#accordi di filiera
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pier-carlo-universe · 4 months ago
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Coldiretti. Alessandria. Etichettatura: Quante Nocciole ci Sono Davvero nella Crema di Nocciole?
Serve una normativa chiara per garantire al consumatore un acquisto consapevole e valorizzare le eccellenze locali come le nocciole piemontesi.
Serve una normativa chiara per garantire al consumatore un acquisto consapevole e valorizzare le eccellenze locali come le nocciole piemontesi. Le nocciole piemontesi e monferrine sono rinomate per la loro eccellenza, costituendo uno degli ingredienti chiave della celebre crema di nocciole. Tuttavia, nonostante la qualità delle nocciole, non esiste ancora una normativa che garantisca al…
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delectablywaywardbeard-blog · 11 months ago
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Cambiare Rotta: 'Gli studenti occupano il rettorato della Sapienza'
“Nel giorno precedente il Senato accademico della Sapienza, gli studenti occupano il rettorato: basta complicità con Israele, fuori la rettrice da Med-Or, no alla partecipazione al bando del ministero degli Esteri, basta accordi con università israeliane e filiera bellica”. Lo afferma una nota degli studenti di Cambiare Rotta su Instagram. “Dopo i partecipati cortei cittadini e dentro l’ateneo,…
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notiziariofinanziario · 1 year ago
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FederlegnoArredo conferma il suo impegno sulla sostenibilità
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FederlegnoArredo espone a Ecomondo, l’evento internazionale di riferimento in Europa per le tecnologie, i servizi e le soluzioni industriali nei settori dell'economia verde. Per la Federazione, la quattro giorni di Rimini sarà l’occasione per condividere con istituzioni, stakeholder, università, centri di ricerca e operatori del settore il percorso intrapreso fino ad oggi con l’ambizione di rendere la filiera del legno-arredo pioniera della Green Industry, quale voce autorevole e guida riconosciuta e riconoscibile sul tema. Un percorso concreto che vede le aziende del settore già da tempo impegnate nella sostenibilità lavorando su tutti gli aspetti della produzione, della progettazione e del ciclo di vita del prodotto, migliorandone le performance ambientali. Azioni mappate e misurate in una Survey – realizzata su un campione di aziende associate in collaborazione con Fondazione Symbola – che fornisce una fotografia aggiornata delle strategie messe in campo dalle imprese. Il 96% delle aziende della filiera legno-arredo adotta materiali sostenibili nei processi; il60% si approvvigiona in qualche misura da fonti energetiche rinnovabili nella produzione. Inoltre quasi tutte le imprese considerano almeno un criterio circolare nella progettazione di prodotto, e oltre la metà ha implementato modelli di business orientati alla circolarità. La maggior parte delle imprese si è concentrata sulla riciclabilità (58,2%), la disassemblabilità (37,5%) il riuso (29,3%) del prodotto, sulla riduzione degli imballaggi (44%) e dei consumi energetici (54,9%). Sempre più aziende offrono servizi utili a migliorare la gestione del ciclo di vita del prodotto. Ponendo l’attenzione sui processi produttivi si evidenzia come questi siano sempre più efficienti e competitivi: circa il 70% delle imprese ha realizzato investimenti in efficientamento negli ultimi tre anni, ottimizzando i processi produttivi (64% nel 2021) per ridurre l’impatto ambientale. In particolare si evidenzia che più della metà delle imprese recupera scarti di produzione per il riutilizzo interno. Non solo: il 55% delle imprese sono coinvolte in accordi, programmi e progetti per l’implementazione di misure e soluzioni di sostenibilità e circolarità di processi e prodotti, il 17,9% ha attivato programmi di rigenerazione degli habitat naturali direttamente o vi partecipa e il 50% ha intenzione di farlo in un prossimo futuro. Le aziende del legno-arredo risultano inoltre impegnate nel garantire l’accrescimento di competenze in materia di sostenibilità per un modello di welfare sempre più efficace. Sul fronte delle risorse aziendali il 41,3% delle imprese ha programmi di formazione o informazione continua. Il 27,2% ha individuato un responsabile o manager sostenibilità e il 43,5% ha in programma di inserirlo in organico. Per quanto riguarda la scelta dei fornitori, il 76% delle imprese ha definito dei criteri di valutazione che tengono conto degli aspetti ambientali (56% nel 2021).  Il 47,5% delle aziende dell’area arredo si approvvigiona di materie prime o semilavorati locali (entro 100 km) e nell’area legno tre imprese su quattro acquistano legno certificato (FSC, PEFC). Ad oggi più del 60% delle imprese ha almeno una certificazione di sistema, di cui il 31% del tipo ISO 14001. “Ci troviamo davanti a una sfida epocale e la Federazione ha deciso di essere protagonista attiva nel ripensamento dei modelli produttivi, nel limitare il cambiamento climatico e, allo stesso tempo, nel creare le condizioni affinché le aziende associate rimangano competitive sui mercati. Dare il nostro contributo – spiega Claudio Feltrin presidente di FederlegnoArredo – è doveroso affinché un modello di sviluppo sostenibile sia davvero possibile. I risultati della Survey ci confortano e dimostrano come la nostra sia una filiera green per vocazione, ma il percorso è ancora lungo e complesso e nessuno può pensare di intraprenderlo da solo.  Essere a Ecomondo significa anche questo: fare sistema con i più autorevoli protagonisti della transizione ecologica”. Read the full article
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scienza-magia · 2 years ago
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Pubblicato Bando Contratti di filiera per il settore forestale 
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Il giorno 26 aprile 2023 è stato approvato e pubblicato il bando - fortemente atteso da Uncem - recante le caratteristiche, le modalità e le forme per la presentazione delle domande di accesso ai contratti di filiera nel settore forestale e le modalità di erogazione delle agevolazioni, che costituisce provvedimento di attuazione del decreto del Ministero dell'agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste numero 48567 del 31/01/2023. Nel panorama nazionale degli accordi di filiere e reti d’impresa, l’Accordo di Foresta rappresenta uno strumento giuridico innovativo per lo sviluppo di sinergie virtuose a beneficio delle aree forestali e della multifunzionalità che caratterizza il settore. Questo nuovo strumento nasce con l’articolo 35-bis “Misure di semplificazione e di promozione dell'economia circolare nella filiera foresta-legno”, del decreto legge 31 maggio 2021, n. 77, convertito, con modificazioni, nella Legge 29 luglio 2021, n. 108. L’Accordo di Foresta rappresenta quindi, uno strumento giuridico innovativo per lo sviluppo di sinergie virtuose a beneficio delle aree forestali e della multifunzionalità che caratterizza il settore. Una scommessa lanciata dal Centro Oltreterra, nell’ambito dell’iniziativa di Slow Food Italia realizzata in collaborazione con Legambiente per la valorizzazione delle Foreste e della Montagna italiana. Nell’edizione del convengo annuale di Oltreterra, tenutosi a Santa Sofia il 6-7 novembre 2020, è stata dedicata una sessione speciale alla necessità di trovare soluzioni alla frammentazione fondiaria a cui è stato dato come titolo “L’Accordo di Foresta: Una necessità non prorogabile”. Alla sessione ha partecipato una importante platea di partner, tra i quali il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna, PEFC Italia, il CREA, l’Università di Firenze, Romagna Acque-Società delle Fonti ed ERSAF Lombardia, e molti altri.
