e in cambio lui ha ottenuto di gestire in autonomia uno dei negozi della loro catena che tratta scarpe da uomo e donna di alta classe, appunto nella nuova regione e a ben 300 km dalla nostra città d'origine.

E lui è anche molto bravo: con le donne parla di trucchi e vestiti; spettegola, le consiglia e intanto vende. Quanto vende: guadagna bene! All’inizio pensavo: “questo qui lo cambierò io. Il mio amore basterà per entrambi.” Macché! Comunque sono andata dal dottore che mi hanno consigliato i vicini: un dermatologo molto bravo, con studio a due isolati da casa. Come sono entrata, ultima paziente della giornata, l’ho visto e sono arrossita: un bellissimo uomo brizzolato sui quaranta e molto atletico, con un filo di barba e due occhi azzurri incorniciati da occhiali d’osso.

Mi ha esaminata in modo discreto da capo a piedi e ha poi posato lo sguardo per un secondo sulla fede che porto alla mano sinistra. Gli ho accennato del mio problema e lui mi ha messa subito a mio agio: “non si preoccupi signora; ora vediamo. Si sdrai sul lettino a pancia sotto e si spogli.” Ha preso la lente luminosa e un paio di attrezzi per esaminare da vicino la zona. Per fortuna ha concluso trattarsi di un semplice pelo incarnato, che comportava comunque un inizio di infezione, con conseguente indolenzimento e arrossamento di tutta la zona anale.

Andava assolutamente curato e non trascurato. “Adesso applicherò un po’ di questa crema antibiotica, e la cura dovrà proseguire per una quindicina di giorni.” Prese il tubetto, mise un guanto di lattice, se ne spalmò un po’ sul dito e prese a massaggiare sul brufolo e attorno al mio ano. Non so quanto inavvertitamente, mentre mi massaggiava la punta del suo indice per un secondo scivolò al centro esatto dell’ano, che immediatamente si aprì ad accoglierlo, mentre mi scappava un sommesso “oooh…” e il mio bacino si alzava.

Non potei proprio controllarmi: a ventotto anni una donna ha le sue risposte automatiche agli stimoli. E diventai rossa come un peperone. Lui fece finta di nulla. Poi applicò un cerotto conformato in maniera opportuna, sì che coprisse il bubbone ma non ostacolasse la funzionalità dell’ano. Ovviamente durante la notte o andando in bagno e lavandomi, il cerotto sarebbe saltato. Da rimettere comunque ogni mattina.
"Si rivesta, signora io intanto le scrivo la ricetta. Nome, cognome, indirizzo e tessera sanitaria… ah, vedo che vive qui vicino…"
"Si, ci siamo trasferiti appena sposati, circa due anni fa. Non conosciamo molte persone."
Mi diede la ricetta, un paio di cerotti, mi disse appunto quali dovevo comperare in farmacia assieme alla crema e mi scrutò a lungo. Io abbassai lo sguardo: era proprio un bellissimo pezzo di manzo. Iniziarono a tremarmi le gambe.

"Devi applicare la crema e farti la medicazione spesso, perché la parte deve rimanere sempre ben medicata e umida, Angela. Posso chiamarti così, visto che siamo ormai… amici abbastanza intimi?"
E lo disse con un sorriso da vero assassino. Diventai più rossa di un semaforo e gli dissi:
"Certo dottore! Spero di poter fare un buon lavoro, da sola!"
Al che lui replicò:

"Innanzitutto chiamami Luca e poi domani è sabato; io di sabato non lavoro. Mi alzo un po’ più tardi e vado a fare Crossfit di mattina e Karate di pomeriggio. Sono separato da anni e quindi sono sempre solo. Se ti va, puoi venire qui a studio per le nove; posso medicarti io, non mi costa niente. Anzi: mi fa piacere rivederti. E i giorni a seguire puoi venire prima che apra bottega, attorno alle otto… corsia preferenziale, per te…"
Avevo la salivazione azzerata: non ci potevo credere. Un maschio maturo, poco sopra la quarantina e bello come un dio greco si interessava a me e mi stava palesemente facendo la corte! L’indomani mattina, calze autoreggenti, gonna di georgette e tanga microscopico, alle nove in punto entrai nello studio. Mi accolse con un sorriso. Era in tuta leggera e aderente. Si intuiva un fisico scolpito. Non mi fece accomodare sul lettino; siccome lo studio era deserto, mi fece mettere con la pancia a cavallo del bracciolo del divano in sala d’aspetto, perché gli avrebbe consentito un miglior spazio di manovra. Scesi le mutandine, sollevai la gonna e mi misi col culo all’insù e le natiche ben divaricate.

Mi scusai del cerotto vecchio ovviamente saltato, perché avevo cercato di non bagnarlo mentre mi lavavo e di non sporcarlo, ma… Mi disse di non preoccuparmi e iniziò a spalmarmi l’unguento. Stavolta indugiò un po’ più a lungo, visto che non opponevo resistenza e anzi iniziavo ad assecondare il suo tocco e a mugolare, ben rilassata e a occhi socchiusi. D’un tratto, visto che mi stavo palesemente offrendo a lui, allargando le natiche con le mie mani e alzando il bacino verso il suo viso senza una vera necessità, si decise e mi infilò lentamente tutto l’indice, dicendo: “ora mettiamo un po’ di unguento anche dentro, per precauzione.”

Come introdusse il dito e iniziò a muoverlo, io cominciai a sollevare e abbassare le anche, agevolandolo e mugolando palesemente di piacere. Prese coraggio e infilò anche il medio. Io ormai gli dicevo direttamente “siiiii.” Si fermò un attimo e io fui convinta di aver forse fatto una gaffe… invece s’era sceso con gesto rapidissimo i pantaloni della tuta e ormai sentivo la cappella del suo cazzo dapprima puntare il mio buchino e poi entrare lentamente. Non ero stata scopata spesso, prima; figuriamoci inculata! Mi faceva male e gridai: “Ahia…” e lui disse: “Vuoi che lo tolga?” mi venne di getto un “Nooooo… cazzo noooo! Perdonami, ma sono stufa di non essere trattata come una donna: sfondami questo cazzo di culo e strapazzami, maltrattami. Sii semplicemente il meraviglioso maschio che sei…”

Restò un attimo interdetto e allora, sempre con il suo cazzo a metà strada nel mio culo, mi calmai e gli spiegai che mio marito non era interessato all’argomento e che lui quindi avrebbe potuto scoparsi come voleva questa ragazza di nemmeno trent’anni. Mi inculò per venti minuti buoni e venne dentro di me. Poi, sempre sul divano, gli salii sopra, me lo mangiai letteralmente. In pratica scopammo per tutta la mattinata. Fanculo il Crossfit e il Karate.

Questa cosa fece un gran bene al mio matrimonio: mio marito mi dava tutto il denaro che mi serviva, purché non interferissi con la sua vita sessuale privata e non gli rompessi le palle e il mio dottore mi riempiva di quello che lui non poteva darmi. Molto discretamente, spesso andavo da lui anche dopo cena, nel totale disinteresse del mio coniuge. Diventai la sua donna di fatto e grazie a lui finalmente diedi due nipotini ai nonni, che avevano aspettato tanto a lungo!!!

RDA
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Mi piace ripercorrere la storia degli oggetti. Ogni 18 dicembre ci penso, perché è il compleanno del mio cane. Quando è morto, l’abbiamo sepolto in mezzo alla campagna romana, avvolgendolo in un asciugamano da mare matrimoniale che io e mia madre comprammo negli anni ‘90 al Mercatone Zeta. Il Mercatone Zeta ha chiuso tanti anni fa ed era descritto bene dal suo nome: un grande mercato, di livello Z; ma, se sapevi cercare, qualcosa tiravi fuori. Ricordo l’episodio perché pensai a che bella idea fosse avere un telo da condividere, di cui non devi tirare ogni due secondi i bordi o spianarli alla perfezione. Il mare è questo per me ed era questo per noi: l’amore condiviso. Sull’asciugamano era disegnata una barca che veleggia in mezzo a una baia circondata dal verde. Quando lo comprammo, Jack ancora nemmeno ce lo avevamo. Quando lo comprammo, mia madre stava benissimo. Chissà come è finito a Roma, forse l’ho preso con me quando ci ho portato Jack, che, in effetti, era il cane di mia madre (e nel libretto delle vaccinazioni portava anche il suo cognome). Insomma, è proprio in quell’abbraccio di ma(d)re e ricordi che il corpicino di Jack giace dal 2012, anno in cui, di fatto, finisce la sua storia, ma anche quella del nostro amato asciugamano familiare, protagonista apparente o reale di questo ricordo.
Ogni 18 dicembre e ogni 6 gennaio, giorno in cui Jack è morto, ci penso e trova risposta una delle domande che mi pongo più spesso: perché, per anni, ricordiamo episodi apparentemente ininfluenti, come l’acquisto di un asciugamano di spugna sottile in un grande magazzino? Li ricordiamo perché quegli episodi hanno il futuro dentro, solo che ancora non lo sappiamo. Un secondo dopo, però, immagino anche che nessuna storia è mai davvero conclusa, e magari, su quella barca, in quella baia circondata dal verde, Jack e mia madre ora stanno veleggiando, liberi.
#ninoelesirene#pensieri#frasi#persone#riflessioni#sentimenti#letteraturabreve#emozioni#amore#sciapino
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INTERSTELLAR
- Buongiorno papà, questa sera andrò al cinema a vedere Interstellar, per il suo 10° anniversario - così questa mattina mentre tentavo un approccio a una tazza di caffè bollente, con delle labbra poco convinte, ho ricevuto il buongiorno da figlio 1. L'Edward Cullen di famiglia che adora i film di Christopher Nolan.
Interstellar. Già... l'ultima volta che ho visto quel film ho lacrimato anche l'ultima goccia di liquido amniotico presente in me.
Si tratta di uno di quei film che ho salvato nella memoria esterna, un disco rigido, dove ho raccolto pellicole di vario genere.
Uno di quei film dove, per guardarlo, devo armarmi di coraggio e solitudine. 2 ore e 49 minuti di pathos, accidenti.
Credo che un viaggio incredibile, intrOstellare, lo stia facendo anche io. Come il personaggio di Joseph Cooper ho sentito l'impulso di intraprendere un viaggio alla ricerca di qualcosa di più grande. Che sta in me.
Mio padre quando se ne andò non mi promise di tornare, anche se nei sogni lo ha fatto spesso. E come nel film anche lui non è mai invecchiato ai miei occhi. Chissà come reagirebbe davanti a un figlio che ha quasi la sua stessa età, quella di quando lui partì.
Una cosa che accomuna i due protagonisti di Interstellar e IntrOstellar è il senso di responsabilità verso i propri figli. Sono loro gli obiettivi, spesso dimenticandoci dei nostri, di quello che ci farebbe stare meglio. Ho sacrificato il mio cuore sull'altare di un'anima meravigliosa lungo il mio cammino.
Esiste un diverso scorrere del tempo tra il mio corpo e la mia mente, più rapido per il primo e molto più lento per la seconda.
Mai come in questo periodo la dicotomia tra di essi è così marcata.
Vorrei un giorno tornare al me stesso di molti anni fa, avendo a disposizione giusto il tempo per spiegare alcuni modi di interpretare la vita con l'esperienza acquisita. Così da lasciare un giovane me con le giuste capacità per non incorrere in gravi errori. Spesso questi errori, come per molti di voi, hanno un nome e un cognome oltre a quelli realmente commessi con nostri ragionamenti sbagliati.
