lasola
La Sola
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"Colui che senza chiamare il tre, fa giuoco, dicesi che fa sola. Egli [o ella o un mix variabile] può prendere il monte." Signor Chitarrella (1740),"De regulis ludendi ac solvendi in Mediatore, et Tresseptem", Napoli, Italia
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lasola · 3 years ago
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Riassumendo -  lo Stato come Assenza
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L'assenza può essere concettualizzata come una relazione di potere, in senso foucaultiano, e trasformarsi in una forma di controllo? Questa domanda, credo abbia una particolare rilevanza in un contesto come quello di Buenaventura. Fin qui ho cercato di mostrare che sin dalla sua fondazione con l'arrivo della colonia spagnola, le élite governanti hanno considerato lo sviluppo del porto della città come una questione strategica. L’importanza per fini commerciali riconosciuta alla sua baia ha segnato profondamente ogni traiettoria di crescita urbana. Da dopo l’apertura del canale di Panama, quindi da più di 80 anni, la città è divenuta uno dei più importanti poli logistici della Colombia (il maggiore per quantità stoccate). Il suo porto è stato posto al centro di un complesso sistema tecno-giuridico, che nel corso di questo blog ho chiamato globalmente “Economia Offshore”, concepita per assicurare lo sviluppo delle infrastrutture per lo spostamento di merci e materie prime e per permettere la circolazione monetaria. Sviluppando queste idee, ho cercato di mostrare le modalità e le forme con cui il progetto di urbanizzazione e di colonizzazione della baia abbia prodotto spazi, modalità di vita e conflitti in funzione di generiche e cangianti nozioni di trasportabilità e connettività. Ho così definito Buenaventura una città-infrastruttura evidenziando una frattura costitutiva tra il “Puerto”, inteso come dispositivo tecno-giuridico-amministrativo che definisce la città, e “la Gente**”, intesa come moltitudine eterogenea ma prossima e conoscibile.
Quello che vorrei chiedermi a conclusione del blog è se la città possa essere pensata intorno ad un'assenza costitutiva dello Stato in senso più ampio. Diversi apparati di governo hanno storicamente servito un interesse specifico e multinazionale centrato sulla creazione di ricchezza attraverso il commercio. Nel post [1] ho proposto un’intepretazione di come il governo di Buenaventura abbia oscillato tra una “forte presenza dello Stato” mediata attraverso contratti di concessione ad imprese appaltatrici di progetti di pubblica utilità ed un’assenza generata invece dalla decentralizzazione dei suoi poteri amministrativi. Da un lato si garantivano poteri da “Stato” ad imprese private che includevano anche il permesso di operare con milizie paramilitari per proteggere i cantieri o per facilitare gli sgomberi di terre incluse nelle concessioni. Dall’altro, dalla definizione del “Puerto Franco” a quella di “Districto Economico Especial”, il governo della città si poggiò su di un apparato giuridico-amministrativo fondato su autonomie speciali molto difficili da incontrare in altre aree del paese. Ho dunque affermato che la combinazione tra una presenza mediata ed un’assenza legale permise di fatto un prolungato “governo dei pochi” sulla città. Nei post della sezione [2], ho mostrato anche come negli ultimi 50 anni, su queste dinamiche si sono inseriti ulteriori ed altrettanto vasti flussi economici legati all’industria bellica ed a quella narcotica, destabilizzando e frammentando ulteriormente gli spazi politici urbani. Una prima conclusione di questo blog è stata quella di mostrare che le Corporate della città, attraverso i loro CDA ed i comitati che le legano all’amministrazione municipale, sono emerse come le istituzioni più stabili, durature e per certi versi credibili di Buenaventura. Sono però interpretabili anche come un’incorporazione storicizzata dei meccanismi del “governo dei pochi” che ha segnato la storia della città.
Seguendo questa analisi, il tentativo di comprendere la nozione di assenza come una relazione di potere implica allargare la sua osservazione ad una teologia che considera lo Stato "un principio di ortodossia" e la manifestazione di un ordine pubblico sia fisico che simbolico (Bourdieu 2014:4). Questa ortodossia è da intendersi come una forma di consenso sul mondo sociale e sulla moralità, ma è anche un meccanismo di strutturazione attraverso il quale i flussi dell’accumulazione di capitale incontrano le intensità soggettive piegandosi in una credenza collettiva circa l’esistenza di un’origine “che organizza in un tutto le parti ed i flussi” (Deleuze Guattari 1975:154-310 in particolare il paragrafo “Urstaat”). Lungo queste tendenze lo Stato è analizzabile come un'illusione o una finzione collettiva resa possibile dal suo potere simbolico (Taussig 1992;111-140, Abrams 1988), oppure come un insieme di pratiche ed atti che permettono alla sua teologia di essere inscritta nelle categorie cognitive dei cittadini (Bourdieu 2014:6-11). Il caso di Buenaventura potrebbe dimostrare quanto la sua forza o il cosiddetto effetto-Stato, risieda nella "reificazione di un'idea" che trova materialità ed esistenza attraverso l’incorporazione di nozioni come quelle di modernità o di progresso tecnologico nel Puerto. Le storie del Barrio presentate nella sezione [3] ci spingono però oltre. Evidenziano anche che i rapporti di potere reali possono rimanere sullo sfondo ed essere confusi o nascosti dall’interesse generale che invece obbliga gli abitanti a vivere quella stessa forza idealizzata "come un'apparizione traumatica del Reale che rompe i parametri ed i presupposti della realtà ordinaria" (Aretxaga 2005:261-262). Sulla base di queste considerazioni, l’obiettivo del post è allora capire come e se sia possibile entrare in relazione con l'assenza come unica forma disponibile della presenza dello Stato, di una totalità cioè che, dal punto di vista del Barrio “non esiste come presenza ma solo come virtualità” (Eco, 1968:351).
In uno spazio sociale sovraccarico di poteri frammentari, dove la prolungata coesistenza di gruppi armati in contrasto tra loro ha definito strategie di sopravvivenza fluide e mutevoli e dove le concettualizzazioni weberiane dello Stato non riescono a descrivere accuratamente la complessità, l'assenza non può essere considerata solo come l'incapacità territorializzata di un'istituzione di affrontare i conflitti e le necessità locali. Come ha notato Serje (2012), in Colombia, questa nozione di "assenza dello Stato" è storicamente servita allo scopo di creare specifiche geografie dell'immaginazione in cui l'assenza è stata elaborata come un fallimento strutturale delle categorie prevalenti di cittadinanza. Questo a sua volta ha permesso la creazione di un vasto insieme di luoghi nel "fuori della nazione" come le zonas rojas (zone rosse) o zonas de conflicto (zone di guerra) che racchiudevano l'esterno, gli davano una forma, per quanto astratta e barbarica, e lo rendevano accessibile allo Stato. L’entrata trasformava le zone in "un'interiorità di attesa o un’eccezione" (Blanchot, 1969) tanto ostili quanto spesso ricche di risorse naturali. Qui lo Stato doveva arrivare con una qualche combinazione di eserciti ed altri apparati burocratici. Tuttavia, descrivere l’assenza a partire da un'operazione di inclusione e di integrazione, forzata o no, di un territorio ad una geografia della nazione rappresenta solo una manifestazione parziale della nozione che vorrei usare qui. Date le traiettorie storiche di Buenaventura, l'assenza a cui mi riferisco sta invece dentro un'eccezione che si mostra come regola prolungata e coerente delle relazioni politiche della città mantenendo i suoi processi urbani in una estimità o in un’intima esteriorità dal progetto dello Stato-Nazione colombiano.
In questa prospettiva, una prima qualificazione dei rapporti di potere locali potrebbe rappresentarli dentro una forma-Stato in cui "non c'è Stato, solo controllo statale" (Deleuze 1986:75). Già Clastres (1987) e più tardi Scott (2009) hanno descritto come certe organizzazioni sociali si siano rappresentate all'interno di uno spazio politico formato dal loro tentativo cosciente di opporsi o evitare "lo Stato”, spesso raffigurato come l’Altro che poteva interrompere la coerenza interna della loro communitas. Tuttavia, la configurazione coloniale di Buenaventura in quanto città-infrastruttura ha innestato i suoi abitanti su di un apparato tecno-giuridico che li ha inclusi nelle stesse infrastrutture per poi espellerli dai meccanismi di ripartizione dei risultati prodotti, fino a radunarli in zone della città da risignificare essenzialmente in chiave securitaria (sul concetto di persone come infrastrutture si veda anche Simone 2004 e 2021 sul Sudafrica). Durante più di due secoli il paesaggio e la vita urbani sono stati infatti modellati, distrutti e rimodellati dall'impossibilità storica di sfuggire al progetto politico ed economico che riguardava la funzione logistica di Buenaventura. Le connessioni che venivano prodotte, lungi dall’essere neutrali o oggettivamente “buone”, hanno generato un incontro per lo più violento che ha necessitato di un’assimilazione progressiva del conflitto latente della città, quello tra Puerto e Gente, da parte degli abitanti. Come già notato da Clastres e da altri studiosi degli indiani amazzonici (Fausto, 2015), queste pratiche, però, piuttosto che sconvolgere la socialità locale, hanno generato anche una vasta gamma di rituali e processi identitari che nel caso specifico di Buenaventura potrebbero essere utili per descrivere l'assenza come una relazione di potere.
In diversi post ho proposto una seconda qualificazione dei rapporti di potere di Buenaventura definendo una forma-Stato, lo Stato-e-Clan, che non si è prodotta o che non è radicata in una precisa genealogia delle popolazioni locali. Ai legami biologici si sono invece sostituiti e/o sommati formazioni rizomatiche di persone fisiche e giuridiche, di attori statali o non statali capaci, in determinati periodi storici, di influenzare il senso degli eventi della città. L’aspetto cruciale della congiunzione, -e-, riguarda il conferire una natura nomadica alla statualità al di là dell’eternità del suo progetto politico. In maniera speculare -e- impedisce di interpretare il Clan semplicisticamente come un sostituto dello Stato o come un suo avversario neo-tribale. Ne emerge così un'istituzione-macchina che nella sua fluidità risulta comprensibile e potente per la capacità che possiede di abitare le nozioni di prossimità di una città concepita per la distanza e la velocità e per soddisfare i desideri di entità lontane (sulle nozioni di prossimità e lontananza si veda anche Virilio 1997). Come ho già scritto in precedenza, ontologicamente, a Buenaventura, il Clan è lo Stato che lo Stato non può essere. O seguendo un'altra prospettiva, lo Stato è il Clan che mette in atto l'eternità del suo progetto politico. Accanto quindi ai dispositivi di potere prodotti dalla guerra civile ed alla macchina astratta incorporata dal Puerto, è possibile rintracciare un apparato dell’Assenza che va oltre le geografie dell’immaginazione, rendendo lo Stato un feticcio senza più la capacità di incantare (si vedano anche Delueze&Parinet 2019:123-124). Una terza qualificazione delle relazioni di potere di Buenaventura riprende allora un articolo di Michael Taussig che, osservando le fratture politiche colombiane, discusse le condizioni per le quali lo Stato, con la S- maiuscola, risultasse una finzione o meglio un feticcio, intriso di magia invece che di tecnica, prodotto da un rituale cui solo pochi effettivamente assistevano piuttosto che da un sistema ordinato di leggi di tutt* (1992: 111-140). L’unico modo di pensare allo Stato era quindi quello di trovare un modo in cui il Clan si fondasse in esso e viceversa, palesando l’egemonia che sosteneva l’incantesimo (si veda anche Abrams 1988:77).
Eppure definire l’origine dello Stato in un rito e non in un atto di violenza originaria costituisce di per sè una divergenza concettuale abbastanza importante rispetto ad un vasto campo di filosofia politica. In una tradizione che da Hobbes arriva fino a Carl Schmitt, gli Stati e le loro leggi sono definiti sulla base della capacità di sovranità di certi momenti di rottura, spesso traumatici, in cui quei pochi passano dal rito alla manifestazione di sè. “Attuano”, cioè, “lo Stato” affermando il loro spazio di dominio, di controllo e di capacità di azione. La nozione di Assenza qui utlizzata serve precisamente per superare l’eccezione di quell’atto originario e fuori-legge, svuotandolo della sua specialità ed osservandolo invece nelle relazioni di politica economica che lo producono. Seguendo gli studi amerindiani ho inteso osservare quelle dinamiche di rottura dentro le continuità storiche di Buenaventura e per questo di considerarle dentro anziché fuori il corpo sociale. E’ possibile infatti dimostrare che la violenza sovrana che aspira a creare un ordine abbia, in realtà, già un suo posizionamento nelle modalità di comprensione e di relazione al mondo dei soggetti che vorrebbe assoggettare. D’altronde, solo in questo modo una guerra civile protratta può divenire una pratica di governo. Deve produrre socialità ritualizzate che non celebrano solo un’interruzione o una perdita, inscenando, ad esempio, un funerale per ristabilire la primarietà della comunità sugli eventi avversi. Deve anche creare diversi dispositivi che vanno dalla purificazione alla vendetta, passando per la spartizione di risorse economiche, con i quali si conferisce un senso ed una coerenza a quella violenza da dentro il corpo sociale e non fuori di esso. Nella sezione [3] ho cercato di mostrare alcuni dei meccanismi comunitari che si mettevano in moto ad ogni cambiamento di “ordine” imposto da dinamiche del conflitto percepite come incontrollabili localmente. Il nuovo ordine appariva fondare una Legge rinnovata, fatta di nuove chiese, nuovi luoghi per la festa e nuovi paramilitari ripuliti dal “vizio”. Tuttavia dal punto di vista antropologico ciò che si disvelava era il tentativo di costruire un’alleanza con “il nuovo” attraverso un processo di divenire-quel gruppo armato che aveva sostituito il precedente. Questa operazione di avvicinamento risultava coerente rispetto al codice-territorio locale. Manteneva cioè tratti di continuità con le strategie di convivenza e di sopravvivenza che erano implementate anche con la vecchia presenza armata.
Ho menzionato in precedenza che diversi studi politologici regionali si sono spinti a definire questo tipo di dinamiche e queste continuità all’interno dei processi democratici dell’America Latina, contraddistinti, in quei testi, dall’impossibilità di applicare concettualizzazioni weberiane dello Stato. Invece che un monopolio dell’uso della forza, osservano la coesistenza di una pluralità di formazioni storiche che ne sono capaci e che sono quindi in grado di occupare uno spazio simbolico, normalmente dello Stato, nella tradizione europea.  Un aspetto interessante è che in questa prospettiva, la dimensione rituale, cioè simbolica ed immaginifica, delle formazioni storiche assume una particolare rilevanza rispetto a quella Reale, legata all’uso della forza ed alla produzione di eventi traumatici. La capacità di “far morire” viene sottoposta a quella di fornire senso e significati alla vita, di ripartire risorse, liberare zone, costruire reti di appoggio e quant’altro. Questo non significa certo “pacificare” i territori. Piuttosto obbliga a riconsiderare l’interazione sociale sulla base di un pluralismo democratico ordinato per clan e compenetrato dai meccanismi di produzione della vendetta e dell’industria bellica.
In un suo recente lavoro di cui ho scritto in precedenza (1, 2), Mbembe descrive come, storicamente, istituzioni totali ed ordinamenti totalitari come la piantagione, lo schiavismo, il campo di lavoro o la prigione non appartengano solo a governi dispotici ed autoritari ma siano da considerarsi interni alla forma-Stato democratica; elementi di quello che chiama il corpo notturno. Rivisitando alcune considerazioni di Franz Fannon sull'esperienza coloniale, osserva come anche le democrazie africane siano rappresentabili attraverso un potere che si legittima con la forza di una legge costituita nel fuori-legge, che si impone “come se fosse voluta dal destino”. E’ cioè assoggettata ad imperativi politici in cui la legge stessa appare “assolutamente strumentale” al governo dei pochi e ad interessi parziali. Muovendo su tematiche analoghe da diverse prospettive, il filosofo napoletano, Esposito, in un suo recente lavoro, Pensiero Istituente, prova invece a pensare le modalità di superamento del corpo notturno nella democrazia. Afferma allora che la forma-Stato democratica è tale solo se è in grado di stabilire una rottura con quella violenza arbitraria. Per sciogliere questi legami occorre però ripensare l'idea stessa del corpo politico e si spinge fino a definire la società democratica come società senza corpo. Citando Lefort, Esposito spiega che una società democratica può realmente definirsi tale solo ipostatizzando la caduta dell’immagine di una totalità organica che tenga assieme il sociale, sia essa il Re o lo Stato, senza per forza ritrovare lo spettro della guerra civile hobbesiana, del tutti contro tutti. Questa disarticolazione delle parti dal corpo implica comunque il riconoscimento, come in Mbembe, di un’assenza primordiale e fondativa. Per Esposito, “la società democratica [è] un vortice che [vi] rotea intorno […]” che, a ben vedere, vive l’assenza senza rimuoverne la violenza per liberarne la comprensione profonda e così disinnescarla. Per Mbembe, ma anche per la Serje citata più sopra, invece, la democrazia mantiene una relazione strumentale con l’assenza, abita deluezianamente lo stesso piano di immanenza del suo notturno.
Seguendo queste chiavi di lettura, ho cercato di dimostrare che la rimozione della violenza originaria era un’operazione quotidiana che produceva una consapevolezza etica delle fronteras ed una forma di coscienza dell’Assenza o dello Stato come finzione sintetizzabile nell’enunciato “jugar vivos” (definito nel post [3.2]). Nella sezione [4] ho allargato queste considerazioni descrivendo il blocco del Puerto come un momento rituale che permise un percorso di riconoscimento interno della “Gente”. I giorni dei blocchi delle strade segnalarono, cioè, una ritrovata accoglienza popolare del negativo. Vi fu una critica di fatto del concetto di fronteras per come si autodefiniva nella quotidianità (si veda ancora il post [3.2]) e fu messo in scena, attraverso una performance collettiva, il disvelamento di dinamiche socio-economiche che relazionavano abitanti e malos attraverso meccanismi di debito e credito e/o relazioni di reciprocità (si veda il post [3.1]). In questo modo, i blocchi delle diverse arterie della città non mostrarono solo una ribellione delle parti contro il corpo. Denunciarono e riportarono al loro interno l’incoerenza strutturale della totalità che le teneva assieme per lo più in chiave securitaria o come problema di sovranità nazionale. Riconoscendosi senza corpo, gli attori del blocco abitarono invece l’Assenza come soggetti etici coscienti del “jugar vivos” superando sia la mancanza sia la presenza funzionale dello Stato. Da una frattura esistenziale con il Puerto e con la funzione logistica di Buenaventura emerse quindi un campo politico intimamente decolonizzante e democratico che permise la pacificazione per qualche giorno delle strade. Ciò fu possibile, a mio parere, proprio attraverso il riconoscimento della finzione originaria dello Stato possibile solo vivendo l’Assenza da cui si mise in moto un rovesciamento radicale delle ritualità che lo sostenevano. I blocchi stradali crearono una sostanza non-sovrana o fuori-legge che celebrava la convivialità delle frontiere “riconquistate”. Nell’interregno che così determinavano, le barricate non stabilivano confini ma ripiegavano l’afuera e l’adentro spostando lo sconosciuto, la violenza originaria ed il “Male del Puerto” in un altrove che non si trovava più nel vicino, nella memoria o nell’intimità.
Va detto però che queste ribellioni, pur ripetute, erano sempre segnate da una durata. Non producevano cioè un superamento reale o definitivo di una forma-Stato con l’altra o di un ordine con l’altro, come invece avveniva nelle epoche di passaggio imposte autoritariamente (si vedano i post [3.3.1] e [3.3.2]). Si affermavano in quanto veri e propri intermezzi della guerra civile che permettevano di rimuovere la violenza. Nei casi più estremi, come in quei giorni del gennaio 2011, arrivavano fino a bloccare tutto l’apparato logistico. Altrimenti alimentavano negoziazioni, spartizioni, celebrazioni o guerre commerciali che dipendevano dalle diverse intensità prodotte quando veniva a mancare unitarietà o coincidenza delle pratiche. Un’attenta valutazione di queste traiettorie mi ha allora portato a descrivere la natura “in divenire” dei sistemi politici di Buenaventura caratterizzati dalla coesistenza, conflittuale e insieme funzionale, di regni di signori della guerra, caporalati di quartiere e spazi dell’Assenza che ho chiamato invece interregni. Dalle loro possibili combinazioni emerge un’altra notazione importante di questo blog che riguarda il ruolo centrale, nei sistemi politici di Buenaventura, di raggruppamenti come i combos/muchachos o le pandillas/bandas, definiti in un modo o nell’altro in base alla strutturazione delle fronteras ed alla loro assimilazione ad istituzioni intermedie (si vedano in particolare i post [2.2] e [2.3]). Prima di entrare in un percorso identificativo, qualsiasi esso fosse, si è mostrata l’importanza dei combos nel generare connettività tra le località. Vivendo in un “fuori del barrio”, o in una sua piega (Deleuze 1990), eseguivano una vasta gamma di mansioni con le quali assistevano gli abitanti nell’assenza funzionale, questa volta si, dello Stato. Relazionavano, collegavano, fornivano strumenti agli spazi de adentro, quelli intimi e prodotti dalla memoria, per essere anche nel mondo de afuera, il mondo delle quantità, delle cose, degli oggetti di desiderio. Se è vero che il governo della guerra civile operava una cosciente frantumazione delle loro socialità oppure li spingeva fino a processi di divenire caporalato, è altrettanto vero che i combos partecipavano in una vasta gamma di interregni, divenendo anche capaci di affermarsi come soggetti virtuosi in particolari condizioni di protesta. Collaboravano cioè a ripiegare i flussi sui barrios invece di abbandonarli ai meccanismi di fagocitazione del Puerto, disvelando ed attuando la coscienza del “jugar vivos”.
Sulla combinazione e strutturazione di questi campi politici variabili si articolava un aspetto cruciale della guerra civile della “Gente” che avveniva questa volta non contro ma sullo sfondo del “Puerto”, da intendersi ora come macchina astratta che rimaterializzava lo Stato-e-Clan nel quotidiano. Questa riproduzione avveniva attraverso lo spostamento dei piani in conflitto nei quali la guerra civile si deterritorializzava per prendere posto dentro un’eternità indubitabile incorporata da burocrazie, certificazioni di proprietà, meccanismi elettorali di scelta della leadership, usi legittimi o meno della forza eccetera. Un ulteriore aspetto in effetti tralasciato in queste descrizioni etnografiche riguarda l’insieme di organizzazioni governative e non che operavano intorno al Barrio e che avevano una loro diretta manifestazione nei progetti produttivi che rimasero attivi per alcuni anni prima di venire interrotti, nel Barrio Viejo almeno, durante la fase di “passaggio” (si veda ancora la sezione [3]). Nella letteratura antropologica colombiana, a partire dal testo della Serje qui citato, vi è una chiara preferenza tanto accademica quanto metodologica per lavori di campo centrati su queste istituzioni e gli interventi di sviluppo locale della cooperazione internazionale. Le ragioni sono molteplici ma possono essere sintetizzate osservando come nozioni e pratiche di “sviluppo" abbiano costituito un sistema di potere-conoscenza che i beneficiari dei progetti hanno via via imparato a negoziare (1). I saperi esperti ed i trasferimenti di tecnologie hanno così prodotto cambiamenti sulle realtà locali non completamente inquadrabili dentro semplici valutazioni costi-benefici. E’ infatti interessante notare come vi siano tutta una serie di produzioni relazionabili o dipendenti dai progetti che non sono previsti nelle fasi di pianificazione. Appaiono invece il risultato di un incontro politico-economico che si propaga lungo il campo sociale dell’intervento oltre le aree strettamente legate all’esecuzione (1, 2). Tra i diversi effetti non previsti, è possibile annoverare la crescita di un apparato burocratico statale e parastatale il cui scopo principale è la creazione di uno spazio di concertazione per definire l’allocazione dei fondi. In paesi con scarsa capacità fiscale e con budget estremamente ristretti per sistemi pubblici di welfare, questi apparati burocratici per lo “sviluppo” hanno la forma di veri e propri gruppi di interesse capaci di influenzare le politiche degli aiuti e le linee di spesa governative nelle quali vanno incluse anche forniture di vario tipo; dai veicoli agli accessori tecnologici, software come hardware, fino allo stesso uso di strutture di appoggio per le visite di campo (hotel e stanze) e molto altro. Sebbene la nozione di “sviluppo" venga normalmente tecnicizzata e valutata sulla base di produzione di salari e lavoro, di miglioramenti delle condizioni produttive o di assitenza necessaria, porta con se molte altre criticità giustamente osservate da diversi scienziati sociali. Ad esempio l’emergere di una classe media parastale con salari “non governativi” spesso più alti di quelli governativi e con diverse tipologie di interessi rispetto ai progetti da finanziare ha avuto implicazioni politiche locali con modalità e forme variegate. Un’accurata descrizione dello Stato-e-Clan di Buenaventura dovrebbe quindi tener conto anche di queste dinamiche.
La mia ipotesi di partenza è stata tuttavia quella di considerare gli interventi di sviluppo come una parte, pur importante, ma non pienamente rappresentativa della vita del Barrio. Credo cioè, che le descrizioni principali di questo blog non verrebbero influenzate osservando le diverse fondazioni, associazioni ed ONG che operavano nella zona del mio lavoro di campo e nemmeno le diverse “mesas de trabajo” (tavoli di lavoro) o comitati interistituzionali pubblico-privato che periodicamente si incontravano definendo strategie degli interventi, aree di criticità eccetera. Dal punto di vista del Barrio, infatti, soprattutto a causa di vincoli legali sempre più stringenti in contesti come quello di Buenaventura, la grande maggioranza dei progetti agiva all’interno dei percorsi di strutturazione imposti dalle fronteras e non sui meccanismi che le formavano. Quando invece ciò avveniva, si trattava solo di casi molto sporadici che richiedevano comunque permessi speciali accordati dagli organi di governo centrale all’ONG stessa (di solito il dipartimento per la cooperazione allo sviluppp del Ministero degli Affari Esteri colombiano). Questo è il caso, ad esempio, della Croce Rossa Internazionale che operava nel quartiere solo per aiuti produttivi a gruppi di beneficiari definiti autonomamente nel Barrio. Nonostante ciò, progetti per certi versi di successo come quelli che seguii nel 2010-2011, furono bruscamente interrotti per le mutate condizioni del conflitto nella comuna. Le diversi ONG, inclusa la Croce Rossa, non ebbero alcuna capacità di influenzarle. Ontologicamente quindi i progetti rappresentarono un tentativo mal riuscito dal punto di vista locale. Tuttavia generarono burocrazie, archivi documentali e salari di un’economia a se stante che sorgeva “grazie al Barrio” e che “orbitava” intorno al Barrio, senza però poter condizionare il passaggio di poteri tra gruppi armati ed i problemi di accesso ai mercati locali che ne derivarono. E’ stato quindi più utile, credo, cercare di comprendere la natura più intima ed etnografica delle fronteras invece che osservare le dinamiche di concertazione e di interposizione delle diverse organizzazioni presenti nell’area. In ogni caso, la definzione di Stato-e-Clan risulta coerente anche aggiungendo queste ulteriori complessità e piani di analisi.
** La Gente è una parola che si ascolta con molta frequenza nel Pacifico colombiano. Il suo significato si sovrappone e restringe quello più vasto di Pueblo caratterizzandolo con sentimenti di familiarità e di vicinanza. Nel gergo quotidiano si fa riferimento spesso a “mi gente” o a “la gente”, per definire segmenti conosciuti o conoscibili del pueblo.
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lasola · 3 years ago
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[4.2] - Il blocco del Puerto
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Interpretare i blocchi della strada di Buenaventura come “interregni” riguarda il tentativo di rielaborare la nozione di sovranità a partire da una ritrovata capacità di molteplici soggetti di produrre una specifica architettura della loro presenza nel mondo. Significa quindi osservare la guerra civile colombiana, di cui i blocchi stradali sono evidente manifestazione, dentro una più ampia struttura simbolica composta dai variegati repertori della protesta, dalla mitopoiesi della calle e dalle relazioni di politica-economica determinate da un assemblaggio dell’altrove come il “Puerto”. Mettere tutto questo assieme implica prima di tutto chiedersi se le nozioni raccolte durante il lavoro di campo, rielaborate nel corso di alcuni anni di riflessioni e descritte fin qui, possano descrivere dei sistemi politici nei cosiddetti margini ancora non propriamente presi in considerazione in una città come Buenaventura. Spingono il pensiero ad un passo in più verso la comprensione di un possibile campo politico istituente, “nativo”, “selvaggio”, “nero”, “Afro” e “ribelle” rispetto ai mondi assolutizzanti della Tecnica (1, 2). Occorre allora chiedersi se in una rivolta o in quell’insieme di pratiche “di frontiera” siano riscontrabili delle continutà e delle ripetizioni incorporate ma non rappresentate perfettamente in istituzioni che organizzano la prepotenza come il combo\banda o il “jefe\capo” (chiefdom) o che coordinano la violenza producendo alleanze sempre in divenire per il controllo del territorio, come i gruppi in armi del tipo Rastrojos\Urabeños.
Fin qui ho cercato di mostrare che l’esistenza di questi sistemi politici piuttosto che originarsi in un’esteriorità dello Stato, cioè in una sua assenza o come prodotto di una debolezza strutturale o di un suo fallimento, si articolano e si intrecciano in variegate forme all’istituzionalità ufficiale ed alle autorità legittimate localmente. Partecipano cioè della statualità tanto quanto ne rappresentano un opposto. La loro complessità risiede nella dimensione caotica delle relazioni che producono, cioè nella loro apparente incoerenza, nella mancanza di una coordinazione centralizzata vera e propria o di strutture di intermediazione stabili che chiariscano in maniera univoca i rapporti tra centro e margini dei campi politici che generano. In questo senso rispetto all’eternità dello Stato sono normalmente analizzate come una forma-Clan, come il negativo, il non comprensibile e come un’esteriorità (si vedano Delueze e Guattari 2003:495-594). Sono però osservabili ritualità, regole e forme di appartenenza e di partecipazione e linguaggi altri che le definiscono non per la “rudimentarietà” o “elementarità” delle loro organizzazioni. Al contrario rappresentano sistemi ugualmente complessi capaci di estendere forme di influenza oltre un piccolo quartiere o gruppo di case. Famoso è il caso del radicamento di Cosa Nostra a New York che veniva interprato come una forma organizzativa elementare che sarebbe stata riportata “nello Stato” attraverso il processi di “Americanizzazione/civilizzazione” della migrazione (Lupo, 2008). Nei casi di Palermo e Napoli citati nel post precedente, organizzazioni funzionalmente simili ad un caporalato (chiefdom), nell’incontro “coloniale” e con il progetto eterno dello Stato si sono invece modellate fino a divenire-Camorra e divenire-Cosa Nostra mantenendo relazioni di estimità (intima esteriorità) con gli apparati dello Stato. Sono quindi entrate in un rapporto di divenire-Stato che in base ai contesti ed ai periodi storici le ha configurate in forma di “anti-Stato”, “Stato nello Stato” o di “Stato parallelo" istituendo così un preciso campo politico che pur ribadendo quotidianamente le differenze tra Stato e Clan, si caratterizza proprio come Stato-e-Clan.
Gli studi etnografici sull’Amazzonia (1) e sul sud-est asiatico (1) sono disseminati di esempi di società definibili nel continuo tentativo di esistere in una frontiera “simbolica” quanto fisica dello Stato, di rimanere cioè rappresentabili in una sua esteriorità, ribadendo un campo sovrano non assorbibile dai processi connettivi di politica-economica globali. Nella letteratura africanista vi sono invece molteplici esempi di pseudoregni, Stati ombra o re incoronati per diventare capri espiatori dei mali che colpiscono un popolo che rappresentano a tutti gli effetti mondi alternativi sorti nell’inevitabilità della connessione. Pur sorgendo anche loro in risposta all’incontro coloniale, manifestano infatti la coscienza di una radicale perdita identitaria che non si riversa in un profondo nichilismo, in un’aperta confrontazione o in tentativi di negoziazione di spazi d’esistenza, ma ricostruisce forme di vitalità e di riaffermazione del sé comunitario (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7). Erano questi campi politici e magici ombra nel vero senso della parola perchè sorgevano alle spalle, nascosti dove l’azione colonizzante non poteva vederli e si articolavano attraverso linguaggi di cui “l’intruso” non possedeva grammatiche e codici. In questo senso, le bandas/combos o i jefes che sembrano costituire forme urbane di caporalato sulle pendici dei processi di espansione delle città, devono essere intesi in maniera più ampia, come strutture politiche rizomatiche che definiscono forme di socialità e di relazioni tra “mondi”, anche molto diversi tra loro, e che non sono solo quelli marginalizzati o identicabili in zone ancora “da civilizzare”. Quello che ho chiamato interregno è dunque un manifestarsi nel qui-ed-ora di una forma dell’abitare le fratture del corpo sociale imposte da rapporti di forze asimmetriche. Nel caso specifico in esame, l’interruzione di un flusso vitale urbano come la logistica e la ripetizione periodica, quasi annuale di questa azione (ho registrato blocchi simili nel 2012, 2013, 2014, 2017) paiono una produzione di un sistema di governo alternativo. Definiscono una non-battagila che aspira a ri-connettere e ad apparire ovunque invece di lasciarsi assoggettare da “presenze” di para, o da forme di controllo del territorio che frammentano, suddividono ed assegnano sfere di influenza. Territorializzano un essere diffuso e disseminato. Partendo da qui, mi chiedo allora se possano essere interpretate anche come una ripossessione rituale della città, nel senso di una riconquista psichica dello spazio e del tempo. Come le capitali celebrano la loro leadership con un vasto insieme di rituali nei “palazzi del potere”, i blocchi delle strade in un polo logistico “strategico” sono un rito culmine della critica radicale delle politiche-economiche che muovono il mondo?
Per rispondere alla domanda e conferire ai blocchi delle strade una natura rituale, è importante prima di tutto osservarli nella loro dimensione temporale, dentro cioè una guerra protratta e come parte di repertori consolidati e ripetitivi della protesta sociale. La loro comprensione deve allora iniziare in maniera imprescindibile dalla contingenza prodotta dall’assenza di acqua e dal malcontento diffuso che cerca un colpevole. Deve poi proseguire riconoscendo l’attualità dei movimenti per le autonomie africane che fin da quei fuggitivi delle piantagioni e delle miniere che fondarono nei primi anni del 1600, i primi Palenque, territori di cimarroni, di schiavi liberati, costituirono dei punti di discontinuità negli immaginari della nazione (1, 2, 3, 4, 5, 6). Queste storie sono spesso dimenticate o sottovalutate negli studi politologici colombiani centrati analiticamente sulla categoria teologica dello Stato, declinato in base ai contesti in forte o debole, in predatore o sviluppista, ma mai etnicamente come bianco e mestizo (meticcio) o blanqueado (sbiancato) (1, 2, 3). A riprova dell’importanza di queste altre entità politiche vi è invece la storia del “movimento cimarrone” degli anni settanta del secolo scorso e come la sua diffusione tra le comunità afrocolombiane seguì percorsi diversi tra le città e le zone rurali (1, 2, 3, 4). Fu proprio nelle aree meno connesse, quei territori normalmente raccontati come “senza Stato” o “vuoti” (baldios) o di povertà estrema che crebbero nelle pratiche, discorsi alternativi sulla “nerezza” del popolo afrocolombiano, fondati su progetti spesso del tutto spontanei e radicalmente critici della modernità. A partire dai primi anni ‘90, autonomie immaginate e di fatto incontrarono un quadro legale nel quale vennero progressivamente riconosciute ufficialmente anche dallo Stato colombiano. Si etnicizzarono nel senso che si iscrissero al progetto di Stato multietnico che sembrava stesse nascendo (1). Tuttavia, come visto, questi processi di riconoscimento giuridico rimasero spesso “letra muerta” (parole vuote) ed incontrarono una violenta repressione del “Capitale” che generò più di 2 milioni di desplazados solo tra gli afrocolombiani, la maggiorparte dei quali espulsi proprio dai territori riconosciuti per legge. In questo senso allora i blocchi del Puerto sono da intendersi all’interno di una storia molto lunga delle autonomie afrocolombiane che seppur siano spesso scarsamente documentate, hanno segnato queste terre con regolarità per diversi secoli (si vedano anche il post [1], [2.1], [2.2], [2.3]).
Risulta allora piuttosto importante inquadrare questi processi socio-politici dentro più ampi discorsi nazionalisti e pratiche razziali nei quali l’idea di “nerezza” tende normalmente a perdersi nella costruzione della “nazione e dello Stato meticci” (si vedano al proposito anche Cornel West sul nord America e Tianna Paschel su Colombia e Brasile). “La scomparsa del colore”, un progetto associabile alle borghesie urbane cosmopolite, ha finito col rappresentare una chiave per il dominio e lo sfruttamento delle popolazioni ai margini, in maggioranza africane ed indigene. Si è così configurata come un potente strumento di pacificazione del conflitto sociale disegnando un percorso evolutivo della nazione verso un grande melting-pot di genti e culture. Ha però anche contenuto l’elaborazione dei significati dell’essere “nero” o “Afro” in un paese come la Colombia, oppure lo ha riportato dentro meccanismi di produzione culturale per il consumo, di musiche, balli, abiti e liquori “afrocolombiani” con un mercato globale dal gusto meticcio (la storia del Viche è un caso studio molto interessante al riguardo). In questa più ampia pragmatica del potere, in alcuni casi, le accuse di razzismo si sono addirittura rovesciate contro alcuni gruppi di afrocolombiani influenzati dai movimenti del Black Power del nord America che aspiravano ad affermare ed organizzare “soggettività politiche Afro” nella cosmologia politica della nazione meticcia. Sono stati così messi sullo stesso piano di un estremo come il “suprematismo bianco” in cui idee di purezza e di protezione della razza si oppongono ad ogni progetto includente ed aperto del meticciato. Il risultato di queste divergenze, in Colombia, è stato la produzione di tipificazioni sociali apparentemente non razzializzate che caratterizzano l’Afro produttivamente come scanzafatiche, lento, senza progettualità di lungo termine oltre che pericoloso, anche se grande ballerino e musicista, eccellente nelle arti amatorie e negli sport. Nei centri urbani questo immaginario razziale e di classe offre spiegazioni facilmente accessibili sulle ragioni della povertà e dell’ingovernabilità di città come Buenaventura e si somma ad altre ragioni più generali come il “Governo corrotto”.
Fin dall’inizio di questo blog ho cercato invece di mostrare come le difficoltà della popolazione fossero interpretate localmente anche in funzione di una più ampia genealogia cosmica del male da cui discendeva il “male del Puerto”, una condizione esistenziale che toccava ogni suo abitante. I blocchi stradali generarono da subito posizioni limite ed antitetiche tra chi appoggiava la protesta ed altri che invece la biasimavano, tra chi la celebrava come “la lotta del popolo” e la viveva da vicino e quelli che erano invece alle prese con stati d’ansia insopportabili. Tuttavia obbligarono tutti a prendere coscienza di una condizione esistenziale comune che era quella di condividere "il mondo” e, nel caso specifico, di porsi domande sull’assenza di acqua nelle case, non come un fatto ineluttabile, ma come una situazione che poteva essere modificata. Non si trattava quindi di rituali religiosi, semmai guerrieri, ma non vi erano sciamani che ne dichiaravano un inizio ed una fine, o capi che li ordinavano. Come quei riti producevano però effetti curativi o di purificazione poichè visibilizzavano quel Male o un male del Puerto. In questo modo ogni abitante, volente o nolente si trovava dentro relazioni cosmiche che non riguardavano più solo l’accesso all’acqua ma la celebrazione e la rimemorazione di un insieme di relazioni e di pratiche da preservare, che pertenevano  al “mondo” condiviso ed a modalità del vivere altrimenti a rischio di oblio o di cancellazione.
Un’altra caratteristica fondamentale del rito è infatti la sua esistenza specifica e definita spazio-temporalmente. Detto altrimenti: si è sempre nel rito. Tutto ciò che ne segue o ne deriva, cioè la ricerca di un suo significato o di una funzione, fa parte di un altro campo antropologico, teologico e politico che inquadra invece i rapporti di potere esistenti. Definire i blocchi stradali come momenti rituali significa allora condurre l’analisi verso la comprensione delle forme con cui il piano religioso o più propriamente magico, in questo caso, e quello politico condividono uno stesso spazio simbolico e significante generato in quella coscienza di condivisione del “mondo”. Nell’imposizione di una sospensione radicale della quotodianità, i blocchi esercitavano sugli abitanti un potere quasi mistico e riunificante che operava al di sopra delle divisioni prodotte dalla guerra civile stessa (si veda anche il post [3.3.1]). Ciò avvenne a mio parere proprio attraverso la riaffermazione di un controllo sociale su flussi economici altrimenti incommensurabili ed infinitamente più grandi dell’esperienza quotidiana. Ristabilirono l’adentro mentre visibilizzavano un’afuera di ogni quartiere nel quale si condensava “il male del Puerto” per cercarne una cura diversa da quella proposta dai “capi”, che pasasse da “soggettività politiche Afro e ribelli” di solito volutamente invisibilizzate nei racconti che seguivano o precedevano il rito.
Nel caso di Buenaventura, ciò avveniva in due modi paralleli. Da un lato si produceva una dimensione quasi carnevalesca che celebrava una momentanea e ritrovata capacità di sovversione di tutti gli ordini. I blocchi stradali manifestavano una verità popolare che si opponeva a quella del "Puerto” (si vedano ancora i post [1] e [2.1]) riaffermando un’esperienza di sovranità dei soggetti più intima e quotidiana. Dall’altro si diffondevano immaginari che superavano visioni parziali e territorializzate come quelle dei “monopolios” ed altre tipificazioni sociali descritte in questo blog che settarizzavano l’accesso alla verità. Nel blocco quei mondi spirituali contesi che nel Barrio erano rappresentati dalla chiesa pentecostale, le fumerie di tabacco e le feste di viche “curato”, per qualche giorno persero significato. Rientrarono tutti in un ordine superiore, sospesi insieme ai flussi commerciali della città in attesa di notizie sull’acqua. Perchè ciò fosse possibile ed insieme per affermarsi come uno spazio di riconquista del sé nei cammini di espropriazione del Puerto, i blocchi stradali rappresentavano un ordine simbolico che si spazializzava. Erano un confine fisico oltre il quale il grande Altro, questo altrove cosmico che segnava i destini delle genti, non poteva e non doveva arrivare. Il totalitarismo del linguaggio della società info-finanziaria trovava allora un limite invalicabile, rappresentato creativamente e per alcuni giorni proprio dalle barricate. Si creò un vuoto di flussi informatici e finanziari che servirono precisamente a ricostituire verità condivise che sorgevano solo “nel rito” e con cui, sempre “nel rito” si riconquistavano il tempo e lo spazio, generando appunto degli interregni.
In questa prospettiva, le barricate, tra i falò notturni ed interminabili attese diurne, concessero tempo per liberarare menti e territori da un incantesimo che imponeva frontiere invisibili, marginalità, disservizi e rabbia che solitamente si sfogava sul vicino. Quanto detto appare ancora più credibile se si pensa che i blocchi stradali di Buenaventura non incontrarono la repressione delle squadre antisommossa della polizia, del famigerato ESMAD. Come scritto in precedenza, le dinamiche di controllo del “Paro” seguirono repertori non precisamente in linea con la tradizione repressiva colombiana. Invece di provocare una confrontazione diretta che in una città come Buenaventura sarebbe potuta degenerare facilmente in violenti scontri a fuoco e centinaia di morti, gli organi di controllo rimasero anche loro in attesa e colpirono negli anni. Il risultato principale fu che invece dei violenti scontri come quelli che si registravano normalmente in altre aree del paese, le giornate trascorrevano dentro un sussegguirsi di momenti di convivialità e di micromanifestazioni di solidarietà degli abitanti. Essere nel rito quindi non implicava essere in uno scontro ma essere in una convivialità eccezionale. In una città con altissimi livelli di violenza armata, di sparizioni, di espulsioni ed esili forzati, il blocco rappresentò una sorta di cessate il fuoco imposto dai quartieri e pose in primo piano il vivere in comune oltre le sue molteplici traiettorie e conflittualità. La sua ripetitizione negli anni successivi, pur riducendo progressivamente la radicalità del motto “no pasaran” (non passeranno) soprattutto rispetto ai terminali logistici e pur configurandosi in forme alternative come “Paro armado”, “Paro minero” o “Paro Civil” (sciopero/blocco armato, dei minatori o civile), definizioni che quindi ne inquadravano il prima e il dopo ed alcuni aspetti politici ed organizzativi, mantenne inalterate queste caratteristiche di fondo nel senso di  recupero di spazi del comune nel qui-ed-ora. Prima quindi della sua traduzione politica e poi mediatica, il blocco del Puerto si pose in continuità, a mio parere, con tutti i repertori di resistenza menzionati fin qui, cioè con le feste nelle case “ribelli”, le partite di calcio sulle frontiere, i poemi resistenti, i boicottaggi dei pagamenti e molte altre pratiche di frontiera, ma su di una scala più ampia e diffusa. Per questa ragione partecipava di un campo di “sovranità dal basso” che ho chiamato “interregno”.