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Con l’entrata in vigore del decreto legislativo 3 aprile 2018 n. 34 la materia forestale ha acquistato un nuovo ruolo nelle politiche nazionali e regionali e il ruolo delle foreste e delle filiere forestali ha assunto un peso maggiore nella consapevolezza sociale. Il decreto ha introdotto importanti disposizioni per la gestione del patrimonio forestale nazionale, che copre attualmente più del 36% del territorio italiano, coinvolgono non solo lo storico settore produttivo del legno ma anche tutte le filiere che dalle foreste possono svilupparsi generando beni e servizi per la società di oggi e per le generazioni future. In particolare, il concetto internazionale di Gestione Forestale Sostenibile (GFS) viene ripreso (Articolo 3, comma 2, lettera b) nella sua definizione tecnica, riprendendo i valori di quella cultura forestale che per secoli ha caratterizzato e cadenzato le scelte e i tempi di sviluppo delle comunità montane del nostro paese. La gestione viene qui riproposta con una nuova valenza sociale, diventa infatti, un atto di responsabilità del proprietario, pubblico o privato che sia, nei confronti del bosco e della società. La scelta gestionale, produttiva o conservativa, si definisce nel rispetto delle norme vigenti assecondando i ritmi e le evoluzioni naturali del bosco, e si concretizza nello strumento pianificatore (costituito di norma dal Piano di Gestione Forestale), che esprime una assunzione di responsabilità nell’interesse pubblico da parte dei proprietari o titolari delle superfici forestali, pubblici o privati. Partendo da questo presupposto appare chiaro come la partecipazione e la condivisione nelle scelte di gestione per la realtà forestale italiana in ambito locale, debba rispondere alle esigenze e necessità presenti e future, integrandosi con le scelte di sviluppo socioeconomico del territorio. L’idea dell’Accordo di Foresta nasce proprio dall’esigenza di poter creare una nuova figura contrattuale, non agricola o agroalimentare ma forestale che rappresenti sempre di più i territori, 4Accordo di Foresta le comunità e le realtà socioeconomiche delle aree montane e interne del paese, coinvolgendo dal proprietario forestale (pubblico o privato), al produttore di beni e servizi, al trasformatore, ai segmenti di commercializzazione, fino alle popolazioni locali, ai consumatori e fruitori dei prodotti forestali e dei servizi ecosistemici. L’Accordo di Foresta costituisce uno strumento propedeutico allo sviluppo di azioni concrete di associazionismo volte a realizzare interventi condivisi per la conservazione, tutela e valorizzazione del patrimonio forestale da parte di una comunità locale. Si caratterizza per essere uno strumento vincolante che individua e definisce obiettivi, impegni e ruoli di collaborazione per un concreto sviluppo locale. Unirsi nella gestione attraverso la stipula di un Accordo di Foresta per dare attuazione poi a un Piano di Gestione Forestale vuol dire porre le basi per: lo sviluppo di filiere sostenibili (produttive, ambientali, socioculturali), creare occupazione, sviluppare innovazione, dare presidio; realizzare scelte condivise su un’area vasta; ricercare un equilibrio tra esigenze ecologiche, ambientali, paesaggistiche e necessità umane; ed infine realizzare una strategia territoriale di conservazione e/o sviluppo socioeconomico. Con il presente documento redatto nell’ambito delle attività previste dal programma Rete Rurale Nazionale 2014-2020/23 in collaborazione con il Centro Oltreterra, si vuole offrire una prima lettura all’articolato normativo che definisce l’Accordo di Foresta e proporre una prospettiva applicativa per una sua reale capacità operativa. Tutto il materiale è scaricabile qui: https://www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/19507 Una scommessa lanciata dal Centro Oltreterra, nell’ambito dell’iniziativa di Slow Food Italia per la valorizzazione delle Foreste e della Montagna italiana. Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste -  BANDO Contratti di filiera Settore Forestale Il Ministro dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste - Decreto_DEF_MIPAAF_2023_0048567_DecretoFiliereForestali Report di Approfondimento - Gli Accordi di Foresta Una nuova opportunità per il settore forestale nazionale Read the full article
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olitaly · 2 years ago
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paoloxl · 6 years ago
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(via Manganelli quattro stagioni - Carmilla on line)
La pizza e il fascismo sono due esempi dell’estro inventivo degli italiani. Entrambi prodotti poveri – un po’ di farina, mozzarella e pomodoro; un po’ di agrari, reduci e sottoproletari –, il condimento di mani sapienti et voilà: la creatività italiana si esporta in tutto il mondo, diventa tradizione, diventa trend. Il “Made in Italy” come modello di una qualità riconosciuta nel tempo.
Da alcuni mesi, dentro una grande industria modenese, la Italpizza, orgoglio del territorio e del nostro export, la continuità produttiva è assicurata da un reparto celere messo cortesemente a disposizione dell’azienda. Il presidio poliziesco pressoché permanente, il sistema sanzionatorio, la sicurezza interna e un clima pre-bellico, rendono Italpizza un’azienda sostanzialmente militarizzata, come capita alle industrie strategiche in tempo di guerra. Gas tossici, mazzate, denunce, gipponi lampeggianti, provvedimenti disciplinari, licenziamenti. Tutto questo non avviene in una maquiladora messicana; e neanche nelle campagne brumose che nascondono arretrate microimprese “old manners”. Siamo a Modena, poco lontano dal centro, lungo un asse viario strategico che risulta spesso bloccato dalle cariche poliziesche o dai blocchi dei manifestanti: gli automobilisti, nei momenti peggiori devono tirare su i finestrini per evitare che il gas CS entri negli abitacoli. Sullo sfondo, ben visibile dalla strada, il grande marchio Italpizza svetta su uno stabilimento moderno e blindato, in cui in passato politici e amministratori hanno fatto spesso visite devote.
Insomma, tutti sanno quello che sta succedendo in località San Donnino, tutti sono consapevoli di questo bizzarro segno dei tempi: un’azienda che da mesi resta aperta e fa uscire i suoi prodotti, solo perché decine di robocop mascherati, bastonano e gasano una parte del personale che sciopera e picchetta.
La storia dell’organizzazione del lavoro in Italpizza è tristemente comune: circa 600 dipendenti, di cui solo 80 assunti direttamente; il resto tutti precari in capo a un paio di pseudo cooperative riconducibili alla proprietà; ritmi, turni, orari massacranti decisi in modo unilaterale dal committente, sottoinquadramento contrattuale (contratti delle pulizie for ever) che garantisce risparmi anche del 40% sui costi del lavoro vivo. Vivo e povero.
Italpizza, come da tradizione marchionnesca, decide unilateralmente chi sono gli interlocutori sindacali, in un gioco a geometrie variabili, che comunque lascia fuori qualsiasi rappresentanza che metta in discussione i suoi interessi. Queste pratiche accumulano un enorme ammontare di elusione fiscale e contributiva (già 700.000 euro sono stati comminati dagli organi ispettivi), ma queste sanzioni sono evidentemente messe nel conto dall’azienda, come altrettante multe per divieto di sosta .
Italpizza sta diventando metafora del modello emiliano 4.0: uffici stampa, presenza social, adesione a tutti i blandi protocolli che rimandano a una qualche memoria concertativa nella ex Emilia rossa. E operai sfruttati, precarizzati, mortificati e gestiti manu militari. In sovrappiù l’azienda si permette anche di disertare una convocazione presso il Ministero del Lavoro, perché non gradisce al tavolo la delegazione Cobas: una specie di dichiarazione d’indipendenza dalle vecchie pastoie sottogovernative, una rivendicazione dell’autonomia del comando d’Impresa. Abbiamo il grano, i programmi di investimento, gli accordi sul piano regolatore: non rompete i maroni sulla forza lavoro – quella è roba nostra. Per un sottosegretario Cinquestelle che convoca tavoli, c’è un sottosegretario leghista che manda la polizia. È il governo dei tempi moderni.
Centinaia di ore di sciopero, centinaia di candelotti lanciati addosso ai presidi, decine di cariche, un numero indefinito e crescente di denunciati, secondo le regole del nuovo Decreto Sicurezza.
Il bello è che i lavoratori in agitazione – spesso donne e straniere – stanno solo chiedendo la corretta osservanza di leggi e norme: l’applicazione del giusto contratto collettivo, un minimo di confronto sulla prestazione. Insomma: i bastonati/gasati/denunciati stanno oggettivamente difendendo il feticcio della legalità borghese, mentre l’imprenditore e gli organi polizieschi, garantiscono ogni giorno la reiterazione del reato – con un enorme investimento di spesa, peraltro, a carico del contribuente (anche dei mazziati, evidentemente). Ecco il genio italico in azione: la Giornata della Legalità in prima pagina e nel contempo l’esibizione pubblica e muscolare dell’Impunità d’azienda.
Si dice in giro che il gigante Italpizza (120 milioni di fatturato esportazioni in 55 paesi del mondo) per difendere il privilegio di fare quello che gli pare, olii generosamente la politica e la stampa: sponsorizzazioni, inserzioni, piani di sviluppo scritti di concerto all’amministrazione, una fama “democratica” che traballa ma gode ancora di solidi supporti politici. Gente organizzata, insomma – non i pirati della logistica con le loro cooperative spurie. Dio solo sa come abbiano convinto la Questura a mettersi sostanzialmente a disposizione dell’azienda come una qualsiasi agenzia di guardie giurate – non solo, immaginiamo, con sostanziose donazioni alla Befana della Polizia, ma anche grazie alla consapevolezza che a quei cancelli si gioca una partita importante sulla rappresentanza e sui diritti: e che, su questo crinale, è meglio che le truppe armate dello Stato diano una mano agli intrepidi esportatori di pizza e alla benemerita opera di modernizzazione che stanno promuovendo.
Come potremo definire questa allucinante quarta dimensione del degrado italiano, questa metafora dell’eccellenza che ha, come al solito, nell’enorme moloch post-moderno del “food” il suo terreno originale di coltura? “Pizza e Fascismo”, sarebbe una buona sintesi?
Oggi “l’antifascismo”, soprattutto nei periodi di fibrillazioni pre-elettorali, conosce rinnovati momenti di gloria: l’Espresso e Repubblica in testa, si sbracciano per evocare il pericolo rappresentato dai gruppuscoli di destra, ne raccontano con raccapriccio e sincero sdegno democratico le gesta e i canali di finanziamento, ne ingigantiscono il peso e il profilo (vedi le incursioni anti-rom nei quartieri romani raccontati come l’invasione dei mongoli secondo un format mediatico ormai collaudato). Si sa che questa esaltazione del “fascista all’attacco” è funzionale alla costruzione di ipotetici “fronti antisovranisti” – ormai è un giochino svelato. Questi antifascisti della tredicesima ora, nel calduccio delle loro redazioni, non colgono (o colgono fin troppo bene) l’essenza dei tempi: il fascismo vero oggi è rappresentato dai reparti celere che sparano gas lacrimogeni addosso ai lavoratori che presidiano sindacalmente la loro azienda; altro che Casapound e simili utili idioti – di volta in volta legittimati o mostrificati alla bisogna.