Lo sto facendo con Edward Cullen, figlio 1, e con Eric Draven, figlio 2, nei tempi e nei modi che mi concedono. Rispettando chi sono e come ragionano. Credo che mi vedano come Beetlejuice, con poteri risolutivi ma tanto goffo e pasticcione.
Ho compreso che in IntrOstellar la forza motrice di tutto è la costante ricerca dell'amore, inteso come un'indagine di un sentimento da parte di chi è cresciuto in un mondo anafettivo.
Un insegnamento condiviso con Interstellar c'è l'ho: quello di mantenere viva ogni speranza anche davanti a difficoltà insormontabili. Perché il segreto sta nel comprendere che nulla è insormontabile, ma bisogna crederci.
Se ci sarà un nuovo inizio ve lo farò... no, non lo dirò a nessuno. Se ne accorgeranno solo le persone che a me tengono davvero. Il resto può solo trasformarsi in invidia, meglio evitare che ne ho subita abbastanza.
Chiudo dicendovi "Ad astra"... ah no, questo è un altro film. L'avventura di Roy McBride è un'altra mia storia simile. A presto.
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... e niente, avete notato che la parola su un social network che è messa in primo piano è proprio lei, l'Amicizia? Quella che ne soffre maggiormente ad essere stuprata con l'inganno, ad essere svenduta o quasi regalata, in un sistema dove ci si fa "amici" tra sconosciuti, ma poi non ci si saluta per strada, oppure le nostre strade non si incroceranno mai, perché stiamo a millenovecentoventisette miglia di distanza dall'annusarci, in questo parcogiochi virtuale dove tutti sono amici, amici di tutti, intimamente sconosciuti, e bro, brother, sista e cazzate affini, dove ci si chiama per nome, anzi per soprannome, dove "sì, cazzo lui lo conosco benissimo" e "sì, lui è un mio grande amico", ma amico di cosa, porcodio? Perché io invece mi ricordo che ci ho messo quasi 3 anni per chiamare quello che poi sarebbe stato un mio grande amico, nonché mio coinquilino, per nome e non per cognome, mesi per capirci e studiarci, per superarci e venirci eventualmente incontro, giorni per rompere gli indugi e scambiarci un saluto, cazzo, ma i tempi cambiano, le cose passano, invecchiano, mentre altre corrono, però lui, il mio amico, e come lui tanti altri, sono ancora qui, nella mia vita di merda, e di tutti questi miei e vostri amici virtuali (e soltanto virtuali) invece che cosa sarà? Quando saremo in difficoltà, quando avremo bisogno di aiuto, di soldi, di cazzo-ne-so, quando vorremo piangere e berci una (anzi, 3) birre insieme cosa faranno ci metteranno un like? una reaction? un bel commento? o non visualizzeranno il nostro messaggio? e magari ci bloccheranno o cancelleranno dagli "amici" se rompiamo troppo i coglioni? Mah. Comunque si scherza, si esaspera, si provoca, anche l'amicizia virtuale ha un suo bel perché e da quasi un paio di decenni ormai, in tutte le sue svariate forme. Basta non si sostituisca a quella vera. Perché, pochi cazzi, quell'altra è vera e questa è un vile surrogato. Anche soltanto chiamarla "amicizia" è una bestemmia, porcodio. Una scoreggia non sostituirà mai una bella cagata. Non dimenticatevelo. (Il mio amico Cristian)
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Punto primo: l’idea di Meloni di farsi votare col solo nome “Giorgia” è assolutamente legittima. Per praticarla è sufficiente mettere sulla lista la dicitura “Giorgia Meloni detta Giorgia” e il gioco è fatto, a patto naturalmente di non avere sulla stessa lista altre persone che si chiamano Giorgia, cosa che in sede di spoglio potrebbe generare incertezze circa la reale intenzione di chi ha votato. Del resto, se prescindiamo dal contesto in cui la cosa avviene, non si tratta neanche di una novità: ma è proprio il contesto in cui la cosa avviene che ci porta dritti dritti al Punto secondo: la possibilità di farsi votare con un nome o un cognome diverso dal proprio, o perfino con un soprannome, nasce dall’esigenza di mettere gli elettori nelle condizioni di esprimere la propria preferenza per qualcuno che è conosciuto anche, o addirittura soltanto, con un nome diverso da quello registrato all’anagrafe. Il caso più noto, perlomeno per quelli come me che hanno una provenienza radicale, è quello di “Giacinto Pannella detto Marco”, dicitura che era finalizzata a fare in modo che Pannella potesse essere votato anche da quelli (tanti) che non conoscevano il suo vero nome. Ma questo non è certo l’unico caso. Nella storia delle elezioni locali e nazionali ce ne sono stati un numero incalcolabile. Io stesso, non so più in quale tornata elettorale, mi candidai come “Alessandro Capriccioli detto Metilparaben”, perché in quel momento il “nickname” che usavo quando scrivevo sul mio blog era molto più conosciuto del mio nome, cosa che consentì di votare per me anche chi mi conosceva solo con quello pseudonimo. Insomma, la logica mi pare chiara: farsi votare con un nome diverso dal proprio è consentito a beneficio degli elettori, per aumentare la loro possibilità di esprimere il proprio voto in modo più ampio e più libero, superando gli ostacoli che potrebbero trarli in inganno, creare confusione, portarli a sbagliare o rendere loro difficile votare chi intendono votare. Tutto questo ci conduce al Terzo punto: Meloni, dunque, fa una cosa perfettamente legittima, ma la fa deformando una possibilità che viene concessa a beneficio degli elettori e trasformandola in uno strumento di marketing politico a beneficio proprio. In altre parole: Meloni non invita a scrivere solo Giorgia perché la gente non conosce il suo cognome, ma perché invitare a scrivere solo il suo nome fa parte di una precisa strategia di comunicazione finalizzata a generare nelle persone una sensazione di vicinanza che potrebbe indurle a decidere di votarla. Ossia: non vuole mettere chi intende votare per lei nella condizione di farlo senza sbagliare, ma vuole aumentare il numero di persone che voteranno per lei. Tutto questo è lecito? Sicuramente sì. Tutto questo è corretto? A mio parere no. E scusate per il pippone. Alessandro Capriccioli, Facebook
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Foto di Kurt Cobain con un vestitino a fiori.
Poiché nel bene e nel male si tende a vedere negli altri ciò che c'è in noi stessi, voglio accennarvi a un fatto che riguarda un'altra persona, ma ab latere anche me. Ieri mi sono iscritta a un gruppo Facebook di spiritualità che si chiama La nostra casa, ovvero
la casa celeste a cui faremo ritorno, in cui verremo curati e preparati, se lo vogliamo e ne abbiamo bisogno, ad una successiva incarnazione. E molti di voi diranno: fa già ridere così.
E invece il bello è che in questo gruppo ho letto i messaggi di una certa Veronica, che diceva di essere stata un personaggio noto,
con una figlia che non aveva più rivisto, ma della quale sa che sta bene, e tanto le basta, perché capisce che il suo compito è vivere la sua vita attuale.
Io, curiosa come una scimmia, le ho chiesto con garbo se potesse rivelarmi il nome del "personaggio noto", che gli altri membri del gruppo, a giudicare dalle interazioni che avevano con lei, conoscevano già. Lei mi risponde immediatamente, con un nome e cognome:
Kurt Cobain.
Bum! La mia testa fa un botto e vi si affaccia l'unica parola possibile: mitomane. E tutta la catena di riflessioni automatiche su quanto la gente sia disperata e disposta a raccontare o raccontarsi balle per dare un senso alla propria vita. Quindi mi dispongo in mood depressivo. Mantengo però la calma e formulo una risposta gentile in cui le auguro buon cammino, sinceramente grata, nel fondo di me stessa, della sua rivelazione.
So di una donna che è la reincarnazione di Marilyn Monroe, e di un bambino che lo è di Lady Diana. Penso che persino Madre Teresa di Calcutta, e tutte le altre serigrafie pop che abitano il nostro immaginario, sono già diventate qualcun altro, o meglio, non se ne sono mai andate veramente da questo mondo. Il mondo le ha semplicemente riciclate. Vite irrisolte, con nodi da sciogliere, debiti e crediti da compensare.
Noi li immaginiamo tutti al Roxy bar, chi si beve una birra, chi si fa una canna, chi accarezza gentilmente una chitarra, invece sono tutti ancora fra noi, nascosti, visibili, balordi, banali. John Lennon avrà deposto i suoi occhialini d'oro e Janis Joplin il suo boa di piume fuxia.
Quindi penso al "mio" Leopardi, che secondo una medium è in una dimensione di pace e luce, e in alcuni sogni lucidi dei primi mesi in cui lo pensavo, mi aveva inviato direttamente nel cervello tutto l'ologramma degli universi, che non sono contigui, ma parzialmente sovrapposti come degli insiemi che hanno degli elementi in comune, e che anche lui aveva creato un suo universo, a cui altri, con le loro immaginazioni, potevano collaborare, come infatti stava avvenendo.
Quindi, alla fine, non sono tanto diversa da
Veronica che è stata Kurt Cobain,
perciò non la giudico, anzi, la accomuno, nel mio giudizio, a me stessa, con la quale convivo. Il segreto della convivenza, e del non attacco, è vedere se stessi negli altri. Credo sia questo il concetto dietro al grido
"basta guerre!"
e dietro l'assurdo precetto "ama il tuo nemico".
#diario#diario segreto#pensieri#pensieri segreti#top secret#chi si fa i propri campa cent'anni#morirò giovane#vita#persone#riflessioni
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Quando Tina Turner lasciò il suo primo marito, che era anche il suo capo, rapitore e brutale aguzzino, sgattaiolò fuori dalla loro stanza d'albergo a Dallas con un solo pensiero in mente: "La via d'uscita è attraverso la porta". Da lì fuggì attraverso l'autostrada di mezzanotte, con i camion che le sfrecciavano accanto, con 36 centesimi e una carta benzina Mobil in tasca. Non appena decise di uscire da quella porta, non possedeva più niente. Quando chiese il divorzio, fece una richiesta insolita. Non voleva niente: né i diritti delle canzoni, né le auto, né le case, né i soldi. Tutto ciò che voleva era il nome d'arte che lui le aveva dato, Tina, e il suo cognome da sposata, Turner. Questo era il nome con cui il mondo l'aveva conosciuta, e mantenerlo era la sua unica possibilità di salvare la sua carriera. Da lì in poi le cose avrebbero potuto prendere una piega molto diversa. Avrebbe potuto lavorare nell'oscurità per decenni, magari realizzando dischi con piccole etichette per essere apprezzati dagli intenditori di vinili di Portland. Avrebbe potuto restare a Las Vegas, dove era andata per rimettersi in carreggiata, e lavorare come artista nostalgica. E, naturalmente, dato quello che aveva passato, forse... non ce l'avrebbe fatta.
Quello che è successo invece è che Tina Turner è diventata la più grande rock star mondiale degli anni '80. Io sono abbastanza vecchio da ricordarmelo a malapena, ma se non lo sei, era così: un giorno i Rolling Stones erano headliner in uno stadio, e il giorno dopo era Tina Turner. Una donna di colore di mezza età (è diventata una rock star a 42 anni!) seduta in cima agli anni '80 come se fossero il suo trono.
È riuscita a fare tutto questo grazie a qualsiasi cosa rara fosse fatta (questa è una donna la cui etichetta le ha dato due settimane per registrare il suo debutto da solista, Private Dancer, che è diventato cinque volte disco di platino); perché ha deciso di parlare pubblicamente del suo matrimonio violento e di forgiare la propria identità, e così facendo ha dato speranza e coraggio a innumerevoli donne; e anche perché - in un colpo di scena forse improbabile per una ragazza di Nutbush, Tennessee - aveva praticato il Buddhismo Nichiren della Soka Gakkai, a cui attribuiva la sua sopravvivenza. Rimase devota fino alla fine.