Per intendere in profondità queste dinamiche in Colombia non bisogna considerarle fenomeni isolati o prodotti di contigenti alleanze tra bande o gang capaci di creare “caos” in città. Questa è la visione più propriamente borghese degli eventi, quella associabile a strategie securitarie. In maniera analoga occorre fare attenzione a non romanticizzare le improvvise rivolte del subproletariato come una manifestazione di coscienza e quindi di lotta di classe pura e semplice.  Si rischia poi di ritrovarsi con nuovi Pablo Escobar e signori della guerra che impongono i loro “monopolios”. Seguendo l’approccio applicato fin qui, invece, la rivolta di Buenaventura dovrebbe essere interpretata attraverso una pragmatica del potere prodotta da rapporti di forze asimmetriche nelle quali emergono discontinuità non riducibili alla visione romantica o quella securitaria. Vi sono interazioni ed intesezioni tra diversi attori politici e corpi legittimi o legittimati che sostengono una pluralità di verità disponibili seppur dentro l’unità particolare del blocco delle strade. Questi molteplici incontri erano e sono resistenze diffuse al totalitarismo del linguaggio della società info-finanziaria e, come ho cercato di mostrare, permeavano gli spazi del vivere quotidiano di Buenaventura. Forse, proprio per questa ragione, la città era anche disseminata di tecnologie per la riproduzione dell’orrore, di fosse comuni, di frontiere da immaginare, di armi per “far credere” e di droghe per “far fuggire” mentalmente o materialmente. Tutto questo insieme di dispositivi di controllo caotici aspiravano a sopprimere o a riportare all’obbedienza una vitalità Afro e ribelle. Occorre però notare che dal punto di vista della pragmatica del potere che ho descritto, il loro scopo non era realizzare effettivamente quel controllo totale, ma produrre piuttosto un insuccesso sistematico. Il vero obiettivo era  ripetere lo scontro, cioè rendere la guerra civile il paradigma di governo della città ed assicurare gli interessi strategi che in essa confluivano. In questa prospettiva allora, i blocchi delle strade erano azioni capaci di fermare la macchina da guerra incorporata nella forma-Stato di Buenaventura. Erano il prodotto di soggettività capaci di riterritorializzarsi sotto la pressione di entità nomadi che vivevano invece l’altrove. Mentre il mondo offshore imponeva infrastrutture per la circolazione di Capitale, localmente proliferavano resistenze irriducibili dalle quali si generava uno scontro senza sosta perchè l’esproprio delle terre e degli spazi non si fermava. Nelle sospensioni periodicamente imposte, si ricostruivano così degli spazi vitali per riconoscersi e per portare il “Male del Puerto” in un fuori dei quartieri ricostituendo soggettività politiche al loro interno. Questo campo aperto era segnato da una rinnovata accoglienza del negativo, di tutto quello che veniva mantenuto fuori per non mischiarsi e per proteggersi ma che in quello specifico frangente rappresentava la vita vera, nel senso del coraggio della verità. Ne scriverò forse nel prossimo post.
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lasola · 3 years ago
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[4.1] - Il blocco del Puerto
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Prima di proseguire nelle discussioni che concludevano il post precedente, credo sia utile raccontare gli eventi da cui è nata l’idea di scrivere questo blog i cui contenuti erano parte, per la verità, di una tesi di dottorato che ha seguito un percorso lungo e frastagliato, iniziato 15 anni fa alla London School of Economics e terminato con la sua “cassazione” da parte del Dipartimento di Antropologia Sociale dell’Università di Cambridge. Credendo comunque nella bontà del lavoro svolto e nella qualità del materiale raccolto ho deciso di divulgarlo in altra forma. Per onestà intellettuale, devo però mettere in guardia i possibili lettori sul fatto che non vi è stato un riconoscimento ufficiale ed accademico di queste storie e delle analisi che propongo. Le ragioni sono molteplici e non c’è bisogno di discuterle qui. Questo preambolo è invece necessario perchè le proteste per l’acqua di Buenaventura non furono coperte da nessun organo di stampa. Per lo meno “non fecero notizia” anche se diversi giornalisti erano presenti durante alcune dimostrazioni ed eventi. Quindi esiste materiale video-fotografico ed interviste “archiviati” cui però non ho avuto accesso. I miei personali archivi fotografici di quegli eventi sono andati perduti come già accennavo nel post [3]. Che io sappia l’acqua non ha costituito un tema di primaria importanza nemmeno per gli interventi di ONG o di organizzazioni per i diritti umani della città. L’agenda di quegli anni era dettata soprattutto dai rifugiati e dalla violenza armata. Vennero riprese invece immagini dei blocchi ma le ragioni che li avevano provocati rimasero spesso oscure e molte testate preferirono riportare i commenti di alcuni politici che puntavano il dito sui “soliti banditi” che periodicamente mettevano a ferro e fuoco la Colombia, animati da ansie distruttive e non da recriminazioni politiche. I racconti che seguono non possono quindi che riguardare alcuni punti di vista del Barrio e le modalità con cui entrò in quelle proteste.
Un periodo particolarmente lungo di siccità a ridosso del nuovo anno, tra il dicembre 2010 ed il gennaio 2011, costrinse infatti molti quartieri a razionamenti sempre più lunghi di acqua. Nel Barrio questo significò che le cisterne erano vuote e che in molti avevamo iniziato a lavarci nelle “quebradas” (torrenti) della "Riserva” di solito usate per lavare i panni e solo in alcuni casi per l’igiene personale quotidiana. La siccità è un fenomeno abbastanza inusuale per gli abitanti della regione pacifica colombiana che è una delle zone più piovose al mondo. A renderla ancora più scioccante furono i racconti che arrivavano dalle televisioni e che mostravano immagini opposte della zona atlantica del Paese, intorno al maggiore fiume colombiano, il Rio Magdalena, che più o meno negli stessi giorni era straripato causando inondazioni di enorme portata in diverse aree. Era sorto anche un movimento nazionale di solidarietà per la raccolta fondi per le vittime mentre nel Barrio ci si chiedeva come mai a Buenaventura non piovesse più. Per gli usi quotidiani, soprattutto per cucinare, era disponibile solo una fontana pubblica nel vicino quartiere Mattia Mulumba. Ogni mattina si vedevano molte donne e bambini discendere la strada laterale che portava alla fontana e formare code lunghissime che potevano durare anche qualche ora per riempire una o due taniche di acqua. Alcune di loro, dopo aver atteso lungamente, si trovavano a bocca asciutta perché, senza alcun preavviso, l'acqua smetteva di scorrere.
Nei mesi precedenti avevo seguito da vicino, insieme a Josè, alcuni suoi figli ed altri leader del Barrio, le proteste per l’acqua in città. Come già scritto e come documentammo anche nel 2014, molti quartieri della zona di Bajamar pur essendo allacciati all’acquedotto ricevevano acqua corrente solo per poche ore al giorno. I bisogni di acqua dei terminali logistici assorbivano gran parte della capacità idrica urbana e questa consapevolezza generava non poco malcontento. A questo si aggiungevano razionamenti premeditati delle aree che dovevano essere sgomberate e che rimanevano senz’acqua per periodi molto più lunghi rispetto agli altri quartieri della città. Nel 2014, durante le riprese per Telesur registrammo il caso di un agglomerato di case a ridosso del porto TCBUEN che si incendiarono per via di un corto circuito improvviso. L’incedio si propagò rapidamente anche a causa dell’assenza di acqua in tutto il circondario in quei difficili momenti. Nel biennio del mio lavoro di campo le proteste di fronte al Municipio di Buenaventura ed alla sede della società municipalizzata che gestiva l’acquedotto erano quasi settimanali. In molti casi provenivano direttamente da persone che abitavano nelle zone colpite dai disservizi che non erano legate ad organizzazioni o comitati specifici.Spessoi si trattava di leader locali come i Presidenti delle Giunte di Azione Comunale e dei loro consiglieri di quartiere che erano degli organi decentrati del municipio che servivano proprio a raccogliere lamentale e riportarle agli uffici competenti. Per questo le proteste riguardavano soprattutto gruppettti di persone che si recavano negli ufifci in cerca di spiegazioni che normalmente non convincevano ed anzi generavano urla, spintoni e proteste. A volte si formavano microassembramenti di qualche decina di persone sulle strade in cui si condivideva la rabbia e l’indignazione. La pressione ed il malcontento erano diffusi ma sembravano comunque molto frammentati e disorganizzati.
Nei primi giorni del dicembre 2010 si raggiunse invece un culmine quando furono consegnate le bollette dell’acqua e le ingiunzioni di pagamento di quelle arretrate. Si generò così un rapido passaparola che arrivò fino al Barrio. Quando con Josè arrivammo nella piazzetta antistante gli uffici fummo sorpresi di trovare alcune centinaia di persone che stavano raccogliendo le bollette e le ingiunzioni di pagamento per bruciarle in un grande rogo che diede il via ad un boicotaggio della società dell’acquedotto. Furono queste le prime avvisaglie di una protesta più ampia che stava formandosi a Buenaventura. Nessuno di noi ipotizzò però che dopo poco più di un mese si sarebbe arrivati ad un blocco completo delle strade e di tutta la logistica. Di solito Josè o chi per lui si recava mensilmente in quegli uffici per richiedere l’allacciamento alla rete idrica urbana. I disservizi facevano parte delle condizioni di vita della maggioranza degli abitanti del Barrio. L’assenza di acqua non generava speciali rabbie. Semmai partecipava di sentimenti di abbandono e di deprivazione più generali. Quelle due settimane senza pioggia e l’essere costretti ad ore in fila senza la certezza di ricevere l’acqua alimentarono però un generale senso di sfinitezza. Quando in quegli stessi giorni corse voce che la società municipalizzata si era dichiarata in dissesto finanziario e venne fatta richiesta di terminare il boicotaggio dei pagamenti, nel Barrio in molti iniziarono a parlare dell’ennesima ruberia perpetrata da un’amministrazione corrotta. Come si arrivò da questo malcontento ai blocchi delle strade è difficile però da spiegare. Da un giorno all’altro, ci trovammo circondati da barricate improvvisate con copertoni d'auto, elettrodomestici non funzionanti e rami di alberi tagliati per l'occasione che avevano fermato tutta l'Avenida Bolivar in diversi punti. Non si poteva nè uscire nè entrare in città e solo le ambulanze ed alcune moto avevano il permesso di circolare.
Per diverse ragioni mi trovai a percorrere le barricate. Dovevo espletare alcune questioni burocratiche per la mia affiliazione alla locale Università del Pacifico dove avrei iniziato poco tempo dopo dei corsi di metodo etnografico nel Dipartimento di Sociologia. Uno dei maggiori blocchi si trovava fuori dall’Università e sulla via per arrivarci. Inoltre proprio in quei giorni ricevetti una visita di un gruppo di amici dall’Italia che dovevano stabilirsi per una settimana nel Barrio alla ricerca di atmosfere diverse rispetto a quelle della Colombia turistica. Tutto ciò avvenne proprio durante l’inizio dei blocchi stradali e mi mise nella strana situazione di fingere con i miei ospiti, due dei quali un pò anziani e certamente non avvezzi a certe atmosfere, che tutto fosse sotto controllo mentre la città era nel pieno di una rivolta. Di lì a pochi giorni dovetti organizzare una vettura per riportarli nella vicina Cali. La necessità di trovare un modo di andare via oltre quella di passare attraverso diverse barricate per arrivare all’università mi diede la possibilità però di relazionarmi direttamente alla logistica del blocco. Scoprii così che ad ogni barricata della comuna c’erano i muchachos dei diversi quartieri che per l’occasione avevano deposto le locali inimicizie e se la passavano giocando a domino, a dama o a dadi, oppure a fumare una sigaretta per far passare il tempo o a mangiare un sancocho de pollo (stufato di pollo) cucinato per l’occasione da qualcuno. Nel Barrio solo due motorattones avevano il permesso di circolare e facevano la spola continua tra le strade del quartiere e l’Avenida Bolivar. Uno di loro, “Hector”, mi prese sotto la sua ala e mi accompagnò per tre giorni nei luoghi dove dovevo andare per svolgere le commissioni ed avere un’idea generale di quanto accadeva.
L’apparente calma che si viveva nel Barrio, nella quasi assenza di rumori dalle strade e le visite praticamente azzerate nella casa di Josè era in chiaro contrasto con l’eccitazione delle barricate. Visi sorridenti, adrenalina, cibo, birre e Viche animavano una conviviliatà per me completamente nuova perchè uscita dai luoghi noti e sicuri delle case o dei bar della esquina e si era propogata lungo le frontiere in spazi improvvisati della calle. Con semplicità disarmante Josè descriveva quei momenti come “la lucha del pueblo” (la lotta del popolo) e continuava “No hay que agachar la cabeza” (non dobbiamo abbassare la testa). Nel Barrio lo chiamavano un “Poeta Naturale”. Non sapeva scrivere ma cantava in decime e quando accusava i suoi nemici politici usava le rime. Faceva parte del suo carisma, del suo bagaglio energetico che lo manteneva un “Qualcuno” nel Barrio nonostante le difficoltà cui era costretto. Durante i giorni del blocco camminò in lungo e in largo per la comuna ad invocare la lucha del pueblo. Le sue azioni erano radicate nella convinzione che i cambiamenti che contavano erano quelli che arrivavano direttamente dai quartieri e non quelli che si determinavano dentro incontri sproporzionati che imponevano ricollocamenti di massa e che stavano sottraendo alla cittadinanza un servizio vitale come l’accesso all’acqua.
Fra i tanti effetti provocati, Il blocco fece emergere un paradosso. Mentre costringeva la città a fermarsi, aveva ridotto le paure di muoversi. Ciò avvenne per la semplice sostituzione delle “frontiere invisibili” con delle barricate fisiche dove c’erano persone avvicinabili, non armate ed anzi alle prese con attività comuni, in semplice attesa. Certi confini quotidiani scomparvero mentre la gente trovava il coraggio di protestare contro un nemico che non aveva solo il solito volto del "Gobierno" o de “los malos". Incontri improvvisi intorno alle barricate sulla calle avvenivono sia di giorno sia di notte, quando normalmente quasi tutti nella comuna preferivano stare in casa o al chiuso dentro un bar. Si creò così un campo aperto da cui si aspirava a fermare il divenire “straniero" del Puerto. Si  fermò di fatto e per un attimo un processo che pareva inarrestabile e che stava espropriando pezzi sempre più grandi della città per le necessità economiche di un altrove che impoverivano gli abitanti dei quartieri. Il “Paro” riconquistò la città dentro un interregno che non era limitato ad una singola strada o ad un quartiere ma si estendeva su dimensioni inusitate e riguardava in profondità la natura dei sistemi politici locali che ho cercato di descivere fin qui e i modi in cui nella protesta gli abitanti risignificavano le classi pericolose o i soggetti da marginalizzare.
Gli studi di sociologia urbana di Elijah Anderson (2000:35-65) citati in precedenza sono uno strumento prezioso per impostare una griglia interpretativa di queste dinamiche. Caratterizzano le comunità afro-americane in base alle divisioni tra persone decenti (decent) e quelle della strada (street). Di solito i secondi hanno azioni giudiziarie pendenti e una lunga storia di fermi ed incarcerazioni oltre che una vita segnata da lavori di frontiera. Questa caratterizzazione guiridico-legale definisce ulteriori suddivisioni e demarcazioni in base alla fedina penale tra persone pulite (clean) o sporche (dirty) o rispetto alla reputazione che ne deriva tra pericolose (dangerous) o tranquille (chilled). Ne risultano così delle potenti tipificazioni sociali che orientano svariati aspetti della vita di quartiere oltre che, in senso più ampio, dei percorsi di socializzazione o marginalizzazione delle diverse "tribù” urbane. Questo insieme di distinzioni e le modalità con cui esse vengono incorporate a livello discorsivo e disciplinare da istituzioni dello Stato rappresenta un elemento centrale degli studi di Foucault (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7). Dalla storia dei sistemi penitenziari e penali alle ricerche sulla clinica ed i manicomi, il filosofo francese osservò le dinamiche di potere attraverso la creazione di anormalità o di degenerazione rispetto a quanto via via si affermava come “virtuoso” o “giusto” o “utile” o “sano”. Nei suoi seminari del 1976 (1) appare fare un passo in più fino a rintracciare nella “funzione del razzismo” una strategia più complessiva che permette a dispositivi di biopotere, il cui scopo non è più decidere sulla vita e sulla morte dei cittadini ma “far vivere” e “lasciar morire”, di utilizzare la forza della morte in forma positiva. La domanda che conclude quelle lezioni ed apre i suoi anni di studi successivi è proprio questa: “In un sistema politico incentrato sul biopotere, in che modo è possibile esercitare [...] la funzione della morte” (p.220), cioè il lasciar morire? Per rispondere Foucault spiega che il razzismo ha una prima funzione essenziale che è quella di stabilire una cesura nel continuum biologico della specie creando una separazione tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire. Stabilisce però anche una relazione positiva con ciò che deve morire. Per farlo ripropone una “relazione guerriera” del tipo “se vuoi vivere occorre che l’altro muoia”. Tuttavia questa relazione non assume una dimensione militare ma biologica ed evolutiva per cui “più le specie inferiori tenderanno a scomparire, più gli individui anormali saranno eliminati, meno degenerati rispetto alla specie ci saranno”. In questo modo il nemico cambia forma e da relazione politica o militare o da avversario diventa un “pericolo per la popolazione”, in cui la popolazione è da intendersi come un concetto demografico e non più sociologico. In questo senso la razza ed il razzismo sono la condizione di accettabilità della messa a morte del pericolo (220-227).
L’identificazione della malavida o della locura con il pericoloso sono esattamente il punto di unione tra i racconti etnografici fatti nella sezione 3 del blog e questi approcci teorici. Metterli assieme mi permette quindi di scorgere una modalità del razzismo che entra fin dentro gli stili di vita, definendo un campo “di scelte sbagliate” da cui deriva un “destino” avverso che sancisce l’accettabilità di un “lasciar morire”. Uno degli intrecci che ha cercato di dare coerenza ai post di questo blog è stato proprio il tentativo di spiegare il passaggio da geografie del terrore, come le definì Ulrich Oslender [1], da zone rosse o frontiere caratterizzate dall’assenza dello Stato come le ha interpretate Margarita Serje [1] o da località dove è meglio non andare se non accompagnati (si veda il post [3]), ad un’identificazione comunque ambigua e non definitiva del male in un gruppo di persone (los malos). A rafforzare i processi di stigmatizzazione, si inserisce un dispositivo dell’altrove come “la guerra alle droghe” che seguendo quelle modalità specifiche cittadine descritte nei post [2.2], [2.3] e [2*], produce macrocategorie caotiche che spiegano in maniera superficiale eventi complessi. Nelle ricostruzioni di cronaca nera locale vi è ad esempio un ricorso continuo ad enunciati formali come i cosiddetti “scontri tra gang” o “gli aggiustamenti di conti”o ancora “guerre tra narcos” spesso presi a prestito da fonti poliziesche, che non sono molto descrittive degli eventi dal punto di vista dei quartieri. In maniera analoga, come scritto più volte, il nominare un gruppo con un nome specifico costituisce sempre un’operazione parziale che difficilmente rappresenta dinamiche locali. Tutte queste operazioni iscrivono però certe storie in un immaginario più complessivo che spinge ed aiuta a materializzare il male in specifiche modalità di vita, segnate da malavida e da locura, appunto, e la cui messa a morte deve essere stabilita quasi automaticamente per permettere il “far vivere” degli altri.
Esiste una variegata letteratura storiografica che analizza questi temi con maggiori livelli di dettaglio purtroppo però non specifica della Colombia. Alcuni studi sul sud Italia, in particolare, mi sono stati di grande aiuto per comprendere l’intrecciarsi tra dinamiche di controllo e quelle di produzione di pericolo e come da qui si sviluppino criminologie del quotidiano. Benigno (2015) in La Malasetta, ricostruisce, attraverso accurate indagini di archivio, i diversi dispositivi che si mettono in moto nella costruzione delle cosiddette classi pericolose e che portarono a una sistematizzazione delle definizioni di Camorra e Cosa Nostra negli atti giudiziari e governativi del XIX secolo di Napoli e Palermo. In alcuni passaggi del suo testo mostra con estrema chiarezza come diverse operazioni di polizia, già praticate nella Parigi post-rivoluzionaria e che includevano delatori, infiltrati e sicari assoldati per omicidi selettivi, concorsero alla costruzione dell'idea di “mafioso” o di “camorrista” non solo tra gli organi istituzionali che cercavano di delimitare un certo fenomeno “anti-stato” ma tra gli stessi aderenti alle due organizzazioni. In alcuni casi furono quasi spinti ad aumentare la segretezza dei loro incontri e la ritualità di accesso dei membri alla “malasetta” per ridurre questa capacità di penetrazione da parte di agenti esterni. Seguendo una prospettiva diversa, Barbagallo (2010) documenta come, a Napoli, organi di sorveglianza dell'epoca coloniale borbonica avessero costruito degli spazi di conflitto con la camorra non tanto per la sua eradicazione ma per competere per la gestione di gioco d'azzardo, prostituzione e contrabbando nelle zone del porto. Inoltre, sia Barbagallo sia Lupo (2004), seppur in modi diversi, descrivono come, in diverse fasi di transizione politica, a Napoli come a Palermo mafiosi e camorristi ebbero ruoli ufficialmente riconosciuti per la gestione dell'ordine pubblico. In maniera opposta Lupo dimostra anche con dovizia di dettagli come a Palermo molte proteste per l’aumento di prezzi o di tasse fossero descritte come “inflitrate” da esponenti della Mafia locale. In questo modo si mettevano in moto percorsi di stigmatizzazione istituzionale della protesta che permettevano maggiori finanziamenti per la repressione. In una continua oscillazione di prospettive, in alcuni carteggi tra magistrati vi sono invece manifestazioni di apprezzamento per mafiosi locali capaci di mantenere l’ordine pubblico seguendo modalità “socio-culturali” ancora sconsciute agli organi di polizia del neonato Stato italiano.
Su tutte queste dinamiche “in divenire” agiscono quei dispositivi di potere descritti nelle opere di Foucault. In particolare è qui utile notare come il passaggio dalla pena pubblica, il supplizio, la gogna e smili agli internamenti ed al nascondere in un fuori del sociale malavida e locura, concorrano a produrre quegli immaginari sulle “scelte di vita sbagliate” che devono essere “eliminate” per il far vivere degli altri. Tuttavia, nel caso colombiano ed in particolare di Buenaventura, si assiste ad un’ibridazione dei meccanismi della punizione. Vi è infatti un ritorno al supplizio ma non nel momento in cui la giustizia si fa pena agendo in pubblico sul corpo del condannato. La guerra alle droghe mantiene la pena privata. Come visto si può essere partecipi del “far urlare” del torturatore o degli spari che si ascoltano di notte se non proprio di una sparatoria o di un pestaggio sulla calle. Ma ciò cui si viene messi di fronte ripetutamente sono i corpi martoriati ed in decomposizione; il risultato mediato di uno scontro avvenuto “privatamente” per “una guerra tra narcos” o per “regolamenti di conti”. Vi è quindi un ritorno dello spettacolo della violenza perchè le pratiche di internamento sono giudicate insufficienti o perchè le regole della calle vengono prima di quelle dei tribunali. Tuttavia, l’orrore che si mostra afferma anche un pericolo assoluto, indubitabile che afferma la certezza di una pena che lo Stato ha grande cura a separare dal suo progetto eterno. L'orrore si iscrive per questa ragione nel destino e nelle “scelte di vita sbagliate” de “los malos”. E’ in queste dinamiche che scorgo “la funzione del razzismo”, cioè la progressiva affermazione di un nemico biologico che non è un virus ma un male che penetra attraverso la malavida e la locura aprendo un mondo di pericolo assoluto identificabile con precisione in certe persone.
Tuttavia, la vita supera sempre concezioni ed immaginari troppo normativi. Nei territori dove agisce “la guerra alle droghe”  si mettono in moto dei meccanismi di controllo e di accumulazione schizofrenici dove la proibizione decretata si intreccia con dinamiche di potere e di pragmatismo economico. In quella zona grigia descritta nei post [2.2] e [2.3], si genera la necessità di spendere interi segmenti della popolazione in funzione di una produzione proibita che non può fermarsi. Se da una parte si delineano combos che in base alle loro relazioni nomadiche con gli apparati dello Stato diventano pandillas, simmetricamente vi sono strutture di emanazione statale, in teoria preposte al controllo ed all'eradicazione delle produzioni clandestine, che si muovono a specchio, anche loro nomadiche, fluttuanti, nascoste, capaci di entrare ed uscire dall'istituzionalità dello Stato in base ad una pragmatica del potere che si definisce quasi quotidianamente. L’apparente contrapposizione si articola dentro la simultanea necessità di produrre e distruggere. In questo modo tutti gli attori coinvolti partecipano tanto dello Stato (o della sua forma eterna), quanto del suo contrario che ho più volte chiamato Clan o forma-clan (si veda il post [3.2]). Il corpo sociale si trova così continuamente trapassato da flussi di sostanze, persone ed entità che convergono in spazi rappresentabili solo dentro generali nozioni di ''Segreto'', in cui intere ''narrazioni sociali'' vengono nascoste o cancellate. Nel “Segreto” coesistono sia la guerra per la proibizione di certe sostanze, sia il consumo di quelle sostanze, sia il reinvestimento dei proventi che ne derivano, sia le narrazioni necessarie per mantenere la legittimità di poteri burocratico-governativi incapaci di imporre una legge. Si sviluppa quindi un'economia complessiva, essenzialmente bellica, che riguarda molteplici settori produttivi e raccoglie una moltitudine di attori e reti.
Questa contraddizione sistemica si svela e si riproduce nei quartieri, all'interno di subregioni sociali costruite a loro volta nella coesistenza di forze opposte dove il “segreto” viene interiorizzato e codificato dentro regole del silenzio come quelle descritte nel post [3.1] ed intorno a cui si articolano complicità e legami degli abitanti con “los malos”. Nei post precedenti ho descritto i processi di divenire-”un certo gruppo” all’interno delle strutture di sapere-potere prodotte dalle frontiere. Gli abitanti vivono cioè in uno spazio politico sospeso che li costringe periodicamente a cambiare alleanze e reti per risolvere problemi di sopravvivenza quotidiani cercando di limitare i costi emotivi di certe decisioni. Sono immersi in mille piani di significazione che costringono tutti ad abitare uno spazio di indicibilità reso però vitale da concetti della saggezza locale come il jugar vivos descritto nel post [3.2], o da prediche come quelle dell’anziano (si veda il post [1 di 3]) secondo il quale senza aver cura del modo di parlare non si può aver cura del proprio cuore.
In una cultura prevalentemente orale come quella afro-colombiana parlare di regole del silenzio può sembrare abbastanza strano se non addirittura fuorviante dell'esperienza di lavoro di campo. Il rumore, il vociare, la musiche insieme ai tanti canta storie della strada sembrano connotare le atmosfere locali meglio del silenzio. Eppure rintracciare un codice degli enunciati che si possono dire e quelli invece che rimangono nascosti appare necessario per comprendere un'ampia gamma di dinamiche sociali. Come avevano già notato nei loro studi sulla Grecia antica la Loraux (1997) e la Montiglio (2000), in un mondo in cui la parola si erge a principio organizzatore, il silenzio rappresenta una minaccia di interruzione del flusso vitale. Appartiene al mondo delle punizioni, di quando si viene mandati in esilio o in isolamento e si perde la capacità di entrare in relazione dialogica con gli altri cittadini. Ma ha anche una funzione rituale di purificazione (2000:292) in cui non è più semplice assenza di parole ma uno stato o un modo di comportarsi che implica un atto specifico, un "fare" il silenzio (2000:289). Ai suoi codici appartiene però anche la parola detta a bassa voce che sussurra un segreto all'orecchio di qualcuno rompendo l'assenza per aprire un mondo di cospirazioni fatto di una conoscenza che trasforma il non detto in un sapere disponibile solo a poche persone. Qui si origina un potere, quel monopolio, che alimenta circuiti paranoici e che stava al cuore della speranza di Rudi di "saberlo todo" (si veda ancora il post [3.2]). Così nel Barrio piuttosto che ritrovare una divisione tra persone decentes e callejeras come nei ghetti afroamericani descritti da Elijah Anderson, si incontravano persone che organizzavano la loro routine quotidiana per evitare l'incontro con il segreto ed essere liberi in questo modo dall’atto di dover fare silenzio. Dall’altro lato vi erano invece quelli che lo abitavano con la loro vita, vera e cinica, “los malos”, cioè i personaggi di frontiera. 
Durante i giorni di blocco delle strade gli abitanti del Barrio assistettero timidamente a quanto accadeva sulle strade, a pochi minuti di cammino dalle loro case. Non se ne discuteva mai per la strada e in qualche modo tutto seguiva i suoi ritmi di sempre anche se si era certamente in attesa di qualcosa; di notizie, di storie, di risultati o chissà cos’altro. Le partite di domino non cessarono così come il bingo pomeridiano. Le tienditas continuavano ad essere aperte e i bambini che non dovevano andare a scuola ne approfittavano per lunghe avventure tra le quebradas. Alcune signore però la mattina cucinavano un pò più di riso del solito o mandavano un figlio a comprare qualche pane in più. Altri si indaffaravano a cercare piante commestibili nella Riserva mentre nei progetti produttivi dove lavoravamo le uova stranamente scarseggiavano e qualche gallina iniziò a mancare rovinando i perfetti conti della nostra contadora (contabile). “Se la llevò la Tunda” (se l’è portata via la Tunda) mi diceva “Hector”. La Tunda era una fata maligna della selva del pacifico colombiano che di solito ammaliava con la sua bellezza il cacciatore che iniziava a seguirla fino a perdersi e non riuscire più a tornare al campo. Le sue storie mettevano in guardia chiunque si avventurasse nel “monte” a prestare il giusto rispetto e la giusta attenzione ai segni dei cammini già solcati. Nelle notti di ubriachezza si evocava la Tunda per descrivere qualche bevitore ormai perduto nei suoi sogni. In quei giorni, invece, si portava via le galline. Dentro queste pratiche nel blocco si riaffermò una relazione altrimenti da censurare tra segreto e coraggio della verità, tra gli abitanti comuni e los malos. Lontani dal business della parola, da una libertà di dire permessa da logiche economiche e geopolitiche,  emerse un interregno che assunse le sembianze di “uno <<Stato ombra>> che esiste solo in una forma mistica, come spiriti che possiedono un medium” e in cui emersero “re che regnano ma non comandano” (Bloch 2013:34), slegati in forma definitiva dalla sovranità normalmente associata alla loro funzione. Partirò da qui per descrivere nel prossimo post questi “Stati altri” assorbiti dai continui processi di colonizzazione ma che paiono non morire mai, anzi riemergono in continuazione.
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lasola · 3 years ago
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[4] - Il Blocco del Puerto
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I racconti etnografici nella tradizione antropologica anglofona sui repertori e le pratiche di resistenza dei soggetti coloniali sono svariati. Un articolo dei primi anni novanta di Lila Abu-Lughod (1) è considerato lo spartiacque degli studi sulle resistenze nell’antropologia sociale britannica. Le ribellioni contadine ed operaie degli anni sessanta e settanta contro regimi autoritari furono descritte in lavori etnografici come quelli di James Scott (1, 2, 3) in cui si evidenziavano dettagliate micro strategie quotidiane di opposizione e protesta contro processi di sviluppo e di cosiddetta “civilizzazione” su vasta scala. Approcci come quello della Abu-Lughod (1) invece descrivono la resistenza nella sua relazione di interiorità con il potere, a partire dagli studi sulla sessualità di Michelle Foucault (1). L’antropologa di origini palestinesi racconta come l’umorismo e le prese in giro del macismo, le pratiche di ribellione ai matrimoni combinati o la declamazione di poemi per riscoprire empaticamente libertà apparentemente precluse costruiscano una vasta area di spazi di quotidiana ribellione nei quali soggetti dominati come le donne Beduine creano sfere di socialità in cui proteggono la loro capacità di critica del potere. Parte di quello che ho scritto fin qui rientra in questo tipo di descrizioni etnografiche dove la resistenza assume forme quotidiane che permettono di andare contro dinamiche di controllo, dominazione e violenza strutturali. Dalle riunioni a bere viche “curato”, a quelle delle fumerie, fino alle partite di calcio organizzate in zone pericolose del quartiere (nella foto di sopra) ho cercato di mostrare i “verbali segreti”, come li ha definiti James Scott (1) della storia ufficiale, catturata tra le leggende narcotiche e le trame dello sviluppo logistico di Buenaventura. Ho però anche mostrato come vi fossero tutta un’altra vasta gamma di pratiche, che ho definito di frontiera, e che si riferiscono all’aministrazione della vita ed al “far vivere” quotidiano, come il collegamento illegale alla rete elettrica o gli escamotage per ottenere medicinali sussidiati che portano certi sentimenti e necessità all’interno di uno scontro o per altri versi all’alleanza con le autorità legittime o legittimate. In questi spazi di indefinizione, ho cercato di descrivere il resistere dentro un campo generato dall’incontro tra la locura e la mala vida dove si confondono sistematicamente i piani etici rendendo di fatto inutile stabilire se vi sia un giusto o uno sbagliato. Quello che mi parve riscontrare a Buenaventura fu una soluzione epistemologica radicata nella calle, cioè in una localizzazione del sapere-potere essenzialmente nomade e dipendente dalla necessità di risolvere problemi contingenti.
Quello che vorrei provare a fare ora è seguire un altro approccio e raccontare azioni collettive su più vasta scala. A questo proposito, il lavoro di David Graeber (1) propone un cammino inverso a quello della Abu-Lughod ed un ritorno a certe descrizioni delle proteste organizzate e della resistenza come impresa collettiva. Le sue descrizioni dei movimenti sociali riposizionano l’etnografo dentro l’organizzazione e la partecipazione di contro-eventi che nascono in risposta ad un’agenda internazionale degli organi mondiali di governo in cui vengono proposte politiche economiche centrate sulle logiche della “liberazione del Capitale” che ho definito nel post [1]. Osserva quindi “azioni dirette” che hanno precise finalità di sovvertire pensieri e pratiche dominanti dell’economia e del governo dei popoli. Un filo conduttore degli anni che ho trascorso in Colombia è stato la mia partecipazione, da osservatore ed invitato e, in alcune occasioni di minor importanza, da organizzatore, a fori politici, marce ed azioni più improvvise come appunto i blocchi delle strade.  Vorrei rivedere questo materiale di esperienze cui mi fu data la possibilità di assistere per fornire un contesto delle politiche della ribellione di un paese come la Colombia con lo scopo di raccontare “il blocco del Puerto” dall’interno di certe forme di intendere la protesta. Lo faccio anche perchè parte del mio lavoro etnografico per come fu concertato localmente riguardò un tentativo di racconto di queste dinamiche. Preciso però che questo non mi pone in una posizione privilegiata e non mi dà alcuna autorevolezza particolare per dire “la mia” su processi molto più complessi e spesso estremamente delicati che riguardano difficoltose azioni collettive per la rimemorazione e\o la richiesta di giustizia. Cercherò allora di posizionare le mie partecipazioni ed il mo impegno per dare un’idea della sua natura comunque parziale. Per farlo non posso che partire da uno degli eventi che più hanno segnato il mio cammino in Colombia.
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Nel luglio 2009 partecipai ad una carovana organizzata dal MOVICE (il Movimento Nazionale delle Vittime di Crimini di Stato) che da Bogotà arrivò a San Josè del Guaviare e di lì, dopo una marcia cittadina e una notte a dormire in un palazzetto dello sport, con tre chiatte, risalimmo il fiume Guaviare fino a Mapiripan per denunciare e ricordare una delle maggiori ed all’epoca ancora impuni stragi paramilitari (per maggiori dettagli si veda il libro di Guido Piccoli, in particolare il capitolo “La Legge della motosega”). L’importanza dell’evento nella mia personale relazione con la Colombia riguardò molti piani di comprensione del paese ma ebbe immediatamente un forte impatto emotivo che mi spinse a ragionare a lungo sulla natura delle azioni di rimemorazione. L’evento era centrato sulla capacità di un gruppo abbastanza esteso di persone (circa 500) di creare legami empatici tra loro attraverso un comune viaggio solidale per ricordare eventi drammatici. Grazie alle atmosfere che si produssero negli accampamenti, sui bus o sulle chiatte, si aprirono degli spazi di comprensione che permisero alle vittime della strage di ritornare per la prima volta sui luoghi delle violenze e testimoniarle una volta di più, questa volta però camminando e rimemorandole sul posto e non in aule di tribunale o in uffici di Bogotà. Le operazioni che permisero la creazione di questo spazio protetto non riguardarono solo le relazioni interne del gruppo ma anche le autorità nazionali che non vedevano di buon occhio queste produzioni civili. Inoltre occorse impostare dei percorsi di accettazione che riguardarono gli abitanti di Mapiripan, tra persone che rimasero lì dopo i fatti e chi vi si insediò successivamente alla strage. Per alcuni giorni tutta la cittadinanza, inclusi i militari di stanza nella locale base, si trovarono ad essere “invasi”, volenti o nolenti, da una carovana pacifica di clown ed artisti di strada, leader popolari e di tante altre persone comuni che avevano anche l’obiettivo di metterli di fronte ad un passato conteso che molti di loro preferivano rimuovere, anche nel senso descritto nel post precedente, cioè di un un divenire-altro cui la vita li obbligava. Nel caso di Mapiripan, dopo la nostra azione diretta, l’unica famiglia che si offrì volontaria per cucinare cibo e prestare alcuni servizi di logistica fu poi espulsa dal villaggio e dovette rifugiarsi a sua volta a Bogotà. Inoltre tutti gli organizzatori dell’evento ricevettero minacce di morte credibili che li obbligarono in alcuni casi a lasciare il paese per qualche tempo. Rimemorare in Colombia era quindi un’azione che presentava svariate complessità.
Dopo Mapiripan partecipai ad una lunga serie di incontri, marce concerti e fori politici a Bogotà, Medellin, Cali, Quibdò, Armenia, Barrancabermeja e Buenaventura ai quali erano presenti molte organizzazioni internazionali, nazionali, regionali e/o cittadine. Cercai di intendere ognuno di questi incontri a partire da quella comprensione cui mi aveva introdotto la carovana di Mapiripan. Vi scorsi così ogni volta una funzione primaria che era proprio quella di ricucire emotivamente una lunga serie di traumi che non avevano altri spazi di condivisione oltre quelli che venivano creati in quei contesti. Compresi in questo modo che resistenza significava innanzi tutto prendere coscienza di non essere colpevoli delle violenze che si erano subite o a cui si era assistito e che questo percorso non poteva che essere condiviso. A partire da questa consapevolezza si mettevano in moto dinamiche con cui si recuperavano quasi letteralmente le forze incontrando persone che raccontavano storie di oppressione e di privazione simili a quelle che si vivevano quotidianamente e mostrando logiche belliche più complessive che andavano oltre le storie di quartiere. Si generava così una protezione ed una comprensione di gruppo che permetteva poi di organizzare pensieri condivisi sulle ragioni della povertà e edlla diseguaglianza da cui si alimentavano azioni come quella di Mapiripan. I fori, gli incontri eccetera erano sempre forme di organizzazione partecipata di azioni dirette che aspiravano a puntare il dito sul “marciume” che bisognava riportare a galla. Nei difficoltosi percorsi di normalizzazione della violenza di un paese come la Colombia, come visto, la morte appariva troppo spesso un fatto ripetitivo che nasceva soprattuto per via di un “destino” e di “scelte sbagliate” personali. Questo modo di intendere la guerra civile riduceva ogni cammino di resistenza contro le diseguaglianza strutturali a pure e semplici velleità “comuniste” o “guerrigliere”. Quando non venivano criminalizzate di solito erano tacciate come la ragione dei problemi di sviluppo e di progresso del Paese. Ognuno di quegli incontri rovesciava queste visioni del mondo.
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Durante gli ultimi due mesi del mio lavoro di campo nel 2011, l’instabilità del Barrio nell’epoca del “passaggio”, costrinse anche me ad allontanarmi da Buenaventura. La decisione fu dovuta ad un generale aumento della tensione percepita che iniziò a diventare personalmente insostenibile. Gli incontri della vita mi portarono però a partecipare all’organizzazione di una marcia di commemorazione per i 20 anni di un’altra strage paramilitare nella hacienda El Nilo, nel distretto del Cauca, insieme ad un gruppo di indigeni Nasa e Paece, Los Nietos de Manuel Quintin Lame. In questo caso le azioni di rimemorazione si ripetevano ogni anno e non vi era nulla di particolarmente delicato in quell’evento fatta eccezione per le dinamiche interne alle autorità indigene dei territori in questione. All’epoca, Los Nietos, tra i quali c’erano alcuni fondatori dissidenti del CRIC, erano in opposizione “cordiale” con i vertici delle autorità indigene del territorio, il CRIC appunto. La natura dei contrasti riguardava quasi unicamente le forme della protesta, non le ragioni che le motivavano. Los Nietos occupavano terre illegalmente poichè il Governo non le restituiva. Il CRIC era invece impegnato in più complesse tattiche politiche che spesso risultavano di difficile comprensione per la base. Giocando su questa contesa, all’interno degli eventi commemorativi organizzammo un’azione che chiamammo “Ocupa la Memoria” (occupa la memoria) sui social network che generò alcune ansie, soprattutto localmente. Le terre della Hacienda El Nilo erano ancora di propietà di una società di prestanomi che se ne era appropriata dopo la “vendita forzosa” avvenuta dopo l’uccisione dei 20 indigeni capi famiglia che vivevano lì. Il gioco di parole “ocupa la memoria” aveva generato preoccupazioni poichè si temeva che l’occupazione potesse essere una “via de hecho”, cioè reale, vista la storia de Los Nietos. Un’azione giudiziaria aveva infatti dato ragione agli indigeni ed intimato il governo a restituire le terre ma non era accaduto ancora nulla in quel senso. Ed era passato già molto tempo. La nostra intenzione, evidentemente provocatoria, giocava linguisticamente sulla necessità di ricordare, occupando memorie impegnate in tutt’altro. Tra le micro azioni che registrammo vi furono comizi improvvisi di qualche minuto sugli affollatissimi bus “Transmilenio” di Bogotà, fatti da due o più persone che raccontavano una fantomatica storia sull’occupazione della Hacienda el Nilo ad alta voce; un’occupazione che chiaramente non avvenne e non era in programma. Sta di fatto, che questo evento ci causò non pochi problemi e stigmatizzazioni di vario tipo, tra cui una diretta accusa di essere integranti delle FARC per cui dovemmo rispondere alle autorità locali indigene del municipio in cui vivevamo all’epoca, la cittadina di Caldono, sempre nel Cauca. Alcuni giorni prima della marcia, prevista il 16 dicembre del 2011, fui poi convocato personalmente dalla “Comandancia” del CRIC che mi ribadì la loro disapprovazione per il nostro evento “parallelo”, pur riconoscendo il fascino dell’azione mediatica che aveva sortito effetti a Bogotà che però dai villaggi noi non riuscivamo a cogliere pienamente. Terminarono dandoci il permesso di seguire la nostra rimemorazione insieme ad alcuni sopravvissuti alla strage nonchè alla pro-pro-pro nipote di Manuel Quintin Lame che da Cali aveva deciso di unirsi alla nostra camminata da Santander de Quilichao fino alla Hacienda el Nilo; un modo diverso per ricordare il trisavolo, così famoso tra le montagne del Cauca.
Non toccai più cime adrenaliche ed organizzative come quelle di quei giorni e di quell’anno. Nel 2013 e 2014, attraverso l’ICANH, mi trovai soprattutto a lavorare insieme alla Secreteria de Asuntos Etnicos del Municipio di Bogotà che allora era governata da Gustavo Petro, primo sindaco ex guerrigliero (M19) della capitale del Paese. Mi impelagai quindi in questioni burocratiche che per una ragione o per l’altra si conclusero sempre con il “fallimento” di ogni progetto che avevamo iniziato, nonostante l’approvazione dei beneficiari, una “progettualità convincente” e la disponibilità di fondi pubblici. In quei giorni mi resi conto di aver iniziato un personale cammino nella “mala suerte”, cioè in una configurazione cosmologica del male che toccava più o meno tutti quelli che si indaffaravano nelle politiche progressiste in Colombia e che di lì a poco avrebbe fatto decadere il sindaco della città a causa delle sue politiche sulla gestione dei rifiuti urbani. Senza dilungarmi troppo con ulteriori esempi, è da questa prospettiva che vorrei provare a mettere assieme un pensiero sull’azione collettiva in Colombia per proporre un’interpretazione del blocco del Puerto.
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Per farlo, occorre ritornare prima di tutto ai temi del primo post del blog ed al post [1]. In sintesi, ho cercato di definire sistemi politici oltre la nozione di sovranità e di percorsi identitari. Per farlo ho mostrato una realtà quotidiana in divenire tra opposti mai propriamente tali come amico-nemico, esterno-interno o adentro-afuera che descrivono relazioni di inimicismo che si adattano alle condizioni del conflitto. Simmetricamente, ho raccontato anche l’esistenza di molti spazi per così dire di “liberazione”, definiti “interrregni”, capaci di sovvertire quelle forze che decentrano le soggettività del Barrio rispetto ad un altrove altrimenti più potente dei percorsi locali di soggettivazione. Rimane aperta la questione di come, partendo da qui, possano articolarsi azioni collettive su più ampia scala contro una violenza strutturale e non confinabile “alle scelte di vita dell’individuo”. In particolare, per raccontare il blocco del Puerto, ho bisogno di snodare alcune dinamiche, prime tra tutte quelle reazioni che producono le solidificazioni degli interregni dentro ordini non completi ma facilmente identificabili attraverso istituzioni ambigue come il “Capo” o la “banda”. Come visto queste nozioni riempiono l’immaginario chiudendo o direzionando le opzioni di resistenza disponibili. Tuttavia, accanto a queste solidificazioni, esistono anche un insieme di forze opposte che apparentemente ne limitano la crescita sostituendo, con una certa costanza, la leadership o modicandone i vincoli di appartenenza. Nel post precedente ho mostrato però anche come il cambiare da un epoca all’altra di fatto lasci gli abitanti dentro una non identità, un divenire-"un certo gruppo” che lascia immutate le condizioni che generano la violenza strutturale. Nella lunga storia delle ribellioni della Colombia è certamente possibile ritrovare una vasta gamma di pratiche e di repertori di azioni collettive che rispondono alla necessità di andare oltre la sostituzione di una banda con un’altra o di un capo con un altro.