I nuovi assetti di potere stanno manifestando, oggi, un approccio pragmatico, moderno, assolutamente estraneo alla demagogia sulla “cacciata dello straniero”, buono solo per le campagne elettorali – ma poco utile nelle campagne del foggiano o del crotonese, dove lo schiavo nero è alla base della filiera agroalimentare. Nessuno li vuole cacciare, quello che si vuole è la loro sottomissione, l’invisibilità sociale, il disciplinamento nelle loro funzioni: a spennellare pizze o pulire cessi (tanto il contratto è lo stesso). Il razzismo, la xenofobia “der popolo” è solo folclore. La forza lavoro è petrolio: si è mai visto qualcuno gettarlo via? Bisogna solo saperlo incanalare nelle tubature giuste. È fascismo, questo? È post-fascismo? Pre-fascismo? Lo leggeremo sui libri di storia. Intanto la polizia e la magistratura italiana stanno dando il loro contributo al dibattito, attraverso una stretta repressiva silenziosa, infame e implacabile, che conosce pochi precedenti. Purtroppo avremo il tempo di riflettere ed elaborare, circa questo nuovo stato delle cose.
Per il presente, ricordiamo a noi stessi che il manganello sulla schiena operaia è l’essenza del fascismo, quello metastorico, che attraversa le epoche: oltre le mitologie, le coreografie, le estetiche decadenti o virulente, il fascismo è fatto sempre degli stessi genuini ingredienti di una volta: il contrasto alla lotta di classe, il sabotaggio degli scioperi, il crumiraggio organizzato, il disciplinamento della forza lavoro, la bastonatura di chi mette in discussione le gerarchie di classe.
Tutta roba semplice, cose di una volta. Come gli ingredienti della pizza.
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paolocentofanti · 2 years ago
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Mimit: Automotive, 520 milioni per rilanciare la filiera
Mimit: Automotive, 520 milioni per rilanciare la filiera
Ministero delle Imprese e del Made in Italy: Automotive, 520 milioni di euro per rilanciare la filiera. Nuove domande dal 29 novembre per i Contratti di sviluppo e gli Accordi di innovazione. Riaprono gli sportelli per gli incentivi al settore automotive. Dal 29 novembre le imprese della filiera potranno infatti richiedere le agevolazioni a valere sui Contratti di sviluppo e sugli Accordi per…
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telodogratis · 3 years ago
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Caputo (Regione Campania): 'Con contratti filiera del tabacco si alza asticella redditività'
Caputo (Regione Campania): ‘Con contratti filiera del tabacco si alza asticella redditività’
Read More(Adnkronos) – “La Regione Campania è una regione fortemente produttiva e io da quando mi sono insediato ho sempre avuto l’input da parte di Gennaro Masiello su questo settore, che conoscevo bene perchè sono della provincia di Caserta, ma di cui ho potuto apprezzare negli ultimi tempi la grande evoluzione. Soprattutto grazie a questi accordi di filiera che hanno spunto il settore alzando…
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cinquecolonnemagazine · 3 years ago
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Caro carburante: deroga al taglio di 30 centesimi ma...
Era nell'aria da parecchio tempo ma il problema caro carburante è ben lontano dall'essere risolto. Il governo Draghi ha deciso per il taglio delle accese fino al 2 Agosto andando a prorogare quella misura che agli occhi di tutti sembra solo un cerotto sopra uno squarcio di grandi dimensioni. Caro carburante: prorogato il taglio La notizia era nell'aria ma l'ufficialità è arrivata solo da meno di 24 ore. Il ministro dell'Economia Daniele Franco e il ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani hanno firmato il Decreto Interministeriale che proroga il taglio delle accise fino al 2 agosto. I due ministri avevano firmato il prolungamento della scadenza del taglio delle accise fino all'8 luglio. Sembra chiaro che il Governo Draghi voglia continuare con misure a breve termine da poter rinnovare ogni volta. Questa scelta di non introdurre ulteriori interventi non ha suscitato l'approvazione di diverse associazioni dei consumatori che hanno "lamentato" che il nuovo intervento non va a risolvere il problema del caro carburanti. Nel dettaglio, è da sottolineare che su benzina e diesel il taglio delle accise è di 25 centesimi al litro più IVA. Per il GPL, invece, la riduzione è di 8,5 centesimi di euro più IVA. Le proteste dei distributori Se i consumatori non sono felici del caro benzina, i distributori protestano ancora di più. A dare voce a queste critiche è la Faib ovvero la Federazione Autonoma Italiana Benzinai. "I prezzi dei carburanti continuano a correre, nonostante il taglio delle accise sia ancora attivo (-30,5 cent al litro fino all`8 luglio, con probabile proroga) e l'Opec+ abbia annunciato l'incremento della produzione. A condizionare il mercato è il fenomeno speculativo a livello internazionale, che spinge sopra i 2 euro al litro i carburanti, con ripercussioni pesantissime per i consumatori e insostenibili per i gestori che vedono diminuire progressivamente la propria redditività, scesa all'1,5%, a fronte dell'esplosione dei costi di gestione. Ancora poche settimane e il settore rischia il collasso. L'Italia deve porre con urgenza in sede europea un argine alla speculazione internazionale e imporre un tetto ai prezzi d'acquisto di carburanti e gas. In un mercato globalizzato una scelta nazionale potrebbe determinare carenze di approvvigionamenti, costi insopportabili e conseguenze gestionali imponderabili". "Fa arrabbiare l'accanimento rivolto dalle autorità verso i prezzi praticati dai gestori - prosegue l'organizzazione - che di fatto sono imposti dalle aziende fornitrici, e osservare che traders acquistano e vendono - indisturbati - titoli petroliferi e realizzano ingenti guadagni facendo innalzare i prezzi; allo stesso tempo appare oggi insostenibile la gestione della rete carburanti fondata sul doppio prezzo in self e servito, quando quest'ultimo, ad accisa piena, sarebbe oltre i 2,5 euro al litro. In questo scenario il modello italiano rischia di saltare, con conseguenze pesantissime per la filiera e i consumatori: è perciò necessario ridiscutere gli Accordi e prevedere clausole di salvaguardia per le gestioni", continua la Faib. Read the full article
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Si lavora per ritorno in Umbria barbabietola da zucchero
Un possibile ritorno in Umbria, dopo circa 20 anni, della barbabietola da zucchero da realizzare siglando accordi contrattuali con la Cooperativa produttori bieticoli che con il marchio commerciale Italia Zuccheri è l’unica filiera italiana. Si è parlato di opportunità sullo sviluppo della filiera nel territorio regionale durante un incontro organizzato nella sede di Confagricoltura Umbria…
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notiziariofinanziario · 2 years ago
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Nuova versione della piattaforma dedicata all' economia circolare
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Nuova versione della piattaforma dedicata al recupero e alla valorizzazione dei materiali di scarto industriali lungo tutta la filiera. Nata nel 2018, Circularity è tra le prime aziende tecnologiche ad aver ottenuto lo status di Società Benefit: tra i suoi obiettivi di business, infatti, uno dei principali consiste nel creare condizioni che favoriscano la prosperità sociale e ambientale del contesto nel quale opera. “Lo sforzo e l’impegno profuso da Circularity – commenta Camilla Colucci, CEO di Circularity – è stato quello di studiare e implementare uno strumento allineato con la normativa ambientale che dia un valore aggiunto alle imprese affinché possano valutare il partner più efficiente per gestire i propri rifiuti dal punto di vista ambientale e tracciare i propri scarti per rendicontare il dato reale del proprio livello di circolarità” – . Già nel 2018, la prima versione della Circularity Platform si collocava in questo scenario con l’obiettivo di ampliare il raggio di collaborazione tra aziende in ottica di simbiosi industriale e favorire così lo scambio di informazioni utili allo sviluppo di filiere produttive più circolari. Ai fini della promozione dell’economia circolare, infatti, lo sviluppo di piattaforme digitali assume un ruolo fondamentale, consentendo ai diversi attori coinvolti di collaborare per estendere il ciclo di vita dei prodotti. Rispetto alla versione precedente della piattaforma, l’innovazione digitale rappresenta uno dei principali punti di forza della nuova versione della Circularity Platform, grazie all’applicazione di modelli di calcolo avanzati di elaborazione di dati che classificano gli operatori in base a parametri ambientali, e sistemi di geolocalizzazione che consentono la tracciabilità dell’intera filiera dei rifiuti, dei sottoprodotti e dei materiali end of waste, per i quali fin ad oggi non esisteva un sistema dedicato. I dati più recenti indicano un peggioramento dell’indice globale di circolarità dell’economia mondiale che misura la quota di materiali provenienti dal riciclo sul totale dei materiali consumati: scende dal 9,1% nel 2018 al 7,3% nel 2022 (Circularity Gap Report 2023). Nel 2022 