Il secondo matrimonio di Tina - con lei, il suo unico matrimonio - fu con Edwin Bach, un dirigente musicale svizzero di 16 anni più giovane di lei. Di lui, disse: "Erwin, che è una forza della natura a pieno titolo, non è mai stato minimamente intimidito dalla mia carriera, dal mio talento o dalla mia fama".
Nel 2016, dopo una serie di problemi di salute, i reni di Tina iniziarono a cedere. Cittadina svizzera a quel tempo, aveva iniziato a prepararsi al suicidio assistito quando intervenne suo marito. Secondo Tina, lui disse: "Non voleva un'altra donna, o un'altra vita". Le diede uno dei suoi reni, comprandole il resto del suo tempo su questa terra e forse chiudendo un ciclo che l'aveva portata da un uomo che le aveva inflitto ferite a un uomo disposto a infliggersi ferite per salvarla dal male. Nata in una famiglia di mezzadri come Anna Mae Bullock nel 1939, morì Tina Turner in una sontuosa tenuta svizzera: la regina del rock 'n roll; una tempesta di performer con una voce selvaggia e feroce; una ballerina di potenza e abilità viscerali e da brivido; una bellezza per le ere; una sopravvissuta a terribili abusi e una sostenitrice di altre persone in situazioni simili; un'autrice e attrice; una devota buddista; una moglie e una madre; un essere umano di raro talento e perseveranza che, attraverso la sua brillantezza trascendente, divenne una leggenda.
When Tina Turner left her first husband - who was also her boss, captor, and brutal tormentor - she snuck out of their Dallas hotel room with a single thought in her mind: "The way out is through the door." From there she fled across the midnight freeway, semi-trucks careening past her, with 36 cents and a Mobil gas card in her pocket. As soon as she decided to walk out that door, she owned nothing else. When she filed for divorce, she made an unusual request. She didn't want anything: not the song rights, not the cars, not the houses, not the money. All she wanted was the stage name he gave her - Tina - and her married name - Turner. This was the name by which the world had come to know her, and keeping it was her only chance to salvage her career. Things could have gone a lot of ways from there. She could have labored in obscurity for decades, maybe making records on small labels to be prized by vinyl connoisseurs in Portland. She could have stayed in Vegas, where she first went to get her chops back up, and worked as a nostalgia act. And, of course, given what she had been through, she might have … not made it. What happened instead is that Tina Turner became the biggest global rock star of the 80s. I'm old enough to barely remember this, but if you aren't, it was like this: The Rolling Stones would headline a stadium one day, and the next day it would be Tina Turner. A middle-aged Black woman - she became a rock star at 42! - sitting atop the 1980s like it was her throne. She managed this because of whatever rare stuff she was made of (this is a woman whose label gave her two weeks to record her solo debut, Private Dancer, which went five times platinum); because she decided to speak publicly about her abusive marriage and forge her own identity, and in doing so give hope and courage to countless women; and also because - in a perhaps unlikely twist for a girl from Nutbush, Tennessee - she had her practice of Soka Gakkai Nichiren Buddhism, to which she credited her survival. She remained devout until the end. Tina's second marriage - to her, her only marriage - was to Edwin Bach, a Swiss music executive 16 years her junior. Of him, she said, "Erwin, who is a force of nature in his own right, has never been the least bit intimidated by my career, my talents, or my fame." In 2016, after a barrage of health problems, Tina's kidneys began to fail. A Swiss citizen by then, she had started preparing for assisted suicide when her husband stepped in. According to Tina, he said, "He didn't want another woman, or another life." He gave her one of his kidneys, buying her the remainder of her time on this earth and perhaps closing a cycle which took her from a man who inflicted injury upon her to a man willing to inflict injury upon himself to save her from harm. Born into a share-cropping family as Anna Mae Bullock in 1939, she died Tina Turner in a palatial Swiss estate: the queen of rock 'n roll; a storm of a performer with a wildcat-fierce voice; a dancer of visceral, spine-tingling potency and ability; a beauty for the ages; a survivor of terrible abuse and an advocate for others in similar situations; an author and actress; a devout Buddhist; a wife and mother; a human being of rare talent and perseverance who, through her transcendent brilliance, became a legend.
Credit: Will Stenberg
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[...]
“Avevo visitato il centro governativo di Zawiya, chiuso dopo tre attacchi inscenati dal clan di Bidja perché l’unico a restare operativo fosse quello aperto illegalmente dalla sua rete”. Grazie all’incarico istituzionale nella guardia costiera, Bidja e i suoi avevano il controllo di tutta la filiera. Non a caso nel 2017, come racconterà due anni dopo Nello Scavo su Avvenire, l’allora capitano Bidja viene invitato in Italia per partecipare a riunioni con funzionari italiani, visitare il Centro per richiedenti di Mineo e gli uffici della Guardia costiera a Roma. Fatti che nessun governo italiano ha mai voluto chiarire, nonostante il nome di Bidja fosse finito nella black list del Consiglio di Sicurezza dell’Onu a due sole settimane da quel viaggio. Nonostante le indagini della procura di Agrigento e quelle della Corte penale internazionale avviate grazie al lavoro di Porsia. “Sono diventata la nemica numero uno di Bidja che nel 2019 ha minacciato me e la mia famiglia via social, citando nome e cognome di mio figlio che allora aveva due anni, la stessa età che ha oggi suo figlio”, ricorda la giornalista, che dopo l’uscita della sua inchiesta ha rischiato di essere rapita, ha dovuto lasciare la Libia e da allora si è vista negare il visto per rientrarvi. Ma c’è di peggio: “L’Italia sapeva dei pericoli che correvo, ma non fece nulla per proteggere me e il mio lavoro”. Al contrario, nel 2021 scoprirà che la procura di Trapani, quella delle indagini sulle Ong, nel 2017 l’ha intercettata per sei mesi “sebbene non fossi tra gli indagati”.
Tutto a causa di un’inchiesta dall’incredibile tempismo. “Il mio lavoro e così la mia interlocuzione con Bidja per tentare un incontro che poi non ci fu, si svolgevano mentre il governo italiano intesseva il memorandum: stavo provando a denunciare gli interlocutori con cui l’Italia trattava”. Ora che Bidja è morto, spiega, “rimane l’amarezza di essere stata tradita dallo stesso sistema democratico di cui faccio parte”. Quanto alle sorti della Libia, “un’esecuzione mafiosa non può che confermare la condizione del Paese: chiunque sostituirà Bidja sarà come lui se non peggio”. Al contrario, l’attuale governo italiano ritiene che il Paese sia cambiato e che le condanne, anche in Cassazione, delle navi che negli anni passati hanno riportato in Libia i migranti salvati nel Mediterraneo siano superate dall’attuale contesto, “migliorato anche grazie al sostegno dell’Italia e dell’Europa”, ha dichiarato il ministro dell’Interno Matteo Piatedosi che non manca mai di ringraziare la guardia costiera libica per le migliaia di persone intercettate e riportate nei centri di detenzione. “Certo, bisognerà capire chi sostituirà Bidja perché il suo era un ruolo chiave: decideva i luoghi di sbarco dei migranti intercettati, dove sarebbero finiti e quindi chi avrebbe ricevuto i finanziamenti”, spiega Porsia, che avverte: “Il suo omicidio incrocia anche interessi internazionali”.
“Ma non c’è bisogno di un erede vero e proprio perché ormai si tratta di un intero sistema, corroborato e suggellato anche nel forum internazionale tenutosi a Tripoli lo scorso luglio dove la premier Giorgia Meloni era in prima fila: chiedere ad uno Stato fallito com’è la Libia di gestire una materia delicata come la tutela dei diritti umani è come consegnare l’agnello al lupo”. E nella Tripolitania dove le milizie si spartiscono territorio e ministeri, i lupi non mancano: “Dagli Interni alla Difesa, tutti cercano di accaparrarsi la fetta di torta più grande, anche investendo nelle operazioni di pattugliamento a largo delle coste perché questo è il canale principale per prendere i fondi”. Per i migranti, assicura Porsia, “la situazione è solo peggiorata. Le prigioni libiche restano punti neri sulla mappa dove la detenzione è arbitraria e le persone sono numeri che le milizie rivendono al governo di Tripoli come all’Italia. Le torture e le violazioni sono costanti, per uscire bisogna pagare e a farlo è spesso il trafficante che recupererà il denaro dal prezzo della traversata via mare, magari l’ennesima per la stessa persona”. Poco importa chi organizza il viaggio: “Le partenze sono funzionali al business di detenzioni e intercettazioni che a loro volta alimentano i viaggi via mare”. Bidja è stato tra i primi a mettere in piedi un cartello in grado di attuare il patto Italia-Libia alla uniche condizioni possibili in un Paese senza Stato. “Un’azione necessaria alla tenuta democratica dell’Italia – disse del memorandum l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti.
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So che adesso sei là, nella favolosa Parigi e danzi sul grandioso palco degli Champs-Élysées. Dopo il tuo nome c’è il mio cognome: Chaplin. Con questo cognome, per più di quarant’anni ho fatto ridere la gente di questo mondo. Ma io ho pianto ben di più di quanto loro abbiano riso. Geraldine, nel mondo che tu abiti, non vi sono solo danze e musica! Ogni tanto prendi la metro, fatti un giro a piedi e osserva la città. Presta attenzione alle persone! Guarda le vedove e gli orfani! Ed almeno una volta al giorno, ripeti a te stessa: “Io sono come loro”. Sì, sei una di loro, bambina mia!
E se mai giungerà il giorno in cui ti sentirai superiore al tuo pubblico, lascia subito il palcoscenico. Prendi il primo taxi e fatti portare alla periferia di Parigi. E ricorda: nella famiglia Chaplin non c’è mai stato nessuno tanto maleducato da offendere un cocchiere o irridere i poveri seduti sulle rive della Senna.
Vorrei che tu non conoscessi mai la povertà. Insieme a questa lettera, ti inverò un libretto degli assegni, di modo che tu possa spendere quanto desideri. Ma ogni volta che spendi due franchi, ricorda a te stessa che la terza moneta non è per te. Deve appartenere allo sconosciuto che ne ha bisogno.
Parlo con te di denaro, avendo conosciuto il suo diabolico potere. Ho passato non poco tempo al circo. Mi sono sempre preoccupato per i funamboli. Ma devo dirti che le persone cadono ben più spesso sulla nuda terra, di quanto non facciano i funamboli dalla fune malferma. Forse, durante una delle serate di gala, sarai accecata dal luccichio di un qualche diamante. Da quel preciso istante, diventerà per te una pericolosa fune e non potrai evitare di cadere. Non vendere il tuo cuore per l’oro e i gioielli. Sappi che il diamante più grande è il sole. Esso, per fortuna, splende per tutti.
E quando giungerà per te il tempo di amare, ama quella persona con tutta te stessa. Io sono vecchio e, forse, queste mie parole ti sembrano buffe. (…) Il tuo papà è invecchiato, Geraldine. Prima o poi, al posto del candido abito da scena, dovrai vestire a lutto, per venire alla mia tomba. Non voglio intristirti. Solo, ogni tanto, guardati allo specchio; vi troverai i miei lineamenti. Nelle tue vene è il mio sangue. Non sono stato un angelo ma mi sono sempre impegnato ad essere un uomo. Impegnati anche tu.
Ti bacio, Geraldine.