Al proposito esiste una vasta letteratura sui movimenti sociali afrocolombiani che analizza e descrive le forme assunte da queste azioni collettive nella regione pacifica della Colombia. Una rassegna che dia spazio a tutto il materiale disponibile non rientra nello scopo di questo post (1, 2, 3, 4, 5, 6). Per ora mi basta inquadrare le questioni più generali citando un sociologo italiano, Alberto Melucci (1), che considera i movimenti sociali una critica fondamentale che muove dall’interno di sistemi complessi quali sono le società moderne. La densità informativa insieme alle scale raggiunte da alcune dinamiche di dominazione richiedono infatti l’organizzazione di proteste non più confinabili ai singoli territori e che coinvolgono una molteplicità di attori. Esistono tuttavia alcune importanti criticità che riguardano come queste macrovisioni del mondo e quindi della protesta riescano ad essere rappresentative di quella microfisica del potere che ho cercato di descrivere in queste pagine. Il blocco del Puerto infatti si determinò per ragioni locali, legate all’accesso all’acqua, e dipese da una congiuntura di eventi specifici che generò la rivolta. Tuttavia l’azione che ne derivò, il blocco delle strade, ebbe un impatto nazionale per via della vitale funzione logistica della città rispetto all’economia del Paese. La ricomposizione della protesta ed i dispositivi di controllo che si misero in moto presentano quindi delle specificità proprie non necessariamente riconducibili alle più generali lotte del movimento afro-colombiano come quelle legate al riconoscimento della proprietà collettiva delle terre dentro la Ley 70 o i diversi percorsi identitari e culturali che aspirano a riaffermare la “cultura afro” in una società razzializzata come quella colombiana. Vi sono poi dinamiche interne al movimento stesso che a Buenaventura appaiono collidere tra spinte autonomiste radicali che moltiplicano le identità immaginate, i nuovi nazionalismi e le spinte regionali, e forze universalizzanti che aspirano invece a risolvere le diseguaglianze materiali attraverso il riconoscimento di diritti universali e della “rule of law” ipotizzando che la lettera della legge di per sè sia sufficiente per generare cambiamenti anche nei quartieri. In quella che ho definito la guerra civile del Puerto sono evidenti tutti questi piani di analisi e processi tanto nelle politiche del controllo quanto in quelle della protesta. Quelllo che ora più mi interessa non è tentare una sintesi delle diverse questioni aperte ma cercare di comprendere come l’organizzarsi locale si leghi a queste questioni rimanendo comunque un processo distinguibile e peculiare.
Per tentare di fare un passo in più verso la comprensione di queste dinamiche trovo utile ancora una volta ritornare agli studi di Foucault, in particolare alla lezione conclusiva dei suoi seminari “Bisogna difendere la società” (2010:206-228). Vorrei cioè verificare come alcune pratiche di governo che organizzano la “funzione del razzismo” e come il dispositivo “guerra alla droghe” si intersechino a Buenaventura e come la protesta debba trovare sempre un modo per snodare dinamiche caotiche imposte da quelle intersezioni rischiando di perdere poi il focus e l’obiettivo delle lotte stesse. A partire da queste considerazioni, nel prossimo post cercherò di intendere il blocco del Puerto come un interregno che permise un superamento in senso comunitario di ognuna delle cesure del corpo sociale. Ciò fu possibile attraverso la creazione di un campo aperto fondato epistemologicamente sulla calle e sulla presa di coscienza di una comune condizione di privazione da cui si misero in moto forme di solidarietà altrimenti impensabili. Al di là della sua successiva sintesi politica dentro precise richieste ed offerte di compensazione, avvenne qualcosa di più importante che riguardò una riconquista nell'immaginario di convivialit. Da qui derivò la consapevolezza di un potenziale non reprimibile.
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lasola · 3 years ago
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[3.3.2] - I Cattivi Selvaggi - la nascita di “El Diablo”
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Gli studi sulla microfisica del potere di Foucault sono uno strumento importante per raccontare le catene di significanti che imbrigliano i soggetti e da cui derivano percorsi identitari ed istituzioni che ordinano e raggruppano le singolarità. Tuttavia la caratterizzazione del potere come un rapporto di forze lascia aperte questioni importanti su come osservare l’incontro, diciamo così, tra le forze e le dinamiche generate sulle stesse soggettività ed istituzioni. Detto altrimenti, nella descrizione del “divenire” alcuni aspetti rimangono sullo sfondo e sono difficili da descrivere accuratamente con la stessa scatola degli attrezzi, molto potente, invece, per scovare le traiettore prodotte dalle solidificazioni narrative e dai paradigmi discorsivi. Ciò appare vero soprattutto se si aspira a fornire una descrizione etnografica del divenire in quei quotidiani mutamenti personali che sono sempre anche aggiustamenti dei rapporti di forze e che si devono ad arrivi o partenze, a visite improvvise o intrusioni forzate.
In un contesto come quello che ho descritto, a Buenaventura, la sostanza fluida della calle ricolloca e ridefinisce continuamente oggetti e persone e le traiettorie di questi incontri. Le persone sono trapassate da catene significanti che li spingono ad un continuo aggiustare prospettive per ristabilire un punto di comprensione. Così in base agli incontri ed ai rapporti di forze generati diventano un narco o un minero o un para o un pescador o un campesino o un ambulante. Cambiano per uscire dall'incoerenza. In maniera analoga si adeguano alle mutevoli condizioni e narrazioni del conflitto trasformandosi in un Rastrojo o in Aguila Negra o in un Urabeño come strategia di sopravvivenza. Questa caratterristica fluidità è incorporata nei personaggi di frontiera che ho chiamato “tuttofare” e che vivevano una vita territorializzata e insieme nomadica generalmente definita nello spagnolo colombiano come callejera (della strada).
Termini come calle (strada), esquina (angolo) e Barrio (quartiere) appartengono a una lunga tradizione di sociologia urbana che inizia con gli studi dei quartieri ghetto americani e sono impiegati per identificare specifici luoghi dove le persone socializzano e a cui si identificano in opposizione a spazi chiusi o protetti che sono spesso razzializzati e\o con chiare caratterizzazioni di classe. Nello spagnolo colombiano esiste un verbo che deriva da calle praticamente intraducibile che è “callejear”. Con questa parola ci si riferisce ad un generale vagabondare “e’miez’a via” come direbbe un napoletano, che segnala sempre un’imprevedibilità che è anche l’essenza stessa del vivere. C’è un inizio del callejear ma potrebbe non esserci una fine. “Estaba callejeando” significa precisamente “stavo gironzolando con la mente aperta alle molteplici possibilità della via”. Callejear quindi va oltre il semplice atto di camminare, passeggiare o muoversi in città per svolgere delle commissioni. E' un concetto nomadico che implica incontrare persone, bere e mangiare sulla via, assistere a strani eventi, in poche parole, vivere il molteplice da una prospettiva ben localizzata, “a via” o “la calle” appunto. Questa comprensione del vivere era spesso descritta da una semplice affermazione, "yo hago de todo” (posso fare qualsiasi cosa) che non era solo una richiesta di lavoro, qualsiasi esso fosse. Rappresentava anche l'incarnazione delle molteplici abilità che si devono imparare per sopravvivere sulla calle e che definiscono fluidamente tutti i personaggi delle frontiere di una città come Buenaventura.
Nella sociologia dei ghetti afro-americani e “chicani” che va da Elijah Anderson (1976, 1990, 1999) ad Alice Goffman (2014) fino a Philippe Bourgois (2003) o l’antropologia delle gang di Managua proposte da Denis Roger (2007, 2006)  per citarne alcuni, si delineano i contorni di vere e proprie soggettività cinetiche definite e prodotte in una fuga quotidiana dai corpi disciplinari che aspirano a regolarle dentro una generale assenza di adeguate reti assistenziali. Se però la fuga e la necessità di “correre via” spesso sono un fatto concreto per cui si scappa dai militari che ti filmano o che scattano tue foto o dalle percuisizioni improvvise della polizia, la nozione di soggettività cinetiche ha implicazioni più vaste che riguardano l’uscita consapevole da immaginari stigmatizzanti e raccontano una sorta di nomadologia dei territori.
A Cali, ad esempio, tutti quei giovani che vivevano gli spazi di indefinizione della calle si chiamavano fra loro locos (pazzi). Il loco è in effetti un personaggio iconico della cultura popolare cittadina che riserva gli spazi dell'internamento a “pistoleri e ladroni” ma il matto è di solito trattato come un bambino cui è permessa insensatezza perché in una notte solitaria “il Diavolo gli ha fatto visita rubandogli la ragione”.  Il loco nella sua ingenua follia è amato popolarmente perchè è in grado di ribaltare continuamente l'ordine borghese del potere. Può farsi beffa di tutto e di tutti perso com'è nella sua mente ormai non più connessa. Ma il “loco”, per come lo intendevano quei giovani, è anche chi sa andare oltre le definizioni imposte e che è capace di non curarsi del sapere-potere che prova a definirli in continuazione. Se quindi da un lato vi è una necessità reale di diventare l’Altro come strategia di sopravvivenza. Vi è anche una capacità che si apprende sulla calle di vivere nel contrario dell’identità, di “stare nel divenire”. Si oscilla quindi tra la locura (follia) dello schizzo, del soggetto che si frammenta nell’incontro-scontro con l’Altro alla ricerca di una liberazione dagli spazi de adentro e la locura della paranoia che riunifica invece il soggetto in un percorso opposto di libertà dello “Stesso” dagli spazi de afuera e dalla superiorità dell’Altro. Essere “loco” diventa così un valore da incarnare, come detto, uno “stare nel divenire” che è una categoria ontologica ed una modalità di vivere la città contro le strutturazioni imposte. Piuttosto che essere una carenza organica della persona o una manifestazione del suo ritorno a una bestialità primordiale, la follia ristabilisce un'umanità persa creando uno spazio di libertà per l’autodeterminazione di fronte a un Reale pervasivo che sembra interrompere continuamente ed interferire con la realtà ed i meccanismi intepretativi costruiti (Recalcati 2016:65-129, 2016:173-215). 
Nella sociologia di queste dinamiche, la locura interseca sempre anche la mala vida nel suo doppio significato di malavita criminale, rispetto ad un ordine stabilito giuridicamente, e di dispendio del sè in opposizione al vivere bene (buen vivir) ed ai paradigmi della sabrosura che ho descritto nel post precedente. Come ho fin qui cercato di mostrare, la libertà, per così dire, ritrovata nella locura sembra contorcersi in atti di ordine e di caos fino a venire però catturata dalla volontà fascista di un Capo che interviene per imporre un monopolio e rendere la Legge, la sua legge. In queste circostanze di appropriazione, la locura appare tendere in maniera univoca verso la mala vida. Eppure, prima di qualsiasi processo di criminalizzazione e di ulteriore marginalizzazione di determinate azioni, la locura e la mala vida condividono una fondamentale comprensione del limite tra il possibile e l’impossibile. Sono strumento di comprensione esistenziale del jugar vivos definito nel post [3.2] fino a quando vengono catturate dentro nozioni essenzializzate di "meter orden", "portar la ley" o "luchar la vida" (si veda il post [1 di 3]). In altre parole si arriva a culmini in cui “i più matti di tutti” (los locos de verdad) ricostituiscono un loro sistema di sapere-potere. Quando il combo si fa banda e los muchachos assomigliano sempre più a dei pandilleros ogni aspirazione di libertà sembra offuscarsi dietro una rinnovata necessità di resistenza a una forma che genera repulsione e paura. Questa trasformazione merita ulteriori spiegazioni ma vorrei osservarla partendo da un punto di vista molto distinto, dalle cosmologie delle popolazioni amerindiane, proponendo, cioè, un detour che potrebbe aiutare nell’identificazione di sistemi politici “alle pendici” degli Stati non ancora propriamente presi in considerazione.
I Mitologica di Levi-Strauss costituiscono un punto di partenza fondamentale per impostare uno studio di queste dinamiche. Clastres li definì  “uno strutturalismo senza struttura” dove “il mito di un popolo trasforma il rituale di un secondo popolo e la tecnica di un terzo popolo” [...] “dentro una gigantesca tela senza centro nè origine” (citato in Viveiros de Castro: 2017:178-179). Sembrano descrivere precisamente soggettività cinetiche, eroi che si muovono sempre dentro le forme fluide e le identità cangianti di una “Natura” in cui niente è davvero ciò che appare o in cui esistono molteplici piani osservabili. Qui lo svolgersi della relazione tra l’eroe e il mondo produce sempre un disvelamento dell’Altro attraverso la visibilizzazione di un segreto o una forma che la superficie nascondeva. La scoperta che ne deriva è conflittuale poichè ha il potere di modificare un certo ordine preesitente. Ma il cambiamento che si mette in moto che è sempre un divenire l’Altro è, prima di tutto, una perdita della relazione che teneva assieme il prima con quel dopo che si sta vivendo nella scoperta. Realizza quindi una nuova connessione tra gli elementi e proprio “riconnettendo” il divenire emerge come un’alleanza, cioè, come una congiunzione e non più come un’opposizione o una semplice risignificazione di un sapere preesistente.
Così ad esempio i miti sulla scoperta del fuoco che sono centrali nel primo volume dei Mitologica, il Crudo e il Cotto, raccontano l’incontro con un’alterità radicale che per essere conosciuta esige sempre un divenire l’Altro che è l’unico strumento disponibile della scoperta. La donna-giaguaro, l’eroina che porta il fuoco, la “Natura”, per cuocere il cibo e rendere la carne o il pesce “cultura”, non è una forma compiuta o un altro animale che emerge come una metamorfosi genetica capace di “rubare il fuoco al giaguaro”. Si trova invece in un divenire che è uno svolgersi congiunto; un’alleanza appunto della donna e del giaguaro che è anche quella della Natura e della cultura. Per poter comprendere “da dentro” questa concezione bisogna pensare l’umano senza alcuna superiorità funzionale negli ecosistemi di cui è parte. Nella mitologia amerindiana, un uomo o una donna possono essere cresciuti da una belva feroce o possono sposarsi con un giaguaro ed entrare così in un mondo di conoscenze altrimenti precluse. Rimangono però sempre capaci di linguaggio e di relazione con gli altri appartenti alla loro specie. Possono tornare e possono svelare le loro scoperte a tutti gli altri. Oscillano quindi continuamente tra l’animalità e l’umanità in un divenire che è il vivere stesso, ma un vivere che include tutto il vivente. Questo tipo di analisi sono state riproposte con alcune variazioni in molti testi di antropologia indigena colombiana ed anche, nello specifico, delle comunità Afro-Colombiane del Chocò. Alcuni racconti etnografici descrivono le cosmologie dei villaggi ordinate intorno all’apparente opposizione tra il campo e la selva e nel perenne scambio vitale tra gli spazi del conosciuto che sono il campo e quelli del conoscibile ma ancora ignoto che sono la selva (J. Arocha, 1998, A. Losonczy, 2006).
Partendo da questo tipo di notazioni e per riportare l’indagine mitologica ai temi fin qui proposti, l’antropologia amerindiana di fatto ridefinisce le nozioni di “amico” e “nemico” ed il concetto di rivalità che sono alla base della tradizione filosofica politica greco-romana. Considerando l’immanenza dell’inimicismo, cioè l’essere sempre in qualche modo anche nella prospettiva del “nemico”, come un tratto fondamentale del pensiero amerindiano (Viveiros de Castro: 2017:169), avviene un rovesciamento di ciò che si considera il politico. Un libro molto bello (1) di uno studente di Viveiros de Castro, Carlos Fausto, racconta una scissione originaria di un gruppo del popolo Parakanã, nell’Amazzonia brasiliana, da cui emerse una durevole relazione di inimicismo tra i due villaggi per diverse decadi caratterizzata da una chiara divisione in cui uno dei villaggi si difendeva e l’altro attaccava. Le forme di questa confrontazione includevano assasinii e ratti di donne ma mai l’annichilimento definitivo degli avversari o la ricerca di un attacco o difesa che terminassero per sempre la loro relazione problematica. La descrizione etnografica delle tante storie e testimonianze di entrambe le fazioni pongono questioni molto affascinanti sulla natura stessa della guerra e di come tra i Parakanã non vi fosse una parola che la definisse; un’assenza linguistica condivisa con altre popolazioni amazzoniche. I Tupinambà, ad esempio, concettualizzarono le loro battaglie contro gli europei invasori nella forma di “vendette pubbliche” contro l’ordine che era stato mutato e che necessitava di essere ristabilito attraverso risposte adeguate. Tuttavia mai fu utilizzata una parola che poteva assomigliare a quella di “guerra” come avveniva invece tra gli europei. Entrambi i gruppi di Parakanã dopo lo scontro iniziavano complessi rituali di purificazione nei quali il nemico era ormai parte di una cosmologia della vita in comune in cui gli spazi antagonici creati dall’altro villaggio non rappresentavano più un’alterità ma segnavano precisi luoghi ed usanze della quotidianità.
Un tema centrale del libro è infatti la relazione tra interiorità ed esteriorità nelle comunità in cui avvengono le confrontazioni e che riguardano da vicino le interpretazioni delle relazioni tra “afuera” ed “adentro” che ho utilizzato per le descrizioni delle “frontiere” di Buenaventura. A questo riguardo lo sviluppo teorico principale che Fausto propone non riguarda la verifica di una superiorità dell’Altro sullo “Stesso” (o viceversa) dentro continue articolazioni e disarticolazioni del sapere-potere prodotto dalle frontiere. Piuttosto, per riportarlo al linguaggio che ho utilizzato fino ad ora, cerca di osservare la natura produttiva dell’afuera nelle dinamiche dell’adentro. Per farlo include “la guerra all'interno di un'economia generale, che la rende comprensibile come meccanismo di riproduzione sociale.” (Fausto 2012:9). Se sono riuscito a spiegarmi fino ad ora, la guerra civile di cui parlo come strumento di governo del caos di Buenaventura riguarda precisamente l’aspetto produttivo delle relazioni di inimicismo che portano gli abitanti a cambiare adeguandosi alle dinamiche del conflitto ed alle narrazioni che lo dominano, incoporando e diventando l’Altro come strategia di sopravvivenza. In maniera analoga, il concetto di “male del Puerto” opera come un fattore di contagio delle soggettività ma, come visto, la sua conoscenza e la sua cura sono sempre anche un divenire quel male. Nella prospettiva politico-economica ho invece mostrato come “il sistema mondo” produca dei riflussi continui sulle dinamiche del Barrio che però rimane sempre in una condizione decentrata rispetto all’altrove che pare produrre quegli assestamenti. Su quel decentramento si sviluppano non solo strategie di sopravvivenza ma anche confrontazioni, regolamenti di conti e vendette locali che, come visto non parlano mai di guerra, ma di luchar la vida, portar la ley o di meter orden ed altre definizioni simili (si veda il post [1 di 3]). La necessità di protezione quanto quella di attaccare, quella di negoziare e di allearsi quanto quella di tradire e mentire fanno quindi parte di una precisa economia morale prodotta dall’immanenza dell’inimicismo nel campo politico della città. In questo senso, oltre ad evidenziare il momento riproduttivo della guerra civile, l’insieme di azioni, discorsi, linguaggi, cartografie ed istituzioni definite deluezianamente (si veda il post [2.1]) descrivono il divenire cioè le alleanze nel campo politico.
Nella letteratura antropologica afro-colombiana non ci sono molti testi che affrontano questi temi. Tuttavia alcuni di essi si occupano dell’incontro tra villaggi più remoti e le amministrazioni dello Stato centrale e le modalità con cui si mettono in moto processi che vengono definiti di “blanqueamiento” (sbiancamento) dei leader locali dentro strutture di potere normalmente associate ai “paisas” (1, 2). Molti dei racconti presentano quindi visioni “razzializzate” in cui l’attività di mediazione della leadership locale genera una trasformazione in senso di corruzione dell’adentro nell’incontro con l’afuera. Ciò avviene a causa della generale percezione di forze maldisposte da cui derivano sempre ripartizioni non eque delle risorse che arricchiscono in maniera sproporzionata solo alcune persone; quelle appunto più vicine al potere amministrativo e burocratico dei “paisas”. Questo processo di trasformazione delle soggettività cinetiche si muove però lungo una superiorità dell’Altro rispetto allo Stesso che genera una perdita dell’autenticità nell’immaginario della vita in comune. In maniera opposta ai casi descritti nei testi citati, potrei invece intepretare la ritrovata benevolenza delle autorità del municipio per il Barrio, che si palesò durante la mia ultima visita, come un caso in cui a primeggiare sembrerebbe essere lo Stesso, cioè lo spazio dell’adentro.
Grazie ad una ritrovata unità tra la leadership e gli abitanti, tutta la comunità era infatti riuscita a beneficiare dell’arrivo di un’importante infrastruttura lungamente attesa: l’acquedotto. Ciò però avvenne dentro più ampie scelte di politica-economica della città. Mentre in diversi quartieri di Bajamar ed in prossimità dei porti, gli abitanti si trovavano sempre più spesso alle prese con improvvisi quanto umilianti razionamenti di acqua corrente, nel Barrio e, quindi, nelle zone di “espansione urbana”, iniziarono finalmente i lavori per collegare le case all’acquedotto cittadino. Prima di allora la strada principale del Barrio Viejo suddivideva sommariamente le case in due parti, quelle del versante nord che erano collegate ai tubi di acqua e quelle del versante sud, più vicine alle foreste, dotate, invece, di grandi cisterne per la raccolta dell’acqua piovana. Tra le prime vi era la casa del leader politico, “Don Segundo” che tutti rispettavano ma che in privato molti accusavano di "blanqueamiento” come esposto sopra. Era da sempre avvezzo alle logiche elettorali della città. Come la maggioranza degli afro-colombiani che vivevano nei principali centri urbani era vicino ai partiti della “sinistra” liberale. Fu da sempre iscritto al Partido Liberal e poi, per ragioni di opportunità politiche, passò all’Alianza Social Independiente, un partito che aveva un seguito soprattutto tra alcuni esponenti del centro-sinistra di Bogotà perchè vi aveva aderito, durante la sua campagna presidenziale, un sindaco molto amato dalla cittadinanza, Antanas Mockus. Era anche un amico del Pastore, relazione che parve essersi rafforzata nel 2014. Tra le altre case viveva invece Josè, un ex minatore dalle visioni radicali e tendenze politiche anarco-autonomiste che lo avvicinavano, a mio parere, ai gruppi di palenqueros e di raizales del movimento Afro, cioè ai discendenti dei Cimarrones e delle autonomie afro-colombiane. Come già scritto, era il Presidente eletto del Consejo Comunitario, una carica cui Don Segundo non ambiva per non creare tensioni con i suoi conoscenti nel municipio di Buenaventura e perchè nel 2011 i diritti di proprietà collettivi delle terre disputate non erano riconosciuti. Per questo la carica aveva ancora solo valore simbolico.
Nella dimensione evangelica che ho descritto nel post precedente, si generò una nuova alleanza tra i due proprio grazie ai lavori per l’acquedotto. I conflitti tra famiglie si erano ricomposti dentro un rinnovato paradigma assistenziale e di governo che rispondeva a sacrosante richieste degli abitanti dopo un percorso però quantomeno tortuoso che incluse la cacciata, uccisione o l’assimilazione di quei personaggi che, per qualche ragione, non rientravano nelle linee governative, cioè quei piani di sviluppo elaborati dai comitati descritti nel post [1]. L’acquedotto, atteso da più di 50 anni, era “arrivato” attraverso un processo prima bellico e poi “pacificante” che sembrava riguardare non solo un bene comune finalmente riconosciuto alla popolazione ma anche le dinamiche generative del “nuovo ordine”. Era cioè la “pacificazione” che “portava i progetti” e non le proteste che li avevano reclamati. 
La storia presenta quindi ulteriori complessità che riguardano precisamente la visione d’insieme o la storicizzazione degli eventi delle tre epoche descritte nella sezione 3 di questo blog. Seguendo Fausto, osservando la guerra civile dentro un’economia generale, oltre ad annotare le traiettorie dei rapporti di potere per cui un nuovo gruppo armato dominava le strade e le narrazioni del Barrio, era possibile anche osservare come le pur rinnovate relazioni di inimicismo costituissero un insieme di pratiche che rappresentavano una continuità con le diverse epoche. Vi era cioè una forma di incorporazione del “divenire il nemico” e di “stare nel divenire” che andava al di là delle natura oppositiva del “nuovo gruppo armato rispetto a quello vecchio”. Riproduceva alleanze e congiunzioni che esistevano nella Epoca 1 come nella Epoca 3 dentro rinnovate connessioni che, rinominando, constringevano anche ad un divenire-Urabeño simmetrico al divenire-Rastrojos dell’Epoca 1. Era appunto in questa ripetizione che per gli abitanti non si dava mai una guerra come quella che c’era sulle montagne tra esercito e guerriglie ma sempre un “meter orden” o “luchar la vida” eccetera. Le dinamiche in atto erano sempre dentro una non identità e venivano interpretate come un effetto decentrato di sistemi politici più complessivi o del “sistema-mondo”, in cui il Barrio non aveva alcuna superiorità funzionale ma a cui si riconnetteva ridefinendo periodicamente le sue frontiere immaginarie ed i locali sistemi di sapere-potere. La questione che mi parve da subito centrale fu quindi capire come questa articolazione tra l’Altro e lo Stesso dentro nuove allenze ripensasse il passato, in alcuni casi rimuovendolo invece che gestirne il peso emotivo.
Ad esempio, ogni mio tentativo di ricordare il blocco del Puerto del 2011 ma anche le proteste che lo precedettero e di cui scriverò, quando i rappresentanti del Barrio reclamavano a gran voce l’acqua corrente nelle case di fronte al municipio ed alla compagnia dell’acqua municipalizzata, incontrarono tanti “non ricordo” e scarso interesse sostituiti da un’attualità che, in quel momento, andava bene così com’era. In maniera analoga i racconti sulla morte di Willy e di Julian che ebbe comunque un ruolo nel blocco provocavano i classici sentimenti contrastanti, della rabbia che si mischiava a dispiacere oltre alla “non sorpresa” e al “non bisogno” di capire, poichè quel destino era iscritto nelle scelte di vita de “los malos” che se lo erano meritato o cercato para bien o para mal (per il bene o il male fatti). Anche loro erano però stati sostituiti. A risultare particolarmente interessante fu che questa forma di rimemorazione non emergeva dal semplice desiderio di non parlare o dalla paura di ritorsioni che sarebbero arrivate infrangendo le regole dell’omertà. Piuttosto, questa è la mia ipotesi, trovava una condizione esistenziale nelle dinamiche in divenire delle inimicità del Barrio. Oltre le divisioni storiche tra i due leader c’erano molti personaggi di frontiera che da “amici” erano diventati “nemici” (o viceversa) nel “nuovo ordine”. Tuttavia non era importante comprendere chi avesse tradito chi o chi fosse rimasto fedele a quale rete. Semplicemente il divenire-Urabeño aveva prodotto nuove connessioni e modificato i campi di sapere-potere accessibili. Per questo non rimaneva altro da fare se non adattarsi poichè i regimi di verità non erano prodotti nel Barrio. A questo proposito “la nascita del Diablo” mi pare un esempio etnografico descrittivo della natura generale delle trasformazioni.
La sorte “trasformativa” toccò infatti direttamente Rudi, la cui storia ho brevemente raccontato nei post [1 di 3] e [2 di 3]. Dopo i problemi causati dal tentato omicidio di Panamá, si era trasferito con tutta la famiglia nella Piedras Cantas, un quartiere di Bajamar che si diceva fosse controllato dai sopravvissuti dei “Rastrojos”. Secondo i racconti dei muchachos bazzicava di nuovo dalle parti dellla calle Viento Libre e si era messo con un banda che faceva commissioni per conto della neonata “Impresa” che voleva “riprendersi Buenaventura”. Era così entrato in un percorso di criminalizzazione che in poco tempo lo aveva definito dentro un alias abbastanza impegnativo, “El Diablo”, e lo aveva associato a diversi omicidi efferati che erano avvenuti nelle zone in cui viveva. “Pachito”, uno dei muchachos più rispettati del Barrio, mi raccontò di quando, un anno prima, andò a fargli visita a bordo di un pick-up “come quelli che usavano Willy e Julian”. Lo definì come un “qualcuno” che ci teneva a farsi vedere in una condizione di rispettabilità diversa da quella che tutti ricordavamo, di quando a volte camminava scalzo perchè non aveva soldi per comprare ciabatte nuove o di quando per settimane usava sempre la stessa maglietta. Era ben vestito ed aveva anche un autista, proprio come Willy. Secondo il racconto, era tornato nel Barrio per chiedere agli amici che lo avevano ospitato di unirsi a lui per scacciare gli “Urabeños” che nella comuna avevano le sembianze di un gruppo paramilitare composto soprattutto da giovani del vicino barrio Las Palmas, tutti ex riservisti, che si occupavano di “mantenere l’ordine”. La storia di Pachito chiariva quindi che il Barrio stava con quelli di Las Palmas ed i vecchi amici di Rudi non avevano alcuna intenzione o non potevano allearsi con quelli che c’erano prima o che discendevano da quelli di prima. Rudi quindi era passato con gli altri nelle dinamiche in divenire del conflitto e nelle storie di frontiera. Per questo era diventato “un nemico”.
Quello che invece mi disse lui fu che faceva “vueltas”, cioè carico e scarico di mercanzia illegale, e che non aveva nulla a che fare con la serie di omicidi o con più generali chiamate alle armi. Il suo “personale casino”, sempre stando alle sue parole, era che ad ormai 21 anni aveva già tre donne stabili e due di loro avevano partorito un bambino ciascuna e questa cosa gli produceva una continua necessità di soldi. La poligamia, per la verità abbastanza comune in molti quartieri, non era però ben vista ed in molti ambienti più conservatori o religiosi era associata alle modalità di vita “de los malos”. Diverse biografie e reportage giornalistici confermavano in effetti che la poligamia fosse un tratto essenziale dell’essere “Capo” di piazze e quartieri e non solo in Colombia. Gli stessi fratelli Rodriguez-Orejuela vivevano in un harem. Il fratello maggiore aveva quattro mogli. Il minore, invece, si innamorò della moglie di un Capo di secondo livello e si dice che la rapì e che giustificò una guerra contro tutta la famiglia dello sfortunato per averla con sé, in uno dei suoi appartamenti a Cali. Anche della cabecilla della Piedras Cantas, dove viveva Rudi, alias Dedè, si diceva che avesse 7 mogli ed un numero imprecisato di figli. A Buenaventura esistevano molte teorie e storie sulle ragioni profonde degli omicidi efferati che spiegavano come “tutto ebbe inizio” quando i Capi iniziarono a portare via le donne dai quartieri, soprattutto donne che erano già di altri. Per riaffermare il loro ruolo sociale quasi come fosse un obbligo morale, molti credevano di non avere altra via d’uscita oltre la vendetta. Se per ristabilire l'onore perduto occorreva regolare i conti con un Capo che aveva portato via la propria donna, o si accettava la subalternità e l’incapacità di “essere uomo”, o non c'era altra soluzione se non quella di riprendersela usando più forza di quella che l’aveva portata via.
Anche nel Barrio c'era una poesia orale che giustificava ed accettava il delitto d'onore. Era il racconto di un padre che spiegava a suo figlio come "un hombre bueno se vuelve un hombre malo" (un bravuomo si trasforma in uno cattivo). Era declamato in decimas (in rime) e parlava della storia e delle ragioni per cui un bravuomo uccise la moglie cioè la madre del figlio. Dopo il matrimonio con la figlia del capo villaggio, l’uomo trascorreva molti giorni della settimana nella miniera a lavorare. Poi un giorno, al suo ritorno, scoprì sua moglie con un altro uomo e non poté contenere la rabbia e li uccise entrambi. Ascoltando questa storia, il figlio comprende le ragioni della perdita di sua madre e quelle della rabbia del padre e cerca di chiudere il ciclo di violenza chiedendo al padre di non usare più parole denigratorie per ricordarla in modo da lasciarla riposare in pace. Nel caso di Rudi non si trattava di giovani donne con precedenti relazioni. Tuttavia, nella zona di Bajamar, viste le condizioni di marginalità, averne più d’una significava di per sè dedicarsi ad attività illecite poichè quello era l’unico modo per sostenerle economicamente ed evitare che “corressero da altri”. Le “vueltas” sembravano sufficienti a soddisfare queste necessità ma per molti abitanti della zona Rudi, che ormai era “El Diablo”, aveva iniziato un percorso per diventare un "capo”.
In maniera simile, durante la mia visita, uno dei muchachos, tra quelli con cui nel 2011 eravamo soliti trascorrere più tempo assieme, venne pestato sulla strada principale del Barrio Viejo da “emissari degli “Urabeños” perchè si diceva che stesse rubando ad alcuni negozi. “Carlitos” mantenne sempre riserbo sulla questione ma la sua improvvisa ricchezza aveva fatto storcere il naso a molti. Non godeva di grande reputazione. Certamente in pochi credevano che i suoi denari provenissero da business legali e non fu difficile associarlo alle ruberie. Lui però negò sempre ogni accusa, prima, durante e dopo il pestaggio. Secondo alcuni suoi amici insieme ad un ragazzo di un altro barrio aveva iniziato una coltivazione che gli produceva qualche chilo di marijuana vicino al fiume Dagua. Per evitare di essere notato si era focalizzato nel rivenderla fuori dal Barrio, agli operai che stavano costruendo la seconda corsia dell’autostrada Cali-Buenaventura e, a volte, faceva “servizio a domicilio”. Si era però trovato nel mezzo di un gran vociare che lo aveva immischiato ad altri crimini e divenne un facile colpevole anche perchè, per coprire i suoi nuovi affari, non potè di fatto difendersi. Preferì così prendersi le letterali "mazzate” permettendo alla rabbia sopita degli abitanti di trovare una fugace via d’uscita. A soprendermi molto in quel frangente furono gli improperi da parte dei suoi vecchi amici di una vita che incitavano chi lo stava pestando invece di cercare di dividerli o di difenderlo. Mostrarono una cesura evidente con un conocido de siempre (amico da sempre) che era diventato una rata (un ratto). In questo modo descrissero come relazioni fondative del Barrio potevano mutarsi a causa delle cose della vita e come il “nuovo ordine” esigesse questa “trasformazione”. 
Vale la pena allora mettere insieme quanto scritto per evidenziare come la vita sulle frontiere costituisse un tratto specifico della guerra civile del Puerto. Queste storie mostrano inoltre un possibile svolgersi della congiunzione tra locura e mala vida e come processi in divenire entrino dentro traiettorie moralizzanti e criminalizzanti che culminano con  “produzioni” violente come un ulteriore assasinio (quello di Rudi) o un linciaggio sulla strada (quello di Carlitos). I condannati appaiono però “capri espiatori” prodotti dalle catene significanti. Sono soluzioni parziali che sembrano necessarie per ristabilire un ordine perduto ma che non si ristabilisce mai terminando solo col caratterizzare una forma del divenire l’Altro del Barrio. Tuttavia, sullo sfondo emerge anche una funzione “preventiva” del vociare della calle con cui si tende a colpire qualcuno prima che l’etichettamento in cui è finito arrivi a produrre le sue estreme conseguenze. Ciò è vero sia nel senso della profezia che si auto-avvera per cui il protagonista della “voce” che lo associa ad un gruppo armato, per scampare dalla pena di morte sancita dal vociare, se non vuole fuggire ed autoesiliarsi, deve cercare difesa in un gruppo armato o armarsi fino a diventare quello che la voce “profetizzava”. Sia nel senso del “segnale” iscritto in certe voci che si muovono più spedite soprattutto quando riguardano persone "poco protette”, “senza struttura” o “sconnesse” come Carlitos. Nel prossimo post chiarirò meglio come tutto ciò ebbe un’influenza molto forte sulle proteste organizzate che culiminarono con il blocco del Puerto, ma queste storie sulle tre epoche descrivono già la sostanza della guerra civile che tiene assieme i quartieri dei margini di una città come Buenaventura. Il continuo susseguirsi di gruppi in armi non appare infatti come frutto di guerre tra clan, o non solo, ma una produzione caotica che disarticola preventivamente ogni istituzione che emerge nei quartieri ed induce a cancellare e\o rimuovere vecchie memorie per sostuirle con i flussi in divenire delle nuove alleanze. Imbeve così i quartieri in un presente a termine in cui ogni futuro possiibile appare nebuloso e per questo occorre imparare a fare di tutto per sopravvivere. Anche per questo, a mio parere, le forme della rabbia in Colombia assumono spesso le sembianze del “riot”, della rivolta\sommossa, vis-à-vis una protesta organizzata creativa che cerca di rimetterne assieme i fili. Mi spiegherò meglio nel prossimo post in cui racconterò il blocco del Puerto del 2011 e di altre proteste in giro per la Colombia durante il mio lavoro di campo.
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lasola · 3 years ago
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[3.3.1] - I Cattivi Selvaggi - Divinazioni
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La mia ultima visita del Barrio e di Buenaventura avvenne nell’aprile del 2014. La città stava vivendo una nuova fase di militarizzazione dei quartieri di Bajamar, quelli in prossimità della baia, a causa di un’ondata di violenze che erano state raccontate con alcuni dettagli anche dai maggiori network internazionali di notizie, dalla BBC ad Aljazeera, dalla CNN a Telesur. Il mio lavoro di campo nel quartiere era terminato da più di due anni anche se avevo proseguito la raccolta di storie di vita e prospettive sulla città attraverso i rifugiati di alcuni quartieri che vivevano a Bogotà e con cui avevo lavorato per circa un anno grazie all’Istituto Colombiano di Antropologia e Storia. Altri incontri con le organizzazioni e i leader locali avvennero durante fori politici, il più importante dei quali, si tenne per una settimana a Quibdò, la capitale del Chocò. Raccolse tutti i Presidenti dei Consigli Comunitari del Pacifico, delegati di diverse organizzazioni, rappresentanti politici, sindaci e studenti. Si trattava di uno dei maggiori incontri tenutosi dall’approvazione della Ley 70 e tentava di proiettare il movimento Afro-Colombiano verso le sfide degli anni che seguivano considerando anche i probabili accordi di pace con le FARC che stavano gestandosi in quel periodo. Il mio ritorno per circa due settimane (dopo poco più di 2 anni) a Buenaventura e nel Barrio non fu quindi una sorpresa per molti. Molto però era cambiato.
Per descrivere la “terza epoca” non posso che inziare dalle parole delle persone che avevano accompagnato le miei visite precedenti. Molti muchachos (ragazzi) volevano essere sicuri che sapessi che il Barrio aveva cambiato ordine, che “Aqui estamos con los Urabeños ahora”  (ora stiamo con gli Urabeños) non so se associandomi all’ordine  precedente che mi aveva permesso di vivere lì o per altre ragioni. Il  cambiamento era però descritto anche nelle notizie sulla città, da  televisioni e giornali locali. Era certamente possibile che i nuovi “malos” appartenessero tutti agli Urabeños che, tra l’altro, erano stati inseriti nella lista dei gruppi terroristici dagli USA, fatto che aggiungeva una lunga serie di altre complicazioni conferendo ulteriori poteri speciali ai gruppi militari regolari su tutta la zona. Tuttavia, conoscendo già le storie dell’epoca dei “Rastrojos“ più da dentro, questo eccesso di premura nel chiarire i nuovi equilibri politici mi parve un modo con cui i muchachos mi ripetevano narrazioni "sicure” con le quali non violavano le regole del silenzio della calle. Il mondo degli “Urabeños” o dei ”Rastrojos” era infatti un mondo “de afuera” che poteva essere discusso con persone come me, ormai esterne al Barrio. Il mondo “de adentro” invece era fatto di tante micro-storie che si accavallavano a questioni più ampie, come ho cercato di mostrare fin qui, ed esse, per quanto concerneva la mia relazione con quei ragazzi in quel nostro incontro, appartenevano alle regole del silenzio. Per evitare problemi, era quindi meglio seguire le narrazioni ufficiali.
Come visto fin’ora, i processi che avevo sotto gli occhi erano iniziati nella seconda metà del 2011 ma in quell’Aprile del 2014 sembravano aver raggiunto un culmine. Tra tutti i segnali che si mostravano, un cambiamento simbolico di una certa importanza riguardò l’aspetto della strada principale. Il passeggio, così centrale nella vita di tutti, era ora dominato architettonicamente da una chiesa pentecostale che era stata costruita sulla stessa via al posto della vecchia. Era divenuta una delle strutture più visibili della zona; non solo del Barrio. Si era probabilmente aperto un canale di finanziamenti provenienti da alcune aree degli States che durante il mio lavoro di campo non c’era o non avevo messo ben a fuoco ma che si inseriva dentro più complessivi percorsi di pacificazione della Comuna 12. Questa nuova presenza “immobile” urgeva quindi una riflessione su altri dispositivi disciplinari in funzione. "Il nuovo ordine” sembrava infatti poggiarsi su di una combinazione ideologica tra un militarismo rinnovato ed una fede ritrovata. Non ebbi il modo di indagare in profondità se a quell’apparenza corrispondessero anche altre relazioni di produzione. I nuovi “para”, tutti giovanissimi e poco più che ventenni, apparivano in effetti come dei giovani ripuliti del “vizio” e del “male” che invece aveva macchiato alcuni ragazzi del Barrio, abbandonatisi con troppa “felicità” alla degradazione del conflitto e che per questo erano stati segnalati nell’operazione di “limpieza social” iniziata quando vivevo ancora lì. Che relazione c’era allora tra la religiosità evangelica e quelle rinnovate milizie urbane? Per rispondere a questa domanda bisogna prima fare qualche passo indietro.
Tra gli effetti di 40 anni di narcotraffico a Buenaventura c'era stato sicuramente l'accesso a cocaina di prima qualità a prezzi irrisori. Un grammo purissimo, praticamente introvabile in ogni altra città del mondo, lo si poteva comprare senza difficoltà a tre, anche due dollari. Con molta probabilità, la disponibilità, la qualità e il basso costo di cocaina avevano reso il suo consumo più diffuso di quanto non dicessero le statistiche ufficiali. La stigmatizzazione pubblica era forte ed i sondaggi basati su “confessioni” dei consumatori non mi sono mai parse realmente affidabili. Nel bajomundo il consumo di “perico” era infatti quasi un rituale. Entrandoci si aprivano porte di angoli nascosti e case altrimenti inaccessibili. Portava incontri improbabili e svelava storie di cui mai poteva leggersi. Delineava lo sfondo di un percorso iniziatico in cui la cocaina permetteva perlustrazioni e riconoscimenti di una realtà quasi parallela che si intrecciava in mille modi alle faccende quotidiane, a tanti insospettabili, lavoratori integerrimi che tornavano tutte le sere a casa dalle loro mogli con quasi tutti i soldi guadagnati in tasca. Ma poi rinchiudeva dentro scelte obbligate. Il consumo indebitava i corpi e le menti soprattutto se non si era in grado di accompagnarlo con cibo adeguato o sufficiente. Quando bucava anche le tasche di giovani che cercavano di conquistare un loro ruolo nella via allora iniziavano i problemi. Sull’orizzonte inziavano a comparire personaggi sempre più strani e rarefatti che offrivano soluzioni ad ogni problema. Questi emissari chiedavano di “ripulilre” il corpo dalla droga per mostrarsi interessati sinceramente alle sorti della persona. In cambio dello sforzo che riconoscevano, appianavano tutti i conti sospesi. Poi però il malcapitato si trovava arruolato ed indebitato per molto tempo. Tutti i soldati di strada di Buenaventura avevano avuto un'intima relazione con la cocaina. C'era chi ne era uscito come Julian o Willy ed altri ancora e chi lo faceva occasionalmente come Arribeteado ed altri ancora. In ogni caso, per fare strada nel bajomundo, c’era una regola non scritta. Dopo aver iniziato a consumarla e conosciutone il potere, bisognava quasi incarnarla per poi lasciarla al consumo degli altri.
Questa pratica proveniva direttamente dalle leggende narcotiche secondo le quali i Capi dei Capi non sniffavano mai. Dai Rodriguez-Orejuela ad Escobar nessuno la toccava. Il Messicano, Rodríguez Gacha, socio di Escobar, si diceva ammazzasse quelli che intorno a lui cadevano in tentazione. Chiunque non riuscisse a vederla solo come mercanzia finiva male in poco tempo. Bisognava toccarla solo il tempo necessario per intascare le somme dovute. Tutto il resto erano problemi evitabili. Nel bajomundo dei banditi e dei pistoleri erano però in molti ad abusarne. Come già scritto nel post [2*], la stessa Blanco, prima di finire in carcere, aveva avuto una relazione speciale con la cocaina. A Buenaventura c'erano molti combos che la usavano con una certa continuità. Fondavano una mistica del camminare le strade con cui partivano verso una conquista immaginaria della città sulla base di vincoli di complicità costruiti dall'esperienza comune del suo consumo. E c’era anche molta violenza che veniva giustificata attraverso quel senso di potenza che la cocaina sembrava fornire così rapidamente.
Arribeteado la considerava l'additivo necessario per “trasformarsi in un perpetratore”, come se il suo consumo fornisse le giuste protezioni da forze opposte che gli avrebbero fatto “perdere la testa”. Un suo racconto mi rimase più impresso di altri e lo appuntai in diverse pagine di diari. Riguardava le giornate che trascorreva dentro le “casas de pique”, le case per la tortura, ad interrogare qualche malcapitato, di cui ho scritto anche nel post [1 di 3]. Mentre in una sala c'erano lui ed i “suoi” a festeggiare, nell'altra si consumava la tragedia della persona di turno. Il dettaglio era che ad ogni “pippata di bamba” Arribeteado infilava un ago in un dito, fino a quando arrivava a toccare l'osso ed ascoltava il torturato urlare dal dolore. In quel modo tagliava il godimento in due parti perfettamente simmetriche ma antitetiche. La cocaina forniva la protezione con cui quel “far urlare” invece di penetrarlo insinuandosi tra i suoi ricordi, propagava la paura al di fuori della stanza, fin sulle strade intorno. Accresceva così il suo sè invece di consumarlo come quello del torturato.