l’Italia ha pubblicato il documento che riassume la Strategia Nazionale di Economia Circolare, evidenziando come la digitalizzazione (Internet Of Things, blockchain, piattaforme di tracciabilità e product passport) assuma un ruolo strategico per consentire l’adozione di nuovi modelli di business che massimizzino la circolarità dei prodotti, la tracciabilità dei flussi di materia e dei rifiuti per comprendere il vero valore economico dei rifiuti trattati e il loro reale impatto ambientale. La piattaforma georeferenziata di Circularity si rivolge a produttori, trasportatori, utilizzatori e start up, permettendogli di: – Gestire secondo un modello circolare i propri scarti, generando materie prime seconde per nuovi cicli produttivi e aumentando le percentuali di recupero dei propri scarti – Individuare i partner più virtuosi sul territorio e definire accordi commerciali per la gestione circolare della materia in tutte le fasi – Tracciare e monitorare il percorso dei materiali di scarto per acquisire maggiore conoscenza circa le destinazioni e le performance ambientali dei propri fornitori – Quantificare la CO2 equivalente della gestione ambientale dei materiali consentendo alle imprese di effettuare una scelta consapevole dal punto di vista di impatto ambientale, condividendo nell’ecosistema il valore aggiunto dato dalle emissioni evitate – Ridurre il costo del trattamento dei rifiuti e individuare soluzioni economiche migliorative sui volumi prodotti La piattaforma consente alle imprese di trovare nuove fonti di approvvigionamento di materiali riciclati, creare una vera e propria rete di partner con la quale dialogare e ideare soluzioni direttamente in piattaforma, ma anche di utilizzare tool digitali per misurare le proprie performance ESG e quelle della propria supply chain. E poiché l’informazione e la consapevolezza delle proprie azioni è condizione essenziale per poter cambiare lo status quo attuale dei processi industriali, la piattaforma offre anche la possibilità di seguire corsi di formazione sulla sostenibilità e l’economia circolare e di essere informati su quanto avviene nel settore, grazie alle notizie selezionate giornalmente da Renewable Matter, rivista di eccellenza del settore. Un portale adatto ad ogni impresa, di ogni dimensione, dalle microaziende fino alle multinazionali più grandi player del tessuto industriale. Perché l’economia circolare è un patrimonio comune che ha bisogno del contributo di tutti. Ad oggi l’utilizzo della Circularity Platform è disponibile sia in modalità gratuita (Freemium) che in modalità premium: tutte le aziende possono entrare gratuitamente nel network dell’economia circolare creato da Circularity. Nel 2022 l’Italia ha pubblicato il documento che riassume la Strategia Nazionale di Economia Circolare, evidenziando come la digitalizzazione (Internet Of Things, blockchain, piattaforme di tracciabilità e product passport) assuma un ruolo strategico per consentire l’adozione di nuovi modelli di business che massimizzino la circolarità dei prodotti, la tracciabilità dei flussi di materia e dei rifiuti per comprendere il vero valore economico dei rifiuti trattati e il loro reale impatto ambientale. La piattaforma georeferenziata di Circularity si rivolge a produttori, trasportatori, utilizzatori e start up, permettendogli di: – Gestire secondo un modello circolare i propri scarti, generando materie prime seconde per nuovi cicli produttivi e aumentando le percentuali di recupero dei propri scarti – Individuare i partner più virtuosi sul territorio e definire accordi commerciali per la gestione circolare della materia in tutte le fasi – Tracciare e monitorare il percorso dei materiali di scarto per acquisire maggiore conoscenza circa le destinazioni e le performance ambientali dei propri fornitori – Quantificare la CO2 equivalente della gestione ambientale dei materiali consentendo alle imprese di effettuare una scelta consapevole dal punto di vista di impatto ambientale, condividendo nell’ecosistema il valore aggiunto dato dalle emissioni evitate – Ridurre il costo del trattamento dei rifiuti e individuare soluzioni economiche migliorative sui volumi prodotti La piattaforma consente alle imprese di trovare nuove fonti di approvvigionamento di materiali riciclati, creare una vera e propria rete di partner con la quale dialogare e ideare soluzioni direttamente in piattaforma, ma anche di utilizzare tool digitali per misurare le proprie performance ESG e quelle della propria supply chain. E poiché l’informazione e la consapevolezza delle proprie azioni è condizione essenziale per poter cambiare lo status quo attuale dei processi industriali, la piattaforma offre anche la possibilità di seguire corsi di formazione sulla sostenibilità e l’economia circolare e di essere informati su quanto avviene nel settore, grazie alle notizie selezionate giornalmente da Renewable Matter, rivista di eccellenza del settore. Un portale adatto ad ogni impresa, di ogni dimensione, dalle microaziende fino alle multinazionali più grandi player del tessuto industriale. Perché l’economia circolare è un patrimonio comune che ha bisogno del contributo di tutti. Ad oggi l’utilizzo della Circularity Platform è disponibile sia in modalità gratuita (Freemium) che in modalità premium: tutte le aziende possono entrare gratuitamente nel network dell’economia circolare creato da Circularity. Read the full article
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olitaly · 2 years ago
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paoloxl · 6 years ago
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La pizza e il fascismo sono due esempi dell’estro inventivo degli italiani. Entrambi prodotti poveri – un po’ di farina, mozzarella e pomodoro; un po’ di agrari, reduci e sottoproletari –, il condimento di mani sapienti et voilà: la creatività italiana si esporta in tutto il mondo, diventa tradizione, diventa trend. Il “Made in Italy” come modello di una qualità riconosciuta nel tempo.
Da alcuni mesi, dentro una grande industria modenese, la Italpizza, orgoglio del territorio e del nostro export, la continuità produttiva è assicurata da un reparto celere messo cortesemente a disposizione dell’azienda. Il presidio poliziesco pressoché permanente, il sistema sanzionatorio, la sicurezza interna e un clima pre-bellico, rendono Italpizza un’azienda sostanzialmente militarizzata, come capita alle industrie strategiche in tempo di guerra. Gas tossici, mazzate, denunce, gipponi lampeggianti, provvedimenti disciplinari, licenziamenti. Tutto questo non avviene in una maquiladora messicana; e neanche nelle campagne brumose che nascondono arretrate microimprese “old manners”. Siamo a Modena, poco lontano dal centro, lungo un asse viario strategico che risulta spesso bloccato dalle cariche poliziesche o dai blocchi dei manifestanti: gli automobilisti, nei momenti peggiori devono tirare su i finestrini per evitare che il gas CS entri negli abitacoli. Sullo sfondo, ben visibile dalla strada, il grande marchio Italpizza svetta su uno stabilimento moderno e blindato, in cui in passato politici e amministratori hanno fatto spesso visite devote.
Insomma, tutti sanno quello che sta succedendo in località San Donnino, tutti sono consapevoli di questo bizzarro segno dei tempi: un’azienda che da mesi resta aperta e fa uscire i suoi prodotti, solo perché decine di robocop mascherati, bastonano e gasano una parte del personale che sciopera e picchetta.
La storia dell’organizzazione del lavoro in Italpizza è tristemente comune: circa 600 dipendenti, di cui solo 80 assunti direttamente; il resto tutti precari in capo a un paio di pseudo cooperative riconducibili alla proprietà; ritmi, turni, orari massacranti decisi in modo unilaterale dal committente, sottoinquadramento contrattuale (contratti delle pulizie for ever) che garantisce risparmi anche del 40% sui costi del lavoro vivo. Vivo e povero.
Italpizza, come da tradizione marchionnesca, decide unilateralmente chi sono gli interlocutori sindacali, in un gioco a geometrie variabili, che comunque lascia fuori qualsiasi rappresentanza che metta in discussione i suoi interessi. Queste pratiche accumulano un enorme ammontare di elusione fiscale e contributiva (già 700.000 euro sono stati comminati dagli organi ispettivi), ma queste sanzioni sono evidentemente messe nel conto dall’azienda, come altrettante multe per divieto di sosta .
Italpizza sta diventando metafora del modello emiliano 4.0: uffici stampa, presenza social, adesione a tutti i blandi protocolli che rimandano a una qualche memoria concertativa nella ex Emilia rossa. E operai sfruttati, precarizzati, mortificati e gestiti manu militari. In sovrappiù l’azienda si permette anche di disertare una convocazione presso il Ministero del Lavoro, perché non gradisce al tavolo la delegazione Cobas: una specie di dichiarazione d’indipendenza dalle vecchie pastoie sottogovernative, una rivendicazione dell’autonomia del comando d’Impresa. Abbiamo il grano, i programmi di investimento, gli accordi sul piano regolatore: non rompete i maroni sulla forza lavoro – quella è roba nostra. Per un sottosegretario Cinquestelle che convoca tavoli, c’è un sottosegretario leghista che manda la polizia. È il governo dei tempi moderni.