Tuo, Charlie, 24 Dicembre 1965

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Ci ho pensato tanto, ne ho parlato con A. e con C. (ma tanto come sempre sono una testa dura e non mi faccio toccare, la mia idea rimane quella) e sono arrivata alla conclusione che in realtà non ci sono rimasta male per il suo non contraccambiare il mio sentimento, non me ne frega niente di sentirmi dire quelle parole, cioè, non cambierebbe nulla di fatto. Ci sono rimasta male perché in realtà lei me lo mostra e me lo dimostra, quel sentimento - mi regala fiori per il mesiversario, mi guarda in quel suo modo che mi fa perdere un battito ogni volta, mi dice che mi vuole dare le sue chiavi di casa - e allora, per questo ci rimango male: dopo tutte queste cose che fa, perché non me lo dice? O meglio, perché non ha ricambiato, dato che a dirglielo sono stata io? E mi chiedo anche cosa cambi a me, sentire quelle parole, se non me ne frega come dico, se tanto so che ci sono lo stesso, da qualche parte dentro lei. Forse, come sempre, non credo mai abbastanza in me stessa e in quello che percepisco del mondo finché quella determinata cosa non ha un nome e un cognome, finché qualcuno non me lo assicura, giura e spergiura. Comunque, ci sono rimasta male soprattutto perché non ne ha più parlato. Non mi ha detto nulla, si è limitata a fare un sorriso, dirmi “amore mio”, poi più niente. È anche vero che mi sono messa quasi subito sulla difensiva (perché mi giustifico sempre? Perché non valido la mia sofferenza e come la sento? Va bene così, vado bene così) ma cosa posso fare? Poi è subentrata la paura del vederci poco, quindi ci siamo viste poco e questo ha peggiorato tutto, soprattutto dentro me, per la mia percezione di quello che succede e che lei prova. Ho così paura. Ma che senso ha se non ne parliamo noi?
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31 mar 2024 20:40
“TRANNE L’EROINA, HO PROVATO TUTTE LE SOSTANZE STUPEFACENTI” – VASCO SENZA FILTRI VUOTA IL SACCO CON ALDO CAZZULLO. L’ARRESTO PER DROGA: “IN GALERA SOLO DE ANDRÉ VENNE A TROVARMI, CON DORI. DOPO IL CARCERE RIMASI CHIUSO IN CASA 8 MESI. SENZA ANFETAMINE NON RIUSCIVO AD ALZARMI DAL LETTO. IN TANTI ERANO CONTENTI. MI SPUTAVANO PER STRADA. ERO IL DROGATO. IL CAPRO ESPIATORIO DEI PRIMI ANNI 80” – IL PADRE TORNATO DAL LAGER NAZISTA (“PESAVA 35 CHILI”), LE DONNE CHE GLI HANNO DETTO “NO”, I TEST DEL DNA PER RICONOSCERE I DUE FIGLI E LA PASSIONE PER KANT – VIDEO
Estratto dell’articolo di Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera”
Vasco Rossi, qual è il suo primo ricordo?
«La noia. Sono seduto al tavolo della cucina, e mi annoio. Ero un bambino solo. Volevo un fratellino con cui giocare».
Vasco è un nome di famiglia?
«È il nome del compagno di prigionia di mio padre che gli salvò la vita».
Suo padre era uno dei 600 mila internati militari in Germania che rifiutarono di combattere per Hitler.
«Gli americani bombardarono il lager, lui cadde in una buca, questo Vasco lo tirò su di peso e papà gli disse: se un giorno avrò un figlio, lo chiamerò come te. Mio padre teneva un diario. L’ho riletto da poco».
Cosa c’è scritto?
«Racconta la morte di un prigioniero, ucciso a bastonate da un kapò italiano, di cui papà scrive nome e cognome. Non aveva studiato, non era mica uno scrittore, ma aveva visto i suoi compagni morire di fatica e di botte: cose talmente terribili che voleva testimoniarle. E io le ho assorbite. Non riesco a vedere i film sui deportati e sulla Shoah, non ho visto neppure Schindler’s List. Mi turbano troppo. Per questo ogni anno ricordo il Giorno della Memoria».
L’hanno attaccata per questo.
«E io sono caduto nella provocazione. Non vorrei più parlarne...».
Dobbiamo parlarne.
«Io rifiuto di schierarmi come se fosse una partita di calcio, Israele contro Palestina. Gli ebrei, dopo quello che hanno sofferto, hanno diritto a uno Stato. “Free Palestine” è un bello slogan, da anime belle; ma se implica la distruzione dello Stato di Israele, allora sarebbe più onesto dirlo. E alla distruzione di Israele io mi ribello.
Leggo cose superficiali, in cui non mi riconosco; io sono semplice, non facile. Mi hanno dato del sionista, ma io non so neppure cosa voglia dire. So che se mettessi il like a “Palestina libera” mi amerebbero tutti; ma io non sono fatto così. Se avessi voluto piacere a tutti, non avrei scritto “C’è chi dice no” o “Gli spari sopra”. Questo ovviamente non mi impedisce di piangere le vittime civili di Gaza, e di criticare i bombardamenti di Netanyahu, che è pure lui una specie di fascista».
Lei ha detto che i rivoluzionari da salotto non le sono mai piaciuti.
«Mai. Ricordo quelli di Potere operaio: erano tutti studenti; il pomeriggio giocavano alla rivoluzione, la sera tornavano a cena dalla mamma. A diciassette anni vuoi cambiare il mondo: anche io ci credevo, anche io ci ho provato. Poi ho capito che prima di cambiare il mondo dovevo cambiare me stesso. Anziché distruggere il sistema, dovevo creare il mio sistema. Poi certo i ragazzi che scendono in piazza li rispetto» […]
È Putin a minacciarla.
«Putin è un dittatore guerrafondaio che va fermato. Sostenendo l’Ucraina, ma anche avviando una trattativa che metta fine ai massacri».
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Nella bellissima serie sulla sua vita, Supervissuto, lei racconta che la svolta fu la morte di suo padre.
«Tornò dal lager che pesava 35 chili. Si chiamava Giovanni Carlo e faceva il camionista. Morì di fatica a 56 anni, mentre faceva manovra tra i silos del porto di Trieste. Sono andato a prenderlo e qualcosa dentro di me è cambiato. Papà era un combattente, aveva detto no ai nazisti. È entrata dentro di me una forza che prima non avevo, e che si è fusa con la malinconia, la gioia, l’amore per la musica di mia madre. E mi sono detto: qui non si scherza più. Qui mi gioco tutto. Mi rischio la vita».
Vita spericolata.
«Per anni, all’inizio degli 80, vivevo solo per scrivere canzoni e fare concerti. Un giorno dell’estate 1982 andai da un concessionario per far vedere una macchina e non trovai nessuno, sentivo boati a distanza, non capivo cosa stesse succedendo: era la finale dei Mondiali di Spagna, ma io non lo sapevo.
Potevo stare tre giorni senza dormire, grazie alle anfetamine. Poi ho capito che le anfetamine sono pericolose. Ho sperimentato la mia psiche, sono entrato nella mia mente, ho fatto un viaggio dentro la mia coscienza. Le sostanze stupefacenti le ho provate quasi tutte, tranne l’eroina. Mettere l’eroina sullo stesso piano della marijuana è criminale, perché così i ragazzi si convincono che si equivalgano, e se lo spacciatore non ha una, allora si può comprare l’altra...».
Lei finì in carcere.
«Cinque giorni di isolamento. Giorni infiniti, minuti lunghissimi. Non passava mai. Cercavo di dormire, mi svegliavo credendo di aver fatto un brutto sogno; infine realizzavo che era tutto vero. Poi altri 17 giorni di galera. Solo De André venne a trovarmi, con Dori. Pannella mandò un telegramma. Fu l’occasione per resettarmi. Mi sono disintossicato da solo, senza bisogno di andare in comunità. Dopo la galera sono tornato a casa, a Zocca, e non ne sono uscito per otto mesi. Senza anfetamine non riuscivo ad alzarmi dal letto. E in tanti erano contenti».
Lei è amatissimo.
«Ma sono stato anche molto odiato. Dai perbenisti, dai benpensanti. Mi sputavano addosso per strada. Ero il drogato. Il capro espiatorio dei primi Anni 80. Il diretto responsabile della diffusione degli stupefacenti perché, secondo loro, le mie canzoni spingevano all’uso della droga. E per decenni me l’hanno rinfacciato, una cosa che succede solo in Italia: nessuno si permetterebbe di trattare da drogato, che so, Paul McCartney o Keith Richards.
Aprì la strada Nantas Salvalaggio, che mi scagliò contro un articolo pieno di insulti, su Oggi; conservo ancora la lettera che mia madre gli scrisse per difendermi. Una volta a Rimini, quando mi videro, mi negarono la stanza d’albergo che avevo prenotato. Così aspettai l’alba sul lungomare di Riccione e scrissi “Ieri ho sgozzato mio figlio”».
[…]
Esiste una donna che ha detto no a Vasco Rossi?
«Ne esistono moltissime! La prima fu Anna Maria, e aveva sette anni. Era la mia vicina di casa. Ci fidanzammo. Ogni volta le chiedevo: “È sempre così?”, lei rispondeva di sì, e io ero felice. Un giorno però rispose di no, che le piaceva un altro; e a me crollò il mondo addosso».
Quando ha fatto l’amore per la prima volta?
«Tardi, a 17 anni, con una ragazza di Modena che a differenza delle altre aveva ceduto. A 13 anni sperimentai l’importanza del denaro...».
Come andò?
«Ero alle giostre con la mia fidanzata Cristina, ma ero povero, avevo pochi gettoni. Un altro ragazzo la invitò sugli autoscontri, io vidi che era brutto, le diedi il permesso. E lei si mise con lui».
Il primo grande amore?
«Paola, una femminista che si era prefissata di distruggermi, e ci è riuscita. Il colpevole di diecimila anni di patriarcato ero io...
Dopo di lei, e prima di Laura, mia moglie, è stato solo sesso. Tutte le canzoni in cui sono arrabbiato con le donne me le ha ispirate Paola; dovrei darle i diritti d’autore».
Albachiara come è nata?
«Me l’ha ispirata Giovanna, una ragazza che vedevo arrivare a Zocca con la corriera. Anni dopo l’ho ritrovata in discoteca e gliel’ho detto, ma lei non ci credeva: “Lo dici a tutte perché te le vuoi fare!”. Così ho scritto Una canzone per te».
Il mese scorso è morto Andrea Giacobazzi, l’Alfredo che con i suoi discorsi seri e inopportuni le faceva sciupare tutte le occasioni. Oggi riscriverebbe «è andata a casa con il negro la troia»?
«In realtà la ragazza che corteggiavo era andata via con Salvino, che non era affatto nero, solo abbronzato. Non mi riferivo al colore della pelle, ma alle dimensioni... Era insomma una canzone da cui i neri uscivano benissimo. Se la riscrivessi oggi mi arresterebbero; ma il politicamente corretto non mi convince. Non conta come definisci una persona, ma cosa ne pensi e come ti comporti».
Lei ha due figli, Davide e Lorenzo, nati nel 1986 a un mese di distanza. Come andò?
«Avevo avuto una storia con una ragazza bellissima, Gabriella, che purtroppo è mancata qualche giorno fa, all’improvviso.
L’avevo lasciata, per vivere fino in fondo la mia avventura con la musica, ma mi ero preso cura di lei: era rimasta a Zocca con mia mamma, mentre le cercavo una nuova casa e un nuovo lavoro. Le lasciai anche una macchina, una Renault5, perché potesse andare in giro, trovarsi un altro fidanzato. E lo trovò. Quando tornai, la rividi nella roulotte prima del concerto, e la salutai con affetto, per l’ultima volta. Mesi dopo mi dissero che era incinta».