La rafforzata dimensione religiosa sembrava allora offrire una rigida struttura moralizzante da cui era possibile un chiaro riconoscimento delle ragioni de “lo malo”, descritto nel post [1 di 3], che apparivano, in questi casi, inestricabilmente relazionate al vicio (vizio) ed alle pulsioni di morte di cui era sintomo. Per alcuni soldati di strada, la vita era in effetti definita dalla durata di un presente a termine, “fino a quando una pallottola non mi bucherà la testa”. Arribeteado ripeteva spesso che chi si metteva contro di lui doveva andare fino in fondo: o me mata o lo mato yo (finisce o che muore lui o che muoio io). Viveva dentro una sorta di anti-illuminazione che appariva immunizzarlo dalla paura. Invece di evitare di “hablarle a la muerte”, che ho citato come terza regola dell’etica del silenzio nel post [3.1], si preparava continuamente ad essa e questo lo aiutava a direzionare la paura fuori da lui. Era però anche consapevole che quel momento, comunque ineluttabile, sarebbe stato vendicato e che la sua personale morte sarebbe stata celebrata con il versamento di altro sangue. Ad aiutarlo in questo percorso di immunizzazione c’era quindi sempre un gruppo, nel suo caso uno squadrone della morte, che rafforzava le sue convinzioni. Nonostante ciò, il consumo di cocaina aveva una sua funzione nel permettergli di mantenere questa stato di comprensione delle cose nei suoi personali momenti di dubbio, come quello descritto più sopra.  
I tentativi di interrompere l'eternità simbolica di un ordine sociale di questo tipo, fondato sulla ripetizione di rituali bellici, erano molteplici e provenivano da più lati, fazioni o gruppi. La soluzione evangelica produceva però spiegazioni individuali e non necessariamente sistemiche che cercavano di allontanare ex ante le persone da qualsiasi situazione a rischio, spesso isolandole. Ricordava la santità dell’unica “morte ingiusta”, originaria e fondativa, che era stata prodotta, quella si, da una legge parziale e coloniale. Ma se ogni morte di Buenaventura pareva avere in sè caratteristiche simili di sacralità e di martirio nella fondamentale ingiustizia delle frontiere, ognuna di esse, pur nella medesima manifestazione di violenza indicibile, doveva essere spiegata ed interpretata comprendendo quella testimonianza originaria che accumunava tutti facendo desistere dal desiderio di vendetta. La morte di un vicino o di un conocido non parlava più o non solo di un crimine ma di un percorso verso la ricostruzione della dimensione sacrale del Barrio (1). Tuttavia, in questa prospettiva, i fallimenti ed il destino “infame” si manifestavano per non aver riconosciuto “el Diablo” quando si era palesato nella vita di ognuno. Le scelte sbagliate erano conseguenza di questo errore originario prodotto da una prospettiva deviata. Le ragioni della povertà e della marginalità trovavano così un posto nell’adentro del Barrio ed occorreva cercare le forze per superarle proprio da lì, poichè il “male del Puerto” iniziava dentro ognuno dei suoi abitanti.
Dietro questa simbologia architettonica vi era quindi una voce più decisa da ascoltare, quella del Pastore, che con le sue omelie cercava continuemante di segmentare il bene dal male nel Barrio fornendo stimoli ed esempi per una vita “giusta”. La sua presenza non era certo nuova. Si era però mossa lungo una piega degli eventi del Barrio che durante il mio lavoro di campo, nel 2010-11, pur dentro rapporti di apparente cordialità, aveva prodotto un’immagine di autoesclusione degli “evangelici” da quasi tutte le attività cui partecipavamo con gli altri membri del proceso. Gli adepti della chiesa avevano un solo cammino disponibile ed era quello che sorgeva intorno al loro Pastore ed a dispetto di quanto stesse accadendo oltre lui. Ad esempio, non potendo consumare alcolici erano sistematicamente assenti durante qualsiasi celebrazione comunitaria. Si mantenevano però lontani anche da altre attività culturali come le ore di ballo e musica con gli strumenti tipici del pacifico (marimba e tamburi) nella casetta comunitaria, i cineforum sulla “disobbedianza civile” nel campo di calcio del vicino Barrio Mattia Mulumba, la mostra fotografica itinerante, casa per casa, del quartiere e da tutti i progetti di convivenza come la pulizia delle strade dai rifiuti e il taglio di erba negli spazi pubblici. Ognuna di queste attività scandivano periodicamente la vita in comune oltre le abitudini festaiole, il “vicio” o le linee ideologiche dei diversi gruppi che confluivano tra i tre settori del Barrio. “Gli “evangelici” rappresentavano invece una cesura netta che evitava coscientemente di mischiare il loro stile di vita e le loro pur legittime attività con le atmosfere create dagli altri. Le donne non partecipavano nemmeno ad alcune attività ludiche come il bingo che occupava il tempo libero di molte, tra chiacchierate che non terminavano mai, pettegolezzi e risate. Alcune di loro avevano invece abbandonato i rituali più eterei del Barrio, quelli legati al tabacco perchè avevano iniziato a considerare questa pratica come “satanica”. Su questo punto servono forse delle spiegazioni aggiuntive.
Durante la mia permanenza a Buenvantura mi capitò varie volte di partecipare a delle riunioni di donne del Barrio che si incontravano di nascosto dentro una capanna improvvisata, in cui un uragano aveva abbattuto un’intera parete regalando una finestra inaspettata sui confini della foresta. Le donne sedevano in cerchio dentro quella stanza e ognuna di loro fumava tre, quattro o cinque sigari alla volta, inalando parte del fumo e lasciandolo vagare nell'aria che si faceva sempre più irrespirabile. Passavano i minuti e le ore e alla naturale intossicazione prodotta dal fumo, si aggiungeva l’alterazione da tabacco che induceva le giovani e tutti i presenti ad una qualche uscita, incamminati verso esplorazioni di un altrove. Erano questi riti segreti di streghe e stregoni che producevano un rimescolamento della sostanza spirituale del Barrio attraverso trance a volte dolorose che spingevano alcune delle presenti a denudarsi, a piangere ed urlare o a passeggiare silenziose in cerca di un impossibile angolo di refrigerio. Tutto si fondeva alle chiacchiere di chi invece divinava il futuro leggendo le ceneri di quei sigari che generavano una meritata fuoriuscita dal mondo conosciuto. Pomeriggi interi trascorrevano nell'esplorazione dei corpi e delle menti dentro trance che non nascondevano il "Reale” ma gli davano altre sembianze. Rimaterializzavano in questo modo una sostanza spirituale contesa probabilmente da sempre e con cui i presenti sembravano trovare forze e stimoli per resistere, lentamente e con pazienza infinita, alle oppressioni quotidiane.
Questi pomeriggi spesso aprivano le notti di baldoria del Barrio e di celebrazioni che si svolgevano senza denari da spendere o con collette tra chi non poteva permettersi “un sabato sera al bar”. Ai suoni dei tamburi si sostituivano gli altoparlanti di stereo messi su alla buona mentre i ritmi venivano scanditi dai liquori di contrabbando prodotti dalla saggezza popolare che mescolava spiriti ad erbe sconosciute ai più per aumentare le energie, lubrificare le connessioni neurali più invecchiate ed abbattere quei tabù che imponevano altre catene. Tutto ciò avveniva sempre in case di legno, lamiere e pochi mattoni sparse lungo le vie del Barrio che si facevano però notare per le chiacchierate infinite che a volte si trasformavano in tribunali politici dove più o meno ogni passante senza altro da fare si fermava per un saluto e magari un cicchettino. Le risate si mischiavano alle lacrime in base ai ricordi che venivano fuori e quando si era particolarmente fortunati si aggiungevano anche balli degni delle migliori balere di salsa, reggeton o choque del mondo. Le condizioni di indigenza generali non permettevano certo apici festaioli paragonabili ai party urbani più “alla moda”, come quelli che segnavano la casa dei Paisas durante le fughe di un capo, eppure ogni elemento, dalla preparazione pomeridiana fino alle pellegrinazioni nelle case a bere Viche “curato”, generava assembramenti che sfidavano paure ed aprivano le potenzialità in forme sempre nuove ed imprevedibili. Da qui sorgevano incontri e situazioni liminali che riconquistavano le notti del Barrio sovvertendo quella necessità impellente di chiudersi in casa per evitare di vedere o incontrare “los malos”. Avevano per questo il potere di fondare interregni effimeri ma che rimanevano nelle memorie dei partecipanti come un attimo di svago ben riuscito. Riportavano un pizzico di sabrosura (gustosità) del vivere ricordando anche che il “buen vivir” era una capacità profonda quanto complessa di rimanere ad una giusta distanza dal marciume (podridumbre), concetti di cui ho scritto brevemente nel post [1 di 3] e che meritano ora ulteriori specificazioni.
La nozione di sabrosura rispecchiava la tensione tra la pulsione di morte ed il desiderio creativo, libero da ogni castrazione. Era la capacità di vivere il piacere, di "gozarse la vida" (godere della vita), nonostante il “male del Puerto” attraverso i dettagli, dal cibo al ballo, dal sesso alla contemplazione della natura. Era da intendere come un ritmo dell'esperienza vissuta piuttosto che un concetto etico che ordinava il giusto e lo sbagliato. Implicava la capacità di ascoltare il flusso delle cose e di muoversi di conseguenza. Per sperimentare e poter dire senza dubbi "sabroso" (gustoso) bisognava ad esempio imparare a bere il Viche senza cadere nella tentazione di trangugiare ogni bicchiere che veniva offerto. Molte volte era necessario ricevere il bicchiere e poi educatamente sputare il suo liquido o versarlo velocemente per terra ma fuori dal cerchio di sedie in cui ci si trovava. Nei racconti del pacifico l’alcol, come ogni sostanza psicoattiva, era un ponte che consegnava ad esplorazioni della vita. Ogni eccesso etilico o di altro aveva però in sè qualcosa di demoniaco quando la persona perdeva memoria e controllo, svuotandosi del suo fiato vitale e, secondo alcuni, della sua stessa umanità. Come già scritto in quel post introduttivo, solo l’azione e l’abitudine saggia erano invece in grado di generare un flusso equilibrato tra forze opposte, creative e riproduttive o distruttrici e caotiche.
L’alcol ed altre sostanze producevano accelerazioni emotive che in alcuni casi avvicinavano troppo al marciume generando non sabrosura ma un inizio di discorso con la morte. Troppe persone erano infatti tentate di parlarle nei momenti sbagliati e senza le giuste conoscenze. Per questo iniziavano a vivere come pazzi (vivir como locos) alla ricerca di una falsa sabrosura che trasformava gli spazi dell’adentro in un luogo di fantasmi. In altre parole partendo da una gioia che pareva piena poichè tutta protesa al presente troppo spesso si sconfinava in un altrove potenzialmente pericoloso in cui era possibile incontrare i tanti rimossi del vivere. Questo incontro certamente doloroso era sempre imprevedibile. Le trance partecipavano di riti che lo elaboravano a partire da uno spazio codificato e protetto in cui si metteva effettivamente in moto una qualche forma di liberazione da pesi esistenziali inconsci. Il lavoro del Pastore si muoveva nella stessa direzione chiudendo però le possibilità di incontro con un’alterità che poteva far riemergere il rimosso al di fuori della sua autorità. Per fare ciò, l’azione evangelica tendeva a criminalizzare ed a segmentare il marciume cercando a tutti i costi di recintarlo e di confinarlo al di fuori degli spazi dell’ecclesia. I suoi adepti tendevano quindi a farsi setta. I festini improvvisati invece erano per loro natura aperti e senza regole rispetto alla gestione di quell’incontro. Generavano sempre “instabilità” o “locura” (follia) che ad andar bene si incanalavano dentro balli che duravano ore o ad andar meno bene in personaggi che si spegnevano da qualche parte nel Barrio “a parlar da soli” dopo sconclusionate e dolorose confessioni fiume che non avevano aiutato la buena vibra (buona energia) della festa. Senza dubbio l’intrecciarsi di questi diversi spazi di libertà agiva dentro conflittualità profonde del quartiere e sulla natura stessa della guerra civile che prendeva forma quotidiana. La tendenza però ad associare al demoniaco queste feste come quelle trance, in una città come Buenaventura, generava forme di criminalizzazione che avevano il potere di portare a degenerazioni reali, costruendo ogni volta nuovi nemici.
Nella terza epoca, gli spazi di tolleranza per questi “non-rituali” non erano certo scomparsi. Erano semmai più nascosti ma apparivano accresciutisi nel corso del “passaggio” lungo un percorso che li stava inquadrando dentro processi commerciali e di produzione di profitto. Tutti i progetti di sviluppo cui partecipammo nel 2011 terminarono in un generale oblio ma a rimescolare le sensazioni, tra l’amaro e la sopresa, vi fu la scoperta che al posto di una delle aree produttive, invece di orti, pollai, tilapie e maiali, c’era un bar con tavolini e spazio per i balli che segnalavano un evidente miglioramento rispetto alla vecchia cantina di Maria che ormai, povera lei, si trovava praticamente di fronte alla grande chiesa e nel bel mezzo di una penuria di clientela. Alle case che sporadicamente diventavano i centri dei bagordi notturni per le feste comunitarie a basso costo, si era quindi sostituito un luogo specifico ed identificabile dove era accettabile la perdita parziale del senno per qualche ora della notte; forse anche protetti da qualcuno che era meglio non fare arrabbiare e che non aveva le sembianze di un Dio lontano o di un potente sciamano. Nella micro gestione dei percorsi locali di urbanizzazione, vi era stata una chiusura della festa e dei non adepti della chiesa in un altro spazio, altrettanto “affascinante”, ma che prima non esisteva nel Barrio. Ora anche lì c’era un luogo ufficialmente dedicato alle feste con tutte le sue implicazioni di politica-economica di quartiere circa i fornitori di musiche ed alcol ed i costi al consumo non più condivisibili e partecipati ma legati alle tasche di ognuno ed alla voglia di spendere e di regalare di alcuni. 
Nel prossimo post proseguirò nella descrizione etnografica di queste diverse atmosfere osservando le frontiere e le continue trasformazioni imposte dal “nuovo ordine”.
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lasola · 3 years ago
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[3.2] - I Cattivi Selvaggi - Il Passaggio
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Studi recenti in India (Michelutti et al. 2018), in America Latina (Arias 2006, Arias e Goldstein 2010, Civico 2016) e in Russia (Volkov 2016) descrivono l'emergere di sistemi politici incentrati su imprenditori\boss, apice di reti di gruppi armati e non che hanno reso necessario un ripensamento radicale delle forme statali weberiane. Le loro caratteristiche principali sono quelle di avere gerarchie definite e verticali, di essere centrati sul culto della personalità del loro leader e la capacità di mantenere relazioni profonde e costanti con le istituzioni statali. La velocità e la capacità con cui degli “individui” a capo di gruppi commerciali hanno accumulato capitale nel corso di pochi anni hanno creato in alcuni contesti (India, Colombia, USA) figure quasi mitiche, venerate dagli affiliati come se incarnassero tutte le doti del loro tempo trasformandoli in idealtipi sociali, punti di riferimento da imitare se si vuole raggiungere successo e riconoscimento (vedi Barker et al. 2014). Tuttavia le loro sorprendenti performance economiche unite alla capacità senza precedenti di mobilitare e, in alcuni casi, letteralmente di spostare persone, hanno fatto ipotizzare ad alcuni studiosi che piuttosto che diminuire i poteri dello Stato questi centri di potere privato li abbiano in verità estesi a forme ancora inesplorate di autoritarismo (Sassen 2014, Civico 2016). Seppure, le condizioni della loro proliferazione sembrino molto diverse a seconda dei contesti geografici in esame, da un punto di vista dell’antropologia politica proverei a proseguire con l’approccio del post precedente definendoli come dei quasi-regni sorti negli spazi di confusione tra il piano politico e quello economico dei corpi sociali. In India, Lucia Michelutti li osserva attraverso la performatività del loro capo o del boss, cioè la sua arte di "fare potere", di incarnare nella vita quotidiana un’eccezionalità sovrana in modo da "controllare persone e risorse [e] raggiungere una vita migliore" (2018:8). Quello che intendo fare con queste descrizioni etnografiche è invece osservare le condizioni che permettono alle performance di un capo di risultare efficaci e di produrre un “effetto di potere” (Taussig 1992:11-40, Abrams 1988).
Il mio punto di partenza teorico è quindi un altro. La visibilizzazione di regni personalistici (chiefdom) dipende dalla sistemica incompletezza di ogni processo di formazione dello Stato e della burocratizzazione dei suoi poteri. In questa prospettiva, le pratiche quotidiane di "fare potere" dei capi descrivono una dualità più generale e storicamente determinata del potere sovrano suddiviso com’è tra il suo corpo naturale, che risiede nella forma-clan del corpo sociale e delle modalità con cui tali forme si sovrappongono al potere burocratico\amministrativo e il corpo politico che è il progetto eterno dello Stato fatto di tutti i suoi riti democratici o militari che costruiscono un’idea trascendente di comunità e di appartenenza (Kantorowitz, 2016). Mi riferisco quindi ad una teologia più ampia che considera lo Stato "come un principio di ortodossia" e come una manifestazione di ordine pubblico sia fisico che simbolico (Bourdieu 2014:4). Questa ortodossia rappresenta un consenso sul mondo sociale e la sua moralità, ma è anche una credenza collettiva o comune in cui sembrano convergere interessi economici ed idealità politiche. Come ho cercato di mostrare etnograficamente nel post precedente, la forza di questa ortodossia può manifestarsi originariamente come "un'emergenza traumatica del Reale che rompe i parametri e i presupposti della realtà ordinaria" (Aretxaga 2005:261-262). Nella costruzione di quello che ho chiamato “abbaglio” però, si svela anche una tendenza a nascondere “i rapporti di potere reali sotto la maschera degli interessi pubblici” (ib). Dunque per sostenere questa maschera e per garantire l’eternità del suo progetto, la statualità emerge dentro una continua creazione di alleanze e tagli prodotti nel suo corpo naturale. In altre parole, in certe condizioni, la forma-clan è lo Stato che lo Stato non può essere. O in un'altra prospettiva, lo Stato è la forma-clan che attua l'eternità del suo progetto politico.
In queste disgiunzioni, la comprensione della contingenza delle forme-clan implica la necessità di allargare il focus dell'analisi da alcune "personalità cruciali" alla dimensione organizzativa delle economnie in cui operano. Come notato da alcuni studiosi (Volkov 2016, Sanchez 2016) gli assetti istituzionali locali possono dipendere dall'individuazione di sistemi di potere-sapere in cui organizzazioni di tipo mafioso non sembrano l'eccezione ma piuttosto la regola. La forma-clan quindi domina lo Stato e questo potrebbe dare significato ad un’esperienza molto colombiana che sembra in contraddizione con la definizione proposta di quasi-regni e sintetizzabile in questo modo: come mai nonostante “molteplici vittorie”, cioè incarcerazioni ed uccisioni di narcos, i business criminali ed il riciclo dei loro proventi aumentano? Sembra ovvio che il passaggio da un boss all'altro non cambi il funzionamento operativo di queste organizzazioni ed evidenzia anzi come certe forme di "fare potere” siano diffuse se non sistemiche (Levien, 2020). Partendo da queste considerazioni bisognerebbe allora considerare altre forze che agiscono a parziale compimento dell'incompletezza dello Stato. Per descriverle, a mio avviso, l'indagine antropologica dovrebbe osservare meglio la capacità di dispersione e di disgiunzione dei sistemi locali di potere-sapere e non solo centrare i materiali etnografici sulla dimensione performativa del bossismo (bossism), cioè sulla loro individualizzazione simbolica.
Uno dei progetti accademici di Foucault (1996) è stato quello di raccogliere le storie di persone la cui vita definì "infame" perché "non hanno raggiunto alcuna gloria compiendo il male", ma hanno percorso un qualche limite sociale che li ha poi costretti all'incontro con il potere (Deleuze 2020:79-80, 236-241). Secondo Foucault, l'infame, cioè il “non famoso”, è colui che vive una vita criminale banale o che in un momento particolare ha compiuto un'azione sicuramente illegale ma di cui non era pienamente consapevole. La sua storia “inutile” entra così a far parte di un'esistenza burocratica riportata in alcune pagine o righe di testi in cui viene descritta la sua infamia. In queste descrizioni, confessioni e storie normalmente inascoltate vengono registrate due caratteristiche fondamentali del potere in senso foucoultiano: quella di far parlare e quella di visibilizzare qualcosa. Il punto realmente interessante ai fini di questo racconto è però come questi “non famosi” si ritrovino, non tanto descritti dentro poche pagine di vecchi archivi, ma affiliati di organizzazioni criminali multinazionali e quasi-regni. Detto altrimenti: che processi di trasformazione si mettono in moto per rendere un “infame”, cioè un non famoso che abita frontiere di mondi complessi, l’integrante di un’istituzione intermedia, magari qualificata come terrorista in qualche archivio poliziesco?
Gli istituti penitenziari in Colombia come in altre parti del mondo sono di solito considerati come l’anello di congiunzione principale tra “perditempo” di quartiere e la criminalità organizzata. Non negando la veridicità di questa linea teorica, vorrei però tornare alle storie del Barrio per occuparmi di quegli spazi di confusione in cui la forma-clan dello Stato emerge con chiarezza. Vorrei quindi occuparmi delle tattiche di cattura degli “infami” e del loro incontro con il potere. Rispetto al mio lavoro di campo, invece di osservare l’arte di “fare il boss” ciò significa raccontare i diversi meccanismi che possono portare un personaggio qualsiasi non ad iniziare un “percorso di liberazione dal Barrio e dallo Stato”, come citato nel post precedente, ma verso modalità di vita di confine che prima o poi lo avvicineranno al potere “burocratico\amministrativo” dei quasi-regni. Vorrei quindi osservare la natura sistemica e non “il destino” di certe scelte di politica-economica quotidiana.
Ho già descritto di come la guerra per il Puerto generasse una frammentaria esperienza della città suddividendola tra luoghi dove era sicuro andare e zone proibite o pericolose: tra luoghi che appartenevano ad uno spazio interno conosciuto di persone e case “familiari” (de adentro) e luoghi che vivevano ial di fuori dell’esperienza possibile (de afuera). Questi due campi del vissuto convergevano fisicamente dentro zone o aree della città in cui i confini tra adentro ed afuera erano comunemente chiamati fronteras invisibles: linee immaginate che delimitavano diverse aree di influenza e sistemi di potere-sapere (vedi anche Oslender). A volte una frontera invisible poteva essere un negozio all'angolo (una esquina), altre volte un bar o una strada di collegamento o una casa (come quella dei Paisas). Ogni barrio le aveva e creavano un senso del territorio conteso o una terra di nessuno urbana dove potevano succedere cose (ahì pasan cosas). Per questo era più sicuro sapere dove si trovavano ed evitarle in certe ore del giorno o della notte.
Su queste divisioni territorializzate si sviluppavano linee ulteriori che frammentavano seguendo altre traiettorie i campi dell’immaginazione permettendo però opportunità economiche attraverso meccanismi opposti. Esisteva infatti un’economia quotidiana generata dalla riconnessione delle divisioni prodotte dalla guerra. Alcune persone fornivano una serie di servizi a quegli abitanti dei margini che per diverse ragioni erano stati costretti nei mondi de adentro: rifugiati di guerra ancora senza documenti o riconoscimento ufficiale, migranti economici e persone senza una funzione produttiva specifica nella debole struttura economica di Buenaventura. La redditività economica risiedeva nella condizione disconnessa di questi segmenti popolazionali oltre che nel bisogno di assistenza. Il loro stesso arrivo, dalla decisione del luogo dove costruire la casa, ai materiali da utilizzare, apriva oppurtunità economiche. Chiaramente i nuovi residenti non erano registrati nelll’ufficio del catasto cittadino e spesso le case sorgevano su terreni “occupati” su cui qualcuno poteva reclamare un diritto di proprietà o di uso. Questo complicava l’accesso a vari servizi pubblici come l'approvigionamento di acqua o la linea elettrica, ma anche l’acquisto di carte sim per i telefoni cellulari, la connessione via cavo della TV o la possibilità dei loro figli di registrarsi nelle scuole pubbliche locali. Quasi tutti questi aspetti del vivere richiedevano infatti una carta d'identità valida se non proprio un contratto di locazione o un conto bancario. Così, ad esempio, dopo aver ricevuto un permesso, cioè un semplice assenso per costruire la loro casa dalla “leadership” locale, per avere la luce elettrica andavano direttamente da qualche tuttofare che faceva passare un filo illegale dal vicino traliccio dell’alta tensione fin dentro la loro casa. Il pagamento di solito non era mai contestuale ed in base alle circostanze non era monetario. Lo scambio stabiliva relazioni personali insieme a promesse di futuri pagamenti. Creava quindi fin da subito relazioni di debito su cui si produceva la capacità di vivere per più lunghi periodi in certi territori.
In altre circostanze, c’era chi aveva bisogno di cure in ospedale o doveva comprare medicinali che si potevano ottenere a prezzi sovvenzionati. Per le stesse ragioni di sopra, tutto ciò non era sempre possibile per “vie dirette”. Senza un'assicurazione o un documento d'identità valido il farmacista o il dottore non potevano verificare la titolarità del diritto e non sempre erano disposti a “chiudere un occhio”. Tutto ciò generava il margine per commissioni che alcuni catturavano prestando una carta d’identità, effettuando l’acquisto per conto di altri ma anche stipulando un’assicurazione che riutilizzavano ogni volta che qualcuno ne aveva bisogno. Quest’ultima soluzione complicava le operazioni da svolgere poichè per produrre il servizio richiesto occorreva una rete più ampia di complicità tra burocrazie sia private, sia pubbliche.
Discorso simile potrebbe essere fatto per la gestione del trasporto locale. L’espansione urbana creava camminanti ma anche necessità di muoversi più rapidamente senza risorse economiche sufficienti per dotarsi di mezzi di trasporto privati come un semplice scooter. Il Barrio era servito informalmente da dei mototassisti che collegavano le zone più interne con la strada principale dove era poi possibile aspettare un colectivo. Dal punto di vista del mototassista, la tratta aveva un costo mensile che veniva pagato a quelli ben “connessi” o che avevano investito per primi sulle moto comprandone più d’una e “facendole lavorare” con autisti che si impegnavano a pagare delle quote periodiche tenendo per loro l’eccedente. Vi erano però anche moto private che fornivano servizi di trasporto senza pagare quote a nessuno muovendosi all’interno dei loro network familiari e di amicizia per “far lavorare” la moto e recupare i soldi investiti per l’acquisto. In generale si trattava di un servizio di taxi informale che in assenza di app e simili funzionava attraverso il numero di cellulare del motociclista che rispondeva alla chiamata della persona che aveva bisogno di spostarsi. Oppure sostavano nella esquina in attesa di un cliente. Oltre al trasporto persone si occupavano anche di servizio a domicilio acquistando di tutto in giro per la città e consegnando nelle case.
In ognuno di questi casi il valore delle commissioni che si generavano non permetteva di mettere su business ma di raccogliere spiccioli. Inoltre non attirava necessariamente l’interesse delle istituzioni intermedie che in molti casi lasciavano “liberi” i tuttofare nelle loro attività quotidiane. Questo insieme di pratiche sono infatti molto comuni nelle aree di recente urbanizzazione delle megalopoli latinoamericane e non solo. I meccanismi con cui vengono coordinate o poste sotto un’unica organizzazione raccontano di solito il funzionamento quotidiano delle leadership locali. In zone come alcune favelas di Rio de Janeiro, ad esempio, la gestione amministrativa degli insediamenti “informali” è parte di un sistema politico più complessivo che di solito ha un capo al suo culmine ed evidenti finalità elettorali (si vedano Arias e Glenny). A Buenaventura, negli anni del mio lavoro di campo, appariva ancora centrata su micro-organizzazioni spontanee che sorgevano nel continuo aumento degli insediamenti. A riprova vi era che per molti di questi servizi la commissione da pagare era una e non veniva ripartita in alto. Non aveva quindi la forma di un pizzo che i tuttofare pagavano per avere la licenza di operare sulle frontiere. In alcuni casi agivano da dentro una sorta di meta-illegalità, cioè evitando di pagare il pizzo senza però aumentare eccessivamente i rischi “a patto" che le loro attività non crescessero.
Considerando come paradigmatico il caso delle favelas di Rio, è possibile allora affermare che nel Barrio non si era ancora sviluppato un interesse politico ed economico che aspirasse a coordinare e centralizzare queste forme di accumulazione di capitale dei margini. Era semmai ancora vigente una logica bellica, dominata dalla fiorente economia narcotica, per cui l’obiettivo primario era quello di disarticolare micro-organizzazioni che per qualche ragione decidevano di opporsi a certe reti o rifiutavano di mobilizzarsi per fare favori e commissioni quando servivano. Detto altrimenti: venivano colpiti soprattutto quei gruppi che non orbitavano dentro un insieme di pratiche consolidate di controllo e gestione del territorio. E’ possible che alla lunga queste strategie di controllo e sorveglianza determinassero una naturale tendenza verso l’accentramento delle funzioni amministrative ed all’assorbimento dei gruppi “indy”. Tuttavia, più che sul pagamento di un pizzo, la gestione amministrativa e la libertà di azione locali dipendevano sopratttutto da continue negoziazioni e da relazioni di debito trasversali come quelle descritte nel post [2.3].
Queste negoziazioni potevano intersecarsi con i meccanismi elettorali ma, nel periodo considerato, il Barrio era marginale anche rispetto a calcoli di profittabilità politica che lo consideravano come un bacino elettorale. In Colombia, i tassi di partecipazione elettorale erano storicamente molto bassi, in alcuni casi anche sotto il 40% degli aventi diritto. Il Barrio non faceva eccezione. Durante l’unica campagna elettorale cui assistetti, quella per il sindaco della seconda metà del 2011, le persone che si mobilitarono per andare a votare "i candidati consigliati” non furono molte. La cosiddetta “mermelada” che arrivò per catturare l’attenzione degli abitanti fu poca cosa. Alcuni conoscenti ricevettero scarpe nuove, altri mattoni e calcestruzzo per terminare pezzi delle loro case. Ad un altro ancora furono regalati un badile e della ghiaia con cui riempire i buchi della strada di fronte alla sua “tiendita”. Il giorno delle elezioni “emissari elettorali” presero di mira specificatamente i senza documenti ed i più poveri per farli votare al posto di persone decedute in cambio di un pranzo. Chiesero anche a me di andare a votare. Forse anche per questo generale clima di farsa che si respirava, i candidati locali ricevettero solo poche decine di voti e nessuno ne fece un grande dramma. Sta di fatto che il Barrio era relativamente slegato da certe logiche che connettevano i meccanismi elettorali alle economie informali, per lo meno nelle forme descritte in città più grandi come Rio. I segnali di una sua trasformazione in bacino elettorale divennero forse più rilevanti nella fase 3, alcuni anni dopo, e ne scriverò nel prossimo post. Rimanendo invece al “passaggio”, ciò che era osservabile era una potenzialità per cui ognuna delle attività descritte implicava una capacità di muoversi che non era di tutti. Per questa ragione le persone che agivano nelle fronteras attraversandole e connettendo o scollegando persone tra loro, rafforzavano e non riducevano l’immaginario dei confini della città. Costituivano cioè specifiche relazioni di potere. “Il passaggio” ne determinò alcune traiettorie e vorrei ora descriverle meglio.
Seguendo le descrizioni di alcune di quelle persone, muoversi sui confini era un vero e proprio sapere che dipendeva dalla capacità di leggere le connessioni tra adentro ed afuera ed il dispiegarsi temporale oltre che spaziale delle frontiere invisibili. Rudi si riferiva a questa conoscenza sempre indirettamente, descrivendo persone o situazioni in cui si manifestava piuttosto che definirla propriamente. Così, per esempio, usava spesso locuzioni come "el sabe" (sa) per dare credibilità a certe affermazioni o persone. Dire di qualcuno “el sabe” significava riconocere un diritto di quella persona a "tener la palabra" (avere il diritto di parlare) e quindi ad essere ascoltato. Di conseguenza, le affermazioni sul "lui sa" avevano il potenziale o tentavano di ordinare le voci e i pettegolezzi locali. Allo stesso tempo, questo “saber” si manifestava solo all'interno di una precisa relazione di potere per cui quella persona faceva qualcosa che altri non potevano o volevano fare. Per esempio, quando si descriveva un'azione specifica di un "malo" locale, come il suo camminare per qualsiasi motivo in un territorio conteso, si diceva semplicemente "el se lo sabe todo" (lui sa tutto). "Sapere tutto" definiva la capacità stessa del "malo" di camminare dove altri non potevano o non volevano. Una persona "che sa" era dunque qualcuno che non solo aveva una comprensione delle relazioni mutevoli tra afuera ed adentro. Era anche capace di andare oltre queste visioni frammentate della città. In fin dei conti la nozione di sapere che emergeva si espandeva in una sorta di saggezza di strada che certamente implicava un'incorporazione di alcune regole non scritte sul funzionamento delle economie informali locali ma includeva anche una relazione inestricabile con la capacità stessa di imporre quelle regole cioè di agire dentro rapporti di forza che si territorializzavano attraverso certe pratiche quotidiane.
In questo senso, Rudi guardava a quelli con “sapere" come le persone che bazzicavano la casa dei "Paisas", con sentimenti misti di invidia, apprezzamento e paura perchè erano in grado di stabilire le loro regole del “muoversi”. La loro presenza nel Barrio, a suo parere, concretizzava una forma specifica di privilegio che dipendeva dalla capacità di armarsi e di farlo in gruppo (Privilegiado el que tiene su fierro y su banda). Solo da dentro una banda e con una pistola si poteva infatti "portar monopolio" (monopolizzare una strada) che significava appunto stabilire le proprie regole di ingaggio. Nelle parole di Rudi, questa privatizzazione della legge iscritta nella parola “monopolio” descriveva una forma di caporalato riconosciuto localmente che non si basava però sul “Capo” che spesso era anzi “invisibile” e “nascosto” ma sulle relazioni nelle quali erano inseriti i gruppi in armi. Presi nel loro insieme, questi enunciati infatti formavano la base di un corpus che spiegava un sapere distribuito da cui si determinavano le mutevoli condizioni di afuera ed adentro. Le divergenti nozioni di banda o di combo spiegate nel post di apertura di questo blog servivano proprio a tenere assieme i due campi raccontando di persone che in maniera diversa vivevano “dentro un fuori del Barrio”. Esemplificavano cioè nel parlato di tutti i giorni la natura intima delle frammentazioni di Buenaventura e delle relazioni pubbliche di un quartiere. Ricordavano però anche che l’idea dell’esistenza di un certo ordine in un dato territorio dipendeva sempre da un sistema di potere-sapere generato da un gruppo e mai da un “capo”.
Per questo, agire sulle frontiere implicava anche imparare a "jugar vivos" (giocare da vivi), un enunciato che intesi come una forma di consapevolezza del "si muore" foucaultiano  (Deleuze 2020:34-38). Jugar vivos esprimeva la necessità di comprendere non i limiti territoriali della guerra ma quelli ben più profondi tra il possibile e l'impossibile. Solo imparando a giocare da vivo "un infame" sarebbe riuscito a sopravvivere all'incontro con il potere ed a vivere "dentro il fuori" del suo Barrio. In un certo senso, le strade di Buenaventura mettevano in atto una filosofia radicale dell'immanenza da cui discendeva una moralità quotidiana della frontiera, per cui, sulle frontiere il malo era in definitiva colui che era morto, poiché solo la morte poteva letteralmente definire qualcuno come "malo". Tutti gli altri invece giocavano da vivi. Credo che la comprensione profonda di queste categorie generali sia fondamentale per poter intendere gli aspetti più intimi ed antropologici del “passaggio”, un periodo in cui la “normale” fluidità del mondo visse dentro un’accelerazione di eventi ed apparizioni che culminarono con morti, espulsioni e nuovi visi sulle frontiere.
La scelta delle storie da presentare è certamente arbitraria ma serve per creare una continuità ed una coerenza con quanto scritto fino ad ora. Non è possibile relazionare direttamente nessuna di esse al blocco del Puerto, che come già scritto avvenne nel gennaio del 2011. Certamente vi fu una concatenazione di ragioni ed eventi che portarono al “passaggio”. Tra questi la gestione di lungo termine del “paro” poteva essere inclusa ma andrebbero comunque aggiunti altri macro eventi come il già citato ritorno di Patiño, l’allargamento del polo logistico e la costruzione della “doble calzada” Buenaventura-Cali (strada a 4 corsie) oltre che una ridefinizione delle licenze formali e non per l’estrazione mineraria. Ciò che iniziò ad essere visibile fin dai primi mesi del nuovo anno nel Barrio fu il ritorno di alcune persone che erano state esiliate in seguito a furti che avevano commesso nel quartiere. Non si sapeva bene se avessero pagato una “cauzione” a qualcuno o se semplicemente le persone che li avevano cacciati non c’erano più. In ogni caso il loro reinserimento familiare fu abbastanza rapido e dopo alcuni commenti iniziali dubbiosi, di fronte alle loro ripetute promesse di “portarse bien” (comportarsi bene), gli abitanti del Barrio assimilarono in fretta i loro ritorni.
Dal punto di vista delle cooperative, invece, il passaggio divenne evidente nel secondo trimestre del 2011 quando Julian insieme ad alcuni dei suoi iniziarono ad avere un atteggiamento ostile durante gli incontri con i tecnici e con altro personale che le Ong mandavano periodicamente per supportare le unità produttive. In diverse circostanze, con il pick-up dello zio si cimentava in pericolosi testacoda lungo la strada sterrata di fronte alla casetta comunitaria, alzando polvere e creando paura oltre che disattenzione. In altre lo si sentiva arrivare insieme a dei motociclisti che si fermavano di fronte alle finestre producendo rumori che impedivano a tutti di ascoltarsi. I suoi gesti furono interpretati come le classiche provocazioni da parte de “los malos” ma stava anche segnalando un cambiamento delle dinamiche di politica-economica della comuna. Lo faceva mostrandosi dal lato di quelli che non volevano più le cooperative ma anche da una posizione di conocido del Barrio (persona conosciuta) in comunicazione con quelli che invece venivano da afuera. In qualche modo stava quindi parlando con loro.
L’evento culmine avvenne qualche tempo dopo quando un incendio, probabilmente doloso, bruciò tutta l’area intorno ad una delle tre aree produttive, quella che stava più fuori dal Barrio e dentro alla “Riserva”. La sua natura dolosa si evidenziò dopo poche settimane poichè nell’area a ridosso delle produzioni “organiche” venne aperta una nuova miniera d’oro abusiva ma di piccole dimensioni. Vi lavoravano solo due motori, uno sputava acqua e faceva cadere la terra e l’altro risucchiava il fango attraverso un tubo per farlo scorrere su di un grande setaccio centrale. I “responsabili” della miniera avevano dato seguito alla chiusura imposta della ben più grande miniera di Zaragoza voluta dai movimenti ambientalisti di Bogotà e concessa dall’allora Presidente Santos. Nonostante le notizie ufficiali, Zaragoza era però ancora attiva anche se era diventato molto più costoso lavorarci. Di fatto la decisione lasciò comunque alcune centinaia di disoccupati generando pressione su territori più o meno vergini come appunto la “Riserva” del Barrio dove da sempre si praticava “mineria artesanal”. I minatori, pochi per la verità, erano tutti locali, nessuno veniva da fuori. Inoltre una volta al mese permettevano agli abitanti di recarsi nel sito e di setacciare la terra artigianalmente (barequear) in cerca di polvere d’oro. Questo fece dimenticare in fretta l’incendio e le polemiche da parte di chi lavorava nelle cooperative. In più generò una micro economia locale che mantenne alto l’umore del Barrio nonostante i cambiamenti che si erano messi in moto nella comuna.
Uno dei maggiori segnali del “passaggio” avenne poco prima degli incendi, nell’Aprile 2011, quando apparve un emissario delle Aguilas Negras, alias Arribeteado, che nel dialetto del pacifico colombiano significa “ben vestito”. Si stabilì nel Barrio in maniera permanente ma non aveva una fissa dimora. Arrivava da Cali ed era sempre armato anche se faceva in modo di passare inosservato. La pistola la teneva ben nascosta poi quando entrava in una casa la rendeva più visibile. Non parlava mai di nulla in particolare durante quelle visite. A generare ansia era proprio quel suo non doversi giustificare o dare spiegazioni. Semplicemente tutti dovevano accettare la sua presenza e fare due chiacchiere come se stessero incontrando un conoscente di lunga data. Era di origini afro-colombiane anche lui, fattore questo che aveva una sua importanza nelle dinamiche politiche locali poichè era un ex-militare che alcuni relazionavano a leader del movimento Afro più vicini al Ministero degli Interni. In quella fase di espansione infrastrutturale infatti le terre lungo le arterie stradali in costruzione stavano venendo certificate attraverso la Ley 70 dando vita a micro Consigli comunitari. Il PCN temeva servissero per garantire le stesse imprese di costruzione attraverso una loro rapida rivendita (1, 2, 3). Negli stessi mesi il “capo” di Arribeteado che si faceva chiamare “Power”, anche lui afro-colombiano, si trasferì nel vicino quartiere de “El Esfuerzo”. A volte lo si vedeva nel Barrio mentre si recava in alcune case di persone che si erano trasferite anni prima dalla zona del lago Calima, vicino Cali, proprio per la nascita del gruppo paramilitare che portava lo stesso nome. Durante il giorno, Arribeteado non incrociava mai i due agenti in borghese che comunque dopo qualche tempo andarono via dal Barrio. Invece lo si vedeva spesso dialogare con Julian o frequentare gli stessi luoghi notturni. A volte partivano insieme dall’esquina del Barrio e di corsa andavano via su due moto o sul pick-up dello zio. Anche in questo caso l’unica evidenza disponibile era quella che si mostrava e che tendeva a raggruppare “los malos”. 

Dopo l’arrivo di Arribeteado alcuni abitanti del Barrio che venivano dalla regione di Istmina, nel Chocò, brevemente citata nel post [3 di 3] iniziarono a subire pressioni di varia natura. Tra questi vi era un signore che tutti conoscevamo come il Chocoano. Era il proprietario di un minimarket alla fine della strada del Barrio Viejo, in prossimità della foresta. Si diceva commerciasse il miglior viche “curato” di contrabbando della comuna. Gli arrivava direttamente dal suo vecchio villaggio da cui dovette partire perché accusato di far parte dell’ELN. La sua arte fu tramandata a chi rimase. Lui si occupava di rivendere il prezioso e quasi introvabile liquore nel Barrio. Dopo l’arrivo delle “aquile” fu tra i primi a chiudersi in casa. Quasi nessuno lo vide più camminare per il Barrio. Il suo nome apparve tempo dopo in un panfleto in perfetto stile AUC\Bloque Calima con cui il gruppo paramilitare fece circolare una lista di nomi di persone che sarebbero dovute andare via dalla comuna o sarebbero state ammazzate. Di fatto decretò l’inizio di una nuova ondata di “pulizia sociale” (limpieza social) (1) cui il gruppo di Julian partecipò per lo meno acconsentendo alla circolazione del pamfleto nel Barrio e indirettamente approvando la minaccia contro il Chocoano che però era originario dalla stessa zona dello zio. Quando ritornai nel 2014 il Chocoano non viveva più lì e non trovai nessuno disposto a dirmi dove fosse.

A mandare un segnale chiaro ed inequivocabile per tutti fu però la non-morte di Pippa, uno dei ragazzi del quartiere che lavorava sulle “frontiere” raccogliendo commissioni di vario tipo. Era nato e cresciuto nel Barrio e molti erano legati a lui ed alla sua famiglia. Un giorno, nel giugno 2011, corse voce della sua uccisione. Per tre giorni il Barrio manifestò dolore pubblico e cordoglio. La Flaca, la moglie, rimase chiusa nella sua stanza disperata insieme alla madre, alla figlia ed a poche amiche. La casa di Josè era diventata il centro di un continuo passaggio di persone che venivano a porgere le loro condoglianze e per sapere cosa era successo. Poi Pippa riapparve, all'improvviso. C'era stata un'imboscata ma si era salvato. Sparì per una settimana per essere sicuro che i suoi sicari si allontanassero e la simulazione della sua morte cui tutti partecipammo, in maniera più o meno consapevole, gli salvò la vita. Segnalò in maniera chiara che una buona parte del Barrio, se messa di fronte ad alcune scelte, non avrebbe esitato a rimanere con quelli di “adentro”. Gli aguzzini di Pippa desistettero nei loro intenti omicidi e la calma ritornò ma questo rese evidente che era iniziata una fase di assestamenti che riguardavano le “frontiere” e chi vi lavorava quotidianamente. Benchè tutti fossero felici della sua non-morte, Pippa divenne così una specie di fantasma. La gente e gli amici lo evitavano ed era difficile vederlo ad eventi comuni proprio per paura di ulteriori ritorsioni.
Secondo alcune testimonianze, dal settembre 2011 gli uomini di Arribeteado, cioè quelli di Power, avevano ormai “invaso” la comuna e la sostituzione di cabecillas era un fatto consolidato. In qualche modo quindi la non-morte di Pippa mise tutto il quartiere al corrente di cosa sarebbe accaduto a chi non accettava il “nuovo ordine”. 