Centinaia di ore di sciopero, centinaia di candelotti lanciati addosso ai presidi, decine di cariche, un numero indefinito e crescente di denunciati, secondo le regole del nuovo Decreto Sicurezza.
Il bello è che i lavoratori in agitazione – spesso donne e straniere – stanno solo chiedendo la corretta osservanza di leggi e norme: l’applicazione del giusto contratto collettivo, un minimo di confronto sulla prestazione. Insomma: i bastonati/gasati/denunciati stanno oggettivamente difendendo il feticcio della legalità borghese, mentre l’imprenditore e gli organi polizieschi, garantiscono ogni giorno la reiterazione del reato – con un enorme investimento di spesa, peraltro, a carico del contribuente (anche dei mazziati, evidentemente). Ecco il genio italico in azione: la Giornata della Legalità in prima pagina e nel contempo l’esibizione pubblica e muscolare dell’Impunità d’azienda.
Si dice in giro che il gigante Italpizza (120 milioni di fatturato esportazioni in 55 paesi del mondo) per difendere il privilegio di fare quello che gli pare, olii generosamente la politica e la stampa: sponsorizzazioni, inserzioni, piani di sviluppo scritti di concerto all’amministrazione, una fama “democratica” che traballa ma gode ancora di solidi supporti politici. Gente organizzata, insomma – non i pirati della logistica con le loro cooperative spurie. Dio solo sa come abbiano convinto la Questura a mettersi sostanzialmente a disposizione dell’azienda come una qualsiasi agenzia di guardie giurate – non solo, immaginiamo, con sostanziose donazioni alla Befana della Polizia, ma anche grazie alla consapevolezza che a quei cancelli si gioca una partita importante sulla rappresentanza e sui diritti: e che, su questo crinale, è meglio che le truppe armate dello Stato diano una mano agli intrepidi esportatori di pizza e alla benemerita opera di modernizzazione che stanno promuovendo.
Come potremo definire questa allucinante quarta dimensione del degrado italiano, questa metafora dell’eccellenza che ha, come al solito, nell’enorme moloch post-moderno del “food” il suo terreno originale di coltura? “Pizza e Fascismo”, sarebbe una buona sintesi?
Oggi “l’antifascismo”, soprattutto nei periodi di fibrillazioni pre-elettorali, conosce rinnovati momenti di gloria: l’Espresso e Repubblica in testa, si sbracciano per evocare il pericolo rappresentato dai gruppuscoli di destra, ne raccontano con raccapriccio e sincero sdegno democratico le gesta e i canali di finanziamento, ne ingigantiscono il peso e il profilo (vedi le incursioni anti-rom nei quartieri romani raccontati come l’invasione dei mongoli secondo un format mediatico ormai collaudato). Si sa che questa esaltazione del “fascista all’attacco” è funzionale alla costruzione di ipotetici “fronti antisovranisti” – ormai è un giochino svelato. Questi antifascisti della tredicesima ora, nel calduccio delle loro redazioni, non colgono (o colgono fin troppo bene) l’essenza dei tempi: il fascismo vero oggi è rappresentato dai reparti celere che sparano gas lacrimogeni addosso ai lavoratori che presidiano sindacalmente la loro azienda; altro che Casapound e simili utili idioti – di volta in volta legittimati o mostrificati alla bisogna.
I nuovi assetti di potere stanno manifestando, oggi, un approccio pragmatico, moderno, assolutamente estraneo alla demagogia sulla “cacciata dello straniero”, buono solo per le campagne elettorali – ma poco utile nelle campagne del foggiano o del crotonese, dove lo schiavo nero è alla base della filiera agroalimentare. Nessuno li vuole cacciare, quello che si vuole è la loro sottomissione, l’invisibilità sociale, il disciplinamento nelle loro funzioni: a spennellare pizze o pulire cessi (tanto il contratto è lo stesso). Il razzismo, la xenofobia “der popolo” è solo folclore. La forza lavoro è petrolio: si è mai visto qualcuno gettarlo via? Bisogna solo saperlo incanalare nelle tubature giuste. È fascismo, questo? È post-fascismo? Pre-fascismo? Lo leggeremo sui libri di storia. Intanto la polizia e la magistratura italiana stanno dando il loro contributo al dibattito, attraverso una stretta repressiva silenziosa, infame e implacabile, che conosce pochi precedenti. Purtroppo avremo il tempo di riflettere ed elaborare, circa questo nuovo stato delle cose.
Per il presente, ricordiamo a noi stessi che il manganello sulla schiena operaia è l’essenza del fascismo, quello metastorico, che attraversa le epoche: oltre le mitologie, le coreografie, le estetiche decadenti o virulente, il fascismo è fatto sempre degli stessi genuini ingredienti di una volta: il contrasto alla lotta di classe, il sabotaggio degli scioperi, il crumiraggio organizzato, il disciplinamento della forza lavoro, la bastonatura di chi mette in discussione le gerarchie di classe.
Tutta roba semplice, cose di una volta. Come gli ingredienti della pizza.
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italiacamerun · 4 years ago
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Perchè investire in Africa nel 2021?
https://aedic.eu/investire-in-africa/perche-investire-in-africa-nel-2021/
Perchè investire in Africa nel 2021?
Perchè si è aperto il mercato unico più grande del mondo!!!
  Il 1 gennaio 2021 si è aperto il mercato unico più grande del mondo, ed è stata ufficializzata l’unione doganale africana e quindi investire in questo nuovo mercato che in sordina nel 2020 si è aperto come mercato unico africano, ora aprire una azienda di produzione assume un ruolo strategico per le aziende che sono interessate a processi di internazionalizzazione e sviluppo di aree vergini con materie prime da trasformare per essere poi rivendute sul mercato interno. 
Quì sotto il video ufficiale la cerimonia di apertura di AfCFTA
youtube
  l’Unione Africana è il più grande mercato unico del mondo
  Oggi il continente africano è diventato la più grande area di libero scambio del mondo. L’accordo che ne è alla base si chiama African Continental Free Trade Area (AfCFTA), vi aderiscono tutti gli stati ad eccezione dell’Eritrea e prevede l’eliminazione dei dazi sul 90% dei prodotti e dei servizi.
L’obbiettivo dell’unione africana quello di incrementare il volume degli scambi commerciali tra i diversi Paesi e favorire la creazione di milioni di posti di lavoro nel continente.
In questo momento l’economia africana vive e si appoggia in grande parte sulle esportazioni verso l’Europa e l’Asia. Gli scambi delle merci interne al continente rappresentano appena il 15% del totale. Ora i prodotti più venduti verso l’estero sono le materie prime frutto delle attività estrattive che impattano e che hanno riflessi occupazionali limitati nel continente.
Ed è proprio a questa criticità che l’AfCFTA vuole trovare e implementare soluzioni eliminare questo problema. Nella cerimonia ufficiale di lancio dell’accordo è stato più volte sottolineato che l’eliminazione dei dazi e delle barriere non tariffarie,  questo potrà creare nuove opportunità per piccole e medie imprese, in settori che potranno dare uno sbocco importante all’occupazione femminile, spesso concentrata nell’economia informale, e a quella giovanile.
In tal senso :
“L’African Continental Free Trade Area non deve essere solo un accordo commerciale ma uno strumento per lo sviluppo dell’Africa”, ha affermato Wamkele Mene, segretario generale del segretariato della zona di libero scambio continentale africana, aggiungendo che l’obiettivo è quello di raddoppiare in 15 anni il volume degli scambi interni e “uscire dal modello economico coloniale che abbiamo ereditato e che per 50 anni abbiamo mantenuto”.
La Banca mondiale ha sottolineato in un suo studio che se l’African Continental Free Trade Area sarà reso effettivo in tutti i suoi aspetti, il 2035 potrebbe essere l’anno che sancirà la fine della povertà per decine di milioni di persone e l’Africa potrebbe vedere il proprio Pil complessivo aumentare notevolmente. Come le economie occidentali anche l’economia africana subisce i contraccolpi della crisi legata alla pandemia da Covid-19.
L’Africa si sta dimostrando inaspettatamente molto resiliente alla pandemia globale di Covid-19: la crescita del PIL nel continente africano è stimata al 1% contro il 4% di inizio anno. L’aspetto più sensazionale è rappresentato proprio dalla errata proiezione formulata dalla comunità scientifica ad inizio marzo che paventava in Africa una catastrofe umanitaria dovuta alla diffusione del contagio del coronavirus di Wuhan.
Sul fronte sanitario i numeri parlano da soli: in Africa vi sono stati 2 morti per milione di abitanti contro i 200 per milione dell’Europa. Analizzando il ranking mondiale questo quadro appare lampante: infatti le prime tre nazioni africane per numero di contagiati risultano rispettivamente Sudafrica (19), Egitto (26) e Nigeria (50).