Il padre era lei.
«Ma io non lo sapevo e non lo credevo possibile. Qualche tempo dopo, però, venne a Zocca un’altra ragazza, Stefania. Una che neppure ricordavo. E aveva un bimbo nel passeggino».
Davide.
«Un po’ mi arrabbiai: mi avevano rubato un figlio, a me che non ne volevo! Il tribunale mi impose il test del Dna. Mentre andavo a Roma, chiamai Gabriella: “Siccome dici che il tuo bambino è mio, e sto andando a fare il test del Dna, se vuoi lo facciamo pure noi...”. Ma Gabriella disse di no. Comunque feci questo test, e con mio grande stupore risultò che il padre di Davide ero io. Così lo riconobbi, e versai 5 milioni al mese per il mantenimento. Mi sfogai con l’avvocato Gatti, che mi consolò: “È un miracolo, sapesse signor Rossi la fatica che ho fatto io...”».
Poi il test del Dna l’ha fatto anche per il secondo figlio, Lorenzo.
«Mi chiamò Gabriella, cui ho sempre voluto bene, per dirmi che il ragazzo ci teneva. Venne fuori che era mio pure lui. L’avvocato Gatti esultò: “Un altro miracolo!”».
Poi però lei si è innamorato davvero, di sua moglie Laura.
«Tentai due volte di mandarla via. La prima volta la trovai sette ore dopo, fuori dalla sala d’incisione; non si era mossa da lì. La seconda la trovai fuori di casa, seduta sulla valigia. Pensai che sarebbero venuti i carabinieri ad arrestarmi di nuovo; e me la ripresi. La verità è che l’ho amata dal primo momento in cui l’ho vista. Una passione travolgente».
Da Laura ha avuto Luca.
«Con Laura ho realizzato il progetto di famiglia. La passione dura sei anni, massimo sette. Poi subentra l’amore per il progetto. Ti rendi conto che sei diventato padre quando daresti la vita per salvare quella di tuo figlio».
A giugno lei riempirà per altre sette volte San Siro; in tutto fanno 36 concerti nel più grande stadio d’Italia. Milano dovrebbe darle un premio...
«In effetti è un bel record, non esistono paragoni al mondo. Come se avessi vinto 36 scudetti. Forse meriterei una Coppa dei Campioni...».
La sua prima volta a San Siro fu il 10 luglio 1990.
«E fu una svolta per la nostra musica. Prima si cantava nelle piazze, nei palasport, o per la curva di uno stadio. Gli stadi li riempivano solo gli stranieri che venivano una volta ogni dieci anni: Bob Marley, Madonna. Dimostrai che lo poteva fare anche un italiano. Uno stadio a tre piani: avevano appena fatto il terzo anello per i Mondiali; 75 mila persone». […]
È vero che agli inizi era in ansia prima di salire sul palco?
«Ansia? Ero terrorizzato! Ogni sera mi violentavo per salire sul palco. Infatti dovevo bere per farmi coraggio, arrivare quasi ubriaco...».
Ubriaco?
«Diversamente lucido. Poi mi sono detto: non stanno chiamando me; stanno chiamando Vasco Rossi. Prima non mi divertivo sul palco, e cercavo il divertimento dopo il concerto. Adesso mi concentro del tutto sul presente. E dopo il concerto mi faccio una doccia e vado a dormire. Io non ho una vita normale, non posso mai andare da nessuna parte; ma il palco mi ripaga di tutto».
Lei una volta mi ha detto: «Ho fatto ragioneria, una scuola assurda. Studi per cinque anni cose per cui basterebbe un corso di tre mesi, e non sai che sono vissuti Socrate e Platone».
«Io adoro la filosofia. Vita spericolata viene dal vivere pericolosamente di Nietzsche. Leggere “Aut-aut” di Kierkegaard, “Il mondo come volontà e rappresentazione” di Schopenhauer, la “Critica della ragion pura” di Kant mi ha cambiato la vita».
Vasco che legge Kant è titolo.
«I grandi filosofi sono molto più facili di quelli che hanno scritto su di loro».
Ora cosa sta leggendo?
«Vivere momento per momento, di Jon Kabat-Zinn. Vivere nel passato significa appartenere ai rimpianti, vivere nel futuro vuol dire essere schiavi dei progetti; in entrambi i casi siamo condannati alla sofferenza. Esiste soltanto il presente. Ho coltivato ogni genere di paura, prima di capire che la realtà non è mai così brutta come il fantasma della realtà».
E l’aldilà?
«Non c’è. È tutto qui e ora. Sono sempre stato un materialista. Ma ora i fisici pensano che la materia sia solo un insieme di vibrazioni, e che la coscienza venga prima della materia. È questa la vera immortalità. A volte mi fermo a respirare, senza pensare a nulla, o meglio accogliendo i pensieri e lasciandoli passare. All’inizio restare solo con me stesso mi faceva impazzire. Ma solo così arrivi alla consapevolezza».
Mi sembra un guru.
«La prossima volta arrivo vestito di arancio, come un santone, con un altro nome...
(quando sorride Vasco pare un grande bambino)».
Lei è mai stato comunista?
«Mai. Ero anarchico. Poi mi sono riconosciuto nelle battaglie di Pannella per i diritti civili. Solo in fatto di tasse sono un po’ comunista...».
Se difende le tasse, la insulteranno più che per la difesa di Israele.
«Non pagare le tasse è una vergogna. Io sono italiano, fiero e orgoglioso di esserlo, e ho voluto mantenere la residenza in Italia. Voglio e debbo versare tutte le tasse al mio Paese. Se guadagno, vuol dire che posso pagare. Sono favorevole anche a un’imposta sul patrimonio: chi ha di più deve dare di più. E dovrebbero pagare le tasse pure le multinazionali, a cominciare dai padroni della Rete».
Cosa vota ora?
«Non voto. Sono semplicemente dalla parte dei deboli. E sono impressionato dalla quantità di balle che sparano i politici. Tanto, a sparar balle non si muore e non si paga...».
La Meloni come la trova?
«È certamente simpatica, adesso sono tutti un po’ innamorati. Ma per decenni ha detto cose assurde, vergognose, irresponsabili. Che non si cancellano».
La Meloni ha vinto le elezioni.
«Vero. Ora forse le vince pure Trump. La verità è che la democrazia funziona solo con una popolazione informata in modo plurale e possibilmente non strumentale. E comunque resta il miglior sistema che per ora abbiamo a disposizione».
Da dove nasce la rivalità con Ligabue?
«Nessuna rivalità. Una montatura dei giornali».
E con Lucio Dalla che rapporto avevate?
«Bellissimo; ma non appartenevo alla sua parrocchia. Una volta venne a pranzo da me a Zocca con Gianni Morandi, per vedere se potevamo fare una cosa insieme. Al momento di ripartire mi disse: “Noi due insieme forse potremmo aprire dei negozi in centro a Bologna”».
Tra i giovani chi le piace? Ghali? Mahmood?
«Ghali ha fatto centro a Sanremo, cantando prima in arabo poi in italiano. Mahmood è un piccolo genio. In generale le cose nuove mi incuriosiscono sempre».
Ma il suo preferito chi è?
«Madame. Ha la stessa genuinità di Carmen Consoli. Mi piacciono anche Levante e Marracash».
I rapper?
«Parlano il linguaggio dei ragazzi, esprimono i loro valori: comprese le scarpe, i vestiti firmati. Il consumismo, la pubblicità».
E i cantautori?
«Io sono un provocatore, scrivo per provocare le coscienze e per mantenerle sveglie: è il compito dell’artista».
Tra gli artisti, quindi?
«Su tutti, Francesco De Gregori e Gino Paoli. Paoli lo andai a sentire da ragazzo, al Piro Piro, una balera di provincia. Lo ascoltai cantare “Non andare via”, la sua versione di “Ne me quitte pas” di Jacques Brel. A quel concerto capii la differenza tra cantante e interprete, e mi dissi: io nella vita voglio fare questa cosa qui».
È vero che un tempo pensava di morire giovane?
«Sì. Adesso invece vorrei morire sul palco».
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Dott. Herman Hernandez TESTIMONIANZA DI UN MEDICO SPIRITUALE
von Witold Wieslster, Dienstag, 24. November 2015 um 18:13
Il nome con il quale mi conoscete è molto simile a quello della mia ultima incarnazione, avvenuta in Argentina nella seconda metà del secolo scorso e terminata all'epoca della prima guerra mondiale, quando avevo 51 anni.
Il cognome, naturalmente, è quello che mio padre portò come una bandiera dalla natia Spagna, quando ne fuggì spinto dal suo animo poetico e avventuroso di rampollo di buona famiglia. Famiglia ricca ed opprimente, dalla quale potè evadere grazie anche alla mancanza di qualsiasi difficoltà di ordine pratico. Lo dicevo sempre a mio padre quando, avviato alla pratica psichiatrica, mi divertivo ad analizzarlo facendolo irritare e ribellare alle mie analisi e conclusioni: "Non è stato poi così difficile per te, padre mio, seguire il tuo spirito d'avventura, divenire il paladino degli oppressi, il portavoce dell'epica popolare che esprimi nella tua poesia "gauchesca". La tua poesia, popolare per definizione, esprime lo spirito del gaucho, ma non può condividerne le grame avventure da una comoda, confortevole casa cittadina! La tua cultura ti fa comprendere il linguaggio dell'uomo della campagna, apprezzarne lo spirito, ma non ti rende come lui".
Erano lotte affettuose ed ironiche; mio padre non demordeva; lui era un vero avventuroso, era, malgrado i privilegi, il colonizzatore liberale e democratico, convinto della necessità di mutare le strutture politiche, economiche e sociali del suo Paese d'adozione. E lo tentò anche, e con lui molti del suo ceto e della sua generazione.
A partire dalla fine dell'800, nel mio Paese si verificò un notevole sviluppo economico, anche a seguito della larga immigrazione europea; l'aumentata prosperità non mutò tuttavia le condizioni in cui vivevano le masse popolari.
Più tardi il regime di Peron attuò alcune riforme in favore dei "descamisados" cui si appoggiava, ma l'Argentina, pur avendo le risorse umane e materiali per divenire un Paese moderno, è purtroppo ancora oggi un Paese dalle basi economiche e sociali arretrate.
Ma torniamo al mio nome: ci tengo, e qualcuno più di me, a spiegarvi che l'imposizione del nome Herman al suo figlio primogenito, fu la piccola vittoria di mia madre, alsaziana, sulla prepotenza tutta spagnola del marito.
Mia madre, cresciuta nel periodo in cui in Alsazia non era ancora attiva l'opera di germanizzazione, era e si sentiva francese, ma, essendo di madre tedesca, era legata, malgrado lo negasse, anche ad antiche tradizioni e vicende culturali prettamente tedesche, cosa che irritava sommamente mio padre, il quale non poteva però negare come fosse stato il deciso spirito germanico a convincere una ragazza dell' 800 a fuggire al di là del mare, condividendo l'avventura di uno spagnolo ribelle ed anticonformista.
Quando io nacqui, le acque fra la coppia fuggitiva e le famiglie di origine si erano placate. Le nozze, celebrate nella bellissima chiesa di Santa Fé nella più stretta tradizione cattolica spagnola, seguite dalla tipica festa folcloristica argentina, frutto dell'incontro fra le tradizioni, i miti ed i canti degli indios e il patrimonio culturale e folcloristico spagnolo, avevano riconciliato con i fuggitivi e fra di loro le altere famiglie d'origine, che avevano varcato compatte il mare per assistere al rientro nelle regole delle loro pecorelle smarrite.