Tra gli aggiustamenti previsti vi fu proprio l’imposizione di un pizzo ai prodotti delle cooperative (ma non solo) che prima di allora accedevano liberamente ad alcuni mercati locali della carne grazie all’intercessione di Julian e probabilmente dello zio. Questo rese la profittabilità dei progetti produttivi praticamente nulla e molti preferirono tornare in miniera. Nell’Ottobre 2011 le unità produttive nel Barrio Viejo furono chiuse. Rimase quella del settore dei Refugiados che continuava ad essere sovvenzionata attraverso i progetti ufficiali.
Nel prossimo post descriverò alcune caratteristiche del “nuovo ordine”. Per tentare invece una conclusione parziale di questo, ho fin qui descritto alcune delle implicazioni prodotte dalla paramilitarizzazione di Buenaventura dal punto di vista delle dinamiche politiche ed economiche locali. La prima caratteristica che emerge è che nonostante processi costanti di frammentazione delle strutture organizzative, le necessità quotidiane tendono a raggruppare persone ed a generare reti che svolgono funzioni primariamente amministrative seppur con metodi “informali”. In questo senso la proliferazione dei gruppi armati oltre a dipendere dalla maggiore disponibilità di armi stesse, riguarda il progressivo affermarsi di un sistema di potere-sapere che ha la primaria funzione di risolvere problemi contingenti, di “far vivere” e non solo di “far morire”. Si mettono quindi in moto processi di identificazione in divenire in cui personaggi dei margini, quelli che ho chiamato “infami”, utilizzando un’accezione più etimologica del termine, si avvicinano, imitano o incontrano organizzazioni strutturate cui poi vengono associati perchè, in un modo o nell’altro, entrano in un immaginario più complessivo prodotto dallo stesso sistema di potere-sapere. Nel prossimo post cercherò di osservare come questa tendenza possa costituire un movimento opposto, di criminalizzazione. Vorrei però osservarlo in quanto tattica disciplinare più complessiva per cui dopo aver generato un accentramento, si afferma una spinta a disarticolare nuovamente il possibile legame. La fase del “passaggio” sembra rispondere in qualche modo alla spinta verso l’accentramento e alla ri-territorializzazione prodotti dai momenti di “interregno” descritti nel post precedente. Tuttavia, pur nelle accelerazioni che la distinguono, rappresenta un fenomeno ripetitivo e non una discontinuità. Possiede cioè una natura primariamente politica che riguarda una volontà precisa di sostituire un gruppo con un altro senza intaccare le relazioni produttive di base. Credo che sia proprio in questo senso che si possa intendere la guerra civile non solo come un fenomeno permanente ma anche come una pratica di governo. Data la marginalità del Barrio la sostituzione avvenne in forma residuale e come effetto di cambiamenti imposti in aree più centrali o più strategiche ed importanti come appunto la miniera di Zaragoza. Nonostante ciò le dinamiche di fondo che si mostrarono paiono esemplificative di più ampi sistemi politici che 1. assorbono modelli locali di leadership ed 2. usano tecniche disciplinari ormai standardizzate ed apprese con la creazione delle AUC alla fine degli anni ‘90. Nel prossimo post proverò ad osservare meglio continuità e discontinuità del “nuovo ordine” e proporre alcune conclusioni più generali sullo Stato-e-Clan fin qui solo accennate.
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lasola · 3 years ago
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[3.1] - I Cattivi Selvaggi: Epoca 1
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L’approccio con cui vorrei raccontare alcune dinamiche socio-economiche del Barrio aspira a posizionarsi da qualche parte tra la “storia” intesa come racconto della sovranità e della grandezza quotidiana di un sovrano, e la “contro-storia” di chi si è trovato percorso da tanta potenza ritrovandosi poi resto ininfluente di più ampi processi (1). Nel narrare la rilevanza strategica di Buenaventura fin qui, ho cercato di mostrare come la gestione ed il controllo di persone “ininfluenti” siano diventati parte della storia, cioè di un interesse più generale dentro il sistema politico-economico colombiano. Ciò è avvenuto principalmente a causa di necessità logistiche che hanno reso l’economia ufficiale incapace di soddisfare i bisogni della maggioranza degli abitanti e ad intrecci sempre più variegati tra economie legali e non. La combinazione di questi fattori ha reso economicamente vantaggioso oltre che politicamente rilevante l’azione di controllo e definizione degli “ininfluenti”. Non è mia intenzione far emergere di qui un discorso sulla rivolta come contro-storia. Seguendo Foucault cercherò invece di descrivere i rapporti di forza locali, quindi anche le rivolte, come parte di sistemi politici più complessivi. Proverò però a “studiarli” al di fuori del modello giuridico-legale della sovranità basata su di “un individuo come soggetto di diritti naturali o di poteri originari” (1997:229) cercando di rintracciare una matrice “afro-colombiana” di quei sistemi. Se da un lato è infatti possibile comporre una storia comune di diaspora, servitù ed oppressione oltre che di resistenza, dall’altro, con l’osservazione partecipante, emerse qualcosa di ulteriore e di innovativo che potrebbe essere interessante sviluppare meglio. Nei post precedenti ho spesso richiamato l’attenzione sulla fluidità di alcuni micro-modelli organizzativi nei margini. Credo che questa definizione possa essere migliorata e proverò a farlo etnograficamente. Lo scopo è quello di dimostrare che una “rivolta” è tale se intesa a partire dal “modello sovrano” ma potrebbe essere vissuta e conosciuta come qualcosa che per ora chiamerò, un “interregno africano”, a metà, diciamo così, tra una storia ed una contro-storia.
Le conclusioni del post precedente sono il punto di partenza di questa dimostrazione. In poche parole, il Barrio rappresenta un’evidenza di alcune e più ampie dinamiche della guerra per il Puerto. La raccolta di ricordi e storie e l’osservazione delle tattiche di controllo che lo trapassano mostrano lo svolgersi di alleanze e relazioni di non belligeranza tra gruppi in armi o dediti al narcotraffico in maniera quasi lineare. Descrive cioè una serie di strategie che sono state impiegate per “pacificare” la città con l’obiettivo di disarticolare ogni forma organizzativa locale che non si conformava, per qualche ragione, a certi interessi del sistema politico-economico generale oppure di annetterla ad esso. La soluzione proposta dal “modello sovrano” sembra tenere assieme le diverse tattiche attraverso una guerra civile permanente fatta di tagli e micro-lotte disseminate e capillari che indeboliscono in forma generalizzata, deprimono o spingono verso la ricerca di una libertà momentanea ed individuale ma non propriamente comune. Seguendo questa comprensione degli eventi, vorrei  provare a descrivere la storia recente del Barrio come un “abbaglio” prodotto dal potere che dopo essersi mostrato con un eccesso di luminosità e con molto rumore, ha poi generato la sua necessaria ed inevitabile accettazione ed interiorizzazione attraverso il silenzio.
Il potere qui inteso foucaultianamente in termini di rapporti di forza è quindi emerso in forma profondamente sbilanciata ed asimmetrica, imponendosi quasi come una verità manifesta; una presenza autolegittimante resa necessaria da una giustizia ovvia in sè cui gli abitanti del Barrio sono stati semplicemente messi di fronte. Mentre si commettevano stragi in città, l’esercito faceva in modo che nessuno si intromettesse in quel “regolamento di conti”. Seguendo il modello sovrano, questa necessità doveva essere accettata dagli abitanti perchè giusta e legittima per costruzione. Nonostante ciò, l’indicibilità della verità che si mostrava non era certo permanente. Per questo altre tattiche successivamente la sostennero fino a renderla un “segreto” condiviso tra invasori ed invasi. Da un lato il “terrore” sempre latente, iscritto in luoghi come il campo di calcio e nei rumori di spari improvvisi nella notte, riaffermava la condizione esistenziale di vivere in un ordine incompleto. Dall’altro, il silenzio che veniva retribuito attraverso la miniera d’oro di Zaragoza, costruiva collusione e legami con i quali in molti credevano di aver trovato rifugio dalla parte dei “vincitori”, non più “oppressori” ma “salvatori” in base alle possibilità che la vita via via offriva. Questa normalizzazione ed interiorizzazione dei rapporti di potere costituisce un asse portante dello svolgersi delle tre epoche che vorrei ora descrivere.
La fase dei “Rastrojos” è quella che conobbi meglio perchè si sviluppò durante il mio lavoro di campo e prima ancora durante le mie visite iniziali nel Barrio fin dall’agosto 2009. Come ho cercato più volte di spiegare, dal Barrio non era possibile identificare un’istituzione intermedia coerente; solo socialità che visibilizzavano rapporti di forze. Ad esse si aggiungevano i commenti degli abitanti, quei pochi disposti a “definire” un gruppo dentro le macro-categorie disponibili. Quelli che lo facevano avevano comunque accesso ad informazioni che provenivano da organizzazioni altre rispetto al Barrio o "de afuera”, per rimanere alle categorie che segnavano i racconti locali, e si basavano, a loro volta, su fonti di origine militare. I diretti interessati preferivano di gran lunga rimanere lontani da quelle definizioni e difficilmente si riferivano a loro stessi usando quegli stessi nomi. Esisteva poi una precisa “etica del silenzio” che riguardava le modalità possibili con cui affrontare certi temi e che, a mio parere, originava in quelle pratiche come le militarizzazioni del Barrio in cui la “Legge” si manifestava come un destino podotto dalle “scelte sbagliate” di alcuni.
Durante il mio lavoro di campo misi assieme tre regole principali che ordinavano le modalità rumore-silenzio. La prima era un principio generale per il quale “nadie sapea un para” (nessuno può essere il delatore di un paramilitare). La parola spagnola ricavata dal verbo “sapear” significa letteralmente “fare la spia” ma il “sapo” è anche una rana la cui caratteristica è quella di non smettere mai di gracidare. L’uso specifico del verbo “sapear” richiamava alla memoria l’epoca degli anni ‘90, resi celebri anche da una famosa serie TV locale, in cui la delazione veniva dipinta come l’arma principale che fece cadere l’impero dei Rodriguez-Orejuela. Molte delle storie disponibili di quegli anni raccontano infatti di un’informazione impazzita in cui ognuno sembrava raccontare un segreto del mondo narcotico per cercare di ricavarne qualche beneficio. Tanti ex-poliziotti di Cali e della Valle del Cauca cercarono di ricevere sconti di pena e soprattutto di non perdere le ricchezze acquisite “raccontando la loro versione dei fatti”. Il più importante testimone di quegli anni fu proprio Patiño che dopo essersi consegnato alla DEA pare abbia raccontato proprio tutto quello che sapeva alle autorità giudiziarie degli States causando violente ritorsioni contro la sua famglia rimasta in Colombia. Circa 35 suoi familiari furono assasinati. Al suo ritorno, nel 2010, diede inizio ad una vendetta su vasta scala che fu l’origine del passaggio di poteri che toccò direttamente anche il Barrio con la sostituzione “ufficiosa” dei Rastrojos con gli Urabeños. Comunque le si osservi, le delazioni incrociate generavano vendette e violenze trasversali e “sapear” era comunemente inteso come un’azione profondamente pericolosa per tutti.
Il secondo principio riguardava invece una più generale regola di vita, cioè il “no meterse en la vida ajena” (non farsi gli affari degli altri). Per come lo intesi dopo conversazioni infinite, significava relazionarsi ai fatti mai in maniera interrogativa o investigativa. Non bisognava cercarli ma fare in modo che fossero loro ad arrivare alle orecchie. Ciò che realmente importava era non essere mai sorpresi nell’atto di fare domande o nel “chiedere in giro” sulla vita di qualcuno. Ad ogni domanda che si riceveva si doveva invece rispondere a partire dalla propria vita, dalla propria esperienza e fare in modo di non divagare mai in quella di altri di cui non si poteva sapere. Si trattava quindi di un principio che tentava di ordinare il pettegolezzo all’interno delle “zone proibite” della città, dove era meglio non fare domande perchè tanto non si conoscevano le risposte ed una verità pareva non esistere.
Il terzo principio era forse quello più rilevante da un punto di vista antropologico perchè riguardava la necessità di trovare un equilibrio psichico rispetto ai traumi prodotti dalla violenza in città. Era quello dal campo cosmologico più vasto che spronava le persone “sane” a “no hablarle a la muerte” (non parlare con la morte), che in estrema sintesi significava non richiamare alla mente i ricordi di persone scomparse di “mala muerte”, di morte violenta. Per spiegare tutto questo si scomodavano spiriti che si manifestavano come energie che entravano ed uscivano dalla persona che evocava quei ricordi abbandonandosi a rinnovate sofferenze oltre a quelle già patite. In molti casi costringevano la persona ad entrare in uno stato di malinconia dal quale sarebbe stato poi molto difficile uscire. Ricordare certi eventi che avevano segnato la storia del Barrio era una cosa pericolosa, non solo per paure di ritorsioni, ma semplicemente perché "asi uno llama los problemas" (in questo modo i problemi arriveranno). Imparare a vivere nella regola del silenzio di Buenaventura significava invece trovare una modalità esistenziale che permettesse di posizionarsi ad una giusta distanza dalla “mala muerte” o di lasciarla andare (dejarla ir) quando arrivava troppo vicina. Per spiegare come ciò avvenisse nella pratica avrò bisogno di alcuni post.
Ciò che appare rilevante ora è che da dentro questa “etica del silenzio” l’articolazione delle relazioni nel Barrio tra i diversi attori o tra emissari delle istituzioni intermedie apparivano molto più intricate delle semplici definizioni che venivano apposte. Nel post [3 di 3] ho descritto ad esempio le implicazioni emozionali e sull’immaginario locale che ebbe il ritorno di Willy nel Barrio nel Natale 2010. Ripensare a quei giorni ed al rumore generato fa emergere un’opposizione narrativa importante rispetto ai campi di indicibilità generati intorno alla casa dei Paisas o alla militarizzazione delle casette comunitarie. Su di uno sfondo etnico ma anche genealogico e territoriale, il ritorno di Willy produsse un cortocircuito radicale nelle narrazioni egemoni sul conflitto locale. Willy sembrò materializzare un potere vicino, più amichevole, di cui tutti sembravano voler prendere un pezzo anche solo standogli accanto. Per qualche giorno di festa, “il male del Puerto” parve non essere subìto ma agito. Il suo essere “de los nuestros” (dei nostri) non implicava una scelta di campo vera e propria ma una rivincita effimera che era anche solo poter festeggiare il ritorno di qualcuno del Barrio “che ce l’aveva fatta”. A chi importava il lato nel quale stava?
Per alcuni Willy era in effetti un integrante dei Rastrojos. Eppure, dando per buona la sua stessa confessione ma anche altre storie, le sue relazioni nella “zona grigia” erano molto più complesse. Per descriverle userò un espediente, qualcuno che a lui era molto vicino. Il nipote, Julian, fu assasinato insieme a Willy nell’ottobre del 2012 e viveva nel Barrio. Anche lui era molto taciturno circa la reale natura dei suoi affari ma definiva se stesso ed i suoi (mi gente) come “para”. Risaliva quindi un albero genealogico del suo gruppo in armi fino all’epoca del Bloque Calima, superando di netto la fase della scissione tra Rastrojos, Machos ed Aguilas Negras e poi quella tra Rastrojos ed Urabeños. Commenti analoghi erano prodotti da persone a lui vicine. Tuttavia quando altri “para” arrivarono nel Barrio, qualche mese dopo, e la sua posizione di comando fu messa in discussione, si resero necessarie nuove alleanze, nuovi tagli, nuove partizioni. Che “para” era allora Julian e per osmosi quelli che stavano intorno a lui ed allo zio?
Per tentare una risposta non posso che richiamare le storie del Barrio ed interpretarle dentro l’etica del silenzio presentata sopra. I primi 6 mesi dal mio arrivo furono segnati da una continua presenza simbolica della Polizia Nazionale che accompagnava i programmi di sviluppo finanziati tra gli altri dalla Croce Rossa Internazionale. La Polizia organizzava eventi estemporanei, separati dai progetti produttivi, con i quali cercava di avvicinarsi alla popolazione distribuendo cibo ed accessori per la viabilità su moto come giacche catarifrangenti ed altri oggetti. Durante quelle giornate di donazioni molti di coloro che orbitavano intorno alla sfera di Willy e Julian si davano da fare per raccogliere la popolazione sulla strada e per fare in modo che tutti ricevessero qualcosa. Questa manifestazione di una relazione di “non belligeranza” era spiegata in diversi modi dagli abitanti. Molti non sapevano nemmeno delle confermate commistioni tra, ad esempio, Varela, il capo dei Rastrojos, o del cartello del Norte del Valle e la polizia di Cali. Non dovevano per forza ipotizzare dinamiche più complessive ma mettevano assieme voci ed una condizione che era semplicemente visibile. La Polizia si appoggiava al gruppo di Julian per presenziare il Barrio in uniforme e alcuni dicevano che Julian era dei Rastrojos.
Questa commistione non era ovviamente sempre ben accetta. In un’occasione si rischiò di far cadere la rinnovata presenza “amichevole” perchè la Polizia Nazionale richiese di poter mantenere due agenti in borghese, “un paisa” e un “cholo”**, come li chiamavano nel Barrio, per occuparsi della sicurezza delle unità produttive durante il giorno. Entrambi venivano dalla zona caffettera del Paese. Rimanevano solo durante le ore di ufficio, dalle 9 alle 4.30 circa ed erano ufficialmente disarmati. Più o meno tutti sapevano della loro affiliazione ma nelle prime settimane dal loro arrivo, la moto da enduro con i colori e le scritte della Polizia Nazionale che usavano per recarsi nel quartiere costituì l’origine di una crisi diplomatica. In molti associavano quella moto all’inizio di una nuova militarizzazione o più semplicemente ad un’operazione di intelligence con la quale la Polizia avrebbe iniziato a raccogliere informazioni casa per casa con modalità non chiare e magari inserendosi nei percorsi estorsivi che condizionavano la vita di alcuni abitanti. Durante concitati incontri in cui piovevano insulti contro Josè reo, in quanto Presidente del Consejo Comunitario, di aver accettato quella presenza, alcuni ragazzi presero la decisione di rubare la moto per poi bruciarla e buttarla da qualche parte. Proprio grazie all’intervento di Julian si trovò una soluzione facendo ridipingere la motocicletta di nero in modo che i colori della Polizia non fossero più visibili. Si cercò quindi di salvare un’apparenza rispetto agli spazi di “afuera” del Barrio affermando un potere negoziale negli spazi “de adentro” ma Julian ribadì anche che il suo ruolo era vincolato ad una collaborazione con i corpi regolari dello Stato.
Questa relazione fu confermata durante la campagna elettorale per le elezioni del sindaco. Nel maggio del 2011, colui che avrebbe poi vinto le elezioni di Buenaventura, Bartolo Valencia, del Partido Liberal, fece un comizio nel Barrio. Ad accompagnarlo nel cammino fino alla casetta comunitaria ed a gestire la sua sicurezza, oltre ad alcune volanti della polizia furono proprio Julian insieme ad altri dei “suoi” che rimasero tutto il tempo sulla strada accanto alle vetture ed alle moto che si erano radunate per l’occasione. Tutto era ampiamente normalizzato. Il gruppo di Julian nel Barrio durante l’Epoca 1 era del tutto organico alle strutture politiche locali. Rispetto a quanto riportato in alcuni testi su mafie e gruppi insurgenti (1, 2) quindi non si possono analizzare quei “para” osservando il business della protezione. Al contrario segnalando la loro presenza dispiegavano forze con cui impedivano la cattura del Barrio da parte di altre reti. Può darsi che lo facessero per essere sicuri di non avere problemi nella gestione delle loro economie private o che dal margine in cui ci trovavamo non potessimo vedere strategie più complessive ed azioni meno magnanime che toccavano invece altri quartieri. In ogni caso i fenomeni estorsivi di cui si ascoltava in maniera diffusa che riguardavano il pagamento del pizzo (vacuna), ad esempio, per far circolare una mototaxi nella comuna, non toccavano il Barrio nel senso che Julian e “i suoi” agivano intercedendo per evitare un pagamento o per permettere un posizionamento sul mercato. Stabilivano quindi una presenza negoziale con il resto della città piuttosto che un sistema di confrontazione. Per riuscirci operavano da dentro alleanze multiple e si relazionavano anche con i corpi ufficiali dello Sato. Nel farlo ribadivano qualcosa che assomigliava ad un limite o un solco oltre il quale non si voleva e poteva andare. Willy e Julian stavano lì a ricordarcelo ed a farlo credere.
In questa prospettiva i giorni del ritorno di Willy furono certamente un evento “decisivo”. La popolazione fu messa di fronte alla scelta di mostrargli pubblicamente appoggio oppure di chiudersi in casa perchè trattavasi, in ogni caso, di un “malo” che con il rumore della sua presenza avrebbe attirato nuovi problemi. Ma aprì anche le danze del Natale che era certo la festa di tutti. Alcuni minatori raccoglievano denaro da mesi per permettere alle famiglie di celebrare degnamente. In quei giorni però accadde qualcosa che non si ripetè più durante l’anno che trascorsi a Buenaventura. Ci si addormentava dove capitava e ci si svegliava con qualcuno che stappava una “poker” (birra) ed offriva un caldito de pollo (brodo di pollo) contro i dolori di testa per non perdere nemmeno un secondo dei festeggiamenti. Bisognava ricominciare subito a celebrare tanto che dopo 7 giorni di continue bevute e mangiate in giro per il Barrio, Josè dovette dichiarare due giorni senza alcol che gli causarono critiche e proteste ma anche alcuni ringraziamenti.
A segnare quei ricordi e quei giorni fu proprio un’alternanza continua tra adentro ed afuera prodotta dai ripiegamenti della storia e delle storie dove sorgevano senza sosta nuovi possibili lati e posizioni nel conflitto. Questa esperienza che si palesò in quei giorni articolava le quotidianità ed imbeveva le vite nel Barrio in forme molto più generali e complessive di come una settimana di festa potrebbe far pensare. La paramilitarizzazione di Buenaventura aveva frammentato le visioni del futuro dentro una miriade di piani paralleli il cui punto di partenza era ormai una pragmatica necessità di prendere quello che c’era. Non c’erano o non c’erano più missionari laici a professare il mondo in comune secondo Karl Marx o a fissare delle boe in mezzo all’oceano. Si aveva invece la sensazione di trovarsi nel mezzo di spazi di potenzialità, di “interregni” che potevano durare una settimana o un mese, o qualcosa di più, e questa incertezza e la necessità di parteciparvi costitutiva un aspetto fondamentale di ordinamenti non-sovrani che costituivano lo spazio politico dei luoghi ai margini del Puerto. In questo senso, Julian e Willy non integravano un’organizzazione criminale. Dal punto di vista del Barrio quella possibilità non aveva rilevanza alcuna o se ce l’aveva riguardava solo pochissime persone. Visibilizzavano però dei sistemi politici fondati sulla forza delle relazioni che li sostenevano. Non c’era nessun diritto naturale o potere originario a definire un prima e un dopo della vita nel Barrio o a decretare la sovranità di un individuo sugli altri. Tutto era semplicemente in divenire ma bisognava riuscire anche a starci nel mezzo. La mia ipotesi è che se questo era vero nel Barrio, poteva e forse doveva esserlo anche altrove, tra i quartieri del Puerto, dove si viveva quotidianamente al di là delle categorie “criminologiche” che tentavano di definire racconti sovrani o sui sovrani. Era certamente in atto una lotta per l’influenza e per il “far cerdere” e Julian senza dubbio vi partecipava. Se però esisteva una tendenza all’assimilazione ed al riconoscersi oltre i limiti territoriali, questa veniva sistematicamente interrotta. La strategia dominante era infatti frammentare o unificare in senso sovrano\criminologico i diversi processi locali in base alle necessità. Così sullo sfondo di una corsa agli armamenti di piccolo taglio, la guerra civile emergeva come paradigma di governo di Buenaventura.
Ad onor del vero, questo approccio analitico era ed è minoritario. Anche diversi percorsi in resistenza avevano ormai sedimentato un discorso “giustizialista” che richiedeva un intervento militare “buono” che permettesse lo sradicamento del male che erano tutti questi gruppi irregolari. Ma c’era qualcosa in più che spingeva quasi a dover dire “quelli non siamo noi”. In Colombia c'è una vasta letteratura giornalistica, film, serie tv, documentari, biografie autorizzate e non autorizzate sui "miei anni con il Capo" che se messi uno accanto all’altro, pur dentro differenze importanti, sembrano sostenersi su di un frame narrativo molto simile. Raccontano dell’ingresso nei mondi in guerra di personaggi del "bajomundo", di solito paisas, che durante un percorso di autoaffermazione raggiungono una sorta di limite estremo del male. Queste narrazioni multiple costruiscono potenti immaginari sociali sul potere performativo di un Jefe (capo) che appare la fonte e l’origine di sistemi politici fortemente instabili poichè centrati su di un individuo, sulla sua rabbia ed il suo bisogno di riconoscimento. Di qui, la personale capacità di essere "superiore" o di "superare" i vincoli imposti dall’intorno sociale in cui nasce e cresce permette al protagonista di emergere, seppur per un tempo limitato e in un mondo di difficoltà estreme. La volontà di potenza descritta va però oltre le visioni della sovranità come capacità di usare la forza per stabilire un fuori della legge da cui affermare l’ordine originario. I mondi raccontati sono invece in continua lotta contro la violenza organizzata degli eserciti e delle polizie e quella di altri gruppi in armi. Parlano di una liberazione che è un oltre dello Stato ma anche del Barrio. Così la supremazia può essere raggiunta solo assorbendo la forza del nemico o dando prova della sua annichilazione. Per riuscirci bisogna quindi diventare un “mostro” capace di imporre la “propria Legge” attraverso la legittimità del proprio orrore e della propria violenza. Ma il potere performativo di un Capo ha in se anche qualcosa di sensuale ed attraente. E’ inseparabile dalla personale capacità di vivere l'eccezionalità della sua condizione esistenziale, che è quella di tutti gli abitanti del bajomundo. La differenza tra lui e tutti gli altri sta nella capacità di raggiungere e poi ripetere momenti culmine in cui si soggettivizza sperimentando se stesso nella sua natura più profonda, fino a perdersi nel completo consumo di sè. 

La mistica incastrata in questa macchina mitica si basa su un movimento continuo e un presente permanente in cui anche la vita di chi sta intorno al Capo pare ridursi al suo diritto di vivere o morire. Senza di lui l’unità del sistema costruito cadrebbe. Questo però non accade mai, anzi è proprio nella sua morte che il sistema trova nuova vitalità. Benchè l'incantesimo che aveva colpito un gruppo di persone o case o quartieri svanisca, la sua morte ricorda che la magia riapparirà in un altrove in cui quella mistica continua ad esistere, ancora possibile ma non più nel qui-ed-ora. Sono proprio i racconti della nascita e caduta di un “Jefe” che costruiscono la base mitica del suo potere sovrano tra la gente. Ma dal punto di vista del Barrio rappresentano un estremo del desiderio che è fondamentalmente inconciliabile con la realtà quotidiana. Ne raccontano sempre “un fuori” che è al tempo stesso una piega possibile del vivere; un cammino “oltre il barrio” che implica quella trasformazione in “mostro”, un divenire il “male del Puerto” per liberare e liberarsi. In questo senso la morte è una punizione iscritta nel “destino del Capo” ma non ne rappresenta la fine bensì il compimento stesso del mito. I rituali funebri, che durano mesi, anche anni, ed includono fughe ed uccisioni efferate, rappresentano precisamente il momento di passaggio e la continuità dell’ordine, non la sua rottura. Accade infatti che l’unità del sistema, pur così apparentemente legata all’esistenza di un individuo, dipenda invece da operazioni ripetitive quasi automatiche di una filiera produttiva avvezza a continue sostituzioni, defezioni e cambiamenti.  

Qui abitava un aspetto profondo dei rapporti di potere che Willy e Julian parevano ribaltare non solo etnicizzandoli e contestando il dominio dei “paisas”. Per tentare una qualche definizione credibile degli “interregni africani” bisogna forse partire da questo rovesciamento ontologico con cui non si imitava semplicemente un potere ma se ne fondava un altro che nel suo essere effimero non poteva che incitare a liberarsi “insieme”. Quando poi la liberazione si sedimentiva in “clan” l’interregno terminava, catturato da un sovrano, creato o voluto da alcuni, che in un modo o nell’altro sarebbe stato combattutto e punito per essere riprodotto. Proverò a raccontare meglio questa partecipazione dell’interregno nel regno e viceversa nei prossimi post.
** La parola cholo significa di sangue misto, indigeno e qualcos’altro. Poteva essere usata con un tono offensivo ma faceva parte del gergo comune con cui abitualmente ci si riferiva a persone che non potevano essere identificate chiaramente per un’appartenenza etnica ma avevano una discendenza indigena.
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lasola · 3 years ago
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[3] - I Cattivi Selvaggi
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Bisogna ora iniziare la discesa. Il Barrio un cui ho vissuto per un anno e in cui sono poi ritornato diverse volte dal 2009 al 2014 ha bisogno di una sua storia specifica. Mi sarebbe piaciuto rimanere fedele il più possibile alle parole che furono dette quando quella storia mi veniva raccontata. Passammo molte ore e molti giorni camminando per le sue strade e ricordando cosa c’era e come stava cambiando, chi furono i primi “coloni” e chi arrivò dopo in cerca di fortuna o di un rifugio. Purtroppo molte di quelle chiacchierate sono oggi andate perdute nel senso che le registrazioni ed i video non sono più disponibili a causa di un malfunzionamento tecnologico e per mia superficialità. Rimangono però i ricordi e molti appunti sparpagliati. Le parole non sono quelle che potevano e forse dovevano essere, ma spero che la sostanza del discorso sia la stessa. Non c’è nulla da inventare. Si tratta solo di essere sicuri di poter mettere le cose al posto giusto.
La storia del Barrio iniziò all’inizio degli anni sessanta, da un’impresa pubblica colombiana che si occupava del taglio di alberi e del loro processamento per produrre carta, “Cartòn Colombia”. Cinque dei suoi lavoratori venivano da Lopez de Micai, sulla costa pacifica sud nel vicino distretto del Cauca. Di giorno tagliavano alberi e di notte rimanevano a dormire nell’accampamento predisposto dall’impresa. Quando rimasero solo pochi alberi, i cinque si chiesero cosa fare. In quell’epoca Buenaventura era ancora lontana ma la terra era vicina all’unica strada che la collegava all’entroterra. In meno di due ore di cammino si arrivava al Puerto. In canoa, dal vicino fiume Dagua i tempi si riducevano di poco. C’era acqua, c’era terra, c’erano ancora alcuni alberi e c’era una strada ad una giusta distanza dall’insediamento. I loro capi li lasciarono con qualche attrezzo e così mentre due di loro rientrarono sul Micai per chiamare le famiglie, gli altri iniziarono a costruire le loro case. Da madereros si trasformarono in coloni e poi in contadini e anche in minatori. La terra era uno dei tanti “territorios baldios” della Colombia: una terra di nessuno che era stata data in concessione ad un’impresa che poi si spostò da qualche altra parte e alcuni suoi lavoratori pensarono di occuparla invece di continuare a spostarsi (1). Nessuno di loro si immaginava in quei giorni che la città, quattro decadi più tardi, si sarebbe avvicinata minacciosa intorno a loro.
Quando arrivai a Buenaventura il Barrio era diviso in tre settori. C’era il Barrio Viejo dove vivevano i primi coloni. C’era il settore dei Refugiados che arrivavano da diversi villaggi del distretto del Cauca scacciati dalle loro terre dal Bloque Calima. E c’erano le Invasiones, che era una zona di espansione urbana a ridosso del colle del Barrio Viejo dove arrivavano famiglie e gruppi di persone montando case di fortuna con la speranza poi di stabilirsi. Il Barrio rappresentava ancora una frontiera tra Buenaventura e le foreste tropicali del Pacifico ma ormai la strada distava solo 20 minuti di cammino, il Puerto era a 45 minuti di colectivo e le case di molti altri quartieri della città dominavano la vista dal colle dove sorgeva il Barrio Viejo.
Durante il lavoro di campo centrai la mia attenzione soprattutto sul Barrio Viejo di cui feci un censo, casa per casa, per definirne condizioni economiche, numero di persone e per avere l’occasione di scambiare qualche parola su aspettative di vita, sogni o delusioni. Vi vivevano poco più di 800 persone, alcune in condizioni di indigenza estrema, soprattutto quelle che non appartenevano alle tre famiglie allargate principali che discendevano dai coloni orginari. I loro discendenti occupavano approssimativamente ancora le zone del barrio intorno alle terre allocate inizialmente, poi suddivise tra i diversi eriditieri. Negli anni ‘80 vi fu una seconda ondata migratoria di famiglie provenienti per la maggiorparte dal Chocò, quindi dal Pacifico nord, dovuta a trasferimenti “a catena” che seguirono i vincoli matrimoniali di membri di alcuni villaggi con i discendenti dei coloni originari. Questo generò diversi casi di parcellizzazione delle terre per la loro rivendita su cui si delinearono alcune gerarchie socio-economiche più durature che permisero certe specifiche forme di leadership locale. Tuttavia più che espandersi, il Barrio Viejo venne progressivamente urbanizzato trovandosi percorso dai processi migratori che riguardarono Buenaventura.
Tra questi il principale fu senza dubbio l’arrivo di rifugiati caucani all’inizio del nuovo millennio. La relazione che mantenni con il loro settore dipese da una serie di progetti di sviluppo che impegnavano la maggior parte delle giornate. Si trattava di tre unità produttive, due delle quali erano state realizzate nella “Riserva” mentre una sorgeva nel settore dei Refugiados. Avevano diversi obiettivi. Il principale era il raggiungimento negli insediamenti della cosiddetta “sovranità alimentare”, cioè di una quasi completa autosufficienza nell’approvigionamento di cibo. Speravano poi di generare una transizione produttiva dalle miniere d’oro che all’epoca impiegavano la maggiorparte dei maschi in età lavorativa del Barrio Viejo. Avevo infatti verificato che almeno una persona per famiglia si dedicava, anche in maniera saltuaria, alla “mineria”. Nel corso di tutti gli anni 00 fu attiva una grande miniera d’oro, quella di Zaragoza, sul fiume Dagua, che distava solo 50 minuti di colectivo. La maggiorparte dell’urbanizzazione più recente delle zone intorno al Barrio erano proprio di minatori che decidevano di spostarsi in maniera permanente a Buenaventura dopo aver lavorato lì. L’orientamento “organico” delle coltivazioni non seguiva quindi mode “globali” ma nasceva per spiegare l’importanza di una corretta alimentazione in zone ad alta contaminazione mineraria. L’impatto ecologico della miniera sull’ecosistema locale fu infatti vasto. Dopo anni di sfruttamento il corso dello stesso fiume Dagua era cambiato e le sue acque e molte delle falde acquifere che aprovigionavano il Barrio stesso erano state inquinate con mercurio ed altre sostanze tossiche che poi rientravano nella catena alimentare attraverso i pesci e le alghe che gli abitanti continuavano ad estrarre da lì. Quindi oltre a svariati ortaggi e frutte tipici della costa Pacifica vi erano anche allevamenti di galline, maiali e tilapie, un pesce di origini africane che aveva trovato nel Pacifico colombiano un habitat quasi perfetto per la sua riproduzione. Le unità lavorative erano gestite da cooperative che, soprattutto nelle fasi iniziali, quando si ricevevano sussidi ma non c’erano entrate monetarie, si reggevano sullo schema “cibo per lavoro” dei soci. Questo fattore costituì, purtroppo, la debolezza strutturale del progetto poichè fece desistere molte persone nelle fasi iniziali contraddistinte da molto lavoro e quasi nessun guadagno rendendo poi molto difficoltoso il loro reinserimento nelle fasi successive segnate, invece, da maggiori entrate monetarie e da minor desiderio di condivisione dei proventi. La collaborazione con i rifugiati caucani e con il loro leader, Don Agapito, fu comunque essenziale per generare percorsi formativi che riguardavano famiglie di “ex pescatori” o di “minatori” con minore dimestichezza nei lavori dei campi e nella gestione delle coltivazioni organiche. Servì anche per alleviare invidie e costruire ponti tra due mondi molto vicini ma "tagliati” dalla guerra per il Puerto, tra chi con estrema difficoltà aveva tirato su una casa e una famiglia e chi dopo aver perso tutto, riceveva sussidi per ricostruirsi una vita.
Dalle Invasiones, invece, arrivavano continuamente sorprese che avevano le sembianze di persone improbabili che a giorni alterni si facevano una camminata per salutare Josè e scambiare due chiacchiere con chi incontravano. C’erano personaggi di ogni tipo: da vecchi camionisti disoccupati a raspachines che avevano abbandonato il lavoro con la coca per poter diventare minatori, fino a venditori ambulanti di pesce, stregoni che vendevano pozioni magiche ed amuleti e ballerini e ballerine dei club di “salsa brava” (salsa cattiva) come chiamavano, da quelle parti, le balere che rimanevano aperte 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Grazie alle Invasiones dalla via del Barrio Viejo ogni giorno vedevamo scorrere un vasto campionario di persone in cerca di fortuna arrivate da tutti gli angoli del Pacifico colombiano. Vista l’origine rurale del Barrio l’incontro con queste alterità aveva una certa importanza nel riportare le atmosfere del Barrio Viejo dentro i mondi urbani di Buenaventura. Forse anche per questo dopo le 5 del pomeriggio, più o meno, tutti ben vestiti e con i capelli in ordine iniziavano quello che nel sud Italia si chiama “lo struscio”, cioè il passeggio continuato di due o tre vie per vedere e farsi vedere, fare due chiacchiere e quattro risate fino alla cena, quando si rientrava nelle case e le strade si facevano buie a causa della quasi inesistente illuminazione pubblica. Le musiche erano offerte da chi aveva gli altoparlanti e mantenevano la salsa come rigoroso sottofondo. Chi poteva si beveva una birretta comodamente seduto su una sedia posizionata davanti alla porta di casa da cui godeva della brezza del tramonto e della bellezza locale. Le migliori serate erano quelle che seguivano a una pioggia rinfrescante quando era più piacevole sfoggiare nuovi monili oltre che indumenti e scarpe acquistati da poco in qualche negozio del Puerto.
Per tentare una descrizione sintesi, il Barrio sembrava un luogo di racconti ancestrali che non terminavano mai. Vista la sua posizione esterna ma dentro la città, si viveva dentro un’atmosfera sospesa che forniva una naturale inclinazione a non cercare troppi dettagli e troppe spiegazioni. Chi arrivava in visita a volte diceva di sentirsi nella Buenaventura di molti anni prima quando ci si poteva ubriacare di notte e finire a dormire su di una panchina del molo turistico certi che non sarebbe accaduto nulla o dove le case delle persone non avevano le sbarre e porte e finestre rimanevano aperte. Chi si spingeva fino a questo limite estremo della città, superate le paure iniziali, alla fine provava uno strano senso di tranquillità. Sapeva che non gli sarebbe accaduto nulla. Era questa un’impressione ricorrente che molti imputavano alla vicinanza della foresta, all’assenza dei rumori costanti della città e in generale a una vita che ancora aveva poco di urbano scandita da persone che richiamavano alla memoria i villaggi lungo i fiumi da cui un pò tutti erano arrivati o in cui avevano famiglia e parentele. A spaventare semmai erano alcuni luoghi specifici che ne avevano segnato la storia recente e dove era meglio non andare, specialmente se non accompagnati, per non “fare arrabbiare gli spiriti”, come diceva Vilma.
Il principale era un campo di calcio che si trovava a metà del cammino che collegava il Barrio Viejo con quello dei Refugiados ed era non lontano dalla cosidetta “casa dei Paisas” (la casa dei bianchi e\o la casa dei narcos) che ho descritto brevemente nel post 2.2. Molti abitanti raccontavano che in quella zona i gruppi armati eseguivano le esecuzioni dei loro condannati a morte. Di solito capitava di notte quando si ascoltavano i rumori di vetture, normalmente dei taxi, accompagnati da moto cui poi seguivano quelli degli spari. Durante la mia permanenza la pratica era cessata, ma riguardava un passato molto recente del Barrio, pochi anni prima. Le autorità ufficiali consideravano tutta quella zona, insieme ad altre nella comuna 12, un “cimitero informale” della città che era un modo politicamente corretto per segnalare la probabile esistenza di fosse comuni per cui mancavano la volontà politica o la forza necessarie per scoperchiarle. Anche per questo esisteva una regola non scritta che consigliava a tutti un coprifuoco notturno più o meno dopo le 10 di sera. Chi voleva uscire doveva farlo preferibilmente prima e rientrare la mattina successiva. La ragione di questa prassi non stava in un divieto imposto da qualcuno. Era semmai un’usanza di chi voleva evitare di vedere e farsi vedere da una di quelle carovane della morte.
Scandagliando tra i racconti del Barrio la casa dei Paisas era certo il luogo maggiormente collegato alle storie presentate nei post precedenti. Era usata per le fughe che spesso si tramutavano in memorabili feste dei fedeli di Don Diego prima e di Varela poi, gli ex soci dei Rodriguez-Orejuela. Quando arrivavano i loro scagnozzi, alcuni raccontavano che di solito distribuivano mance e che era meglio camminare seguendo altre vie. Per quasi tutti diventava impossibile mantenere dei contatti con il settore dei Refugiados. La casa dei Paisas rappresentava quindi a tutti gli effetti una frontiera urbana che si chiudeva ogni volta che un Capo si dava alla latitanza. Di solito nessuno sapeva nulla sul nuovo arrivato ma era probabilmente un “paisa” (bianco) sul quale in poco tempo inziavano ad ascoltarsi voci che raccontavano ogni nefandezza di cui era capace. Spesso si mettevano in movimento dei pick-up pieni di gente armata che facevano continuamente la spola tra la casa e la strada principale a valle dando l’idea di voler marcare un territorio che era tornato invalicabilie per quelli di afuera. Questo, di solito, serviva anche per zittire un certo vociare e metteva tutti in guardia circa un rischio più concreto di scontri armati e di tiroteos (sparatorie). In quei frangenti, il Barrio si trovava in ostaggio di personaggi che non conosceva e che appartenevano, in un modo o nell’altro, a quelle storie di cui ho scritto in precedenza.
Esistevano analoghi ricordi che raccontavano di almeno altre due ondate di militarizzazione questa volta però da parte dell’esercito regolare, subite negli anni del Bloque Calima e a causa degli sviluppi della guerra a Buenaventura. In un caso in particolare, i militari che non erano interessati a pattugliare i quartieri dove stavano avvenendo le stragi dei “para”, si posizionarono lungo i bordi esterni della città da cui pare la difendessero dall’ingresso di gruppi irregolari provenienti da zone al di fuori dell’area urbana. Ufficialmente controllavano ogni ingresso di persone, evitando l’approvvigionamento di armi o di sostanze illegali. Per via della sua posizione il Barrio sorgeva, infatti, in un punto di snodo logistico strategico della guerra di guerriglia. Per questo i soldati, quelli regolari, si stabilirono in due dei suoi punti di accesso: a sud, sul versante della “foresta”, e ad est in direzione della casa dei Paisas ma ad una buona distanza. Da lì coprivano eventuali ingressi dal vicino fiume Dagua e da alcune verede non molto lontane che si diceva stessero con le FARC. In quelle settimane alloggiarono dentro due costruzioni che venivano altrimenti utilizzate per le assemblee del Consiglio Comunitario (il cui riconoscimento ufficiale in base alla Ley 70 avvenne nel 2013) e per diverse attività con le ONG locali. Nei racconti degli abitanti le regole sul coprifuoco e le atmosfere non cambiavano. Molti di loro ricordavano di aver provato sensazioni analoghe, di sentirsi in ostaggio oltre che strumento delle guerre di altri. Inoltre i ragazzi del quartiere invece di ricevere mance, di solito venivano perquisiti mani al muro e con modi non proprio amichevoli.
Durante la mia permanenza le modalità della presenza di gruppi armati “esterni” o de afuera, come ci si riferiva in generale a questo tipo di dinamiche, cambiò radicalmente rispetto a quei racconti. Non vi furono manifestazioni così nette di potenza. Al contrario si viveva una quotidianità scandita da apparizioni molecolari che generarono comunque trasformazioni anche radicali nei rapporti locali di potere, seppur su di un arco temporale più ampio. Erano in azione dispositivi disciplinari più sottili che avevano, forse, maggior presa sugli abitanti proprio per via di quei ricordi. Erano preferiti o erano più facilmente accettati perchè emotivamente meno dolorosi. La vita proseguiva senza essere messi di fronte forzatamente al “reale di Buenaventura”. Gli eventi culmine, a volte anche estremamente violenti, non erano certo terminati. Tuttavia sembrava che vi fosse una distribuzione immaginaria degli abitanti che permetteva di localizzare quegli eventi dentro precise storie di vita o di ricondurli a reti identificabili di persone. L’evento, più o meno violento, era per questo sempre analizzato in un quadro punitivo. In alcuni casi appariva quasi meritato, perchè non più casuale o generalizzato, ma indirizzato e chirurgico. Creava uno campo emotivo in cui oppressione e liberazione si fondevano dentro una rabbia personale in cui il singolo trovava un oggetto preciso contro cui sfogarsi; il colpevole di turno. Poco importava che, in alcuni casi, come verificai personalmente, si trattava di capri espiatori che poco avevano a che fare con i fatti per cui li si incriminava. Ciò che veramente risultava efficiente era la catarsi prodotta dallo spettacolo della punizione, perchè non riguardava più tutti. Invece di produrre “impotenza”, come durante le militarizzazioni, localizzando “il male del Puerto” tra quelli che avevano fatto delle “scelte sbagliate”, la punizione confermava la bontà delle azioni delle istituzioni intermedie che orbitavano intorno al Barrio. Per rendere tutto questo possibile, i dispositivi disciplinari seguivano una tattica di base: generare continui tagli nel corpo sociale del Barrio. Ciò avveniva in due modi principali: 1. usando momenti “decisivi” che obbligavano gli abitanti a scegliere un campo da cui osservare lo svolgersi degli eventi e 2. facendo circolare ex ante narrazioni che fornivano “teorie credibili del mondo” che preparavano l’interpretazione di quegli stessi eventi e degli assestamenti che ne sarebbero derivati.