Come leggiamo dal sito web del notissimo ed esperto consulente finanziario Eugenio Benetazzo di cui vi invito a sentire nel video sottostante le previsioni in materia dello sviluppo e opportunità per i futuri investimenti nel continente Africano.
youtube
Il continente Africano al momento risulta più colpito a livello economico che umanitario in quanto il gran parte del PIL africano dipende dalle esportazioni di materie prime, sia industrial che soft commodity. Diversamente invece da quanto accaduto a Stati Uniti ed Europa, il continente africano non risulta colpito nella filiera produttiva e sul versante occupazionale proprio in considerazione della sua stessa struttura economica ancora poco interconnessa con le altre aree macroeconomiche del mondo. Inoltre le economie africane che trainano la crescita del continente soprattutto Nigeria, Sudafrica ed Egitto non hanno implementato misure di espansione monetaria al pari di quanto varato dalle economie occidentali per far fronte alle misure di emergenza sanitaria.
L’organismo che oggi ha il compito di di vigilare e accompagnare l’implementazione dell’accordo ha sede ad Accra, capitale del Ghana, e il segretariato lavora con Afreximbank per creare una piattaforma commerciale panafricana che consenta alle piccole imprese di commerciare efficacemente senza i confini e in diverse valute.
“Spesso negli accordi commerciali i grandi vincitori sono i paesi già industrializzati e le grandi aziende che possono accedere ai nuovi mercati letteralmente dall’oggi al domani”,
ha dichiarato Wamkele Mene al Financial Times, il segretario ha spiegando che sarebbe un grave fallimento se l’integrazione del mercato finisse per accentuare le disparità tra gli stati.
Un altra testimonianza sugli interventi e sulle opportunità per chi investe in Africa e sulle grandi opportunità nel più grande mercato del mondo ci arriva da questo video da vedere assolutamente. Nel video ci parla il Banchiere Euvin Naidoo che apre il suo intervento esordendo così:
Benvenuti in Africa! O forse dovrei dire: “Benvenuti a casa”. Perché è qui che tutto è cominciato, vero? Analizzando fossili di diversi milioni di anni fa, tutto sembra testimoniare che la storia della nostra specie, così come la conosciamo, sia cominciata proprio qui. Nei prossimi quattro giorni faremo un viaggio eccezionale. Ascolterete storie da “Africa: Il prossimo capitolo”. Storie fantastiche, e aneddoti dei relatori. Ma vorrei, per un attimo, fare il contrario, tirare in ballo una questione e “ripulire l’aria”, per così dire. Qual è la cosa peggiore che abbiate mai sentito sull’Africa? Non è retorica. Voglio che mi rispondiate, davvero. Avanti! La peggiore. Carestia. Corruzione. Ancora. Genocidio. AIDS. Schiavitù. Basta così.
Il banchiere d’affari sudafricano Euvin Nadoo spiega perché investire in Africa:
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lasola · 4 years ago
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[2.3] - Una Storia Breve
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Per chiarire meglio l’approccio teorico con cui provo a tracciare linee tra le complessità di Buenaventura, occorre pensare all’economia narcotica come un’economia ordinata da una vasta serie di accordi ed alleanze che si sostengono sulla credibilità degli attori e non su contratti formali o regolamenti ufficiali. E’ quindi un’economia molto regolamentata, seppur informalmente. Ciò avviene per lo più nello svolgersi di una continua commistione tra autorità legittimate dallo Stato e quelle prodotte dalle consuetudini del business, la cosiddetta “zona grigia” che è uno spazio di confusione dove scompaiono le linee di demarcazione tra i diversi attori coinvolti. I magistrati italiani che si occupano di antimafia hanno descritto questa dimensione come un “intreccio”, dove istituzioni dello Stato ed elementi della criminalità organizzata condividono gli stessi spazi politici ed economici senza però stabilire un’allenaza strutturale e funzionale tra loro. L’intreccio è quindi una realtà a se stante nella quale emergono ed agiscono soggettività che lavorano sia per lo Stato sia per la criminalità organizzata. Sono sia l’uno, sia l’altra ma non possono essere ridotte ad una delle due macro-fazioni (1, 2). Osservando il caso di Buenaventura, le soggettività dell’intreccio operano attraverso vere e proprie licenze che permettono ad un raggruppamento piuttosto che ad un altro di operare nell’economia proibita e di farlo in certe fasi della filiera produttiva per un limitato periodo di tempo. La natura dell’impegno, le mansioni consentite, le forme di distribuzione dei proventi e la durata dell’alleanza sono tutte stabilite nella licenza. Il punto cruciale è come ottenerne il “rilascio”.
Per comprendere questo aspetto, occorre studiare antropologicamente una nozione fondamentale come quella di credibilità. Nelle diverse fasi storiche e belliche della città si costruiva a partire dall’appartenenza territoriale, come descritto nel post precedente, o sulla geneaologia, per così dire, che legava economicamente tra loro famiglie, imprenditori ed imprese. Entrambe rappresentano fattori che nell’incertezza degli scambi fornivano una continuità, nel senso di conoscibilità ed identificazione dei partner commerciali. Nel nuovo millennio la credibilità iniziò a dipendere in maniera sostanziale dalla partecipazione ad un’economia più complessiva, quella bellica, nella quale da sempre si articolava un aspetto essenziale della redistribuzione dei guadagni narcotici ma che assunse una rilevanza primaria nei locali rapporti di potere. Per garantire la continuità di operazioni che in se stesse erano abbastanza semplici e ripetitive, la capacità di armarsi e non necessariamente l’uso delle armi vero e proprio distingueva i diversi raggruppamenti. Ciò avveniva attraverso la circolazione di un “far credere” di essere in possesso o di poter reclamare quella licenza. In contesti in cui i livelli di violenza sono già alti e un tabù ancestrale come l’omicidio è normalizzato attraverso diversi dipositivi socio-culturali, ad esempio quando riguardano l’uccisione di una “cabecilla”, questo approccio, mi pare particolarmente “descrittivo”.
In molti casi, infatti, a dominare l’economia locale non fu più il traffico di mercanzia illegale in sè ma quello di armi. A segnare simbolicamente l’accesso all’economia bellica non erano il carico o lo scarico di cocaina ma la capacità di dotarsi della “forza” necessaria per acquisire credibilità rispetto ad altri che potevano eseguire la stessa mansione negli stessi tempi e con la stessa efficienza. Il nodo da risolvere non era però quanta forza si era capaci di esercitare per conquistare una ruta (rotta) poichè quella veniva concessa quasi in automatico, magari dopo qualche morto “normalizzato”. L’elemento dirimente riguardava come le licenze informali, cioè, gli accordi di passaggio da una strada o l’altra e\o il carico e scarico di mercanzia illegale costituiva rapporti di forze che organizzavano gli interessi dei gruppi locali fino a permetterne la federazione dentro istituzioni più ampie e durature, come fecero i “Re del Pacifico”. L’identificazione, definizione ed infine visibilizzazione di queste istituzioni “superiori” rappresenta l’aspetto più problematico e probabilmente più politico di tutta l’economia narcotica. In generale però la storia della città racconta che ogni fase identificativa di queste federazioni preparava il passaggio da una licenza all’altra. Certamente non riguardava la fine del traffico di armi o di droga semmai la produzione di un nuovo intreccio.
In questo senso vorrei descrivere gli eventi che toccarano la città dalla fine degli anni 90. Il Puerto sembrava non avere più padroni. I Re del Pacifico non c’erano più. Asprilla era finito in carcere. Don Efra era stato assassinato e Patiño si era consegnato alla DEA nel 2002. Buenaventura si trovava però nel mezzo di una nuova fase bellica che stabilì una rinnovata alleanza tra i gruppi narcotici di Cali e quelli di Medellin, nuove ripartizioni dei proventi e soprattutto nuovi canali di aprovigionamento di armi. Per mantenere il controllo delle economie illecite di Buenaventura il cui funzionamento risultava essenziale per la stabilità politica di tutta la città e quindi indirettamente delle sue enclave logistiche, il boss del Cartello del Norte del Valle, Don Diego Montoya, chiese l'aiuto dei fratelli Castaño, che insieme a Don Berna avevano già sostituito tutte le cabecillas di Escobar in Antioquia. Questi ex allevatori di bestiame dell’Urabà, nel 1997, avevano creato un'organizzazione ombrello, le AUC (Autodifese Unite di Colombia), che era una federazione in cui conversero diversi gruppi armati, tutti di estrazione militare, finanziati da narcotraffico e\o regalie di oro, petrolio o da fondi occulti di altre grandi imprese.
Ci sono svariati resoconti sulla storia paramilitare in Colombia. La complessità del tema riguarda soprattutto la frammentazione delle fonti e la dimensione profondamente locale di molti dei gruppi armati che sono entrati nella federazione e la loro diversa commistione con il narcotraffico. In generale però, dati alla mano, è possibile affermare che le AUC misero in piedi la più grande contro-riforma agraria della storia colombiana (1). In una decade, riuscirono ad accentrare circa il 90% delle terre “buone” nelle mani del 5% della popolazione. Contestualmente, la produzione di foglie di coca nelle terre che rimanevano toccò vette mai viste prima. In questo modo, dopo l'uscita di scena dei Rodriguez-Orejuela e di Escobar, le reti dei Castaño riuscirono a controllare fino all'80% del traffico di cocaina colombiano, che era circa il 70% del traffico mondiale. Nella regione pacifica queste tendenze furono decisamente confermate.