Alla mia nascita seguirono quelle di altri tre figli che mia madre allevò con ferrea disciplina germanica, alleviata da ampi sprazzi di ironia francese che ci plasmò più della paterna impronta spagnola, indulgente e dispersiva.
Chiedo scusa, se mi sono un po' dilungato nel racconto del contesto socio-familiare in cui sono cresciuto, ma l'ho fatto per cercare di far comprendere perché quando, dopo gli studi superiori, si trattò di decidere la scelta universitaria non ebbi dubbi: sarei diventato medico e mi sarei specializzato in neurologia e psichiatria.
C'erano state, già negli anni precedenti, avvisaglie di questa importante decisione.
Di fare il medico l'avevo deciso fin da bambino e non avevo mai cambiato idea, ma fare "il medico dei matti!", come diceva mia madre, questa era un 'idea ben strana!
Intuiva che questa mia decisione di essere dottore era in parte la contrapposizione di un aiuto tangibile, pratico, immediato all'aiuto di parole e idee che mio padre dava al suo prossimo più sfortunato; ma perché, insisteva mia madre, occuparsi di una medicina fatta di parole?
A quell'epoca essere neuropsichiatra, specialmente in Sud America, voleva dire essere guardato dai benpensanti con un po' di sospetto e le capacità di medico venivano un po' sminuite dal fatto di voler studiare e conoscere ciò che non si vede.
Verso il 1880, il mondo occidentale subiva l'influsso del positivismo e le tendenze predominanti erano, oltre ai resti della vecchia filosofia illuministica, le nuove filosofie materialistiche e meccanicistiche.
Tuttavia, qualche anno più tardi, per tutta l'Europa si potè scorgere una nuova svolta culturale, un marcato cambiamento degli orientamenti. Il fenomeno toccò molti aspetti della cultura e la nascita di una nuova psichiatria dinamica può essere compresa soltanto in questo contesto.
In quegli anni mi trovavo in Europa per compiere i miei studi universitari. Ero ospite di un fratello di mia madre che da Strasburgo, quando la città venne annessa alla Germania, si era trasferito a Nancy, in Lorena, dove era sorta una nuova università.
Qui conobbi Hippolite Bernheim, imparentato con mio zio, che ebbe una determinante influenza sulla mia formazione professionale.
Nel periodo universitario conobbi abbastanza bene alcuni Paesi dell'Europa, fra i quali l'Italia. Visitai Torino, dove conobbi Enrico Morselli, e Napoli, dove passai una meravigliosa vacanza.
In Inghilterra mi recai appositamente per conoscere Myers che aveva compiuto importanti studi sull'ipnosi.
In Europa, infatti, in quegli anni si andava largamente manifestando un profondo interesse, oltre che per i problemi delle malattie mentali e delle nevrosi, anche per l'ipnosi. Ed era un campo che mi interessava molto e che non abbandonai più.
Il mio modello e maestro divenne, a quel tempo, Pierre Janet con il quale, tornato in Argentina, intrecciai una fitta corrispondenza e che rividi per l'ultima volta a Londra al Congresso Internazionale di Medicina del 1913 . Veramente, lo rividi e sentii ancora qualche anno dopo, in occasione del suo viaggio in Sud America, ma lui non poteva vedere né sentire me!
Al tempo di Janet molti autori ammettevano l'esistenza di una ipotetica energia nervosa o mentale la cui insufficienza provocava disturbi nevrastenici. Ma taluni fatti li rendevano perplessi come, ad esempio, il fatto che un individuo, che appariva completamente esaurito, improvvisamente riuscisse, sotto certe stimolazioni, a trovare la forza necessaria per compiere azioni difficili. Janet superò queste apparenti contraddizioni elaborando un sistema nel quale l'energia psicologica è caratterizzata da due parametri: la forza e la tensione.
La forza psicologica è la quantità di energia psichica elementare. La tensione psicologica è la capacità di un individuo di utilizzare la propria energia psichica.
La relazione fra forza e tensione psicologica viene dimostrata da vari fenomeni.
Si verificano agitazioni quando la quantità di forza è mantenuta, mentre la tensione psicologica è abbassata.
La crisi epilettica non sarebbe altro che un improvviso collasso della tensione psicologica sotto forma di scarica di energia.
Dovrebbe esserci equilibrio tra forza e tensione, ma tale equilibrio è spesso difficile da mantenere.
Con l'aiuto di questi concetti, che io ho riassunto e ridotto all'essenziale, Janet fu in grado di costruire un nuovo modello teorico connesso con le condizioni nevrotiche e con la psicoterapia.
Una volta tornato in Argentina ed iniziata ad esercitare la professione, mi dedicai all'attività di neuropsichiatra per il ceto più elevato che faceva parte del mio ambiente nella mia città. Questo era scontato, perché la mia famiglia placasse i suoi dubbi sulla serietà della mia profesionne.
Ma i miei studi e le mie forze si orientarono soprattutto nell'indagine e nell'aiuto per le persone ammalate di nevrosi non per moda o per noia, ma per effettivi squilibri di origine neurovegetativa.
Andai nei villaggi, tra i figli della Pampa, partecipai alle feste propiziatorie e alle processioni di ringraziamento, osservai il comportamento delle donne, degli uomini, dei vecchi e dei giovani, le contraddizioni e i timori dei loro modi di esprimersi e di vivere.
Li raffrontai con il comportamento dei miei ricchi clienti di Buenos Aires e visualizzai sempre di più la ripetitività, in contesti economici e sociali diversi, delle risorse e delle debolezze della psiche umana, dei meccanismi che scatenano l'emotività, delle difficoltà di incanalare e superare quest'emotività, scatenata da motivi diversi, identica nel manifestarsi e gestire l'animo umano.
E' in grado l'uomo, mi chiedevo sempre più spesso, di utilizzare sottili risorse quali la volontà, l'energia psichica, i meccanismi mentali, per raggiungere l' equilibrio?
E se sì, questi attributi che sono insiti nell'uomo stesso, come farli emergere ed entrare in azione? Dando più spazio a un analizzare o a un sentire?
Erano le mie prime intuizioni sull'esistenza di uno spirito, uno spirito incarnato, quindi compresso e soffocato, e non lo sapevo. Ma questo spirito lo incontravo continuamente, in chi soprattutto riuscivo ad aiutare almeno un poco, e prepotente emergeva dentro di me.
L'episodio decisivo per me fu l'incontro con la ragazza che doveva diventare mia moglie ed aiutarmi per tutta la vita con coraggio ed entusiasmo nel mio lavoro nei villaggi, fra la gente che conosceva così bene perché era la sua gente.
Hilaria, unica figlia di un indio, mio paziente e amico, e di una spagnola che vivevano in un villaggio presso Santa Fé, era una giovane dai nerissimi capelli, con occhi pure neri e vivaci, intelligentissima e dolce; amava la sua gente e il suo Paese e con immenso sacrificio dei genitori aveva studiato per diventare infermiera e lavorare in ospedale.
Quando la conobbi aveva appena terminato l'internato e si apprestava a fare il suo tirocinio nel reparto psichiatrico dell'ospedale di Santa Fé.
Ero affascinato dalla dolcezza e nello stesso tempo dalla tranquilla sicurezza con cui si rivolgeva alle persone; cominciai a prestarle libri di psicologia e dispense che le traducevo dal francese, chiedendo poi il suo parere.
Un giorno la sentii parlare con una vecchissima donna india del villaggio, amica dei suoi, e chiederle di darle un consiglio facendo parlare lo spirito.
"Di quale spirito parlavi, Hilaria?" le chiesi gentilmente più tardi, con scettica curiosità.
"Del suo - mi rispose semplicemente - Florida è saggia, perché sa far parlare il suo spirito. Lei non è prevalente!"
La guardai allibito, che cosa veniva a raccontarmi? Che cosa intendeva con "prevalente"?
E io davo retta a una ragazzina esaltata, io che avevo dieci anni più di lei, ero un medico e avevo girato il mondo!
Hilaria mi guardava con dolcezza, ma anche con un pizzico di sfida.
"Vedi Herman, secondo me la maggior parte di noi si affanna a ricercare un proprio equilibrio sia fisico che psichico, prima che in se stesso, al di fuori, ignorando forze naturali che rimangono sconosciute o vengono svisate.
Se lo spirito che è dentro di noi è in equilibrio anche il corpo è in equilibrio e viceversa.
Quella che voi medici della mente chiamate "psiche" fa parte dello spirito, ma è a volte così condizionata dal corpo da integrarsi in esso, da essere soffocata dalla mente che diventa "prevalente". La mente di Florida non è "prevalente", non comprime e soffoca l'attività energetica del suo spirito! Con buona pace del tuo adorato Janet."
Mi prendeva in giro e io mi lasciavo prendere in giro?!
No, Hilaria era convinta di quanto affermava e io potevo imparare da lei a considerare da un altro punto di vista l'oggetto dei miei studi e delle mie ricerche.
E così fu per il resto della vita che trascorremmo insieme, dalla vostra parte.
Non fu un periodo lunghissimo: vent'anni; Hilaria restò sola presto ad allevare nostra figlia, ad aiutare la gente dei villaggi a far emergere la parte migliore di sé, a ricercare dentro di sé le risorse naturali sconosciute che aveva intravisto e io, da questa parte, continuai ad aiutarla proseguendo i miei studi e constatando, con il vantaggio di una visione più completa, la realtà di certi meccanismi e leggi naturali che avevo con il suo aiuto intuitivamente percepito e intravisto.
Non è molto che Hilaria mi ha raggiunto; al contrario della mia, la sua ultima incarnazione è stata lunghissima ed è una esperienza che ha arricchito il suo spirito con la semplicità del suo essere portato a sentire e non soltanto o prevalentemente analizzare.
I nostri studi, le nostre osservazioni e verifiche ora continuano nel gruppo costituitosi unitamente a Vita Nuova, al movimento che, nelle due dimensioni parallele, vuole portare avanti la ricerca e lo studio della personalità spirituale: partendo dalla condizione meno favorevole di spirito incarnato e quindi compresso, se l'uomo non viene aiutato a comprendere certi meccanismi regolati da leggi naturali ancora per la maggior parte sconosciute o misconosciute.
La nostra vita continua ora, unita nelle due dimensioni a coloro che hanno il nostro stesso ideale, il nostro stesso scopo: formare degli spiriti liberi sia incarnati che disincarnati, consapevoli di lavorare insieme per costituire una salda "piattaforma" di base nella quale "sempre" si verifichino le condizioni necessarie ad aprire e mantenere aperto un canale di comunicazione e quindi di scambio e aiuto fra cielo e terra. Un'isola pilota, dove regni l'amore e l'unione d'intenti, ma anche la consapevolezza che soltanto l'indagine sistematica e costante di tutto ciò che è constatabile e tangibile, il confronto e il collegamento con gli studi di altre discipline scientifiche, la ricerca continua e obiettiva di dati precisi e ripetibili, potranno fare della scienza spiritica una scienza esatta, fonte sicura di vera conoscenza.
So che molti fra voi si chiedono come si svolga la vita, come trascorra il tempo in quell'ipotetico "al di là" dal quale, in definitiva, nessuno è ritornato con una testimonianza eclatante e obiettivamente constatabile.
So che anche chi è convinto nel più profondo del suo essere dell'esistenza reale di questo mondo, spesso si domanda, con un fondo di scetticismo, quali siano il significato e lo scopo di questo nostro voler studiare, approfondire e comunicare, a chi lo desidera, risultati pur sempre opinabili e spesso difficilmente verificabili.