Per tentare una migliore descrizione di tutto ciò, proverò a suddividere “tre epoche” stabilite seguendo le denominazioni ufficiali delle istituzioni intermedie che si diceva coordinassero i gruppi locali “di frontiera”, sia quelli che si erano professionalizzati dopo la paramilitarizzazione della città, sia quelli che ancora costituivano socialità giovanili spontanee. Seguirò inoltre le narrazioni dominanti che piegavano gli eventi di quegli anni nella Comuna 12 dentro “un conflitto armato” che riguardava solo “los malos” (i cattivi), come gli abitanti si riferivano in generale a coloro che si diceva integrassero quelle istituzioni intermedie. Come già scritto in precedenza, distinguerò però tra i muchachos o i combo, per riferirmi a formazioni che appartenevano al mondo di adentro (conosciuti o del Barrio) oppure a gang o pandillas per richiamare un gergo poliziesco, a volte usato per nominare formazioni e socialità di afuera (di un’altra zona o di un’altra rete). Su queste premesse, la prima epoca fu l’epoca dei “Rastrojos”, la seconda quella del “passaggio” e la terza quella degli “Urabeños”. Ognuna di queste epoche fu contraddistinta da cambiamenti di leadership locale, da diversi flussi di fondi pubblici e di Ong e da alcuni momenti “decisivi”.
Per non appesantire eccessivamente la lettura, le proporrò nel prossimo post.
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lasola · 4 years ago
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[2*] - Uno Spinoff
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Dalle parti in cui vivevo a Buenaventura alcuni, pochi, la chiamavano “La Capitana” ma sulla sua lapide è scritto solo “La Madrina”. Griselda Blanco nacque nella zona caraibica, a Cartagena, ma visse da bambina, durante l'epoca della Violenza e per tutti gli anni 50, nel Barrio La Trinidad di Medellin in cui sposò, ancora sedicenne, tale Pestaña, un malandro del quartiere, secondo alcuni, addirittura uno dei suoi Capi (1).
Occorre qui una piccola digressione. Nella preistoria del traffico di cocaina, le rotte ed i contatti per far arrivare il prodotto a destinazione erano pochi e non vi erano molti clan che si dedicavano al business. Le storie di quei tempi tendono allora a concentrarsi su luoghi che più di altri permettono incontri e condivisione di conoscenze tra personaggi improbabili, senza reti di supporto ramificate e senza una chiara idea del valore commerciale dei prodotti che iniziano a contrabbandare. Il Barrio La Trinidad è da sempre descritto come uno di questi luoghi speciali dove connessioni impossibili possono avverarsi per magia dando vita a relazioni economiche impensabili in altri luoghi della città. La storia del quartiere sembra quindi fornire una lente di ingrandimento sulle traiettorie dei commerci colombiani, almeno dall’indipendenza del Paese (1). È questo certamente un racconto fatto di leggende, creatività, politiche pubbliche di confine e parecchio abbandono. Al tempo stesso, descrive tentativi che potrebbero dirsi d'avanguardia nella gestione e regolamentazione di economie che pur sostenendo ampi settori delle popolazioni urbane, rimangono storicamente relegate ai margini degli Stati e della legalità. In questa prospettiva, il Barrio La Trinidad è, a tutti gli effetti, una grande zona di tolleranza dove, fin dagli albori urbanistici di Medellin, furono “depenalizzati” tutta una serie di traffici ed espedienti economici di confine. Non solo nel barrio la prostituzione fu legalizzata prima che altrove. I suoi bar vendevano anche ogni prodotto allora disponibile nel mercato nero. Preziosi liquori, distillati introvabili, medicinali che promettevano di curare ogni malattia ed ogni tipologia disponibile di sostanze psicoattive potevano essere acquistate da queste parti. Fin dagli anni 50, il Barrio La Trinidad possedeva la fama di raccogliere un campione variegato e cosmopolita di personaggi dediti all'industria del contrabbando e rappresentava in se un unicum nel panorama colombiano. Essere uno dei suoi Capi o la moglie di un presunto Capo del Barrio La Trininidad significava per lo meno disporre di un esercito già sconfinato di persone esperte nell'arte di arrangiarsi, un giorno dopo l'altro.
Forse per dare lavoro a tutti questi espulsi e diseredati la Blanco si inventò i corrieri umani e trovò nuove forme per far viaggiare la mercanzia attraverso le dogane. Testimoni raccontano che agli inizi degli anni settanta almeno metà degli abitanti del barrio avessero viaggiato negli States. Griselda disegnava biancheria intima speciale in cui era facile nascondere chili di cocaina che signore al di là di ogni sospetto avrebbero trasportato nell'altro Mondo. Organizzò i primi viaggi personalmente. Trasportò pasta base dal Perù fin nel Barrio La Trinidad. Poi contrabbandò il prodotto finito negli States, sempre per via aerea. Collaudò il sistema e lo sdoganò a migliaia di paesani. Furono praticamente lei e il suo primo marito, insieme alla famiglia Mejía, a far conoscere il contrabbando di cocaina su vasta scala a Medellin, la città che sarebbe poi diventata una delle riconosciute capitali mondiali del suo commercio. La cocaina era prodotta direttamente nel quartiere. I laboratori e i migliori “chimici” del Paese finivano più o meno tutti a lavorare nel Barrio La Trinindad da dove la cocaina, purissima, prendeva successivamente il volo attraverso l'aeroporto che distava solo pochi isolati. In un decennio mise su un'organizzazione che non accentrava enormi guadagni su poche persone ma garantiva una certa diffusione di rischi e denari. In quei ruggenti anni sessanta Pablo Escobar rubava ancora macchine e correva per la città in motorino. Fu proprio grazie alla Blanco che iniziò a dedicarsi all'oro bianco; trasportando per lei.
Alla fine degli anni 70, Griselda si era ormai affermata come uno dei maggiori broker ad operare negli States mentre il cartello di Medellin era una realtà in forte ascesa. I laboratori erano distribuiti su tutto il distretto d’Antioquia e il modello di business veniva imitato da sempre più persone. La Blanco però centrava il suo lavoro su di un'organizzazione che ogni giorno sfornava documenti falsi impeccabili. Grazie alla crisi del settore tessile di Medellin non era difficile trovare persone disposte a viaggiare per lei ma, in pratica, più che controllare il traffico di cocaina, gestiva i flussi migratori dalla Colombia a Miami. Mentre Escobar e i suoi soci compravano atolli alle Bahamas e trasportavano tonnellate di droga via mare e via aerea, Griselda si accontentava di un profilo sfumato, nelle retrovie del business. Si dice che rifornisse consumatori dell’elite americana con cocaina di altissima qualità e che lei stessa ne fosse un’assidua consumatrice. A Miami lavorava per tutti, ma i guai arrivavano ogni volta che qualcuno metteva in dubbio il suo ruolo o per qualche ragione le mancava di rispetto. I racconti su di lei e la sua leggenda oltre a definirla intelligente come pochi e perversa per via della sua bisessualità e della sua passione per orge e feste sfrenate, evidenziano con una certa alacrità la sua spietatezza e il suo sadismo contro i nemici che il settore in cui lavorava le procurava quasi naturalmente.
Il risultato di questo costante e capillare lavoro dal bajomundo cui la “Regina” partecipò, fu lo sviluppo di un mercato parallello che, nonostante la crisi economica della seconda metà degli anni settanta, avrebbe permesso a Miami di trovare la liquidità finanziaria che scarseggiava da altre parti. Ogni giorno nascevano nuove banche che non vedevano l'ora di prestare denari e partecipare ai progetti di riqualificazione della città. Tra queste ve n’era una, la North Side Bank, che era di proprietà di Gilberto Rodriguez-Orejuela già proprietario della Prima Banca Interamericana di Panama e del Banco de los Trabajadores di Cali. Ve ne sono altre come la Banca Great American che fu la prima della storia ad essere incriminata per lavaggio di denaro proveniente dal narcotraffico. Le autorità di controllo degli States accertarono che lavò 84 milioni di dollari dei Rodriguez-Orejuela in un anno e mezzo. Per questo, nel 1982, pagò 7 milioni di dollari di multa ma poi proseguì nel business. Il giorno prima dell'imputazione della Great American, Isaac Cattan, broker finanziario dei Rodriguez-Orejuela, caleño di origini israelo-siriane, finì in carcere. Di lui si diceva che lavasse ogni anno circa 300 milioni di dollari attraverso le banche di Panama e Miami. Ma qualcosa era cambiato.
Per circa tre anni, dal 1979 al 1981, non mi pare di dire una grossa corbelleria affermando che le strade di Miami entrarono sotto il braccio armato di Medellin. Mettere assieme quelle storie di assassinii e rese di conti esula dallo scopo di questa storia breve. In ogni caso si tratta di questioni molto complesse e specifiche che dal narcotraffico si allargavano a macchia d’olio fino a toccare tutta una serie di informatori della CIA che lavoravano per destabiizzare i governi del centro America e quello di Cuba. Nel suo mondo, Griselda aveva “solo” deciso di andare in guerra contro i suoi vecchi Patroni, la famiglia Mejía di Medellin, che era però da sempre in affari con i cubani anti-castristi che vivevano a Miami, alcuni dei quali erano anche sul libro paga della CIA. Non c’erano connotazioni politiche, non sembra. Lo faceva per il business. Credeva di essere ormai sufficientemente potente per liberarsi dei suoi capi. Non stupisce tuttavia che il sangue versato arrivò in poco tempo a toccare lei e il suo circolo di collaboratori più stretti. Così, mentre ad Escobar fu impedito di sedere sul trono più importante della Repubblica Colombiana, la Blanco, nel 1985, finì in prigione. Ciò avvenne proprio nell’anno che segnò la grande scissione tra Cali e Medellin, che portò ad un accordo con cui i due clan suddivisero il mercato degli States. Miami rimase ai soci di Escobar, mentre New York andò ai Rodriguez-Orejuela. Ma questa è un’altra storia.
Rimanendo invece su temi più pertinenti, dopo diciannove lunghi e silenziosi anni, nel 2004, Griselda ritornò in Colombia, estradata, e di lei si persero le tracce. Ritornò proprio quando Medellin era di nuovo a capo del traffico di cocaina in Colombia e la pace con Cali pareva ritrovata. L'Ex Regina era ormai una quieta vecchietta che si godeva quello che le rimaneva del suo impero: un edificio nel cuore del Poblado, il quartiere borghese di Medellin. Ogni giorno si recava però nel suo quartiere, nel Barrio La Trinidad, diventato nel frattempo una delle più note piazze di spaccio della città. Anche da anziana, Griselda lo considerava il suo quartiere. Quello che più interessa ai fini di questo racconto è che, dando per buona la confessione di Willy, a Buenaventura, nel silenzio assoluto, alcuni lavoravano per lei. Lavoravano per La Capitana. In altre parole, mentre Don Berna e Don Diego avevano “pacificato” i vertici narcotici della Colombia, la Blanco venne, forse, premiata con una quota del Puerto per il silenzio che mantenne sui suoi traffici durante gli anni di prigionia: una sorta di pensione riconosciutale dai clan. Ma può darsi anche che la confessione di Willy fosse falsa. 
A dirla tutta ho sempre ritenuto il loro legame una diceria, una delle tante storie che si ascoltavano per le strade e che spesso servivano a dare un’aura di importanza a chi le raccontava oltre che a generare una buona dose di paura tra l’auditorio. Annotai quel dettaglio da qualche parte e lì rimase per circa 2 anni quando, nel marzo del 2013, a Bogotà, durante un foro dei movimenti sociali colombiani presso l’Università Nazionale, venni a conoscenza della morte di Willy dopo un mio rincontro con Josè. Mi occorsero però altri mesi per relazionare la sua morte con quella della Blanco e comunque non trovai mai prove di legami. L’unico elemento strano era la contiguità temporale delle due morti. La Blanco morì nei primi giorni di settembre 2012. Willy un mese più tardi, insieme a quasi tutti quelli che si diceva partecipassero alla rete di contrabbandi della “Capitana” da Buenaventura.
C’era però un elemento che più degli altri insinuò il dubbio in me. Come spiegato nel post “La Leggenda di Willy” vi era qualcosa di strano nel suo modo di partecipare ai traffici illegali del Puerto e questa particolarità aveva a che fare con il suo stile mai esagerato, sempre attento a non attirare l’attenzione su di sè e quindi sui suoi. Dall’incarcerazione in poi la Blanco fece del silenzio mafioso quasi un’ossessione. Aveva addirittura chiamato uno dei suoi figli, Vito Corleone, proprio per la sua venerazione dei film di Coppola e per quello che riteneva essere lo stile della mafia italiana, quella “originale ed autentica”. Dopo la sua morte, in effetti, sono aumentati i reportage giornalistici e le biografie non autorizzate sul suo conto, quindi è stato più facile leggere di lei. Recentemente, è stato anche prodotto un film non molto accurato con C. Zeta Jones. Il documentario “Cocaine Cowboys” ripercorre parti della sua storia sulla base delle indagini giudiziarie che condussero alla sua cattura a Los Angeles nel 1985. Il libro di J.E. Smith (2013) “Cocaine Cowgirl”, è invece l'unico che fa domande sulle ragioni del suo assassinio, il cui movente ufficiale riportato tra i tanti verbali della polizia cui non fanno seguito indagini è: “debiti non pagati”. Leggendo quei testi mi chiedevo allora se il comportamento di Willy non potesse rappresentare un modo di eseguire ordini, come se avesse ricevuto una preparazione specifica sulle modalità di attuare in certi contesti. Non trovai mai una risposta.
Tuttavia, il trovarmi catturato in questa vasta rete di storie, alcune con traiettorie decisamente rumorose, mi mise di fronte in maniera diretta, quasi partecipata, al funzionamento della macchina mitica che operava nei quartieri e che allacciava paranoicamente tutti quei giovani e meno giovani che “lavoravano sulle frontiere” della città. L’incrociarsi di possibilità e contraddizioni, di domande senza risposte e di strane coincidenze che relazionavano un personaggio qualsiasi di Buenaventura ad una leggenda dei narcos costituiva un mondo possibile ma immaginario capace di richiamare un passato noto che continuava ad informare il presente. Queste storie si intrecciavano a paure e sogni di “perditempo e squattrinati” alla ricerca dell’occasione di una vita. Soprattutto erano parte di una mitologia che alimentava e sosteneva ordinamenti politici ombra proprio come facevano i più reali flussi di Capitale. Costituivano anche il pretesto perfetto con cui le agenzie di controllo entravano ed uscivano dai quartieri criminalizzando praticamente ogni passante. Per muoversi sulle frontiere di Buenaventura occorreva quindi essere consapevoli di immischiarsi in queste storie sperando anche di comprenderne il segreto più nascosto. Solo così era possibile non lasciarci la pelle magari con qualche spicciolo in più in tasca ogni giorno. 
Credo allora che valga la pena riflettere meglio su questi temi a partire dal Barrio che mi ospitò.
Notazioni bibliografiche aggiuntive:
Oltre a rimandare alla bibliografia del primo post cito qui altri due testi specifici su Medelllin da cui sono tratte le descrizioni sul Barrio La Trinidad (cui va aggiunta una mia visita "di campo” per interviste nel 2014) e alcuni dettagli sulla Blanco: A. Salazar, 2016, La Parabola de Pablo e P. Riaño Alcalà, 2000, Dwellers of Memory.
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lasola · 4 years ago
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[2.3] - Una Storia Breve
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Per chiarire meglio l’approccio teorico con cui provo a tracciare linee tra le complessità di Buenaventura, occorre pensare all’economia narcotica come un’economia ordinata da una vasta serie di accordi ed alleanze che si sostengono sulla credibilità degli attori e non su contratti formali o regolamenti ufficiali. E’ quindi un’economia molto regolamentata, seppur informalmente. Ciò avviene per lo più nello svolgersi di una continua commistione tra autorità legittimate dallo Stato e quelle prodotte dalle consuetudini del business, la cosiddetta “zona grigia” che è uno spazio di confusione dove scompaiono le linee di demarcazione tra i diversi attori coinvolti. I magistrati italiani che si occupano di antimafia hanno descritto questa dimensione come un “intreccio”, dove istituzioni dello Stato ed elementi della criminalità organizzata condividono gli stessi spazi politici ed economici senza però stabilire un’allenaza strutturale e funzionale tra loro. L’intreccio è quindi una realtà a se stante nella quale emergono ed agiscono soggettività che lavorano sia per lo Stato sia per la criminalità organizzata. Sono sia l’uno, sia l’altra ma non possono essere ridotte ad una delle due macro-fazioni (1, 2). Osservando il caso di Buenaventura, le soggettività dell’intreccio operano attraverso vere e proprie licenze che permettono ad un raggruppamento piuttosto che ad un altro di operare nell’economia proibita e di farlo in certe fasi della filiera produttiva per un limitato periodo di tempo. La natura dell’impegno, le mansioni consentite, le forme di distribuzione dei proventi e la durata dell’alleanza sono tutte stabilite nella licenza. Il punto cruciale è come ottenerne il “rilascio”.
Per comprendere questo aspetto, occorre studiare antropologicamente una nozione fondamentale come quella di credibilità. Nelle diverse fasi storiche e belliche della città si costruiva a partire dall’appartenenza territoriale, come descritto nel post precedente, o sulla geneaologia, per così dire, che legava economicamente tra loro famiglie, imprenditori ed imprese. Entrambe rappresentano fattori che nell’incertezza degli scambi fornivano una continuità, nel senso di conoscibilità ed identificazione dei partner commerciali. Nel nuovo millennio la credibilità iniziò a dipendere in maniera sostanziale dalla partecipazione ad un’economia più complessiva, quella bellica, nella quale da sempre si articolava un aspetto essenziale della redistribuzione dei guadagni narcotici ma che assunse una rilevanza primaria nei locali rapporti di potere. Per garantire la continuità di operazioni che in se stesse erano abbastanza semplici e ripetitive, la capacità di armarsi e non necessariamente l’uso delle armi vero e proprio distingueva i diversi raggruppamenti. Ciò avveniva attraverso la circolazione di un “far credere” di essere in possesso o di poter reclamare quella licenza. In contesti in cui i livelli di violenza sono già alti e un tabù ancestrale come l’omicidio è normalizzato attraverso diversi dipositivi socio-culturali, ad esempio quando riguardano l’uccisione di una “cabecilla”, questo approccio, mi pare particolarmente “descrittivo”.
In molti casi, infatti, a dominare l’economia locale non fu più il traffico di mercanzia illegale in sè ma quello di armi. A segnare simbolicamente l’accesso all’economia bellica non erano il carico o lo scarico di cocaina ma la capacità di dotarsi della “forza” necessaria per acquisire credibilità rispetto ad altri che potevano eseguire la stessa mansione negli stessi tempi e con la stessa efficienza. Il nodo da risolvere non era però quanta forza si era capaci di esercitare per conquistare una ruta (rotta) poichè quella veniva concessa quasi in automatico, magari dopo qualche morto “normalizzato”. L’elemento dirimente riguardava come le licenze informali, cioè, gli accordi di passaggio da una strada o l’altra e\o il carico e scarico di mercanzia illegale costituiva rapporti di forze che organizzavano gli interessi dei gruppi locali fino a permetterne la federazione dentro istituzioni più ampie e durature, come fecero i “Re del Pacifico”. L’identificazione, definizione ed infine visibilizzazione di queste istituzioni “superiori” rappresenta l’aspetto più problematico e probabilmente più politico di tutta l’economia narcotica. In generale però la storia della città racconta che ogni fase identificativa di queste federazioni preparava il passaggio da una licenza all’altra. Certamente non riguardava la fine del traffico di armi o di droga semmai la produzione di un nuovo intreccio.
In questo senso vorrei descrivere gli eventi che toccarano la città dalla fine degli anni 90. Il Puerto sembrava non avere più padroni. I Re del Pacifico non c’erano più. Asprilla era finito in carcere. Don Efra era stato assassinato e Patiño si era consegnato alla DEA nel 2002. Buenaventura si trovava però nel mezzo di una nuova fase bellica che stabilì una rinnovata alleanza tra i gruppi narcotici di Cali e quelli di Medellin, nuove ripartizioni dei proventi e soprattutto nuovi canali di aprovigionamento di armi. Per mantenere il controllo delle economie illecite di Buenaventura il cui funzionamento risultava essenziale per la stabilità politica di tutta la città e quindi indirettamente delle sue enclave logistiche, il boss del Cartello del Norte del Valle, Don Diego Montoya, chiese l'aiuto dei fratelli Castaño, che insieme a Don Berna avevano già sostituito tutte le cabecillas di Escobar in Antioquia. Questi ex allevatori di bestiame dell’Urabà, nel 1997, avevano creato un'organizzazione ombrello, le AUC (Autodifese Unite di Colombia), che era una federazione in cui conversero diversi gruppi armati, tutti di estrazione militare, finanziati da narcotraffico e\o regalie di oro, petrolio o da fondi occulti di altre grandi imprese.
Ci sono svariati resoconti sulla storia paramilitare in Colombia. La complessità del tema riguarda soprattutto la frammentazione delle fonti e la dimensione profondamente locale di molti dei gruppi armati che sono entrati nella federazione e la loro diversa commistione con il narcotraffico. In generale però, dati alla mano, è possibile affermare che le AUC misero in piedi la più grande contro-riforma agraria della storia colombiana (1). In una decade, riuscirono ad accentrare circa il 90% delle terre “buone” nelle mani del 5% della popolazione. Contestualmente, la produzione di foglie di coca nelle terre che rimanevano toccò vette mai viste prima. In questo modo, dopo l'uscita di scena dei Rodriguez-Orejuela e di Escobar, le reti dei Castaño riuscirono a controllare fino all'80% del traffico di cocaina colombiano, che era circa il 70% del traffico mondiale. Nella regione pacifica queste tendenze furono decisamente confermate.
Il progetto politico delle AUC si inserì infatti come opposizione agli accordi di pace con alcune guerriglie che, nel 1991, portarono ad una nuova costituzione del Paese in cui lo Stato si impegnava a riconoscere e proteggere i territori etnici della Colombia. Una legge attuativa del 1993, la Ley 70, diede la possibilità ai villaggi e territori della regione pacifica di essere riconosciuti come terra ancestrale, dove comunità indigene ed africane avevano sviluppato forme e modi di vita da preservare. Poco alla volta, su tutto il litorale pacifico si formalizzarono diritti di proprietà mista privata\collettiva che tra le altre cose prevedevano l'impossibilità di parcellizzare e rivendere le terre o di poterlo fare solo attraverso meccanismi decisionali che richiedevano il consenso comunitario. Per molti, i nuovi territori etnici rappresentarono un potenziale duro colpo alle economie narcotiche e minerarie. Ma anche nel nuovo mondo della Finanza offshore, la terra era ricchezza, tanto simbolica quanto materiale. In Colombia questo era particolarmente vero poiché i proprietari terrieri non venivano tassati e qualora le loro terre servissero per progetti di pubblica utilità, come per la costruzione di strade e ferrovie, o nascondessero nel sottosuolo importanti giacimenti minerari, lo Stato di solito prometteva ottime compensazioni. Bisognava solo voler vendere.
Per questa ragione, nel 1999 nacque il Bloque Calima (e un suo sotto gruppo, il Frente Pacifico), federato con le AUC. Il suo scopo, non dichiarato, era la ridefinizione dei regimi proprietari della Valle del Cauca (e della regione del Pacifico nord), nonché impedire il progetto politico di ogni minoranza etnica eccetto quella narcotica. Uno dei capi delle AUC, Carlos Castaño, avrebbe voluto mettere Don Diego al comando del Bloque ma i suoi legami diretti con la cocaina fecero propendere per una figura minore, più facilmente vendibile alle autorità ufficiali una volta terminate le campagne militari. Al suo posto come comandante del Bloque Calima venne quindi scelto Herbert Veloza García, alias “HH”, anche lui di Trujillo, come il boss, e suo amico d’infanzia. Insieme ad alias “El Fino” e a Frivet Hurtado, un ex-guerrigliero, organizzarono ed eseguirono tutte le operazioni militari con cui ufficialmente riconquistarono il Puerto ed accaparrarono le terre del litorale. Tutta la regione divenne in pochi anni uno dei luoghi al mondo con il più alto numero di rifugiati interni. Le campagne si spopolarono e le terre quasi per magia diventarono proprietà di prestanome e società scudo tutte riconducibili al Cartello del Norte del Valle di Don Diego o a qualche affiliato delle AUC in attesa del giusto acquirente. In altri casi, sfruttando proprio la Ley 70, Consigli Comunitari fittizi, composti di poche persone e meno famiglie, vennero creati appositamente per divenire i proprietari di terre “ancestrali” in attesa di essere rivendute con il “consenso” di tutti i consiglieri. Ciò avveniva, mentre la produzione di pasta base e di foglie di coca toccarono i massimi livelli della storia della regione.
Per meglio decifrare quegli anni però non si può non partire dalle storie ufficiali che interpretavano le complessità di cui ho raccontato identificando le strutture politiche dei quartieri come prova della presenza del Frente 30 delle FARC di alias Mincho. Quest’ultimo conosceva personalmente “El Negro” Asprilla (del quale si diceva che fosse anche amico di uno dei comandanti delle FARC, il Mono Jo-Joy). Tutto ciò più o meno bastò per costruire una teoria egemone che presto si trasformò in narrazione dominante che rese tutti quei gruppetti che di fatto frammentavano e quindi rallentavano il trasporto di cocaina e distribuivano quote infinitesime dei suoi proventi, affiliati alle FARC. A voler credere a quello che si diceva, appoggiando i Niches o accordandosi con loro per le rotte, dalla caduta dei Rodriguez-Orejuela le FARC controllavano il narcotraffico a Buenaventura. Inoltre, quel sistema di scambi, che ho brevemente raccontato nel post precedente, venne reinterpretato come una “tassa del popolo” che colpiva tutti i negozianti e i piccoli e medi imprenditori. In questo modo la guerrilla intendeva rafforzare il suo antistato scacciando l’istituzionalità legittima per sostituirla con i suoi apparati di governo. Questa storia, pur credibile visti i livelli di cocaina che uscivano dal Puerto in quegli anni, non era vera, o, per lo meno, non lo era del tutto. Seguendo comunque la narrazione ufficiale, il risultato fu che spaventati dai sogni irrealizzabili del socialismo, la comunità imprenditoriale di Buenaventura richiese l’aiuto di HH dotandolo di tutti gli ultimi ritrovati bellici per liberarsi delle narco-guerriglie. Così dal 2000 e per almeno 5 anni sotto quello stesso nome, il Bloque Calima rastrellò quartieri e commise un numero ancora da precisare di stragi con lo scopo di riportare le strade dentro un unico ordine armato finanziato dalla cocaina.
Tutto avvenne simultaneamente che anche i più devoti non riuscivano più a considerarlo semplice destino. La privatizzazione del Puerto, la morte di sindacalisti o il loro passaggio nei piani alti, i progetti di riqualificazione urbana, la costruzione di nuove periferie, l'autostrada, in una parola, l'ammodernamento di Buenaventura arrivarono insieme ai più alti tassi d'omicidio della storia della città. Obiettivi paramilitari dichiarati erano tutti i gruppi come il combo dell'altro José, i quali, seppur rispondevano anche loro a una certa richiesta di difesa di strade e case, usavano metodi di finanziamento non accettabili (come le rapine ai portavalori o ai camion del porto o tassando il contrabbando) e mantenevano relazioni decisamente conflittive con gli apparati politici dello Stato essendo più apertamente, loro si, schierati con gli uomini di Mincho. Il Bloque Calima era invece armato ed appoggiato da istituzioni dello Stato, dalla polizia e dall’esercito, da certi partiti politici e da alcune imprese della città che avevano rliasciato una nuova licenza per operare nel mondo proibito a scapito di tutti gli altri gruppi (1). Se quindi all'epoca di Asprilla e di Patiño, l'altro José e i suoi avevano regolato, cioè tassato e contingentato, il narcotraffico e il contrabbando nei quartieri della Piedras Cantas e nel Viento Libre, due semplici strade e moli della zona di Bajamar tra le molte disponibili, dal 2000, quegli accordi non furono più validi. Le armi dovevano essere quelle di HH e la cocaina doveva essere quella di Don Berna (Medellin) e di Don Diego (Cali\Trujillo). Quando poi, nel 2006, HH finì estradato negli States, seguito poco dopo, nel 2008, da Don Diego, a Buenaventura si pensò che la città potesse finalmente ritrovare la pace. Invece i livelli di violenza si mantennero sostenuti. Nessuno sapeva esattamente perché. O meglio nessuno poteva ammettere che la teoria egemone non spiegava quello che accadeva in città. Nella mia interpretazione ciò che accadde fu che il Bloque Calima tentò di federare, con loro o contro di loro, i diversi gruppi dei quartieri, di fatto forzando se non finanziando una corsa alle armi di piccolo taglio sulla quale si produssero divisioni senza precedenti in città. Ormai pareva che ognuno avesse un suo gruppo in armi e che senza armi fosse impossibile qualsiasi tipo di economia.
Nel 2009, più o meno quando arrivai per la prima volta a Buenaventura, vi era un certo accordo tra i ricercatori che si occupavano della città e i diversi think-tank circa la coesistenza di molti gruppi armati ognuno dei quali distinguibile soprattutto genealogicamente ma non per le pratiche di controllo dei quartieri. Erano le voci che cambiavano, non i metodi di sorveglianza e punizione e nemmeno il loro modello di business. Tuttavia la teoria dominante era che questa frammentazione fosse il prodotto dell’azione militare e paramilitare che aveva reso i gruppi in questione più deboli e piccoli ma sempre dipendenti dal narcotraffico. Rispetto alle mie osservazione e a quanto scritto fino ad ora, il contesto invece non era cambiato molto. La principale variazione fu che molti gruppi si armarono per continuare ad esistere. In alcuni casi si erano dotati di un’organizzazione e si erano professionalizzati dentro l’economia bellica che foraggiavano praticando estorsioni e partecipando al traffico di droga non solo internazionale. Il resto faceva parte delle politiche dell’identità urbane con le quali si “chiamava” un’istituzione intermedia con un nome o con un altro, giustificando ondate di militarizzazione, investimenti nella sicurezza e quant’altro in base agli umori politici di Bogotà e della comunità internazionale. Stando però a quelle identificazioni ufficiali il panorama bellico di cui si raccontava era il seguente.
Il Cartello del Norte del Valle si era diviso in due gruppi. C'erano i Macho ancora fedeli a Don Diego e c'erano i Rastrojos, formati dal suo ex-migliore amico Varela (anche lui con un passato da tenente nella Polizia di Cali). C'erano le Aguilas Negras, di estrazione militare, ex riservisti e vecchi soldati di HH che si diceva fossero ancora comandanti da Vicente Castaño, l’unico dei tre fratelli di cui si sa con certezza che sia ancora latitante. C'erano poi pezzi delle reti che venivano da Medellin che era difficile definire. Tutti facevano attenzione a non relazionarli direttamente a Don Berna che era nato a Tuluà, vicino Cali, ma che in quegli anni ebbe un ruolo fondamentale nella costruzione della pax narcotica della città antioqueña insieme ai Castaño. Venivano quindi nominati in base alle cosiddette cabecillas, ai capi minori che periodicamente apparivano per controllare i traffici di cocaina ma non i flussi finanziari che ne derivavano. Nel 2009 e fino a quando rimasi in Colombia erano chiamati Urabeños appellativo che li identificava con l’Urabà, la regione dell’Antioquia da cui provenivano già i Castaño ed alcuni di loro. Più tardi furono chiamati Clan Úsuga perchè erano i tre fratelli Úsuga a gestire i traffici e non si voleva più stigmatizzare quella regione. Ancora più recentemente sono stati chiamati Clan del Golfo, definizione che aspira forse a relazionarli direttamente al cartello messicano da una cui costola sono nati gli Zetas, cioè (ex) gruppi speciali dell’esercito dediti al narcotraffico.
C'era poi ancora il Frente 30 delle FARC che, soprattutto dopo la morte di Mincho, nell’ottobre del 2011, aveva perso capacità di influenzare le vicende urbane di Buenaventura. Molte delle persone che orbitavano intorno alla guerriglia, se non erano già morte o in fuga, erano finite a lavorare per quelli che avevano vinto la guerra. I casi dell’Altro Josè o di Panamà, ma anche i casi di altri molto più famosi ed importanti di loro, a cominciare dallo stesso Don Berna che aveva iniziato tra i maoisti dell’EPL, mostravano che tutti quei combos, alcuni mai formalmente nelle FARC, semmai in relazioni di collaborazione per ragioni economiche o per opportunità commerciali puntuali, presero altre direzioni al mutare delle condizioni del conflitto. Ogni tanto si ascoltava di attacchi alla rete elettrica del Puerto che generavano rallentamenti alla logistica ma mantenevano la città al buio per diversi giorni. Questo di solito produceva più malcontento che comprensione tra gli abitanti. L’ELN invece manteneva relazioni nei quartieri periferici in modi diversi, ad esempio dando lavoro nelle miniere “informali” d’oro del Chocò, quindi organizzando gli spostamenti dei minatori o garantendo la loro incolumità, o "facilitando” il contrabbando di idrocarburi e di altri prodotti. Sembrava comunque che i suoi integranti cercassero di rimanere fedeli al rifiuto del narcotraffico come da sempre sostenuto dai Castro a Cuba. 
Infine c'erano i fuoriusciti, i disertori e quelli che aspiravano a diventare “qualcuno” e che si ritrovavano in qualche esquina della città a parlare di quando sarebbe arrivato il loro turno per mettere ordine. Appena provavano a prendere una strada e magari a farsi conoscere da qualcuno più in alto inziavano però ad andare sotto pressione e di solito non duravano molto; qualche mese, i più fortunati qualche anno. I nuovi tempi obbligavano ormai ad avere maggiori expertise e connessioni militari e molti di loro potevano contare solo degli anni come riservisti nell’esercito e poche altre conoscenze. Nella Comuna 12 dove vivevo, ce n’era stato uno dal nome improbabile, gli Spacca Porte (los Tumbapuertas), un gruppo di autodifesa non affiliato a reti più ampie che si era formato in un barrio non lontano, di cui non si poteva parlare pubblicamente ma che tutti ricordavano abbastanza bene. I suoi membri organizzavano cineforum all’aperto o serate tematiche per parlare di diritti delle comunità afro, di disobbedienza civile e per spiegare le dottrine dei maggiori leader di origini africane del mondo. A volte, intervenivano a dirimire conflitti locali anche picchiando i malcapitati in pubblico. Furono quelli che, anni prima del mio arrivo, scacciarono un ragazzo del Barrio perchè aveva rubato i computer di una scuola elementare. Per un periodo abbastanza breve formarono ronde notturne, armate di pistole artigianali che sparavano uno, massimo due colpi, quando non esplodevano nelle mani di chi le usava. Aspiravano a tenere fuori dai quartieri i gruppi di narcos ma furono più o meno tutti scacciati, se non uccisi, dal Bloque Calima e dai suoi “compadres” delle Aguilas Negras.
Nel periodo in cui vissi nella comuna 12, le “aquile” erano invece in guerra contro i Rastrojos che si diceva, sempre stando ai bollettini ufficiali, controllassero la comuna, imponendo il pizzo per l’accesso ai mercati rionali, dal trasporto a quelli di frutta e verdure, allo spaccio locale. Questo scontro che iniziò nella seconda metà del 2011 e terminò all’inizio del 2014 con “l’estinzione” dei Rastrojos e l’entrata degli Urabeños nel Barrio, proprio grazie all’appoggio delle Aguilas Negras, fece ipotizzare a più di qualcuno che nella Comuna fosse in atto un regolamento di conti tra fazioni di (ex) poliziotti e fazioni di (ex) militari. Da questa guerra emerse poi un nuovo gruppo, l'Impresa, composto da ex collaboratori sia dei Rastrojos, sia degli Urabeños, “che aspirava a mettere ordine in città” e che, per questo, in poco tempo, divenne il nemico numero 1 di tutti gli altri gruppi armati che lo liquidarono in poco tempo.
Questa ricostruzione di storie locali è sicuramente ancora parziale ma potrebbe resistere ai commenti di quei pochi testimoni interessati a parlare, che non finirono in progammi ufficiali di protezione e continuarono a bazzicare le strade del Puerto. Infatti accanto ai gruppi già identificati, vi era una vasta gamma di personaggi ed assembramenti che orbitavano intorno alle frontiere cosiddette “invisibili” imposte dal conflitto. Si trattava di persone, giovani ma non solo, che avevevano imparato ad approfittare delle divisioni della città; cioè muovendosi dentro di esse per riscuotere commissioni ed estrarre risorse quando tutti gli altri erano costretti dentro spazi quotidiani, limitati dalla guerra, dalla paura o da una condizione di indigenza concreta. Prima di descriverne alcuni e il loro operato, bisogna però mettere insieme ulteriori elementi sulla macchina mitica dei quartieri e per descriverla racconterò un mito narcotico che aleggiava sui destini del barrio in cui vivevo, quello che riguardava la “Capitana”, cioè Griselda Blanco.
Per concludere invece questo trittico, mi pare utile riordinare le sezioni 1 e 2 del blog. Negli ultimi 4 post ho cercato di descrivere non solo congiunture e traiettorie in cui gli abitanti di Buenaventura si trovavano impelagati. Ho provato a delineare le origini di quella che viene chiamata “l’assenza dello Stato”, interpretata in queste pagine non in quanto “vuoto” ma come rapporto di potere e come paradigma di controllo della città. Ne scriverò meglio nei prossimi post ma fin qui ho tentato di delinearla attraverso un’ibrido che in altri contesti ho definito Stato-e-Clan cioè un intreccio nel quale l’alleanza tra Stato ed organizzazioni criminali è divenuta strutturale pur all’interno di narrazioni molto dettagliate ed attente nello scindere i due mondi. Per ora mi sono limitato a descrivere le diverse entità di natura privata che agiscono nell’intreccio: le corporate della logistica, i gruppi di autodifesa finanziati indirettamente dal Plan Colombia, il municipio degli amici di amici ed i corpi resistenti dei quartieri. Ad essi aggiungerò nei prossimi racconti alcuni organismi internazionali non governativi che si occupavano dei “fallimenti” del mercato o delle “sconfitte” dello Stato riempendo in altri modi l’assenza.
Ho quindi tentato di descrivere alcuni elementi di un intreccio complesso, certamente non unitario, segnato da una netta divisione razziale e dominato dall’industria logistica. Che vi fosse anche un’alleanza strutturale oltre che funzionale tra dinamiche mafiose e paramilitari ed apparati di governo con lo scopo di garantire la trasportabilità delle merci da Buenaventura lo affermano svariate testimonianze oltre che ricostruzioni giudiziarie degli eventi, cui seguirono incriminazioni, espulsioni, esili ed incarcerazioni. L’alleanza fu poi ribadita nel 2013 quando, per decorso dei termini, “i Re del Pacifico”, Asprilla e Patiño e le loro proxy politiche ricominciarono a bazzicare le strade del Puerto riaffermando l’importanza di certe consuetudini, prima tra tutte il mantenimento di divisioni strutturali nei quartieri: condizione imprescindibile per il governo di Buenaventura.
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lasola · 4 years ago
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[2.2] - Una Storia Breve
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Il radicamento della produzione di coca in Colombia è un fenomeno ancora poco conosciuto. Tuttavia, la storia del boom della cocaina dagli anni settanta ad oggi dimostra che fu proprio questo passaggio a determinarne lo sviluppo su scala industriale ed a rendere la cocaina una merce globale. Prima della sua diffusione nel paese andino, la cocaina era commerciata da piccole reti di contrabbandieri che gestivano quantità di sostanza irrisorie rispetto a quelle attuali e si muoveva sulle rotte del contrabbandando di medicinali. Fino alla prima guerra mondiale infatti circa l'80% della pasta base proveniva dal Perù e si dirigeva verso il porto di Amburgo, in Germania, dove la cocaina era processata e venduta legalmente dalle maggiori compagnie farmaceutiche nazionali, con la Merck in testa. Quando ancora non si ipotizzava che la cocaina sarebbe stata dichiarata illegale, Olanda e Giappone tentarono di internazionalizzarne la produzione coltivando la pianta della coca in Indonesia, la prima, e a Taiwan il secondo. La Grande Guerra ridefinì le narcopolitiche anche per contenere le capacità di finanziamento tedesche che rischiavano di divenire pressoché illimitate. La prima proposta di politiche internazionali multilaterali fu proprio per il controllo delle droghe. La Convenzione sull'Oppio della Lega delle Nazioni fu firmata nel 1919 all'interno dei negoziati di pace che obbligarono la Germania ad abbandonare i suoi monopoli su oppiacei e cocaina.
Quando nel 1952 nel Barrio La Trinindad di Medellin fu trovato il primo laboratorio per il processamento della cocaina, non vi fu grande sorpresa nello scoprire che era gestito dal figlio di un ex Presidente della Repubblica e dalla figlia di un noto imprenditore locale. Negli stessi anni, il Perù aveva sviluppato un fiorente settore chimico-farmaceutico, primo caso nella Post-Colonia, proprio grazie alla produzione di cocaina e di prodotti derivati ed all'arrivo di chimici specializzati dalla Germania. Diversi testi raccontano che all’inizio dell’era proibizionista tutti i paesi dell'America del Sud furono refrattari ai controlli imposti dagli USA, sia perchè li consideravano un'ingerenza nelle politiche industriali interne, sia perché pareva che la Merck ne avrebbe approfittato monopolizzando la produzione. Questo lasciò maggiore spazio per iniziative imprenditoriali che prevedevano, forse, la possibilità di ulteriori cambiamenti legislativi. Certamente i controlli non erano molto accurati e il proibizionismo permise la crescita di un fiorente mercato nero che garantì margini di guadagno impensabili se le compagnie farmaceutiche straniere fossero rimaste sul mercato. La scelta strategica che molti imprenditori locali si trovarono a compiere, non fu se commerciare cocaina sfidando le leggi volute dagli USA oppure no, ma come farlo prima degli altri ed acquisire quote di mercato oligopolistiche. Comunque, in quegli anni, la Colombia ebbe un ruolo marginale nel commercio di cocaina. Per sbloccare la situazione ed industrializzarne la produzione bisognò superare alcune importanti criticità.
La prima riguardava il “know-how” necessario per gestire un laboratorio per la raffinazione della pasta base. Alla fine degli anni cinquanta, in America Latina esistevano alcuni laboratori sparsi tra le Ande, in Perù, Colombia e Cile. Ce n'erano alcuni anche in Messico. Nessuno di essi era però in grado di processare ingenti quantità. Fino a tutti gli anni settanta aprire un laboratorio non risultava ancora un compito facile. Certamente non lo era per "pistoleri” e “sicari" o per "contadini" che producevano foglie di coca, o per "barcaioli” che si occupavano di trasporto. Per aumentare la produzione fino ad industrializzarla occorreva soddisfare due condizioni cruciali: 1. togliere sempre più terre coltivabili ai prodotti locali e riempire le montagne di coca e 2. approvigionarsi dei precursori chimici per ricavare cocaina.
In Colombia tra i dati più sorprendenti ci sono quelli sul consumo di cloroformio, permanganato di potassio, bicarbonato di sodio, idrossido di calcio e molti altri; agenti chimici ordinari, molti dei quali non hanno nemmeno bisogno di licenze per essere acquistati. Ne arrivavano in migliaia di tonnellate, in quantità che superavano 20 anche 40 volte il fabbisogno della nascente industria chimico-farmaceutica nazionale. I maggiori produttori di queste sostanze in quegli anni risiedevano però nei paesi anglofoni, US e UK (1), e non in Argentina o in Cina come affermano gli attuali rapporti delle polizie (1). Si trattava di imprese, a volte piccole e molto specializzate che orbitavano intorno al settore chimico-farmaceutico e che oggi sono state assorbite o sono controllate dalle maggiori multinazionali dell'agrochimico. Quelle compagnie cioè che, negli stessi anni, producevano napalm (la Monsanto) e\o vendevano diserbanti, fertilizzanti e semi ai contadini delle Ande, ufficialmente per risolvere il problema della fame. Negli States i primi tentativi di controllare sostanze come il permanganato di potassio ed altri precursori della cocaina iniziarono nel 1989 ma solo dalla seconda metà del 2000 questi controlli si fecero più stringenti anche in Colombia e non per tutti i precursori disponibili.
Dopo aver ottenuto tutto l'occorrente, il processamento e la lavorazione della pasta base sono comunque un'operazione pericolosa per mani quasi-esperte. Agli inizi dell’era narcotica si registravano molti casi di esplosioni nei laboratori. Persone morivano e il prodotto si perdeva generando ritardi e coni di botttiglia nella produzione. Alcuni raccontano che negli anni settanta, il Centro di Specializzazione per la Chimica dell'Università Nazionale di Bogotà fornisse parte della manodopera e delle competenze necessarie ma, in ogni caso, la diffusione del know-how che permetterà, solo in epoca più recente, la proliferazione dei laboratori, fu lenta e, per molti anni, garantì il monopolio del commercio a gruppi e reti ristrette di trafficanti con legami politici e governativi importanti. Non è un caso che uno dei più stretti collaboratori dei Rodriguez-Orejuela di Cali, tra gli anni sessanta e settanta, sia stato Giovanni Caicedo Tascón Morán, cognato del Governatore della Valle del Cauca ed altri governatori risultarono fin da subito sul loro libro paga.