Il progetto politico delle AUC si inserì infatti come opposizione agli accordi di pace con alcune guerriglie che, nel 1991, portarono ad una nuova costituzione del Paese in cui lo Stato si impegnava a riconoscere e proteggere i territori etnici della Colombia. Una legge attuativa del 1993, la Ley 70, diede la possibilità ai villaggi e territori della regione pacifica di essere riconosciuti come terra ancestrale, dove comunità indigene ed africane avevano sviluppato forme e modi di vita da preservare. Poco alla volta, su tutto il litorale pacifico si formalizzarono diritti di proprietà mista privata\collettiva che tra le altre cose prevedevano l'impossibilità di parcellizzare e rivendere le terre o di poterlo fare solo attraverso meccanismi decisionali che richiedevano il consenso comunitario. Per molti, i nuovi territori etnici rappresentarono un potenziale duro colpo alle economie narcotiche e minerarie. Ma anche nel nuovo mondo della Finanza offshore, la terra era ricchezza, tanto simbolica quanto materiale. In Colombia questo era particolarmente vero poiché i proprietari terrieri non venivano tassati e qualora le loro terre servissero per progetti di pubblica utilità, come per la costruzione di strade e ferrovie, o nascondessero nel sottosuolo importanti giacimenti minerari, lo Stato di solito prometteva ottime compensazioni. Bisognava solo voler vendere.
Per questa ragione, nel 1999 nacque il Bloque Calima (e un suo sotto gruppo, il Frente Pacifico), federato con le AUC. Il suo scopo, non dichiarato, era la ridefinizione dei regimi proprietari della Valle del Cauca (e della regione del Pacifico nord), nonché impedire il progetto politico di ogni minoranza etnica eccetto quella narcotica. Uno dei capi delle AUC, Carlos Castaño, avrebbe voluto mettere Don Diego al comando del Bloque ma i suoi legami diretti con la cocaina fecero propendere per una figura minore, più facilmente vendibile alle autorità ufficiali una volta terminate le campagne militari. Al suo posto come comandante del Bloque Calima venne quindi scelto Herbert Veloza García, alias “HH”, anche lui di Trujillo, come il boss, e suo amico d’infanzia. Insieme ad alias “El Fino” e a Frivet Hurtado, un ex-guerrigliero, organizzarono ed eseguirono tutte le operazioni militari con cui ufficialmente riconquistarono il Puerto ed accaparrarono le terre del litorale. Tutta la regione divenne in pochi anni uno dei luoghi al mondo con il più alto numero di rifugiati interni. Le campagne si spopolarono e le terre quasi per magia diventarono proprietà di prestanome e società scudo tutte riconducibili al Cartello del Norte del Valle di Don Diego o a qualche affiliato delle AUC in attesa del giusto acquirente. In altri casi, sfruttando proprio la Ley 70, Consigli Comunitari fittizi, composti di poche persone e meno famiglie, vennero creati appositamente per divenire i proprietari di terre “ancestrali” in attesa di essere rivendute con il “consenso” di tutti i consiglieri. Ciò avveniva, mentre la produzione di pasta base e di foglie di coca toccarono i massimi livelli della storia della regione.
Per meglio decifrare quegli anni però non si può non partire dalle storie ufficiali che interpretavano le complessità di cui ho raccontato identificando le strutture politiche dei quartieri come prova della presenza del Frente 30 delle FARC di alias Mincho. Quest’ultimo conosceva personalmente “El Negro” Asprilla (del quale si diceva che fosse anche amico di uno dei comandanti delle FARC, il Mono Jo-Joy). Tutto ciò più o meno bastò per costruire una teoria egemone che presto si trasformò in narrazione dominante che rese tutti quei gruppetti che di fatto frammentavano e quindi rallentavano il trasporto di cocaina e distribuivano quote infinitesime dei suoi proventi, affiliati alle FARC. A voler credere a quello che si diceva, appoggiando i Niches o accordandosi con loro per le rotte, dalla caduta dei Rodriguez-Orejuela le FARC controllavano il narcotraffico a Buenaventura. Inoltre, quel sistema di scambi, che ho brevemente raccontato nel post precedente, venne reinterpretato come una “tassa del popolo” che colpiva tutti i negozianti e i piccoli e medi imprenditori. In questo modo la guerrilla intendeva rafforzare il suo antistato scacciando l’istituzionalità legittima per sostituirla con i suoi apparati di governo. Questa storia, pur credibile visti i livelli di cocaina che uscivano dal Puerto in quegli anni, non era vera, o, per lo meno, non lo era del tutto. Seguendo comunque la narrazione ufficiale, il risultato fu che spaventati dai sogni irrealizzabili del socialismo, la comunità imprenditoriale di Buenaventura richiese l’aiuto di HH dotandolo di tutti gli ultimi ritrovati bellici per liberarsi delle narco-guerriglie. Così dal 2000 e per almeno 5 anni sotto quello stesso nome, il Bloque Calima rastrellò quartieri e commise un numero ancora da precisare di stragi con lo scopo di riportare le strade dentro un unico ordine armato finanziato dalla cocaina.
Tutto avvenne simultaneamente che anche i più devoti non riuscivano più a considerarlo semplice destino. La privatizzazione del Puerto, la morte di sindacalisti o il loro passaggio nei piani alti, i progetti di riqualificazione urbana, la costruzione di nuove periferie, l'autostrada, in una parola, l'ammodernamento di Buenaventura arrivarono insieme ai più alti tassi d'omicidio della storia della città. Obiettivi paramilitari dichiarati erano tutti i gruppi come il combo dell'altro José, i quali, seppur rispondevano anche loro a una certa richiesta di difesa di strade e case, usavano metodi di finanziamento non accettabili (come le rapine ai portavalori o ai camion del porto o tassando il contrabbando) e mantenevano relazioni decisamente conflittive con gli apparati politici dello Stato essendo più apertamente, loro si, schierati con gli uomini di Mincho. Il Bloque Calima era invece armato ed appoggiato da istituzioni dello Stato, dalla polizia e dall’esercito, da certi partiti politici e da alcune imprese della città che avevano rliasciato una nuova licenza per operare nel mondo proibito a scapito di tutti gli altri gruppi (1). Se quindi all'epoca di Asprilla e di Patiño, l'altro José e i suoi avevano regolato, cioè tassato e contingentato, il narcotraffico e il contrabbando nei quartieri della Piedras Cantas e nel Viento Libre, due semplici strade e moli della zona di Bajamar tra le molte disponibili, dal 2000, quegli accordi non furono più validi. Le armi dovevano essere quelle di HH e la cocaina doveva essere quella di Don Berna (Medellin) e di Don Diego (Cali\Trujillo). Quando poi, nel 2006, HH finì estradato negli States, seguito poco dopo, nel 2008, da Don Diego, a Buenaventura si pensò che la città potesse finalmente ritrovare la pace. Invece i livelli di violenza si mantennero sostenuti. Nessuno sapeva esattamente perché. O meglio nessuno poteva ammettere che la teoria egemone non spiegava quello che accadeva in città. Nella mia interpretazione ciò che accadde fu che il Bloque Calima tentò di federare, con loro o contro di loro, i diversi gruppi dei quartieri, di fatto forzando se non finanziando una corsa alle armi di piccolo taglio sulla quale si produssero divisioni senza precedenti in città. Ormai pareva che ognuno avesse un suo gruppo in armi e che senza armi fosse impossibile qualsiasi tipo di economia.
Nel 2009, più o meno quando arrivai per la prima volta a Buenaventura, vi era un certo accordo tra i ricercatori che si occupavano della città e i diversi think-tank circa la coesistenza di molti gruppi armati ognuno dei quali distinguibile soprattutto genealogicamente ma non per le pratiche di controllo dei quartieri. Erano le voci che cambiavano, non i metodi di sorveglianza e punizione e nemmeno il loro modello di business. Tuttavia la teoria dominante era che questa frammentazione fosse il prodotto dell’azione militare e paramilitare che aveva reso i gruppi in questione più deboli e piccoli ma sempre dipendenti dal narcotraffico. Rispetto alle mie osservazione e a quanto scritto fino ad ora, il contesto invece non era cambiato molto. La principale variazione fu che molti gruppi si armarono per continuare ad esistere. In alcuni casi si erano dotati di un’organizzazione e si erano professionalizzati dentro l’economia bellica che foraggiavano praticando estorsioni e partecipando al traffico di droga non solo internazionale. Il resto faceva parte delle politiche dell’identità urbane con le quali si “chiamava” un’istituzione intermedia con un nome o con un altro, giustificando ondate di militarizzazione, investimenti nella sicurezza e quant’altro in base agli umori politici di Bogotà e della comunità internazionale. Stando però a quelle identificazioni ufficiali il panorama bellico di cui si raccontava era il seguente.