Vorrei quindi cercare di ampliare un poco la visuale che l'uomo, in quanto spirito incarnato, non può da solo captare e completamente constatare a meno che non acconsenta a liberare volontariamente se stesso da legami vincolanti, ma non per questo sempre strettamente costrittivi.
Comincerò con una descrizione che completi quella che Agliva, la mia "assistente", ha già fornito quanto vi ha portato la sua testimonianza.
Contrariamente a quanto è avvenuto per lei, il mio primo impatto con il mondo spirituale non è stato portatore di grosse sorprese.
Il trapasso è stato per me meno violento anche se improvviso, perché causato da una malattia fulminante e per la quale ancora non erano stati trovati farmaci debellanti.
Certo non mi aspettavo di dover morire, ma il corso preso dalla febbre e i sintomi non potevano ingannare la mia pur non eccelsa capacità diagnostica.
Inoltre in fondo sapevo, seppur confusamente, di aver predisposto con il mio modo di vivere il terreno adatto all'instaurarsi della malattia che mi aggrediva e i cui segnali premonitori non erano mancati. Ero sempre stato fin da ragazzo, un accanito fumatore e i miei polmoni non avevano più difese.
L'organismo umano ha la capacità, attraverso il sistema immunitario e la buona gestione dei vari organi e soprattutto delle reti elettrica ed energetica legate al sistema nervoso, di mantenere un equilibrio ottimale.
I presupposti perché questo avvenga, però, sono basati, oltre che sulla conoscenza di precisi meccanismi, sulla capacità individuale di esercitare la volontà, facoltà innegabilmente spirituale.
Affermo questo ora che ho approfondito e verificato certe teorie, ma allora ...
Allora ero portato a considerare la volontà come una capacità che la mia impulsività e tendenza a perdere la calma a volte poteva indebolire malgrado l'innegabile conoscenza di me stesso che la mia professione comportava.
Ora so che non è così, che chi non è "prevalente", chi è in armonia con il proprio spirito può far emergere l'energia calma e potente della volontà.
Ma torniamo al mio arrivo nel piano spirituale.
Dicevo che non ebbi grosse sorprese.
Le convinzioni, i discorsi semplici e sereni di Hilaria avevano inconsapevolmente toccato la parte di me che voleva credere, malgrado la ragione si opponesse, che la vita continua, che non può esserci data soltanto la possibilità dell'arco di una vita, a volte brevissima, per poter fare esperienza, agire, conoscere. E malgrado razionalmente, a parole, negassi ogni possibile sopravvivenza, curiosità e speranza convivevano con la mia ferrea logica che mi portava a escludere ipotesi intuitive e per questo considerate assurde.
Non mi meravigliai quindi nel trovarmi, consapevole di aver esalato proprio l'ultimo respiro, nel buio tunnel in fondo al quale vedevo la luce.
Vuoi vedere Herman, mi dissi, che ti sei sbagliato?! Che non è un'allucinazione tutto questo?! Sono sicuro che non mi hanno somministrato nulla; anche se avevo la febbre altissima ero lucido e gliel'ho proibito!
Il sorriso dolce di nonna Virginia e di Florida mi accolsero nella luce fattasi improvvisamente più viva, radiosa ... inimmaginabile.
Era il mondo descritto da Florida, la favola per la quale deridevo Hilaria! Ma ciò che non avevo mai immaginato e che attirò subito la mia attenzione era il mondo, che potrei definire, per rendere l'idea, sottostante o circostante: il mondo dei trapassati che non vedevano, non volevano vedere la luce, e come ciechi erravano nel buio con lo spirito ancora attirato e rivolto alla materia.
Erano forse gli spiriti malvagi ai quali a volte accennava Florida? Ne dubitavo.
Questo proprio non me lo aspettavo.
Un piano parallelo a quello umano, ma che umano non era più e credeva di esserlo o voleva esserlo!
Nessuna possibilità di comunicazione tra coloro che ignari si muovevano nel secondo e coloro che nel primo cercavano di attirarne l'attenzione macerandosi nella sofferenza e nell'ira. E nessuna comunicazione tra coloro che si trovavano in tale stadio. Solitudine e dolore, questo mi colpiva ancora di più. Da chi avrei potuto avere spiegazioni?
Ero disorientato e confuso, ma il desiderio di conoscere prevalse, dovrei dire il pensiero prevalse e fu captato.
Fu captato da qualcuno che mi si avvicinò e del quale percepii la decisione, la sicurezza nel manifestare il suo pensiero. Non ebbi dubbi: avevo già incontrato quel personaggio, ma quando, dove?
La sua spiegazione fu questa: "Quando ricorderai la vita che abbiamo trascorso insieme, comprenderai anche i motivi per cui il compito che ti viene proposto ora riguarda gli spiriti che tanto ti colpiscono in questo momento e la loro condizione.
Nel piano spirituale vengono a trovarsi trapassati che non accettano o non concepiscono il cambiamento di stato che la morte fisica ha loro imposto. Le reazioni a questa situazione sono innumerevoli e portano alle più svariate condizioni sulle quali naturalmente influisce ciò che la persona era da incarnata. La maggior parte di questa popolazione eterogenea, che può a volte dare l'impressione di essere malvagia o vendicativa, è soltanto sofferente e smarrita, incapace di richiedere o cercare aiuto. Vuoi occuparti di loro? Tu sei stato più fortunato, Hilaria, il tuo intuito, i tuoi studi, la tua professione e altri fattori ti hanno indirizzato e aiutato per tempo.
Sulla terra hai aiutato i tuoi simili agendo sulla loro psiche, sorretto dalla tua conoscenza, ma anche dal tuo istinto.
Ora puoi proseguire, se vuoi. Addentrandoti, con spirito attento ed aperto in questo mondo, acquisirai nuove conoscenze, osserverai meccanismi naturali che ancora non hai avuto modo di conoscere. Se chiederai aiuto e illuminazione li otterrai; se vorrai progredire ne avrai la possibilità.
Basta che tutto questo sia obiettivo della tua volontà.
Se avrai bisogno di me ci sarò, ma ora ti affido a chi potrà darti i suggerimenti più immediati e necessari."
L'idea di essere, per così dire, inquadrato non mi attirava molto, ma tutto il resto sì e d'altronde non avevo molta scelta!
Non sapevo allora che nel mondo dello spirito non si viene mai inquadrati, soltanto orientati e che si è assolutamente liberi.
Lo constatai nel tempo, negli anni che dedicai agli spiriti sofferenti, cercando di orientarli, nella libera scelta dell'essere consapevoli e del migliorare la propria condizione.
Spiriti che erano stati uomini arroganti e prepotenti dovevano scegliere ed imparare l'umiltà, altri nei quali avevano prevalso l'egoismo e la chiusura in se stessi, dovevano scegliere ed imparare l'altruismo e la disponibilità, e così via, in un cammino lento e faticoso che a volte scoraggiava anche noi che ci eravamo assunti il compito di aiutarli.
Quando Hilaria mi raggiunse, si avvicinava l'anno 1970, chiesi con lei di assumermi un altro compito. Quello di far conoscere o per lo meno di tentare di far conoscere almeno in parte ad altri spiriti spesso sofferenti, gli spiriti incarnati, le leggi che regolano molti meccanismi naturali che ancora gli uomini non conoscono.
Fra questi la possibilità di comunicazione e scambio fra il mondo terreno e il mondo spirituale.
Hilaria ed io ci avvicinammo al nostro Paese per cercare persone che avessero nel cuore il desiderio di conoscere, perché tale desiderio è spesso la spinta ad essere tramite degli spiriti di missione e di chi è loro vicino.
Trovammo alcuni uomini e donne con buone vibrazioni e in particolare un uomo con il quale io potevo entrare in buona sintonia. Per alcuni anni ci dedicammo alla sua formazione spirituale, spingendolo ad appoggiarsi anche a persone adatte ad aiutarlo nella sua formazione a livello psico-fisico. Un buon medium infatti non è mai solamente spontaneo. E' necessariaanche una severa preparazione, perché possa evitare i pericoli e le false illusioni che gli possono venire dalla sua posizione di apertura e disponibilità.
Questa formazione è un lavoro duro anche per noi spiriti che dobbiamo agire sui due piani e superare per realizzarla innumerevoli ostacoli umani e non.
Quando il lavoro sembrava a buon punto il mio mezzo si trasferì dal Sud America all 'Europa, in un Paese che io amavo molto, l'Italia.
Il lavoro, che andava anche adattato al contesto sociale ed economico del nuovo Paese, subì un arresto.
Da parte nostra individuammo ben presto la necessità di trovare un sostegno umano formato da un gruppo in cui il nostro tramite andava inserito, ma non trovammo da parte sua rispondenza alcuna.
Il fatto di provenire dal Sud America (dove si ritiene che il mondo degli spiriti sia più vicino!) sembrava autorizzare il mio uomo e chi lo circondava a ritenersi, per suo merito, speciale.
Non era questo il nostro scopo. Noi avevamo bisogno di persone disponibili a uno scambio d'amore. Persone certamente un po' speciali nel senso che noi chiedevamo la loro fiducia, direi in anticipo, sullo scambio; ma persone disposte a lavorare e esplicare le loro capacità in un lavoro comune, non in cerca di gloria!
Con dispiacere, ma necessariamente, dovemmo ricominciare la nostra ricerca e decidemmo di farlo nel Paese che ci aveva senza colpa tolto il frutto di un lungo lavoro.
Avevamo già individuato il gruppo che, anche se in via di costituzione, ci faceva ben sperare. Gli spiriti che già si dedicavano all'orientamento e alla formazione di questo gruppo, avevano gli stessi nostri obiettivi e condividevano il nostro modo di procedere.
Unimmo le nostre forze e formammo un unico movimento, lo stesso cui ho accennato più sopra.
Nel movimento Vita Nuova trovai altri medici che come me volevano approfondire ed ampliare le conoscenze acquisite nell'ultima o in precedenti incarnazioni, avvalendosi del nuovo stato e delle relative possibilità, dell'aiuto di altri spiriti più avanzati ed evoluti, dello scambio e aiuto con chi, pur essendo ancora incarnato, desidera conoscere una nuova realtà, intraprendere lo studio di una nuova scienza: lo spiritismo.
Stiamo lavorando, con pazienza, con determinazione, spesso con fatica, ma senza mai scoraggiarci nonostante gli inevitabili cedimenti e ripensamenti da parte dei nostri amici. Amici incarnati e per questo più influenzati da debolezze e timori prettamente della condizione umana. Timori di non farcela, di perdere la fiducia, di combattere una battaglia perduta in partenza, perché non soggetta alle leggi conosciute della logica, della sperimentazione, della realtà.
Sono innumerevoli le componenti psicologiche che possono frenare il loro entusiasmo! Ma noi siamo al loro fianco, pronti a proteggerli e a sostenerli e a nostra volta abbiamo al fianco coloro che, forti di maggiore conoscenza, sanno guidarci e proteggerei.
In particolare noi medici che operiamo per Vita Nuova, teniamo a consolidare al più presto possibile questo piccolo nucleo per poter, tramite le persone adatte e disponibili, intervenire per alleviare le innumerevoli sofferenze che vediamo ogni giorno nel pur piccolo contesto che ruota intorno a Vita Nuova e che è destinato ad aumentare notevolmente. Da parte mia ho trovato un'altra persona vibratoriamente adatta al tipo di lavoro che desidero portare avanti unitamente agli altri.
Stiamo lavorando perché ciò diventi fattivo al più presto e senza le delusioni del passato.