Esiste poi una seconda criticità, che reti medio-piccole di contrabbandieri e sicari non possono risolvere da soli: l'accesso ai mercati per portare avanti transazioni che potevano riguardare attori anche di 3-4 nazioni diverse. Una certa dimestichezza con i commerci era necessaria per generare una transizione dalle imprese farmaceutiche tedesche a reti imprenditoriali e di contrabbandieri multinazionali. Al riguardo, gli archivi disponibili descrivono i primi trafficanti di cocaina come grossi proprietari terrieri, oligarchi decaduti o imprenditori provenienti dai sistemi informali del debito, dalla preistoria delle banche, cioè da agenzie usuraie incaricate di prestare e riscuotere denaro che cercano nuovi settori economici su cui riversare i loro guadagni. In generale quindi i primi trafficanti non erano degli sprovveduti ma facevano parte di famiglie facoltose con legami internazionali, disponevano di capitali da investire e possedevano un certo know-how commerciale.
La rete di conoscenze che articola le relazioni con gli USA di Cali e Medellin è infatti vasta. Si poggia su storiche famiglie dedite al commercio internazionale dall'epoca della Colonia, che non solo iniziano a interessarsi alla cocaina ma gestiscono già i maggiori affari delle rispettive nazioni. Tra queste le più referenziate negli archivi di indagini ufficiali sono i Matta-Ballesteros in Honduras, la famiglia Sánchez Paredes in Perù, il Generale Torrijos a Panama e la famiglia Suárez in Bolivia. Ci sono poi i vecchi contrabbandieri di marijuana di Sinaloa, Pedro Avilés e il suo successore, Miguel Ángel Félix Gallardo che si limitavano in quegli anni a permettere ad aerei e corrieri procedenti dalla Colombia di sostare nei loro territori per rifornimenti. Negli USA, invece, a partecipare al business sono tutti (ex) marine molti dei quali avevano combattuto già più di una guerra. Risulta ormai un'evidenza storica accertata da commissioni parlamentari che nel secolo scorso il narcotraffico sia stato usato direttamente dai servizi segreti americani per provocare guerre proxy autofinanziate e senza dover aspettare costosi lasciapassare politici. In Colombia gli (ex) marine pilotavano aerei ed insegnavano a manovrarli. In molti casi aprivano vie che in seguito l’avidità dei contrabbandieri avrebbe monopolizzato cancellando le prove dell'iniziale connivenza.
C'è poi un vasto panorama di personaggi del bajomundo (bassifondi) che fungono da mediatori e rimangono nell'ombra per lungo tempo salvo poi riapparire improvvisi dentro un archivio ufficiale o un articolo di giornale in cui diventano capi di qualche clan o si trovano immischiati in qualche guerra di successione. Tra questi vi sono senza dubbio tre persone che la stampa di quegli anni in maniera decisamente enfatica descriveva “i Re del Pacifico”. Si trattava di Eliecer Asprilla, alias El Negro, Efrain Hernandez Ramirez, alias Don Efra, e Victor Patiño Fomeque, alias el Chimico. Il primo era a capo di un gruppo di 20 contrabbandieri noti a Buenaventura come "Los Niches", appellativo che ironizzava su un altro famoso gruppo della città che si occupava però di musica e di salsa. Il secondo era un ufficiale della dogana e il terzo era il sergente della Polizia di Cali. Grazie a loro, stando ad una testimonianza dello stesso Asprilla, ogni anno, tra la fine degil anni '70 e gli anni '80, da Buenaventura partivano almeno 12 tonnellate di cocaina purissima in un silenzio quasi assoluto. Secondo dati della DEA usati per le imputazioni contro alcuni boss, negli anni 90 e nell'arco di un decennio questi traffici toccarono le 500 tonnellate complessive seppur da tutta la regione di Buenaventura e non solo dalla città. La peculiarità della loro organizzazione fu che riuscirono a mantenere il controllo dei traffici di cocaina dal porto per circa 30 anni. Per farlo dovettero assorbire un ingente numero di imbarcazioni che si occupavano di tutt'altro.
Nella prima metà degli anni '90, però, questa stabilità venne scossa da una guerra che toccò anche Buenaventura. La morte di Escobar e l'incarcerazione dei Rodriguez-Orejuela generarono una serie di aggiustamenti che coinvolsero tutta la regione della Valle del Cauca ma furono parte di un più ampio processo di riassestamento che riguardò l'industria del narcotraffico a livello globale. Quello che accadde localmente fu che sicari e pistoleri, incaricati della sicurezza ed autisti dei vecchi capi si affrontarono per prendere il loro posto e per controllare il traffico di cocaina nella Valle. Passando in rassegna i loro nomi e le loro biografie è facile notare che molti di questi rivoltosi avevano un “passato” nella Polizia Nazionale, in alcuni casi anche con incarichi di rilievo. L'organizzazione di Buenaventura che si occupava essenzialmente di carico e scarico però non cambiò, o meglio, molti “capi minori” (las cabecillas) furono assasinati, scomparvero o finirono in prigione ma le modalità di svolgimento del business rimasero le stesse. In altre parole, la maggiorparte dei magazzinieri e dei barcaioli che lavoravano con “i Re del Pacifico” continuarono a farlo con un nuovo datore di lavoro, che non erano più i Rodriguez-Orejuela ma gli scagnozzi di Don Diego Montoya, il boss del Cartello del Norte del Valle che resse i traffici dal porto fino ad almeno il 2006.
Questa relativa stabilità nei rapporti di produzione di un’industria come quella narcotica a Buenaventura rappresenta un elemento che viene normalmente omesso nelle ricostruzioni degli eventi di quegli anni. Di solito si associano alti livelli di violenza all’interruzione ed alla riduzione delle capacità di traffico delle organizzazioni criminali. Nel caso del Puerto questo non fu necessariamente vero sotto diversi punti di vista. In primo luogo vi era un esercito di disoccupati da cui attingere e con cui in poco tempo si poteva sostituire qualcuno senza generare interruzioni nel trasporto. Inoltre, la cosiddetta bonanza che durò per lungo tempo aumentò l’interesse nel fare “una vuelta”, cioè un viaggio con un carico per raccogliere qualche soldo, mentre nei quartieri generò diverse tattiche per estrarre risorse dai trasporti illegali. Su questi ultimi due punti servono maggiori spiegazioni e per farlo occorre fare un passo ulteriore nel bajomundo.
Benchè i guadagni più consistenti non si fermassero mai a Buenaventura, anche qui il nuovo commercio, poco alla volta, immise denaro liquido in aree della città normalmente in difficoltà. Accadde anche dalle parti di José dove nel giro di pochi mesi fu costruita una casa di cemento con 3 piani e piscina che sembrava uscita fuori da una telenovela prodotta in Messico o in Argentina. Vi erano cioè segnali un pò ovunque che in città alcuni si stavano arricchendo e gli abitanti iniziavano a chiedersi come fare per partecipare al banchetto. I più temerari non trovarono altra via se non l'imitazione di quelli di cui volevano prendere il posto. Di solito iniziavano a vietare il passaggio della mercanzia da certe strade per ottenere poi una quota, seppur infinitesima, per quel passaggio. La relativa facilità con cui si poteva “prendere una strada” permise la crescita di un vasto sottobosco di gruppi e gruppetti rionali che estraevano risorse dagli affari di altri senza lavorare per un clan specifico, ma facendo commissioni per gli uni o per gli altri in base alle necessità e riscuotendo qualche spicciolo.
Per descrivere gli eventi di una città come Buenaventura è quindi fondamentale comprendere le relazioni e i diversi ruoli che queste micro-organizzazioni, per quanto fluide ed inerentemente instabili, mantennero tra loro e con gli abitanti dei quartieri. Agivano infatti all’interno di zone di tolleranza diffuse in cui vari “illegalismi” partecipavano delle strategie di sopravvivenza di un vasto numero di famiglie (1). In alcuni casi, ebbero un ruolo cruciale nel mediare e collegare tra loro le località permettendo a zone marginali di partecipare alle forme di accumulazione di capitale che si stavano affermando. Divennero, cioè, veri e propri corpi intermedi che operavano da broker con l’unica economia che produceva redditi con una certa stabilità mentre la popolazione si ritrovava progressivamente spossessata dell’accesso al mare come risorsa economica. Stando ai ricordi ed ai racconti di quegli anni, le modalità con cui ciò avveniva erano molteplici ma il nodo principale era catturare quote dei traffici via terra o via mare per poi ripartirle attraverso donazioni alle reti sociali più prossime oppure spendendo localmente l’eccedente. Ma oltre ad immettere liquidità dove ce n’era un gran bisogno, prestavano anche una vasta gamma di servizi. Tra questi vi era senza dubbio il trasporto locale o l’arrischiarsi in zone più pericolose della città per acquisti specifici o per permettere la vendita di prodotti locali senza pagare il pizzo (vacuna), pratica da sempre esistita, per esempio, nei mercati di frutta e verdura o delle carni e pesci.
Questa loro capacità di “detassare” alcuni prodotti dopo averne “tassati” altri dipendeva da un’altra funzione che svolgevano, quella di negoziare con i loro omologhi di altre località; attività che solo in rari casi prevedeva un uso organizzato della violenza. Per farlo e per avere successo, sfruttavano infatti le connessioni e le conoscenze che il loro muoversi in città scambiando favori creava. Di solito il ricorso alle armi era costoso e si preferivano altri mezzi. Generavano quasi una forma di diplomazia locale che si basava su un articolato sistema di scambi spesso non monetari, con cui, ad esempio, in cambio del passaggio di “merca” dalla via di un barrio, si permetteva alle famiglie x e y di vendere il loro pesce al mercato generale nei giorni a, b e c, oppure a quella z di usare un carretto per vendere acqua di cocco in una esquina per qualche tempo. In cambio il gruppo si aspettava un pò di acqua di cocco e due o tre pesci in dono, usanza comune ma non obbligatoria, insieme agli spiccioli che venivano comunque raccolti per il passaggio di merca. Gli scambi per loro natura non permettevano l’accentramento di fortune in poche mani ma dipendevano, certamente, sia da gerarchie ordinate dalla prepotenza, sia dal passaggio di cocaina, il cui movimento era la vera fonte dei rapporti di potere e permetteva a queste microorganizzazioni di reclamare un ruolo di coordinazione delle economie informali della città.
Un aspetto cruciale è che, contrariamente a quanto affermato in molte indagini criminologiche, le relazioni che costituivano non dipendevano dall’identificazione di un gruppo, nè necessariamente di un capo ma, come detto in precedenza, da istituzioni che organizzavano tendenze. La fluidità ed il loro essere essenzialmente delle forme di socialità a mio parere lo dimostrano. Spesso ad esempio i membri cambiavano. Lo facevano a volte perchè stufi o perchè esiliati ma anche per esigenze di lavoro. C’era chi andava in una miniera fuori città per 6 mesi per tentare la fortuna; chi grazie ad un gancio iniziava a guidare un colectivo per il trasporto pubblico e lasciava l’esquina; chi si sposava e trovava lavoro dal suocero; chi iniziava a lavorare in un chiosco di arepa per un vecchio favore dovuto. Oppure si faceva un giro nella esquina e cercava di capire cosa c’era da fare quel giorno. Il problema è che queste dinamiche venivano normalmente interpretate a partire da modelli gerarchici che le associavano ad organizzazioni criminali. Per questo spesso erano descritte come “infiltrazioni” nell’economia legale, come “contagio” dei quartieri ma probabilmente non erano altre che strategie di sopravvivenza. La semplice riduzione dicotomica criminale\legittimo o illegale\legale non mi pare quindi sufficiente per comprenderle. Queste istituzioni flluide e al tempo visibili si adattavano alle forme di accumulazione di capitale dominanti. Tuttavia, piuttosto che essere considerate parte di organizzazioni superiori riconducibili “a mafie che sono il grande nemico pubblico”, apparivano uno strumento simbolico che riaffermava l’esistenza di un barrio o di una calle o di una esquina nella più generale economia cittadina. Era quasi vero il contrario. Semmai rappresentavano una risposta al “male del Puerto”. La provenienza territoriale, l’essere riconoscibili e conoscibili forniva loro la legittimità per partecipare agli scambi, non la forza che mostravano e nemmeno la loro fantomatica affiliazione mafiosa. Erano a tutti gli effetti degli emissari di famiglie allargate, magari anche di clan in senso antropologico ma forse proprio per questo venivano facilmente stigmatizzati.
La Polizia li rendeva “bande” alla bisogna non solo per naturale miopia ma anche per disimpegnarsi dalle proprie responsabilità dirette nell’industria narcotica e per ripulire la propria immagine pubblica. Il colpo finale però arrivò nel nuovo millennio, con l’inizio del Plan Colombia e la paramilitarizzazione del Paese. Questi raggruppamenti si trovarono sempre più spesso messi all’angolo di fronte alla decisione di armarsi oppure no e di decidere un lato piuttosto che l’altro. La loro stessa esistenza iniziò a dipendere dalla capacità di accesso alle armi e dalla formalizzazione di un’organizzazione interna. Non era più sufficiente sondare un’esquina per capire che aria tirava e se c’era qualche lavoretto quel giorno. Bisognava ora entrare dentro legami e vincoli di appartenenza più duraturi con nuove regole di ingaggio basate su rinnovate forme di fiducia e di lealtà. In altre parole occorreva professionalizzare il gruppo oppure bisognava disperdersi e tornare nelle proprie case. In poco tempo, quelli che non accettarono di “scomparire” divennero il casus belli perfetto con cui si rappresentò in maniera egemonica “il male del Puerto” insieme a coloro che li proteggevano o coprivano o davano loro lavoro. Furono indiscriminatamente e semplicisticamente associati alla guerriglia delle FARC e, quelli che non collaborarono, divennero tutti obiettivi paramilitari. Eppure osservate complessivamente, le relazioni cui davano vita rappresentavano una risposta dei quartieri all’incertezza ed instabilità economica generali nel mezzo di un’economia narcotica in forte ascesa. Producevano un orizzonte possibile nel quale si articolavano una vasta gamma di strategie di sopravvivenza nei mondi fluidi di Buenaventura. Averli resi obiettivi militari costituì invece la base di un’economia bellica che avrebbe segnato la storia della città per i successivi 20 anni.
Nel prossimo post, cercherò di fornire maggiori dettagli di questa escalation.
Alcune notazioni bibliografiche dei post “Una Storia Breve”
Per una ricostruzione ufficiale ma ancora non completa della guerra a Buenaventura si vedano: Centro Nacional de Memoria Histórica, 2016, Las Víctimas del Bloque Calima en el Suroccidente Colombiano, 2015, Buenaventura, Un Puerto sin Comunidad (cui partecipai attraverso una serie di incontri per condividere alcuni dei risultati del mio lavoro) e 2008 Trujillo: Una tragedia que no cesa.
Le informazioni sulla storia del narcotraffico nella Valle del Cauca provengono  dagli archivi digitali dei seguenti siti internet: VerdadAbierta, La Semana, El Espectador, El Tiempo, El País de Cali e Insightcrime. A questi devono aggiungersi alcuni libri: Chepesiuk (2003, 2010, 2017), Lopez Lopez (2008, 2012), G. Duncan (2008, 2014), W. Rempe (2014).
Sulla storia paramilitare in Colombia e nella Valle del Cauca mi limito a citare alcuni testi che ho preferito tra gli altri: A. Ronderos, 2014, Guerras Recicladas, M. Romero, et al.  2007, Parapolítica, C. López et al., 2011, Y Refundaron la Patria, G. Duncan, 2007, Los Señores de la Guerra e, 2015, Más que Plata o Plomo, I.G. Cepeda, 2012, Victor Carranza, alias el Patron. Vi sono poi svariati testi da consultare prodotti dal Centro Nacional de Memoria Histórica tra questi oltre a quelli già menzionati includerei almeno i seguenti: 2012, Justicia y Paz, tierras y territorios en las versiones de los paramilitares, 2012 Justicia y Paz, ¿Verdad judicial o verdad histórica?
Sulle origini del traffico di cocaina è stato necessario passare in rassegna diversi testi su paesi diversi per verificare anche date ed eventuali coincidenze tra nomi ed eventi nonchè referenze incrociate su operazioni internazionali e\o nazionali di polizia che riguardavano cittadini stranieri. Cito solo qui autori e data di pubblicazione del manoscritto che ho cosultato, suddivisi per paese e non in ordine alfbetico. Italia: R. Saviano 2006, 2013, E. Deaglio, 2010, Barbagallo 2010, Lupo 2004. Benigno 2015, Bolzoni D’Avanzo 2011, Capacchione, 2008, Arlacchi, 1980, 1983, 2007, Gratteri e Nicaso, 2007, 2010, 2011, 2013, 2015, 2016, 2017, Ardituro, 2015, Lodato e Scarpinato, 2008 tra gli altri. USA: P. Dale Scott 1987, 1991, 2003, 2010, A. Mccoy 1972, Kerry Commettee Report 1989. Messico: F. Lorusso 2015, J.V. Cardenas 2017, D. Osorno 2010, 2013 e A. Hernandez 2010. M. Beith 2014 Cuba: Saenz-Rovner 2008. Bolivia: A. Levy 2012 Brasile: M. Glenny 2017
Il maggiore studioso colombiano sulla preistoria del narcotraffico è Saenz-Rovner. Alcuni dei suoi testi principali sono: La prehistoria del narcotrafico en Colombia, 1998, Ensayo sobre la historia del tráfico de drogas psicoactivas en Colombia entre los años 30 y 50, 2009, Entre Carlos Lehder y los vaqueros de la cocaina. La consolidaciòn de las redes de narcotraficantes colombianos en Miami, 2010, Los colombianos y las redes del narcotráfico en Nueva York durante los años 70, 2014, Estudio de caso de la diplomacia antinarcoticos entre Colombia y los Estados Unidos (1970-1974), 2014
Altri testi sulla storia della cocaina sono: P. Gootenberg, 2008, Andean Cocaine: The Making of a Global Drug, M. Glenny, 2010, Mcmafia, N. Ohler, 2016, Blitzed: Drugs in Nazi Germany.
Per comprendere meglio le fonti disponibili, contestualizzare le narrazioni cui abbiamo accesso e la politica che ne permette la consultazione e per ridurre l’impatto di teorie cospirative del mondo che permeano molte pubblicaziioni, ho affrontato uno studio parallelo che non emergerà in questi tre post e che riguarda la storia del commercio di oppio ed eroina nel sud est asiatico. E’ stato molto importante osservare e comparare certi archivi storici ed i processi di formazione degli stati asiatici per comprendere alcune ragioni militari che incentivano traffici illegali oltre la semplice ricerca di profitti. Sulle guerre dell’oppio tra Cina ed Inghilterra, i principali testi consultati sono Z. Yangwen (2005), S. Rose (2011), J. Goldberg (2014), S. Merwin (2010), D. Wigal (2014). Sulle relazioni tra il commercio dell’oppio ed i processi di formazione degli stati si vedano invece il lavoro di Lieberman (2003 e 2009) e C. Trocki, 2013. Altri studi che menzionano il ruolo dell'oppio nei bilanci coloniali dell'Indocina sono di Rigg (2005) e Evans (2003). Per informazioni sull'oppio nella provincia cinese dello Yunnan si veda, tra gli altri, Patterson (2006), sull'oppio birmano invece Myinth-U (2001) e Saha (2013).
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lasola · 4 years ago
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[2.1] - Una Storia Breve
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Per capire cosa è accaduto e forse sta ancora accadendo a Buenaventura occorre osservare diversi processi simultaneamente. Ho alcune ipotesi che potrebbero spiegare le traiettorie seguite dallo sviluppo della città ma, prima di proporle, vorrei delinearne meglio il contesto. Buenaventura, fin da subito, mi parve una realtà avvitata su se stessa, che apparteneva ad altre leggi, volutamente isolata mentre stava accadendo qualcosa di molto grande, tanto grande che in molti non erano completamente consapevoli degli eventi che vivevamo. Il suo Puerto era ed è una turbina che dà energia al movimento del mondo delle cose. E’ un orgoglio ingegneristico nazionale, capace di scaricare e ricaricare enormi navi cargo in tempi al passo con i più grandi porti mondiali. Ma per fargli spazio, negli ultimi venti anni, Buenaventura, la città, in cui circa l’88% della popolazione è di origini africane, ha sofferto cambiamenti strutturali di tale profondità e portata da far immaginare che vi fosse una non-strategia precisa che sosteneva le pratiche locali di governo: creare le condizioni per ricollocare 30.000 persone dall’isola del Cascajal (in foto) nell'entroterra. Osservando le fasi costruttive del suo polo logistico si ha infatti l’impressione di assistere alle iniezioni di improvvise dosi di "progresso e modernità" su di un corpo urbano completamente impreparato e che, poco alla volta, si è ritrovato spossessato dei suoi spazi. L’innesto non è stato indolore da qualsiasi punto di vista lo si voglia osservare. C'è stata una convergenza di eventi, alcuni dei quali numerabili e quantificabili, che non lasciano spazio a troppe fantasticherie.
Sul fronte dell'impiego, l'automazione dei tre terminali logistici ha ridotto drasticamente la forza lavoro direttamente impiegata nel settore portuario. Si parla di circa 6000 posti di lavoro che sono stati persi in 10 anni e che sono stati sostituiti solo parzialmente dagli impieghi nel settore edilizio o dai lavori “a progetto” nell’indotto portuario attraverso agenzie interinali (1). A questo va aggiunta la crescita dei costi di gestione per mantenere in acqua barche di piccolo e medio cabotaggio. Come sostenuto anche da alcuni sindacalisti e da piccoli imprenditori locali, con l’espansione delle aree adibite ai porti, l’accesso al mare di imprese locali di pesca e delle cooperative di trasporto sono diventate sempre più difficoltose. Nel 2013 i dati sulle condizioni economiche della città confermavano questo cammino involutivo. Il 29% della popolazione in età lavorativa era disoccupata. L'81% viveva al livello di sussistenza e il 44% aveva un reddito inferiore alla soglia di povertà (UNDP 2013). Vivere di espedienti era l'unica soluzione disponibile per la grande maggioranza degli abitanti.
Questa condizione faceva da sfondo ad un ambiente che era diventato sempre più violento e pericoloso (1). Ci sono dati che confermano che la città ha vissuto per almeno 20 anni dentro livelli sostenuti di violenza armata. Il numero di morti per arma da fuoco in 15 anni sfiora le 7.000 persone. I tassi di omicidio fino al 2015 furono ampiamente superiori alla già alta media colombiana (oltre i 70 morti per 100.000 abitanti con anni in cui si toccarono i 136 morti). Oltre al numero degli assassinati, un recente articolo su “El Espectador” conferma che dal 1997 al 2021 la Fiscalia ha registrato ufficialmente 1128 casi di sparizioni forzate in città. Ma quando vivevo da quelle parti le cifre di cui parlavano le ong per i diritti umani erano molto più alte. Altrettanto significativi sono i dati sui movimenti migratori che hanno piegato definitivamente le già precarie strutture di accoglienza cittadine. Secondo dati gestiti dall’agenzia dell’ONU, OCHA, cui ho potuto avere accesso nel 2009, il 20% della popolazione, circa 63.000 persone, apparteneva ad un’indefinibile categoria di abitanti fluttuanti, non esistenti, fantasmici che erano i rifugiati interni del conflitto armato scoppiato all’inizio del nuovo millennio nella regione pacifica.
Le ragioni di questa nuova\vecchia guerra hanno certamente bisogno di maggiori spiegazioni. Lo scontro ha si radici nella crescita dal Puerto e in generale nell'accresciuta importanza strategica della regione Pacifica nell'economia nazionale (1). Ma l'escalation bellica è dovuta anche alle dinamiche messe in moto dall’industria del narcotraffico. Tutta la storia recente colombiana non può ormai prescindere dalla comprensione dei processi bellici e socio-economici messi in moto dall'industrializzazione della produzione di cocaina. Su questo tema, come è chiaro, esistono ancora molte divergenze ed omissioni. Rispetto all'esperienza di polo logistico di Buenaventura vorrei però proporre una tesi che ho sviluppato leggendo gli archivi disponibili raccolti attraverso una rassegna di ricerche di altri studiosi e le storie messe insieme nei quartieri in cui ho vissuto per 4 anni.
Seguendo lo schema teorico proposto nel post precedente, conclusosi con un elenco delle maggiori formazioni storiche che operano in città, cercherò ora di mostrarne delle altre, più locali, di natura informale e decisamente fluida, che hanno esercitato nel corso degli anni un’influenza altrettanto decisiva sulle vicende urbane. Data la loro dimensione molecolare rispetto agli aggregati già descritti, utilizzerò ancora Deleuze ed uno dei suoi testi “giovanili” (1) ma questa volta per definirle come istituzioni con le quali si organizzano localmente “i mezzi per soddisfare una tendenza”, dove le azioni collettive di piccoli gruppi di persone non sono da considerarsi limitate dalla legge ma al contrario trovano uno sbocco positivo e una capacità di articolarsi nel corpo sociale. Si tratta di forme “organizzate” di abitare la città la cui osservazione permette di delineare elementi delle strutture politiche che sostengono le strategie di sopravvivenza dei quartieri ed alcune fondamentali tattiche degli abitanti per gestire, controllare ma anche di agire la crisi di Buenaventura.
Vorrei allora provare ad analizzare i cosiddetti combo o gruppi di ragazz* attraverso la loro fluidità; non seguendo i processi di identificazione ed appartenenza che li segnano ma osservando le potenzialità che creano e le tendenze che catturano. Durante il mio lavoro di campo ho notato con una certa costanza che la capacità di eseguire mansioni, di muoversi in città o di lavorare per conto di qualcuno non riguardava mai l’individuo ma sempre un gruppo che si organizzava cambiando in base alle necessità ed alle disponibilità del momento. Un caso che conobbi più da vicino era quello della quadrilla, un’istituzione di base spontanea e tradizionale che ordinava il lavoro nelle miniere di 4 massimo 7 persone e che espletava compiti di diverso tipo sul posto di lavoro ma non solo, tra cui vi era anche quello di autodifesa quando le condizioni lavorative lo rendevano necessario. La stigmatizzazione di micro-istituzioni come queste e la loro associazione a gang o pandillas se non direttamente a gruppi armati ha avuto un impatto decisivo sulle relazioni tra diversi barrios, esquinas o calles della città. In molti casi le fratture imposte da “maldicerie” o da vere e proprie operazioni di criminalizzazione hanno ridotto la capacità di opposizione civica e di resistenza ad alcune scelte di politica economica che venivano prese per la città o attraverso di essa. Non vi è dubbio che, per circa 50 anni, la formazione di istituzioni così definite abbia dovuto sviluppare forme di convivenza e relazioni con l’industria del narcotraffico. Tuttavia è mia convinzione e cercherò di spiegarne le ragioni, che queste relazioni dipesero in maniera sostanziale dal modus operandi di un’istituzione dello Stato, la Polizia Nazionale, il cui obiettivo sarebbe dovuto essere quello di “mostrare la legge” ma che nella Valle del Cauca e a Buenaventura ebbe un ruolo fondamentale nel far attecchire il narcotraffico nei quartieri. In questo modo la leva narcotica venne sfruttata militarmente per silenziare il dissenso in base alle necessità che via via venivano identificate per permettere l’espansione portuaria e l’accaparramento di terre. Seguendo questa linea interpretativa, quello che avvenne nella regione di Buenaventura potrebbe allora essere sintetizzato in questo modo.
Una delle maggiori fonti di reddito ed attività economiche del Puerto, oltre alla pesca ed al trasporto via mare, fu storicamente il contrabbando di prodotti che per qualche ragione non potevano essere commerciati da tutti o su cui occorrevano permessi speciali: dall'alcol, ai medicinali, a una vasta gamma di altri prodotti come gli schiavi venduti nel XIX secolo fino alle adidas fasulle cinesi di quando vivevo lì. Tuttavia, dalla fine degli anni '70, si andò affermando una rete di contrabbando più specifica che concentrò le sue attività sul commercio di cocaina. Questa rete originariamente era composta per lo più da membri della guardia costiera, della polizia nazionale e dagli ufficiali di dogana. Quando negli anni ottanta iniziò il boom narcotico di Cali la rete ebbe il potere di accentrare il contrabbando locale insieme a tutta una serie di attività commerciali legittime, quasi di forzarle dentro il traffico di un unico prodotto. Alla fine degli anni 90 esisteva una flotta di almeno 200 imbarcazioni ormeggiate intorno alla città che smerciavano unicamente cocaina e che, insieme ai grandi porti, avevano reso sempre più costoso il mantenere barche in mare per occuparsi di tutt’altro. Anche loro erano parte di una struttura logistica, ma capillare e diffusa, che faceva atterrare aerei tipo Cesna ed arrivare autoarticolati provenienti dalle maggiori regioni in cui si processava la pasta base della Colombia. In altre parole, la specializzazione del contrabbando e la diffusione di eserciti privati per sostenerlo fu il risultato evidente della creazione di uno campo politico oltre che di una prassi con cui si impose l’accettazione su vasta scala dei traffici illegali del Puerto. Localmente ciò si manifestò soprattutto grazie alla duratura e quasi trasparente partecipazione nel business narcotico delle agenzie preposte al suo controllo. Proverò allora a ricomporre una breve storia locale della cocaina per tentare una dimostrazione più convincente di tutto questo.
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lasola · 4 years ago
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[1] - Lo Scambio Impossibile
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Raccontare la vita di una città portuale non è mai cosa semplice. Per definizione si tratta di una luogo di confine, dove terra ed acqua si incontrano e si scontrano; dove forze contrapposte si scoprono simbiotiche o dove giurisdizioni in contraddizione sviluppano codici comuni ma contestuali e sempre parziali. Il mare rimane uno spazio inconcluso e non delimitabile (1, 2, 3). E' un limite esistenziale naturale di ogni potere sovrano che aspira a definire un dentro e un fuori di sé. Costruisce una realtà transterritoriale che lega lasciando sempre la possibilità di non appartenere o di non rimanere coinvolti. Non è un caso se per secoli il marinaio abbia incarnato l'immagine della vita di confine. Durante lunghi mesi era intrappolato nell'acqua, “la più libera di tutte le strade”, per poi approdare in un porto che era sempre un altro mondo. Il marinaio, come il folle, “non [aveva] verità né patria”. Era un personaggio riconoscibile solo nel suo lungo cammino tra luoghi: un nomade senza terra. Ma proprio grazie a lunghe navigazioni sui mari Ulisse potè conoscere la natura umana. In fin dei conti, i porti sono da sempre considerati spazi cosmopoliti e crocevia d'avanguardia degli accadimenti del mondo. E sono uno snodo cruciale per lo sviluppo degli imperi.
È infatti a partire dai porti che il commercio internazionale assume la forma di un'infrastruttura globale che omologa e standardizza (1, 2, 3, 4). La sua quotidianità si muove via mare, attraverso circa 50.000 navi cargo che spostano l'80% dei prodotti manufatti in giro per il mondo. Assemblarsi ai loro flussi è diventata necessità strategica su cui sorgono nazioni, ideologie, partiti politici e per definirne le traiettorie si combattono guerre di vario tipo che scrivono e riscrivono le storie di interi territori. Dalla fine degli anni settanta la progressiva containerizzazione dell'industria marittima e la deregolamentazione dell'economia dei trasporti hanno indotto una radicale ridefinizione della geografia industriale imponendo ingenti investimenti in infrastrutture. Le città portuali sono rimaste il centro di rinnovati paradigmi di trasporto ma la natura della loro centralità è progressivamente mutata.
Le economie di scala dell'industria marittima hanno generato complessi aggiustamenti economici e geografici che a volte hanno reso inutile la vicinanza di una città con il mare. In molti casi i cosiddetti "porti senza acqua" o "terminali di terra" hanno catturato la maggior parte dei servizi logistici e delle attività economiche annesse lasciando alle città portuali la semplice funzione di carico e scarico: a basso valore aggiunto e ormai quasi completamente automatizzata. Per varie ragioni quindi le città portuali si sono trovate ad affrontare una competizione più agguerrita tra porti, sia sul mare sia nell'entroterra. Quando ne sono uscite sconfitte, hanno perso impiego ed attività produttive ed hanno seguito un percorso involutivo che le ha rese semplici città-infrastruttura progettate per raccogliere le briciole dei grandi traffici commerciali che comunque facilitano. Il caso di Buenaventura è paradigmatico di questa involuzione. Ma racconta anche qualcosa in più.
Fin dalla sua fondazione, la città è stata parte di un complesso sistema tecno-giuridico che è stato concepito per garantire la connettività della Colombia ai flussi del commercio internazionale. Lo sviluppo urbano è stato cioè intimamente legato al commercio, lo stoccaggio e il movimento di merci. Lo fu a tal punto che per oltre due secoli la grande maggioranza dei documenti ufficiali che parlano della città non si sono riferiti mai realmente a Buenaventura, intesa appunto come città, ma sempre al suo porto e al modo migliore per raggiungerlo (1, 2, 3, 4, 5 ). Ancora oggi nella vicina città dell'entroterra e capitale del distretto della Valle del Cauca, Cali, ci si riferisce colloquialmente a Buenaventura come al "Puerto", ribadendo la natura diseguale della relazione che lega le due città. Tale relazione si è articolata intorno alle due principali istituzioni economiche della zona, l'hacienda (la piantagione) e la miniera d'oro. Da qui si generarono successivamente le spinte verso un’economia mercantilista ed orientata al commercio internazionale, e quelle interessate alla costruzione di grandi opere pubbliche (1, 2, 3). 
Per buona parte del XIX secolo, la schiavitù fu però la base dei sistemi economici locali e dell’accumulazione di capitale. Gli schiavi di origini africane erano molto richiesti sia nelle piantagioni di zucchero, sia nelle miniere d'oro intorno a Cali. Il loro commercio si trasformò nella principale attività economica del Puerto e attraversò un'espansione senza precedenti proprio dopo la dichiarazione della sua illegalità, nel 1821. Fino almeno al 1868 a Buenaventura ci sono prove di persone ancora legalmente considerate schiave. La maggiorparte dei “liberti” invece continuava a lavorare per il loro vecchio “patròn” e in molte circostanze i salari che ricevevano non erano sufficienti per pagare debiti di vario tipo. Seppur in forma indiretta, rimanevano quindi legati alla terra ed al suo propietario per la vita. In molti casi il debito riguardò poi anche i figli ed i successivi discendenti. Date le dovute differenziazioni storiche, oggi le relazioni di “patronato” nelle piantagioni hanno mantenuto certe caratteristiche di fondo sia in senso razziale sia in ciò che riguarda la capacità di sfruttamento del lavoro.
Queste complesse intersezioni tra schiavitù, bisogno d'oro e necessità di connettività generarono periodiche eruzioni di violenza. Indigeni e schiavi liberati per più di 300 anni non permisero ai poteri coloniali di insediarsi a Buenaventura in maniera definitiva. Nel corso della sua storia recente, insurrezioni, forme di disobbedienza civile, saccheggi e altre manifestazioni di banditismo hanno scosso il municipio di Buenaventura e più in generale tutta la Valle del Cauca, una delle zone più ricche della Colombia. Per questa ragione, le configurazioni istituzionali locali hanno storicamente oscillato tra una "forte presenza dello Stato" che si spingeva fino a legittimare le azioni di milizie private e gruppi paramilitari creati dalle imprese concessionarie dei lavori di “pubblica utilità”, e progetti riformisti che assorbivano quelle formazioni extra-legali dentro l’apparato statale. 
La storia dei dispositivi di legge che hanno ordinato la relazione di Buenaventura tra la terra e il mare dimostra anche che il Puerto potè godere di forme di autonomia il cui scopo principale era attrarre flussi commerciali in entrata e in uscita che beneficiassero le città dell’entrotera. L'attuale status amministrativo del Municipio di Districto Especial e la presenza di una delle più importanti ed estese Zone Economiche Speciali (ZES) della Colombia sul suo territorio sono la ripetizione di una storia già vista (1, 2). Già nel 1829 il neonato Governo Colombiano aveva reso Buenaventura un Porto Libero (Puerto Franco). In altre parole, la struttura amministrativa della città è stata concepita dentro una dualità intrinseca per coordinare tra loro terra e mare. 1. Sono stati concessi poteri speciali di tassazione e controllo alle autorità locali ma i commerci dei suoi grandi investitori sono stati esentati dai dazi doganali; 2. Sono stati riconosciuti ulteriori poteri speciali per ciò che riguarda l'autonomia di spesa dei bilanci municipali ma contestualmente è sorta una macchina burocratica ad hoc composta da comitati di concessionari, ministri e rappresentanti della città che hanno permesso al governo centrale e ad alcuni grandi investitori di esercitare un'influenza diretta sui processi decisionali locali. Tutto ciò ha fornito gli strumenti legali e la legittimità necessari per costruire "un governo dei pochi" su Buenaventura. Ma ha fatto anche qualcosa in più.
C'è un grande Altro che segna l'esperienza della quotidianità in città. Una fondamentale dimensione di esteriorità ne caratterizza i sistemi e le moralità dello scambio sancendo anche il definitivo taglio tra la città e il suo porto. I processi di urbanizzazione a maggiore impatto sono progettati, finanziati e in certa misura implementati da formazioni storiche per loro natura de-territoriali, assemblaggi di umani, flussi finanziari ed imprese private che appartengono tutte insieme a un mondo "Offshore" di cui Buenaventura è diventata un semplice polo logistico. La sua peculiarità è di esistere sempre in un altrove rispetto ai territori in cui si radica modificandone gli spazi. Il caso del Puerto mostra in maniera evidente come Buenaventura sia stata innestata nell’offshore attraverso programmi di autonomia differenziata che hanno, tra le altre cose deregolamentato ed incentivato la capacità di controllo delle grandi imprese che gestiscono i porti della città.
L’origine dell’attuale configurazione giuridico-legale delle soggettività che vivono il mondo Offshore va però ricercata nella seconda metà degli anni 70 quando, in un'epoca segnata da crisi petrolifere e da proteste sulle strade di quasi tutti i maggiori centri mondiali, alcuni fondamentali interventi legislativi andarono in soccorso della grande impresa. Una delle riforme principali riguardò quella che mi piace chiamare, “la liberazione del Capitale” e che permise il movimento illimitato dei flussi finanziari attraverso la diffusione di reti bancarie in permanente relazione di estimità (o di intima esteriorità) con i luoghi in cui i guadagni venivano accumulati. Piccole isole nel mezzo degli Oceani non garantirono solo numerosi servizi come il segreto bancario, esenzioni fiscali e svariate facilitazioni per registrare compagnie satellite su cui riversare capitali in fuga. Permisero anche al Capitale di farsi straniero rispetto ad ogni località, permettendo la sua accumulazione continua oltre i mondi in cui si realizzava lo scambio (1, 2, 3, 4, 5).  Le Zone Economiche Speciali e i Paradisi Fiscali (e le loro molteplici combinazioni possibili in base ai diversi programmi di deregolamentazione) sono quindi da considerarsi veri e propri processi autonomici “messi in rete” dalle infrastrutture del trasporto e dello scambio. Al medesimo tempo tagliano l’economia dalla società dando nuova linfa vitale a paradigmi di connetività su scala “globale” basati su debito e trasportabilità. Per spiegare meglio questo punto, ho bisogno di allargare per un attimo il discorso.
La tesi di base è che il mondo offshore produce molteplici dinamiche di de-territorializzazione e decodificazione culturale. Si tratta di fenomeni inerenti ai modelli di sviluppo tardo-capitalistici basati sulla Società dei Consumi, come la definì Baudrillard, e sono chiaramente osservabili nelle cosiddette città di snodo, costruite sui crocevia dei commerci internazionali. L'operazione che vorrei provare a fare è però quella di considerare questa rinnovata connettività come parte di un grande inconscio della produzione capitalista. Vorrei cioè osservarla come un rimosso del funzionamento della catena produttiva che in un modo o nell'altro riemerge nella forma di un sintomo o di un'insieme più complesso di nevrosi produttive, come potrebbero essere una rivolta in una Zona Economica Speciale ma anche la fuga compulsiva di capitali verso atolli del pacifico o il commercio di contrabbando. Da un punto di vista antropologico si tratta, quindi, di provare a spiegare il taglio tra la città e il suo porto espandendo la nozione di “male del Puerto”, spiegata in precedenza, dentro precise dinamiche politico-economiche che producono un altrove, il mondo offshore appunto, che governa i processi di accumulazione economica di Buenaventura.
Per tentare questa via e descrivere l’economia globale attraverso l’incoscio delle soggettività che la determinano e non attraverso il loro lato, per così dire, razionale, mi serve una nozione di Capitale un pò diversa da quella utlizzata dai teorici marxisti. Riprendo quindi un’elaborazione raccolta negli studi sull'accumulazione primitiva di G. Deleuze e F. Guattari, nel loro progetto di ricerca "Capitalismo e Schizofrenia" sia dell'Anti-Edipo (1973) sia di Mille Piani (1980). Il Capitale è qui definito come il corpo-senza-organi dell'essere capitalista, cioè l'improduttivo, il luogo dell'identità della produzione e del prodotto. Emerge come un'area di registrazione di ogni fase produttiva in cui i conflitti tra i diversi fattori produttivi, tra lavoro, capitale (in senso stretto) e terra vengono superati in un’apparenza tanto contabile, quanto immaginaria attraverso il loro divenire tutti Capitale. In questo senso, posso interpretare il Capitale come "l'inconscio della produzione capitalista". Posso anche spingermi oltre ed ipotizzare che sia strutturato in un linguaggio, seppur matematico, composto da formule algebriche, identità e variabili che emergono dalla convergenza di diverse catene significanti, per esempio, delle regole della partita doppia, se osserviamo un'impresa privata o delle bilance dei pagamenti, se si tratta di un bilancio statale. Ma potrebbero riguardare anche le leggi fiscali ed i vincoli produttivi come l'approvvigionamento di risorse, oppure i modelli econometrici che prevedono trend di mercato e correlazioni. Il Capitale è dunque una caratteristica immanente dei rapporti di produzione. Emerge cioè come un unico grande piano sul quale si articolano e in certa misura si dispiegano le relazioni produttive e le moralità dello scambio.
In questa prospettiva, il denaro risulta una fondamentale infrastruttura tecno-linguistica (1) attraverso la quale le soggettività economiche parametrizzano le loro relazioni con il mondo delle cose che producono o consumano e con il Capitale stesso. Il denaro, cioè, modella l'area di registrazione matematica del capitalismo fornendo un’approssimazione numerica delle relazioni produttive. Lo fa misurando (o mercificando) i vincoli fisici e territoriali e fornendo un'immagine quantificata della capacità degli attori economici di influire sul mondo delle cose. In questo modo il denaro è sia “la lettera dell’inconscio” che articola “il discorso dell’Altro” per dirla con Lacan (1), sia l'oggetto perennemente sullo sfondo del desiderio delle soggettività in analisi. Ma rappresenta soprattutto la spinta creativa che sorregge l’accumulazione di Capitale ed ogni operazione di registrazione. Descrive cioè un desiderio che non è necessità di riconoscimento o spinta a superare una mancanza, ma forza creativa il cui movimento è descrivibile a sua volta con una legge algebrica, funzione di regole fiscali ed apparati giuridici e di controllo: la legge del profitto. In altre parole, la legge del profitto opera sulle soggettività economiche come fanno la libido o la pulsione nei meccanismi del desiderio degli inconsci umani. Rappresenta l'energia del desiderio che le muove. E’ la vitalità delle soggettività economiche.
A cosa serve però l'uso di queste nozioni? Per prima cosa, permettono di osservare la liquidità del potere oltre la sua “istituzionalizzazione” in un “governo” o in “un’impresa” evidenziando un aspetto molecolare degli apparati giuridico-amministrativi che regolano gli scambi economici. Forniscono quindi una prospettiva in più sul realismo neoliberale che produce riforme come quella che ha dato vita al mondo Offshore. Secondo, permettono di osservare fenomeni economici e sociali attraverso più complessi aggregati di intelligenze e responsabilità; un mondo molare, tanto emozionale quanto tecnico e giuridico in cui si articola la capacità di influenzare e di produrre affetti sui corpi. Terzo, spingono l’analisi al di fuori di visioni antropocentriche del mondo, portandoci in ecosistemi non più dominati dalla vita organica ma da regimi connettivi di cose, macchine ed esseri che insieme a relazioni giuridiche molto costose da modificare, hanno estremamente ridotto la capacità di azione di collettivi umani (per esempio quella permessa dai meccanismi elettorali) mantenendo però un’enorme capacità di modificare i territori fisici. Infine, relazionata a tutti gli aspetti menzionati, vi è una quarta componente che, partendo da questa nozione di Capitale, ci permette di inquadrare un fenomeno più complessivo chiamato in alcuni testi “capitalismo come religione” (1, 2, 3, 4). Visto in questa prospettiva, il “fare economia” entra nei dispositivi mitici delle società giustificando, per questa via, forme di scambio schizofreniche, prodotte da soggettività economiche in un perenne cammino produttivo e dispendioso delle risorse. Ogni contraddizione ed aporia è infatti risolta da un qualche meccanismo contabile che permette di iscrivere la produzione nel Capitale. In questo modo la schizofrenia stessa si fa modello adattivo primario degli ecosistemi del mondo offshore.