Il Cartello del Norte del Valle si era diviso in due gruppi. C'erano i Macho ancora fedeli a Don Diego e c'erano i Rastrojos, formati dal suo ex-migliore amico Varela (anche lui con un passato da tenente nella Polizia di Cali). C'erano le Aguilas Negras, di estrazione militare, ex riservisti e vecchi soldati di HH che si diceva fossero ancora comandanti da Vicente Castaño, l’unico dei tre fratelli di cui si sa con certezza che sia ancora latitante. C'erano poi pezzi delle reti che venivano da Medellin che era difficile definire. Tutti facevano attenzione a non relazionarli direttamente a Don Berna che era nato a Tuluà, vicino Cali, ma che in quegli anni ebbe un ruolo fondamentale nella costruzione della pax narcotica della città antioqueña insieme ai Castaño. Venivano quindi nominati in base alle cosiddette cabecillas, ai capi minori che periodicamente apparivano per controllare i traffici di cocaina ma non i flussi finanziari che ne derivavano. Nel 2009 e fino a quando rimasi in Colombia erano chiamati Urabeños appellativo che li identificava con l’Urabà, la regione dell’Antioquia da cui provenivano già i Castaño ed alcuni di loro. Più tardi furono chiamati Clan Úsuga perchè erano i tre fratelli Úsuga a gestire i traffici e non si voleva più stigmatizzare quella regione. Ancora più recentemente sono stati chiamati Clan del Golfo, definizione che aspira forse a relazionarli direttamente al cartello messicano da una cui costola sono nati gli Zetas, cioè (ex) gruppi speciali dell’esercito dediti al narcotraffico.
C'era poi ancora il Frente 30 delle FARC che, soprattutto dopo la morte di Mincho, nell’ottobre del 2011, aveva perso capacità di influenzare le vicende urbane di Buenaventura. Molte delle persone che orbitavano intorno alla guerriglia, se non erano già morte o in fuga, erano finite a lavorare per quelli che avevano vinto la guerra. I casi dell’Altro Josè o di Panamà, ma anche i casi di altri molto più famosi ed importanti di loro, a cominciare dallo stesso Don Berna che aveva iniziato tra i maoisti dell’EPL, mostravano che tutti quei combos, alcuni mai formalmente nelle FARC, semmai in relazioni di collaborazione per ragioni economiche o per opportunità commerciali puntuali, presero altre direzioni al mutare delle condizioni del conflitto. Ogni tanto si ascoltava di attacchi alla rete elettrica del Puerto che generavano rallentamenti alla logistica ma mantenevano la città al buio per diversi giorni. Questo di solito produceva più malcontento che comprensione tra gli abitanti. L’ELN invece manteneva relazioni nei quartieri periferici in modi diversi, ad esempio dando lavoro nelle miniere “informali” d’oro del Chocò, quindi organizzando gli spostamenti dei minatori o garantendo la loro incolumità, o "facilitando” il contrabbando di idrocarburi e di altri prodotti. Sembrava comunque che i suoi integranti cercassero di rimanere fedeli al rifiuto del narcotraffico come da sempre sostenuto dai Castro a Cuba. 
Infine c'erano i fuoriusciti, i disertori e quelli che aspiravano a diventare “qualcuno” e che si ritrovavano in qualche esquina della città a parlare di quando sarebbe arrivato il loro turno per mettere ordine. Appena provavano a prendere una strada e magari a farsi conoscere da qualcuno più in alto inziavano però ad andare sotto pressione e di solito non duravano molto; qualche mese, i più fortunati qualche anno. I nuovi tempi obbligavano ormai ad avere maggiori expertise e connessioni militari e molti di loro potevano contare solo degli anni come riservisti nell’esercito e poche altre conoscenze. Nella Comuna 12 dove vivevo, ce n’era stato uno dal nome improbabile, gli Spacca Porte (los Tumbapuertas), un gruppo di autodifesa non affiliato a reti più ampie che si era formato in un barrio non lontano, di cui non si poteva parlare pubblicamente ma che tutti ricordavano abbastanza bene. I suoi membri organizzavano cineforum all’aperto o serate tematiche per parlare di diritti delle comunità afro, di disobbedienza civile e per spiegare le dottrine dei maggiori leader di origini africane del mondo. A volte, intervenivano a dirimire conflitti locali anche picchiando i malcapitati in pubblico. Furono quelli che, anni prima del mio arrivo, scacciarono un ragazzo del Barrio perchè aveva rubato i computer di una scuola elementare. Per un periodo abbastanza breve formarono ronde notturne, armate di pistole artigianali che sparavano uno, massimo due colpi, quando non esplodevano nelle mani di chi le usava. Aspiravano a tenere fuori dai quartieri i gruppi di narcos ma furono più o meno tutti scacciati, se non uccisi, dal Bloque Calima e dai suoi “compadres” delle Aguilas Negras.
Nel periodo in cui vissi nella comuna 12, le “aquile” erano invece in guerra contro i Rastrojos che si diceva, sempre stando ai bollettini ufficiali, controllassero la comuna, imponendo il pizzo per l’accesso ai mercati rionali, dal trasporto a quelli di frutta e verdure, allo spaccio locale. Questo scontro che iniziò nella seconda metà del 2011 e terminò all’inizio del 2014 con “l’estinzione” dei Rastrojos e l’entrata degli Urabeños nel Barrio, proprio grazie all’appoggio delle Aguilas Negras, fece ipotizzare a più di qualcuno che nella Comuna fosse in atto un regolamento di conti tra fazioni di (ex) poliziotti e fazioni di (ex) militari. Da questa guerra emerse poi un nuovo gruppo, l'Impresa, composto da ex collaboratori sia dei Rastrojos, sia degli Urabeños, “che aspirava a mettere ordine in città” e che, per questo, in poco tempo, divenne il nemico numero 1 di tutti gli altri gruppi armati che lo liquidarono in poco tempo.
Questa ricostruzione di storie locali è sicuramente ancora parziale ma potrebbe resistere ai commenti di quei pochi testimoni interessati a parlare, che non finirono in progammi ufficiali di protezione e continuarono a bazzicare le strade del Puerto. Infatti accanto ai gruppi già identificati, vi era una vasta gamma di personaggi ed assembramenti che orbitavano intorno alle frontiere cosiddette “invisibili” imposte dal conflitto. Si trattava di persone, giovani ma non solo, che avevevano imparato ad approfittare delle divisioni della città; cioè muovendosi dentro di esse per riscuotere commissioni ed estrarre risorse quando tutti gli altri erano costretti dentro spazi quotidiani, limitati dalla guerra, dalla paura o da una condizione di indigenza concreta. Prima di descriverne alcuni e il loro operato, bisogna però mettere insieme ulteriori elementi sulla macchina mitica dei quartieri e per descriverla racconterò un mito narcotico che aleggiava sui destini del barrio in cui vivevo, quello che riguardava la “Capitana”, cioè Griselda Blanco.
Per concludere invece questo trittico, mi pare utile riordinare le sezioni 1 e 2 del blog. Negli ultimi 4 post ho cercato di descrivere non solo congiunture e traiettorie in cui gli abitanti di Buenaventura si trovavano impelagati. Ho provato a delineare le origini di quella che viene chiamata “l’assenza dello Stato”, interpretata in queste pagine non in quanto “vuoto” ma come rapporto di potere e come paradigma di controllo della città. Ne scriverò meglio nei prossimi post ma fin qui ho tentato di delinearla attraverso un’ibrido che in altri contesti ho definito Stato-e-Clan cioè un intreccio nel quale l’alleanza tra Stato ed organizzazioni criminali è divenuta strutturale pur all’interno di narrazioni molto dettagliate ed attente nello scindere i due mondi. Per ora mi sono limitato a descrivere le diverse entità di natura privata che agiscono nell’intreccio: le corporate della logistica, i gruppi di autodifesa finanziati indirettamente dal Plan Colombia, il municipio degli amici di amici ed i corpi resistenti dei quartieri. Ad essi aggiungerò nei prossimi racconti alcuni organismi internazionali non governativi che si occupavano dei “fallimenti” del mercato o delle “sconfitte” dello Stato riempendo in altri modi l’assenza.
Ho quindi tentato di descrivere alcuni elementi di un intreccio complesso, certamente non unitario, segnato da una netta divisione razziale e dominato dall’industria logistica. Che vi fosse anche un’alleanza strutturale oltre che funzionale tra dinamiche mafiose e paramilitari ed apparati di governo con lo scopo di garantire la trasportabilità delle merci da Buenaventura lo affermano svariate testimonianze oltre che ricostruzioni giudiziarie degli eventi, cui seguirono incriminazioni, espulsioni, esili ed incarcerazioni. L’alleanza fu poi ribadita nel 2013 quando, per decorso dei termini, “i Re del Pacifico”, Asprilla e Patiño e le loro proxy politiche ricominciarono a bazzicare le strade del Puerto riaffermando l’importanza di certe consuetudini, prima tra tutte il mantenimento di divisioni strutturali nei quartieri: condizione imprescindibile per il governo di Buenaventura.
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