Ciò che ci fa ben sperare è la coesione del gruppo. Infatti perché uno o più spiriti disincarnati possano lavorare tramite un buon medium occorre, oltre alla disponibilità e preparazione del mezzo stesso, la disponibilità, preparazione, unione armonica delle persone che lo circondano per aiutarlo, sostenerlo, difenderlo; le persone che costituiscono la cosiddetta catena medianica, elemento indispensabile e insostituibile nel lavoro medianico. A Vita Nuova lavoriamo tutti uniti a questo scopo: formare e consolidare la piattaforma costituita da spiriti incarnati sui quali altri spiriti, disincarnati, possano veramente contare.
Anna Fumagalli - Vita Nuova
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Deo Gratias e il Curriculum Vitae
Caro diario,
questa mattina è stata una di quelle dove mi sono reso conto di stare correndo non per me stesso, che quello che è il mio lavoro e il mio da farsi per la mia vita professionale viene messa da parte. Per mettermi a disposizione di chi ha bisogno.
Non saprei dire quando ho iniziato a fare il caregiver, forse perché la mia vita è sempre stata un fluire di ruoli che si accavallavano senza un confine netto, cominciando da quando nacqui come trofeo da esibire a precedere una serie infinita di ruoli, per citarne qualcuno: utile idiota, servo obbediente, babysitter, tassista. Un’esistenza al servizio degli altri, con una sola pausa, quell’anno da Signorsì Signore tra i Paracadutisti. Lì, tra ordini gridati e lanci nel vuoto, tutto sembrava più leggero, quasi un gioco rispetto al peso silenzioso degli anni successivi.
Mi dovrò informare se tutte queste mansioni da prostrato perenne possano in qualche modo rientrare nel mio curriculum. Un curriculum referenziato e di tutto rispetto.
Stamattina ero all’ATS, immerso nella solita trafila per il 'materiale assorbente', un promemoria che, se ce ne fosse bisogno, il tempo non risparmia nessuno, né nella mente né nel corpo. Quei corridoi bianchi, le sale d’aspetto piene di anziani che si ostinano a mostrare una dignità testarda, mi fanno sempre oscillare tra tenerezza e un pensiero cupo: il futuro che mi aspetta è già qui, a un passo, e che forse il tempo e la vita ormai marciano insieme, spalla a spalla.
Assorto in questi pensieri autodistruttivi, tra un padiglione e l’altro, noto un viso, uno di quelli che non potrei confondere nemmeno volendo. Il volto del Professore Contamale, con la sua chierica lucida e i capelli bianchi che gli cadono lunghi sulla nuca. L’ho riconosciuto all’istante, come sempre, fermo davanti a una bacheca con una cartelletta tra le mani. Senza pensarci troppo, mi sono avvicinato: “Deo gratias!” - gli ho detto, con quel tono che riportava indietro gli anni. Lui, il mio vecchio prof di matematica, lo diceva ogni volta che io, discalculico senza speranza, arrancavo fino a una soluzione improbabile.
“Deo gratias!” - ha risposto ridendo, socchiudendo gli occhi per mettermi a fuoco - “E tu chi sei?”
“Professore, sono (mio nome e cognome), sezione G anno scolastico 80/81” - ho risposto, col fiato sospeso. E se non mi avesse riconosciuto? Sarebbe stato come un sigillo sul tempo che passa, un colpo alla mia illusione di avere ancora strada davanti. Ma lui ha sorriso e stringendomi un braccio mi ha detto: “Ma certo, (mio cognome), come potrei dimenticarti? Come va la tua vita, ti sei realizzato?”
Realizzato. Che parola grossa. Da suo alunno sognavo di essere Capitan Harlock, non di risolvere equazioni. “Disegnavi sempre,” - ha aggiunto lui - “anche durante le mie lezioni. Che sagoma, eri.”
“Mi piaceva, sì” - ho ammesso, con un sorriso.
“Io e il professor Mangiaparole ci chiedevamo perché non fossi all’artistico. Era il tuo posto, quello.” - mi dice guardandomi fisso.
Già, chi glielo spiega che allora ero nel periodo utile idiota, quello in cui dicevo sì a tutti, quindi anche alle scelte altrui?
“E tu, che ci fai qui?” - mi ha chiesto poi.
Non gli ho detto del mio attuale ruolo da caregiver. Ho solo accennato un sorriso e cambiato discorso.
Tornando a casa con l'autoradio canaglia che mi fa ascoltare Tunnel Of Love dei Dire Straits, proprio di quegli anni, ho lasciato correre i pensieri. Ho ripensato alla mia vita in metafora shakespeariana, come se fosse stata un palcoscenico, dove ho costruito scene calcate poi da altri, scritto copioni recitati poi sempre da altri.
Ma poi ci sono i miei figli, capolavori veri e sono miei che nessuno mi ha portato via, e gli amori che ho vissuto, sinceri, ancora vivi dentro di me. Perché con essi non ho recitato, ma li ho vissuti con estrema sincerità.
E il Professore che mi ha riconosciuto, ancora una volta, mi ha dato un soffio di forza. Ho ancora tempo, mi sono detto, c'è davvero più tempo che vita. E la prossima cosa bella che farò, la saluterò con un “Deo gratias!” gridato al cielo.
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... e niente, avete notato che la parola su un social network che è messa in primo piano è proprio lei, l'Amicizia, quella che ne soffre maggiormente, ad essere stuprata con l'inganno, ad essere svenduta o quasi regalata, in un sistema dove ci si fa "amici" tra sconosciuti, ma poi non ci si saluta per strada, oppure le nostre strade non si incroceranno mai, perché stiamo a millenovecentoventisette miglia di distanza dall'annusarci, in questo parcogiochi virtuale dove tutti sono amici, amici di tutti, intimamente sconosciuti, e bro, brother, sista e cazzate affini, dove ci si chiama per nome, anzi per soprannome, dove "sì, cazzo lui lo conosco benissimo" e "sì, lui è un mio grande amico", ma amico di cosa, porcodio? Perché io invece mi ricordo che ci ho messo quasi 3 anni per chiamare quello che poi sarebbe stato un mio grande amico, nonché mio coinquilino, per nome e non per cognome, mesi per capirci e studiarci, per superarci e venirci eventualmente incontro, giorni per rompere gli indugi e scambiarci un saluto, cazzo, ma i tempi cambiano, le cose passano, invecchiano, mentre altre corrono, però lui, il mio amico, e come lui tanti altri, sono ancora qui, nella mia vita di merda, e di tutti questi miei e vostri amici virtuali (e soltanto virtuali) invece che cosa sarà? Quando saremo in difficoltà, quando avremo bisogno di aiuto, di soldi, di cazzo-ne-so, quando vorremo piangere e berci una (anzi, 3) birre insieme cosa faranno ci metteranno un like? una reaction? un bel commento? o non visualizzeranno il nostro messaggio? e magari ci bloccheranno o cancelleranno dagli "amici" se rompiamo troppo i coglioni? Mah. Comunque si scherza, si esaspera, si provoca, anche l'amicizia virtuale ha un suo bel perché e da quasi un paio di decenni ormai, in tutte le sue svariate forme. Basta non si sostituisca a quella vera. Perché, pochi cazzi, quell'altra è vera e questa è un vile surrogato. Anche soltanto chiamarla "amicizia" è una bestemmia, porcodio. Una scoreggia non sostituirà mai una bella cagata. Non dimenticatevelo. E poi, forse, senza Facebook non conoscerei tanta gente, ma sono convinto che passerei molto più del mio tempo con altra che, invece, grazie a questo strumento posso sentire ogni tanto, ma purtroppo non vedo quasi mai. Che tristezza. Buona giornata e buona fortuna
(il mio amico Cristian)
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Martedì 6 dicembre 2022
Sto cercando lavoro ormai da mesi ed oggi, come quasi ogni giorno, mi connetto al mio profilo di subito per leggere qualche altro annuncio, sperando, per l'ennesima volta, di trovare qualcosa di decente. Mi contatta quella che dovrebbe essere la figlia di un parrucchiere, in cerca anche di prima esperienza, e sua commercialista, a detta del titolare, dicendomi di chiamare il padre quando desideravo. Come si chiamano loro? Sara e Salvio.. Come mi chiamo io? Beh Sara Salvio. Lei col mio nome e lui col nome che è il mio cognome... Avrei dovuto capire che la situazione non sarebbe stata ideale già da questo dato i miei Daddy Issues. O forse così è stato, ed infatti avevo l'ansia ma ho ansia ogni volta che devo parlare per la prima volta con una persona nuova. Si, provo vergogna e timidezza ancora a 21 anni, praticamente, ma va bene così.. dopo un po', lo chiamo e sembra sia tutto a posto: lui è gentile, dicendomi che andava comunque bene che non avessi esperienze nel campo e meravigliandosi del mio nome e cognome, e che sarei dovuta andare al colloquio domani alle 13.. ma purtroppo e o per fortuna, ciò non accadrà. Chiude la chiamata con "a domani", così penso 'daje, la prima cosa è fatta, speriamo vada bene almeno sta volta'; mi rassicuro. Ma non faccio in tempo a pensarlo che mi ritrovo un suo messaggio. 'maah.. non dovevamo sentirci/vederci direttamente domani?! Che succede adesso?'.
"Sei fidanzata?"
Perché chiedermelo così? O addirittura perché chiederlo e basta, non sono niente per nessuno, o almeno per te.
"Sto tornando a casa, ma prima mi sto intrattenendo per strada per parlare con te"
Come se ci stessimo sentendo e mi vorrebbe far sentire importante ma a me non frega niente di te, dovresti soltanto essere il mio capo; voglio solo che questa chat finisca il prima possibile, voglio solo fare il colloquio e capire meglio il lavoro: niente di più e nulla di meno.
Non parla affatto del lavoro, anzi cerca un flirt, di provarci con me; io lo faccio fare, per metà ignorandolo, nella speranza che smetta presto ma succede di tutto meno che ciò che vorrei.
Beh, non so come riesco a trovare il momento per chiedergli informazioni sul lavoro, usa la scusa del "ti stavo studiando per capire come sei", riferendosi ai flirt, ai "hai delle belle gambe, ed un bel fisico", mandandomi continuamente foto mie tagliate in modo da fare vedere solo il mio corpo, ma poi comunque lui non sapeva come rispondere alle mie domande lavorative: ho dovuto insistere per farmi dire almeno un minimo.
"Reputo WhatsApp più intimo di Instagram"
INTIMO?!?!?! COSA?!?
Infatti improvvisamente mi manda foto di ragazze nude perché mi vede in quel modo.
Sono le 4 del mattino, non riesco ancora a dormire, e lui mi sta ancora chiamando continuamente.
Ho la testa che mi scoppia, non ho manco la forza di piangere.
Non è che io non ero preparata ad una cosa del genere, ne sono più che abituata ormai, ma da quando mi sono fidanzata è la prima volta che mi ricapita.
Di solito, alle 2 di notte, io ed il mio ragazzo ci chiamiamo per creare l'illusione di dormire insieme ma io, come giusto che sia, non riuscivo. Il mio amore, mi ha chiamato lo stesso, facendomi prima un po' di compagnia e poi aspettando, sempre in chiamata, che finissi di vedere la seconda puntata di Mercoledì Addams, finché non riusciva più a resistere a metà puntata. Ci siamo dati la buona nanna, ed ho finito la puntata. Lui è preoccupato, ovviamente per me, e questo lo capisco dal fatto che si sta svegliando ogni tanto, oserei dire anche più spesso del solito. Inoltre, nonostante sapesse che a casa mia vige la regola del -dopo mezzanotte non si esce-, alle 01:30 circa voleva comunque venire da me per abbracciarmi.
Mondo, Vita, sappi che combatto anche con questo, pure questa volta.. anche perché è una lotta già fatta e quasi già vinta.
Mercoledì 7 dicembre 2022 ore 04:30
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