Non è un caso allora, se tra le molteplici soggettività economiche possibili, le Private Corporate siano emerse come il paradigma istituzionale dominante. Il loro dominio si basa su modelli organizzativi centrati su mobilità e connetività, su di una presenza capillare ed un’assenza strategica sui territori e su gerarchie e forme di partecipazione pubbliche ordinate dalla legge del profitto. Sebbene il successo economico dipenda da molteplici fattori, la loro durabilità riguarda fortemente la maggiore o minore capacità di internazionalizzare la componente finanziaria oltre che quella produttiva. Il mondo Offshore si intreccia alle decisioni economiche permettendo alle Private Corporate di disseminarsi in forme scomposte e fluide, di scomparire per poi riemergere nei territori in cui riversano parte del capitale accumulato. Le burocrazie territoriali si sono adattate a questa capacità giuridica prima che produttiva reintepretando i problemi di svilupppo locale essenzialmente in funzione dell'integrazione dei territori ai flussi finanziari. In altre parole, hanno considerato di primaria importanza la creazione di ambienti produttivi capaci di attirare investimenti diretti, riducendo al minimo ogni loro costo di manutenzione: dalla manodopera non sindacalizzata, all’accesso facilitato a risorse primarie, fino a pacchetti di sgravi fiscali che a volte includono anche sussidi alla produzione. Hanno giustificato cioè assetti giuridico-amministrativi che garantiscono la circolazione di denaro e di merci a scapito, salvo rare eccezioni, della creazione e disseminazione di conoscenze e competenze tecniche più complesse. Così, accanto a luoghi del mondo che accentrano fortemente la produzione di valore aggiunto delle filiere produttive, la grande maggioranza delle economie globali si sono specializzate in produzioni di componenti e\o in economie basate sul loro assemblaggio. Hanno seguito modelli di “crescita” per connettività, centrati su mobilità e velocità, quindi privilegiando infrastrutture per il trasporto, invece 1. di creare interdipendenza organica tra le filiere produttive e 2. di diffondere “saper fare” attraverso processi di formazione di lungo termine e\o “imparare-facendo”.
A Buenaventura ci sono quattro Private Corporate che forniscono un esempio di questi meccanismi. Si tratta di società partecipate da società controllate da altri agglomerati di imprese o da fondi investimento, attivi in svariati settori economici, in Colombia e nel mondo. Nel 2014, quindi al tempo in cui terminai il mio lavoro di campo, la Sociedad Portuaria di Buenaventura era la società concessionaria del principale porto cittadino. Era controllata da alcuni dei maggiori gruppi imprenditoriali del paese: il Grupo Parody (di Bogotà), il Grupo Harinera (di Cali), il Grupo Ciamsa (produttori di zucchero della Valle del Cauca) e da tre enti pubblici, il comune di Buenaventura (15%), il Ministero dei Trasporti (2%) e il Ministero dell'Agricoltura (0,5%). Il nuovo e più piccolo porto cittadino, il TCBUEN, era invece controllato dalla multinazionale olandese APM Terminals in collaborazione con il Grupo Empresarial del Pacifico S.A. (Gepsa), di proprietà dell'imprenditore di Buenaventura Óscar Isaza e del Grup TCB di Barcellona. Dal 2018 è inoltre attivo un terzo porto, quello di Aguadulce, gestito da due compagnie colombiane a proprietà multinazionale. La prima è Compas, controllata da Goldman Sachs (50%) e dalla Southern Ports Holdings (50%), controllata a sua volta dalla famiglia colombiana Echevarría Obregón e dal gruppo spagnolo Ership. La seconda è la Sociedad Puerto Industrial Aguadulce, di proprietà della ICTSI del magnate filippino, Rickie Razon, e della multinazionale PSA di Singapore. Questo è il grande Altro che controlla, attravero il Puerto, circa il 50% di tutte le importazioni ed esportazioni colombiane.
Accanto a loro vi è poi il municipio di Buenaventura, il cui rappresentante è eletto direttamente dagli abitanti della città fin dagli anni novanta, ogni 4 anni. Quiñones, Ocoró, Bartolo Valencia e Arboleda Torres sono 4 sindaci che si sono succeduti al potere per quasi due decadi. Ognuno di loro ha terminato la sua amministrazione cittadina in carcere o agli arresti domiciliari prolungati per mala gestione dei fondi pubblici e\o per corruzione. Hanno bandiere diverse. Appartengono a vecchi e nuovi partiti, a movimenti civici infiltrati dal paramilitarismo o a nuove resistenze popolari. Eppure i loro governi, stando alle narrazioni giudiziarie, hanno reso il municipio con tutti i suoi poteri speciali un grande ufficio per il collocamento di amici ed amici di amici, “in perfetto stile africano” parafrasando un famoso libro di Bayart (1). Questo ha di fatto permesso alle Private Corporate di Buenaventura di posizionarsi come le strutture organizzative più stabili e forse credibili della città. Seppur sovvenzionate, sono anche i maggiori contribuenti del municipio. Attraverso i loro CDA sono senza dubbio le entità istituzionali con la maggiore capacità di esercitare pressioni sugli apparati di governo e di influire sulle vicende della città.
C’è poi un’altra storia insieme a quella del Puerto che deve essere raccontata e che riguarda più direttamente le banche di Panama e di Miami, l’industria del contrabbando e una guerra protratta. Nei prossimi post cercherò di addentrarmi con maggiori dettagli nelle dinamiche di altre formazioni storiche che in maniera indiretta hanno permesso alle Private Corporate menzionate di dominare Buenaventura.
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lasola · 4 years ago
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[ 3 di 3] - La Leggenda di Willy
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Nel Barrio lo conoscevano tutti. Willy e la sua famiglia venivano dal vicino distretto del Chocò e da una città, Istmina, famosa per il contrabbando di Viche e per le sue relazioni storicamente complicate con i poteri ufficiali dello stato. I figli però erano tutti nati e cresciuti nel Barrio, quindi da almeno 25 anni Willy si era trasferito a Buenaventura. Lui era anche uno dei pochi che ce l'avevano fatta. Almeno così si diceva di lui. Nessuno, a parte Rudi e i due Josè, si avventurarono mai in descrizioni dettagliate sul suo lavoro con me. Cosa facesse, come guadagnasse e tutto il resto erano argomenti tabù per quasi tutti.
Lo vidi la prima volta durante le vacanze natalizie, quando il suo ritorno nel Barrio divenne un evento imperdibile. Il suo pick-up era sempre stracolmo di gente. Ogni giorno passava di casa in casa per gli auguri natalizi e con lui in ogni casa entravano decine di persone, giovani e meno giovani, tutti incuriositi dall'arrivo di un personaggio così importante. I ragazzi come Rudi pendevano dalle sue labbra. Avrebbero fatto qualsiasi cosa per scortarlo nel Barrio e solo i più fortunati riuscivano ad accompagnarlo fuori da quelle poche vie in cui vivevano. Mai avrei immaginato che sarebbe stato lui a cercare me.
Qualche giorno dopo Natale ci trovammo insieme a Rudi e ad altri ragazzi travestiti da donne o animali per le strade di Buenaventura a improvvisare spettacoli con balli e canti popolari per raccattare soldi che ci permettessero di proseguire i festeggiamenti. Come da tradizione, nel giorno dei Santi Innocenti, i ragazzi del Barrio celebravano una sorta di carnevale in cui si mimava la nascita della creatura divina, per cui tutti dovevano accorrere sulle strade a celebrare il parto e invitare i ballerini a un bicchiere di qualcosa o meglio regalare loro qualche spicciolo. La festa era parte delle lunghe celebrazioni che preparavano l'arrivo del nuovo anno e nei villaggi rurali aveva funzione propiziatoria soprattutto per la ricerca dell'oro. Per noi fu un giorno di gran divertimento.
Camminammo in lungo e in largo tra i quartieri della città. Entrammo e fummo cacciati con insulti dal Municipio. Provammo addirittura a chiedere soldi alla capitaneria di porto e alla Polizia da cui ricevemmo improperi ed altre minacce. Al mercato generale, invece, spopolammo. Si radunarono in pochi minuti almeno duecento persone che iniziarono a cantare e ballare mentre io passavo da ognuno con un cappellino per raccogliere le offerte. Andò bene al di là di ogni aspettativa, tanto che iniziammo a pensare di ripetere lo spettacolo ogni settimana. E proprio quella notte, Willy si materializzò nella casa in cui eravamo finiti per terminare le ultime due bottiglie di rum che ci erano rimaste. Era più ubriaco di tutti e, come in un paradosso della vita, fu proprio lui che si avvicinò per parlarmi del suo passato, confermandomi molte delle storie che più tardi anche Rudi mi avrebbe ripetuto e che io già non volevo ascoltare, preferendo analisi sui passi di danza e i possibili travestimenti. Ma Willy era Willy e se aveva deciso di parlare non c’erano molte scelte disponibili se non quella di rimanere in silenzio.
All’inizio degli anni ottanta ebbe la fortuna, per così dire, di lavorare, nemmeno adolescente, con le reti della cosiddetta Capitana, spietata testa pensante del clan di Medellin. Cosa ci facesse la Capitana nel Barrio e soprattutto come avesse fatto ad arrivare fino a Buenaventura, Willy non me lo disse. Probabilmente millantava una decennale relazione per non dovermi spiegare ogni fase della vita che lo aveva condotto fin lì. La sostanza del suo discorso era comunque che, un po' per caso, un po' perché non aveva altro da fare, iniziò a dedicarsi giovanissimo al contrabbando e probabilmente fu il Viche il primo prodotto che trasportò. Poi, senza capire bene quale assurdo concatenamento di azioni e reazioni lo condusse fin lì, negli anni novanta si trovò relazionato a certi piani alti del crimine riuscendo a sopravvivere a tutti i cambi di manovalanza della logistica narcotica. Correva voce che quando terminò i suoi anni in carcere negli States e rientrò a Medellin, nel 2004, la Capitana incontrò Willy personalmente. Ma questo racconto si perdeva nella mitologia locale. Quello che pareva vero era che Willy gestiva una rete di trafficanti tra Buenaventura, Cali e una città della zona caffettera, Pereira. Rudi li chiamava “gli Invisibili” perché sembravano tutti normali e tranquilli Paesani indaffarati a vivere la loro vita che se non ci facevi caso non ti accorgevi che bazzicavano nel Barrio. Invece alcuni di loro avevano anche le case non lontane dalle nostre.
Le voci che avevano il coraggio di mettere assieme qualche aneddoto su di lui coincidevano tutte su un dettaglio. Willy manteneva sempre un basso profilo e sapeva convincere i suoi interlocutori proprio mostrandosi persona umile e in ascolto. In qualche modo, però, trattava tutti come suoi clienti. Distribuiva denaro e raccoglieva informazioni. Comprava fiducia e faceva favori. Chiedeva silenzio ed esigeva fedeltà. Escludendo le sue entrate trionfali nelle case del Barrio, a vederlo festeggiare con una birra e un rum di pessima qualità, non sembrava però un personaggio dei racconti narcotici colombiani. Ogni leggenda lo avrebbe reso forse una semplice comparsa, magari il buttafuori del Capo, quello vero. Non di più. Certamente deludeva le mie aspettative di Capo dei Capi per come ne parlava Rudi. Eppure, a voler credere a quello che dicevano anche Josè e l’altro Josè, in epoca recente, quote importanti della cocaina di Buenaventura passavano dalle sue reti. Cominciai allora a chiedermi quale fosse il suo ruolo, visto che dal Barrio era facile ingigantire le sue gesta.
Secondo le poche storie che raccolsi, Willy gestiva carichi di clan diversi attraverso magazzini che erano distribuiti su vari quartieri. Aveva quindi molte connessioni in città e cercava di mantenerle distribuendo le commissioni per il carico e scarico di mercanzia illegale tra diversi settori. In questo modo riduceva le possibilità di rimanere impelagato in questioni locali fino a rischiare di non inviare o ricevere il carico. Al tempo stesso accumulò un certo rispetto perchè non accentrava guadagni solo su alcuni. Questo suo modo di lavorare e di essere riconosciuto poteva certamente renderlo un Capo, soprattutto agli occhi di qualcuno come Rudi, ma non era detto che lo fosse, o che lo fosse nei termini usati di solito dai media o dalle agenzie di controllo. Per certi versi, dopo quasi 40 anni di carriera, possedeva l’aurea dell’intoccabile o di qualcuno di importante, soprattutto nei quartieri. Ma rimaneva un personaggio nebuloso. Mi chiedevo se il suo basso profilo fosse un segno dei tempi che cambiavano per cui Willy era una sorta di precursore di una rinnovata pax-narcotica, centrata sul silenzio, la connivenza più stretta con le autorità militari e su meno follie consumiste. Oppure se più probabilmente il suo vero obiettivo fosse quello di sopravvivere alle storie violente di Buenaventura, cosa che gli riuscì fino a quando anche lui non cadde nel desiderio di risolvere i problemi della sua città.
In un giorno d'ottobre del 2012, finì morto ammazzato in un agguato, insieme ai suoi più stretti collaboratori, tra cui c’era anche il nipote, Carlos, che tutti conoscevamo e, a volte, frequentavamo nel Barrio. I loro corpi furono smembrati e sparsi lungo la curva del Diavolo, un posto lugubre di Buenaventura, lungo la vecchia strada che la collegava a Cali, dove spesso venivano lasciati i corpi dei condannati. Ciò avvenne un anno e mezzo dopo il blocco del Puerto, di cui si racconterà, un mese dopo l'uccisione della Capitana sulle strade di Medellin e quasi due anni prima della scomparsa di Rudi.
Per grandi linee, nei prossimi post cercherò di scomporre questi racconti. Non ho elementi sufficienti per “ricostruire gli eventi” e proporre una verità storica, giornalistica nè tantomeno giudiziaria. Potrò solo cercarne l’antropologia che li teneva insieme. Esisteva infatti un grosso problema di metodo che impediva tutti noi di entrare nelle storie in una forma analitica. Le divisioni e le frontiere del conflitto ci mostravano sistematicamente un loro lato. I più temerari forse accedevano a qualche prospettiva in più. Ma, prima o poi, bisognava scegliere da che parte stare e le implicazioni della scelta erano anche il buio che improvviso avvolgeva il resto. Non c’era quindi modo di triangolare, verificare, chiedere a qualcuno più informato. O comunque spesso non c’era l’interesse di farlo. L’atto stesso di fare domande aveva implicazioni. Comportava rischi e a volte segnalava possibili commistioni con le storie stesse. Per questo i racconti non si cercavano mai. Arrivavano ed andavano via. Alcuni erano credibili ma non necessariamente veri. Altri erano talmente incredibili che piacevano fin da subito e costruivano leggende. Altri ancora partecipavano solo del rumore quotidiano e venivano dimenticati in fretta. Vi erano poi racconti che aspiravano a rimanere. Erano quelli ufficiali, quelli del sistema mediatico o delle burocrazie che spiegavano il conflitto in cui si era immersi. Testi, video, numeri e ricostruzioni partecipate aspiravano a produrre chiarezza radunando voci e sensazioni condivise da molti o da pochi. Ma c’era sempre qualche storia di quartiere che mancava, che non stava lì dentro. Un conoscente, vicino o lontano, era invischiato in qualcosa di cui era meglio tacere. Per qualche ragione anche quei testi ufficiali apparivano fluidi e finivano col rappresentare i fatti secondo un potere tra gli altri; non quello definitivo, non quello capace di riportare l’ordine o la chiarezza e spesso nemmeno il più forte.
Questi racconti scandivano certamente alcune quotidianità. Tuttavia ciò che era realmente osservabile erano i meccanismi con cui entravano in relazione con gli abitanti. Il loro ripetersi faceva parte di un dispositivo mitico che aveva la funzione di ordinare, suddividere e spiegare senza veramente entrare nella storia. Non importava la quantità di verità, ma il fatto stesso che un racconto venisse ripetuto. In fin dei conti storie come quelle di Willy o di Rudi era meglio non conoscerle. Oppure occorreva imparare il silenzio o le “giuste orazioni” con cui difendersi dagli effetti che provocavano. Era meglio tenersi alla larga dal pericolo che rappresentavano anche se poi si finiva sempre con lo scoprire la loro estrema vicinanza. Esistevano in un luogo nascosto, come un cassetto che si preferiva non aprire. Erano registrati da qualche parte che non era un inconscio collettivo ma una superficie “mitica” che segnava l’esperienza quotidiana del Barrio. Da qui ogni storia arrivata e andata via partecipava alla costruzione di spiegazioni sulla vita e sulla morte in città.
Nei prossimi post cercherò allora di descrivere questo dispositivo mitico prima mettendo assieme diverse descrizioni della città. Poi contestualizzerò il Barrio. E successivamente mi perderò nel vociare della gente per raccontare il blocco del Puerto attraverso gli occhi di alcuni occupanti.
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lasola · 4 years ago
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[2 di 3] La Storia di Rudi
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Aveva sedici anni e aveva già un passato di cui doveva liberarsi. Era seduto su di una sedia e non solo era il meno sorridente, sembrava anche il più incazzato. Scrutava. Non si fidava. Si guardava in giro e chiedeva “e mò questo chi cazzo è?”. Da quelle parti, il colore bianco del viso e del corpo è associato al veleno dei serpenti. Vilma mi raccontava che la nonna le diceva sempre di guardarsi dai bianchi che portavano solo distruzione e problemi. Gli anni in cui i loro antenati erano stati trasportati in grosse imbarcazioni transoceaniche e poi venduti in lotti per lavorare nelle miniere e nelle piantagioni di canna da zucchero o di tabacco erano ormai lontani, ma in quelle loro terre li facevano ancora sentire in prestito. Nel Barrio il bianco aveva diverse tonalità. Non era netto come quello della nonna di Vilma. Era associato alla parola “paisa”, che significava sí “bianco”, ma delle zone di Medellin o di quella caffetera, oppure della Polizia. C’erano delle sfumature. Non tutto il bianco era dello stesso bianco. Rudi tutto questo lo sapeva bene e voleva chiarire subito le appartenenze, senza troppi giri di parole e giochetti strani. Non era interessato ai colori o alla geografia. Calcolava utilità e possibili vantaggi o pericoli.
Lo aveva imparato dal padre che di mestiere aveva sempre fatto il barcaiolo fino a quando si trovò a vivere lontano dal mare, senza barca e senza lavoro. Lo chiamavano Panamá, perché una volta era arrivato da solo con un’imbarcazione nel Darièn in mezzo a una tempesta che quando lo videro arrivare credettero che lui non fosse Panamá ma un'incarnazione di Changó, divinità guerriera Yoruba, la cui forza e il cui coraggio erano essenziali per la liberazione da ogni schiavitù. La sua fu l’unica barca che arrivò a destinazione per molti giorni, così la sua fama iniziò a circolare nel Puerto. Raccontano che a Panamá non importava cosa ci fosse sulla sua barca. Quando lo mettevano a bordo, diventava un computer perfettamente sincronizzato con l’oceano. Anzi, c’erano momenti in cui Panamá era l’oceano.
Conobbe la moglie, Mati, proprio dopo uno dei suoi viaggi verso l’ignoto. Un amico gliela presentò una sera in un bar del molo turistico: una bellissima donna, di dieci anni più giovane che per qualche combinazione famigliare era legata ai Niches, i barcaioli dei Rodriguez-Orejuela e poi degli Scissionisti del Norte del Valle. Se ne innamorò subito, tanto che ne fece la sua unica ragione di vita. Per qualche anno furono felici, ma dopo la nascita di Rudi, le cose iniziarono a complicarsi. Il Puerto si era trasformato in un campo privilegiato delle guerre tra clan. Per muoversi in mare bisognava essere sempre più armati, così Panamá smise di lavorare in barca e cercò lavoro dal cugino di Mati, Ronny, che in quel momento, con i suoi, sembrava stesse vincendo la guerra.
Ronny era stato affiliato tramite una gang di Cali al Bloque Calima di cui racconterò meglio. Aveva scontato qualche anno in carcere come parte degli accordi per lasciare le armi. Era uscito prima di altri ed aveva ricominciato a dedicarsi al narcotraffico da Buenaventura. Panamá allestiva le case di alcuni dei suoi clienti. Intagliava ed intrecciava il bambù. Costruiva pianali per cucine, panchine, sedie e quando non riusciva a stare fuori dai guai perché aveva bisogno di qualche soldo in più, si trasformava nel Changó del Grande Oceano e pilotava ancora barche verso l’ignoto. Solo che non era più come prima.
Tra un espediente e l’altro, Rudi aveva trovato un po' di serenità nella casa di José, che lo aveva ospitato in quello strano Barrio ai confini con la Selva dove tutto sembrava lontano e pareva che ci si potesse riposare e pensare ad altro. Forse nel suo sguardo, in quella calda giornata di ottobre, c’era tutto questo. O forse non gliene fregava niente di vedermi. In ogni caso la sua domanda “e mò questo chi cazzo è?” catturò da subito i miei favori. Mi era piaciuto fin dall'inizio. Non temeva le verità della sua terra.
Passammo quella serata a bere Viche (acquavite estratto dalla canna da zucchero) nella cantina di Maria, salsa in sotto fondo, balli e risate miste alle stesse ondate improvvise di disperazione e malinconia di sempre, quelle che arrivano quando l’alcol fa saltare fuori storie di cui si parla solo in certi momenti, con gli amici di una vita. Rudi parlò dei tempi in cui aveva lavorato con il cugino della madre a Cali, di come aveva visto cose indicibili e di come voleva con tutta la sua forza trovare una via di fuga. Finii a trascorrere molto tempo assieme a lui. I nostri incontri si perdevano dentro dialoghi improbabili animati dalla marijuana e dai suoi racconti sul mondo che viveva. Lunghe ore passavano mentre inscenava scontri a fuoco tra bande rivali o descriveva le donne mozzafiato che un giorno avrebbe voluto possedere. Giorni interi scorrevano tra racconti improvvisati, lavori nella “Riserva” e nell'attesa di qualcosa che non arrivava mai.
Quando non era con me o alle prese con la “Riserva”, insieme agli altri ragazzi se la passava nell'esquina (angolo) della strada che collegava il Barrio alla via principale, l'Avenida Bolivar, che spaccava Buenaventura da est a ovest in due parti quasi simmetriche, il lato Nord e il lato Sud. Pareva che fossero tutti iscritti ad una qualche immaginaria lista di collocamento di un Capo che, prima o poi, sarebbe apparso per una commissione o per un lavoretto di qualche giorno. Il tempo passava raccattando spiccioli alla buona: a volte proponendo servigi alle vecchie del Barrio o avventurandosi in perquisizioni improvvisate di passanti o di giovani malcapitati, altre volte semplicemente chiedendo “una cosa di soldi” (dame algo pues) a qualcuno. I pochi quattrini messi in saccoccia venivano prontamente spesi per acquistare un grammo o due di marijuana che serviva per mantenere vive le conversazioni ed alto il morale. Improvvisavano ritmi rap e danze per catturare l'attenzione delle giovani che sondavano ammiccanti l'ambiente della esquina e lasciavano immaginare giochi amorosi da consumarsi nella “Riserva”.
L'adrenalina era vissuta a distanza, attraverso i racconti di gente come l’Altro Josè, che nella sua vita aveva attraversato tutto lo spettro belligerante di Buenaventura ed era sopravvissuto. Si era fatto le ossa insieme agli amici di una vita rubando cibo dai camion che rifocillavano i ristoranti “Michelin” del Puerto. Aveva poi avuto l’idea di “mettere ordine” in città prima opponendosi e poi tassando il passaggio di mercanzia di contrabbando dalle acque del suo Barrio che era lo stesso di Panamà. Per questo pare lo avessero fatto capitano Guerrigliero e che Panamà fosse uno dei suoi e, come lui, quando la guerra si intensificò anche l’Altro Josè finì nelle mani dei clan. Nei tempi in cui lo conobbi era uno dei junky del quartiere, sempre senza soldi ma pieno di racconti. Era soprattutto lui che parlava di quello che accadeva in città, delle faide, dei trasporti andati male, delle rese di conti. Proprio per via della sua storia personale, un pò tutti lo ascoltavano. Spesso era difficile credergli ma le sue parole costruivano, comunque, immagini di un mondo in guerra che stava là fuori eppure per niente lontano. Alimentava così un senso di protezione che il Barrio invece offriva.
– Qui nessuno ci tocca. Quelli di fuori hanno paura di mettersi con noi. Lo sanno benissimo che se vengono da queste parti noi siamo in tanti e facciamo suonare i ferri.
Frasi così, in una lingua imparata sulla calle, sancivano in maniera chiara un senso di dentro-fuori su cui si articolavano le giornate. Rimanere nella esquina era un modo per affacciarsi alla città e insieme definire un confine tra tutti i mondi di Buenaventura. Costruiva un senso precario di ''noi'' che poteva durare un giorno o il tempo di rimanere nella esquina fino a quando qualche evento della città non costringeva vecchi amici a farsi nemici e a scegliere nuove alleanze e altre esquinas. Per il resto, era baldoria continua.
Poi accadde che una notte Rudi tentò di ammazzare Panamá. Fu più o meno un anno dopo il nostro primo incontro. Panamá e Mati da un pò di tempo non riuscivano più a passare insieme una normale nottata alcolica senza arrivare alle mani e a pianti strazianti. Panamá non aveva lavoro in quel periodo e Mati si era fatta assumere come donna delle pulizie nella casa di un riccone della città. In poco tempo iniziarono a circolare voci sui suoi tradimenti che non tardarono ad arrivare alle orecchie di Panamá. Da sobrio le credeva e la appoggiava anche perchè era lei che portava i soldi a casa. Da ubriaco invece qualcosa cambiava e iniziavano i diverbi e poi la violenza. L’altro José aveva addirittura sviluppato teorie Zen su come insegnare a Rudi ad affrontare la situazione evitando di diventare un assasino. Un pomeriggio, dopo l'ultima grande tragedia familiare, più o meno gli disse queste parole:
– Rudi, se tuo padre picchia tua madre, tu allora devi aiutarlo a picchiarla. In questo modo tu sei sicuro che tuo padre non la ammazzerà e forse c'è anche qualche possibilità che Panamá si risvegli. Comunque, se non si risveglia, tu la mattina dopo prendi tua madre e la porti in un posto sicuro. La vai a nascondere. Ti porti tua sorella e ve ne andate da qui. Poi torni da tuo padre e gli dici semplicemente che non lo rispetti più perché ti ha insegnato a picchiare tua madre.
Ci lasciava sempre basiti, l’altro José, quando tirava fuori queste perle di etica dell'altro mondo. Bisognava essere di ferro per seguire i suoi consigli, aver superato i normali limiti del cinismo da Barrio per sfondare da dentro la consapevolezza di essere immischiati in una sorta di lento e inesorabile nichilismo quotidiano. E la lunga storia dell’altro José forse un giorno qualcuno potrà raccontarla.
Per il momento, il tentato omicidio di Panamá rappresentò uno di quegli eventi che sancirono una sorta di prima e dopo nelle dinamiche del Barrio. All'improvviso, si misero in moto tutte le reti di significazione e tutti gli apparati narrativi disponibili iniziarono a produrre rumore su di una scampata tragedia familiare che aveva acceso in ognuno degli abitanti una sorta di necessità di riflessione. Rudi aveva svelato un qualche segreto nascosto condiviso però da molti. Panamá e Mati non erano due persone qualsiasi, erano a tutti gli effetti figli di Buenaventura, prodotti degli ultimi venti anni di guerre per il Puerto. Le loro discendenze non si radicavano in nessun mito fondativo della città, ma il loro legame che si spegneva giorno dopo giorno sotto i colpi di una quotidianità impietosa, sanciva una sorta di impossibilità di ricostruzione: lei figlia di Narcos, lui un ex guerrigliero. Panamá, il perdente della storia, Mati, vincitrice sfigurata e senza alcuna parte nella vittoria degli altri, e Rudi, il frutto dell'impossibilità di ogni tentata rivoluzione, producevano ogni giorno uno scontro senza soluzione.
Ci vollero quattro persone per fermarlo quella notte. Sembrava posseduto da uno spirito bestiale che gli aveva conferito una forza sovrannaturale, come se pulsioni castrate da secoli di catene fossero riemerse improvvise e volessero fuoriuscire tutte attraverso un unico e blasfemo gesto che avrebbe ristabilito l'ordine del cosmo. Rudi, con i suoi fantasmi, si trasformò in un Anti-Amleto che senza corona, né regno, formulò un verdetto definitivo. Forse in quegli occhi ormai ciechi, privi di ogni ripensamento e indecisione, si nascondeva la credenza che il sangue versato avrebbepotuto risolvere magicamente tutti i conti sospesi della città. Imbracciò allora il machete di suo padre, pronto, senza esitazioni, per sferrare il colpo mortale, ma quelli del combo intervennero e salvarono Panamá. La rabbia di Rudi fu fermata, però quel tentato parricidio produsse un disgusto profondo che materializzò la guerra al di là di ogni negazione o fuga. Rudi aveva mostrato senza schermi e illusioni un dramma esistenziale che toccava molti. Svelò con un semplice gesto la natura della guerra civile che si stava combattendo. Forse anche per questo atto di verità, la sua vita fu costretta verso nuovi cammini. Lui e la sua famiglia divennero ospiti sgraditi, sempre più emarginati. Dopo pochi mesi si rifugiarono altrove, nella zona di Bajamar, da dove dovettero scappare qualche anno prima e dove tre anni più tardi Rudi avrebbe trovato la morte. Già nel 2011 però i clan avevano iniziato ad osservarlo con un occhio di riguardo, probabilmente interessati alla sua rabbia, al suo passato e a quel tentato omicidio di un ex guerrigliero. Iniziarono un'altra volta brevi viaggi, piccole commissioni e i primi debiti da ripagare. Mi svegliava di soprassalto nella notte in preda al panico, bussando nervosamente alla porta metallica del vecchio magazzino in cui avevo messo un letto per dormire con la disperata richiesta di qualche soldo.
– Fumiamocene una. Ti devo raccontare questa storia. È pura follia là fuori. Qui sono tutti matti. Non si salva più niente. L'unica soluzione è comprarsi un bazuca e sterminare tutti.
Mi parlava dei grandi capi, di quelli che laggiù al Puerto gestivano affari multimilionari ma che volevano fregarlo per pochi dollari.
– Dammi dieci dollari, hermano, quando sarò diventato qualcuno ti restituisco tutto con gli interessi. Ti riempirò d'oro, hermano. Mi bastano dieci dollari per pagare quello stronzo. Sennò ha minacciato di violentare mia sorella. Capisci? Mia sorella ha 13 anni.
Di riprendere a dormire non se ne parlava. Si rullava uno spinello e si iniziavano grandi discorsi su Buenaventura, sul Puerto, sui Capi che come fantasmi onniscienti gestivano tutto, controllavano tutto e organizzavano le vite di quelli come Rudi che poco alla volta, un giorno, forse avrebbero potuto mettere le mani anche loro su una piazza, raccogliere qualche soldo e sfamare le loro famiglie. E fu proprio in quelle notti trascorse a sedare la follia che saltò fuori il nome, il presunto Capo dei Capi.
– Non dire niente a nessuno che sennò ammazzano me e tutta la mia famiglia mentre tu ci guardi con un palo di bambù che ti cresce dentro il culo.
– Rudi, non mi interessa, non dirmi niente.
– Segnati questo nome: Willy. È di Willy che ti devo parlare.
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lasola · 4 years ago
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[1 di 3] - L’Incontro con Josè
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Si era fatto un tatuaggio con i tre sei in bella vista sul petto. Sembrava l'adepto di una setta. Raccontano che la polizia avrebbe dovuto prenderlo e portarlo in commissariato per fargli qualche domanda. Dovevano chiedergli di un omicidio. Qualcuno del suo Barrio aveva sgozzato un ragazzo di sedici anni. Lo avevano smembrato e poi gli avevano tagliato la testa. La madre, una venditrice di acqua di cocco, lo aveva ritrovato in una grande borsa di plastica nera, di quelle che si usano per raccogliere la spazzatura. Ci avevamo fatto un documentario su quel ragazzo, un perfetto signor nessuno: la mia prima ed ultima partecipazione ad un reportage giornalistico. Secondo le ricostruzioni ufficiali, aveva oltrepassato una frontiera invisibile, di quelle che da un lato della calle c’è un combo e dall’altro un altro combo, per cui semplicemente qualcuno aveva pensato che il giovane fosse degli altri e che li stesse sfidando con un’arroganza inaccettabile. La sentenza di quella sera fu una pena esemplare. Il ragazzo di giorno andava a scuola e di pomeriggio aiutava la madre a caricare cocchi, aprirli e trasportarli su di un carretto per venderli al mercato. Erano venditori ambulanti. El Diablo con me finse di non sapere e io non riuscii a non credergli. Tutti quelli che lo conoscevano nella zona di Bajamar, invece, erano convinti che lui sapesse abbastanza, anzi, di più. Alcuni dicevano che lui era un capo. Qualsiasi fosse la verità, sapeva di quell’omicidio, ma a me non raccontò nulla. Viste però tutte le voci che circolavano su di lui, dopo avergli parlato della sua migliore possibilità di sopravvivenza, la fuga in direzione Ecuador, venti giorni più tardi pubblicai un articolo su di un giornale online abbastanza in vista nei centri benpensanti.
Un anziano del Barrio mi aveva messo in guardia tempo prima. Mi disse: “Chi ha cura di questa”, indicando la lingua, “ha cura di questo”, indicando il cuore. Lo disse con tale naturalezza che mi lasciò senza parole, come se mi avesse fatto un incantesimo. Alcuni giorni, gli echi della violenza di Buenaventura si facevano così assordanti che queste frasi sembravano raccogliere tutta la saggezza disponibile. La ricerca della verità a volte è semplicemente troppo costosa; un bene di lusso che a Buenaventura si pagava a caro prezzo. Il silenzio invece era capace di lenire l'impotenza di chi non cercava vendetta, come se il “Male del Puerto” non riguardasse noi, le nostre vie o il Barrio. Altri giorni, invece, la rabbia non si placava e la mente girava a mille. Non dire nulla, non fare domande, non cercare di capire, evitava davvero guai peggiori? Allora mi incamminavo verso casa sua, a pochi passi dalla mia e glielo richiedevo. Quell'anziano era uno dei padri fondatori del Barrio. Aveva vissuto troppi anni per non conoscere la risposta giusta da darmi. Ma mi ripeteva sempre lo stesso mantra. Dovevo trovare da solo una chiave per accedere a quella conoscenza ancestrale che mi stava mostrando.
La parola nel mondo afrocolombiano ha infatti il potere di curare ferite (1, 2, 3). Se propriamente utilizzata ha la forza di contenere il Male, di circoscriverlo o di farlo uscire da un corpo o da un luogo che tiene prigioniero. Chi conosce le giuste orazioni può produrre vere e proprie metamorfosi nei corpi, risvegliando soffi vitali sopiti. Curatori e sciamani preparati sanno invocare spiriti che curano malattie. Ma senza questa conoscenza, la parola rischia di degradare. Da protettrice e fonte di salvezza si fa potere occulto, malefica e pericolosa, capace di generare follia e causare morte. Usare la parola incuranti delle sue regole e dei suoi simboli significa produrre nuove malattie nell'altro fino ad ammalare il proprio cuore. L'anziano questo lo sapeva bene. Mi ci volle però molto tempo per comprendere la profondità dei suoi insegnamenti. Così, in un giorno di rigurgiti di odio e di moralismo che imponeva azioni alla coscienza sanguinante, quel pezzo venne fuori: l'ennesimo pessimo articolo sulla violenza in Colombia pubblicato tra vecchie foto di vetture esplose sulle strade che non avevo mai visto ed accompagnato dai soliti commenti denigratori. Era un articolo che non dava speranze. Parlava del Diablo come simbolo della decadenza del Puerto e di tutti noi. A vederlo su quella pagina della rete mi parve che il suo unico compito fosse un depistaggio preventivo, pubblicato prima ancora dell'ultimo editing, con il titolo modificato a mia insaputa e dato in pasto agli influencer che avevano deciso che doveva essere letto. Nel giro di poche ore aveva raggiunto alcune migliaia di click. Il mio più grande successo editoriale, tanto che me ne chiesero altri ma io non fui più capace di scrivere per qualche anno. Fino a dove arrivarono quelle parole? Chi decise che un altro proiettile poteva essere speso?
La dinamica della morte di Rudi confermò che aveva ancora molta strada da fare per diventare El Diablo. Si dice che all'arrivo della polizia non si fece prendere e che iniziò un “tiroteo” (sparatoria)  e che qualcuno fu più preciso di lui. El Diablo, probabilmente, si sarebbe fatto prendere e sarebbe uscito di prigione dopo pochi giorni. Quindi El Diablo era solo Rudi e per molto tempo avevo sperato che non finisse così, morto ammazzato. Era nato libero a modo suo e quelli così a Buenaventura duravano pochissimo o almeno questa era la storia che tutti ripetevano. In un niente finivano coinvolti in giri troppo grossi, circondati dalle persone sbagliate. Iniziavano a perdere la testa e poi la paura faceva il resto. Un errore dopo l'altro e la vita lentamente appassiva. Se gli andava bene avevano ancora tutti i pezzi attaccati al corpo quando qualcuno andava a riconoscerli all'obitorio. Purtroppo, però, queste storie ripetute continuamente da molti non mi hanno mai convinto. Certamente non mi sono bastate per placare il senso di colpa e il dolore di un’assenza. Scrivere male, d'impulso, un articolo grossolano su di un vecchio amico e scoprire poco dopo della sua morte mi fece sentire complice di una macchinazione più ampia che arrivò fino al suo assassinio. Anni dopo la sua scomparsa, sono ancora qui a ripensare a lui come in un loop da cui non sono più riuscito a uscire. Continuo a cercare spiegazioni.
In quella difficile epoca del Puerto, i ragazzi come Rudi non credevano di essere in guerra. Chiamavano quegli scontri e quei tiroteos, “meter orden” (mettere ordine), “portar la ley” (stabilire la regole), “luchar la vida” (imparare a vivere). La parola guerra non la usavano, come d’altronde non era usata nel gergo comune colombiano per riferirsi a quanto accadeva nel paese. Si parlava e si scriveva di conflitto armato, ma mai di guerra, e guai arrivavano al solo ipotizzare una guerra che fosse anche civile. Si parlava di sicurezza e pacificazione dei territori ma non del suo contrario. C’erano i rifugiati interni del conflitto che non erano esattamente rifugiati di guerra, perchè quella guerra ufficialmente non esisteva (1). A Buenaventura si poteva partire. Si poteva scegliere un lato o una fazione. Si poteva diventare soldati ed andare sulle montagne per combattare contro le guerriglie, ad esempio. Ma anche allora chi partiva soldato andava “sul monte” non andava in guerra. Quando si rientrava, poi, a maggior ragione, non c’era più quella vita con le divise e gli accampamenti e i pattugliamenti. C’era una quotidianità semplicemente dura che spesso richiedeva l’uso delle armi per non farsi sopraffare dal vicino e fortuna voleva che si imparasse anche ad usarle. Si ascoltava allora di criminalità, di cartelli e di mafie, di bande e di follia ma non di guerra.
Quello stesso anziano del Barrio si riferiva a tutto questo come al “male del Puerto” che era una nozione che mi impegnò mesi se non anni per poterla intendere. Nel Pacifico colombiano “lo Malo” era tutto quell'insieme di accadimenti negativi che portavano alla distruzione della vita in comune. Era però inteso in due campi dell'esistenza distinti seppur tra loro connessi: quello della malattia e quello della “mala suerte” (la sfortuna). La prima affettava le persone da dentro, debilitandone la capacità di vita e colpendo direttamente il loro flusso vitale. La seconda invece riguardava una manifestazione esterna di diversi disequilibri per cui qualcuno soffriva una serie ripetuta di eventi negativi come un cattivo raccolto, la morte di figli o battute di caccia non proficue. In questo secondo caso di solito si mettevano in moto energie cosmiche che cospiravano contro la persona e la sua famiglia e le cause potevano essere molteplici. Per arginare “lo Malo” si ricorreva allora ai curatori e agli sciamani che tra la conoscenza delle piante medicinali e la loro capacità di accedere ai mondi occulti degli spiriti e delle forze della Natura attraverso le giuste orazioni cercavano di curare i malcapitati.
“Il male del Puerto” metteva assieme queste nozioni allargandole ad una condizione esistenziale che riguardava la città, concepita come un sovraorganismo in cui era avvenuta una scissione. Il Puerto appariva ora come un'entità a se stante che si frapponeva al continuo scambio vitale del villaggio; tra il campo coltivato, che bilanciava le forze riproduttive, e la selva, che raccoglieva invece la nozione di ignoto o di caos. Se quindi "el buen vivir” (vivere bene) nel Pacifico colombiano significava trovare un equilibrio in questo scambio, a parere dell’Anziano, a Buenaventura non solo l’equilibrio era perso. L’opera umana stessa era intrisa di caos, rivolta alla creazione de lo Malo. Troppi morti di “mala muerte”, di  morte violenta, avevano infatti riesumato il “marciume del mondo” (lo podrido) mischiandolo alla vita, confondendo, mutando, trasformando le cose in modi tanto veloci da non poter essere più facilmente riconoscibili (1, 2). Invece di organizzare le forze riproduttive definendo gli spazi in cui la mano del contadino, del cacciatore o del taglialegna poteva arrivare, l’opera umana nascondeva l’ignoto negli spazi del quotidiano. Esumava un conflitto radicato nella capacità stessa di distinguere tra umano ed animale, tra riproduzione e caos (1, 2). Qui risiedeva una parte importante della concettualizzazione della guerra civile per cui la città non era rappresentata come un luogo di riparo, “porto” da cui prepararsi alle prossime ripartenze. Era invece realtà ammalata in cui le giuste orazioni avevano perso potere e non potevano riaffermare la superiorità della vita in comune rispetto al volere dei pochi.
L’esperienza del disequilibrio era condivisa da molti abitanti del Barrio e le sue spiegazioni erano molteplici. Quando José descriveva vite come quella di Rudi accusava quelli della sua generazione che erano, a suo parere, esempi tossici per i giovani come lui. Descriveva la gente della sua età come portatrice del “marciume del mondo”, come se avesse assorbito il Male del Puerto senza però trovare un modo per curarlo. Questa incapacità era la prova che tutti loro non devevano più aspettarsi rispetto ed ascolto. Disse una volta: “questi ragazzi li abbiamo persi noi che non siamo stati in grado di costruire un mondo dove potessero pensare ad altro”. Disse anche: “siamo noi ad essere pieni di odio, siamo noi che dovremmo morire tutti per far smettere a quei ragazzi di ammazzarsi”. Josè pensava alle cosmologie esistenti spingendosi fino a credere che fosse necessario stabilire una frattura tra le generazioni. Occorreva liberare quei ragazzi sospendendo il culto degli ancestri, un altro elemento centrale delle tradizioni delle comunità afrocolombiane. Per curare il Male del Puerto bisognava dunque spingersi fino a riconsiderare i legami costituitivi, anche biologici della vita in comune. Per vincere la guerra civile occorreva prima di tutto riconoscerla. Ma in quali modi ciò sarebbe stato concretamente possibile? Ed era davvero questa la ragione dell’implosione delle vecchie modalità di vita cui alcuni dicevano di assistere?
Conobbi Josè, nel 2009, quando da volontario, lavoravo nel Barrio San Francisco, all’epoca uno dei quartieri più colpiti dalla guerra urbana di Buenaventura. Era balzato sulle prime pagine dei giornali locali per via di una casa per le torture (casa de pique) che era sorta proprio al lato della chiesa del quartiere. Gli abitanti erano sconvolti dalle urla che si ascoltavano e chiedevano disperatamente alle autorità della città di chiuderla. Purtroppo non ebbero successo. Per circa dieci anni e forse più, Polizia e muncipio continuarono a negare l’esistenza delle case per le torture a Buenaventura. Bisognò aspettare il 2014 e l’omicidio di quel ragazzo per confermare che ne esisteva una sola, nel Barrio La Playta, che “era stata prontamente distrutta dall’intervento dei militari”.
L'ONG che mi ospitava organizzava attività ludiche con alcuni giovani di quelle parti e io mi occupavo di preparare tè e biscotti e poi di servirli. Organizzavo la sala prima del loro arrivo e la pulivo subito dopo. Il resto del tempo lo passavo ad ascoltare le storie della città. Di tanto in tanto una visita in una chiesa o in un centro polifunzionale mi permetteva di ascoltare direttamente delle atrocità commesse in luoghi come la casa de pique ad opera di gruppi armati senza scrupoli. José apparse uno di quei giorni e ci parlò del suo Barrio. Ricordo che mi conquistò perché allontanò un bambino con incredibile gentilezza e poi mi disse: “Qui bisogna stare attenti a tutti. Lo hanno mandato per ascoltarci.” Qualche giorno dopo andai a trovarlo perché mi raccontò della sua battaglia legale per riuscire ad ottenere i diritti di proprietà delle terre in cui viveva da sempre. Era la più vasta area edificabile di tutta la città e, a suo parere, poteva essere salvata dalle anti estetiche costruzioni dei narcos. Sognava un’immensa riserva ecologica e per questo lo chiamavano “el loco”, il pazzo. Mentre la città pensava a come costruire nuovi hotel e grattacieli, lui ogni mattina prendeva il machete e andava a pulire il cammino per i visitatori della “Riserva”, che erano soprattutto lui e i suoi figli.
Purtroppo la zona era diventata teatro di omicidi efferati e in città raccontavano che molte persone scomparse erano sepolte da quelle parti. Probabilmente per questa ragione, era molto difficile invogliare qualcuno a trascorrere un pomeriggio fuori dal caos urbano per trovare un po' di tranquillità nell'unico spazio verde della città. Lui però non pareva curarsene. Quando camminava nella sua “Riserva”, non aveva bisogno di altro. Conosceva ogni pianta, ogni ramo, ogni suo piccolo anfratto. “Quando sono qui rido da solo e parlo con le piante”, diceva mentre mi mostrava un frutto o una radice con proprietà curative. Pensai allora che due pazzi sarebbero stati più credibili di uno solo e cercai di aiutarlo a realizzare il suo sogno, raccontando qualche storia sulla novità delle sue idee. Appoggiati da un’organizzazione locale, il PCN (il Proceso de las Comunidades Negras), e da altri pazzi del proceso sognavamo di non essere fagocitati dai Capi della narcotici. Qui si inserì il mio progetto di dottorato e, per qualche tempo, divenni l'antropologo del Barrio. Così eccomi un anno dopo nell’unica stanza della casa che serviva da cucina, camera da letto e sala ricevimenti a salutare tutti i figli di José, la moglie, i nipoti e, in mezzo a quel marasma, conobbi Rudi. 
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