#Violenza Istituzionale
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Questo uomo no, #141 - Quello che secondo lui il patriarcato non esiste più
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Premessa importante: questo testo non è "contro" un ministro ignorante che dice ingiuste e violente inesattezze in una sede istituzionale intervenendo neanche di persona a sproloquiare di cose che non sa, in modo quantomeno inopportuno. Quanto successo alla presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin in Senato è già successo innumerevoli volte, e succederà ancora per molto tempo. Questo testo è l'ennesima ripetizione di cose già sapute e stabilite scientificamente da chi studia le questioni di genere e i femminismi da decenni, e che ripete a ogni occasione perché questo è il suo lavoro: la ricerca e l'azione volte a dare strumenti per risolvere problemi sociali gravi e inderogabili e a puntualizzare concetti importanti per quella ricerca e quell'azione.
"Il patriarcato è finito nel 1975, con la riforma del diritto di famiglia" non è una opinione nuova, è una vecchia ignoranza che in molte forme diverse va in giro appunto dal 1975, sostanzialmente per due motivi. 1) Un punto temporale indietro nel tempo - il '75 è cinquant'anni fa! - fa sembrare questo argomento vecchio, datato, superato, e insieme a lui i femminismi che lo combattono. La realtà è che se intendiamo il patriarcato come modello politico-sociale che informa le leggi del nostro paese, è nel 1981 che viene abolito il delitto d'onore, è nel 1996 che lo stupro è classificato reato contro la persona e non contro l'onore. In più, se anche per le questioni di violenza possiamo fermarci al 1996, il patriarcato è presente nelle leggi del nostro paese in molti altri luoghi dei codici: le leggi sulla cittadinanza basate sul sangue sono leggi patriarcali, le leggi che regolano l'eredità sono patriarcali, la presenza nei nostri codici dell'espressione "buon padre di famiglia" con valore regolativo è patriarcato. Nel '75 sono finite tante cose nelle leggi italiane, ma il patriarcato no. 2) Il secondo motivo riguarda la strumentalizzazione del termine patriarcato, che da questione culturale si cerca di chiuderlo a questione legislativa. Questo è l'esempio di uno dei modi tipici di invalidare le critiche femministe e gli studi di genere: delimitare la complessità della parola patriarcato a un significato, a un solo ambito disciplinare. Si usa l'antropologia per dire che il patriarcato è un modello familiare ormai scomparso dalle nostre società; si usa la storia per rinchiuderlo in tempi lontani e civiltà remote; si usa l'etimologia per sostenere la sua inconsistenza, dato che la figura paterna ha perso potere rispetto a quella materna, la maschile rispetto a quella femminile; si usa la linguistica per sostenere che il termine è inadeguato alla complessità e alle trasformazioni della famiglia e della società contemporanee. E così via, pur di limitarne l'unico uso sensato in queste questioni: l'uso che ne fanno, da qualche secolo, i femminismi e gli studi di genere.
Il patriarcato è il nome di una relazione di potere tra esseri umani o tra istituzioni umane basata su valori sociali comunemente e tradizionalmente associati a ciò che, in una determinata cultura, viene considerato maschile. Questo è il motivo per cui: - il patriarcato non è un modo di "attaccare" o "accusare" gli esseri umani maschi, perché come forma di potere può essere usato (e nei fatti viene usato) da persone di qualsiasi genere; - il patriarcato non è il nome di una struttura sociale, di una relazione o di una forma espressiva (parola, locuzione, testo, opera d'arte), ma il nome del potere che viene usato - anche insieme ad altri - in quelle situazioni o in quelle espressioni. Quindi non esistono parole o azioni "patriarcali" da vietare, ma usi patriarcali di espressioni e situazioni che andrebbero evitate. - il patriarcato non è la "causa" della violenza di genere subita dagli esseri umani, ma il potere usato in tutte le forme di violenza di genere subite dagli esseri umani in maniera differente a seconda dei loro corpi e del loro genere. A questo proposito varrà la pena ricordare che questo è il motivo per cui non esiste alcuna "simmetria" tra la violenza di genere subita dalle donne rispetto a quella subita dagli uomini, e poi tra etero e non etero, e così via. Ogni particolarità di genere subisce forme di violenza di tipo patriarcale; 350 anni e più di femminismi permettono oggi di identificare e parlare con certezza di quelle subite da qualsiasi genere non sia l'uomo eterocis, mentre quest'ultimo genere continua, in tantissimi casi che capitano nella vita dei suoi membri, a non saperla neanche riconoscere, data l'assenza di una competenza diffusa proprio su questo aspetto specifico degli studi di genere: la maschilità. Ecco anche detto il perché in nessun senso il patriarcato è una ideologia, o può essere assimilato a un atteggiamento ideologico: il patriarcato è un fatto sociale esistente e funzionante nelle nostre società, e la sua esistenza è oggetto di studi e ricerche scientifiche da moltissimi anni, in tutte le sue forme (linguistiche, sociali, filosofiche, economiche, storiche). Può essere certamente ideologica, e di fatto lo è, la scelta di non occuparsene oppure sì, di non riconoscerlo oppure sì, di discuterne come fatto sociale del quale occuparsi nelle proprie vite oppure no.
Oppure ancora, come è stato fatto di recente seguendo un andazzo molto in voga tra le persone ignoranti e schierate contro i femminismi di ogni tipo, si può dichiarare che il patriarcato è finito e che ci sono in giro "solo" forme di maschilismo - ignorando il legame tra i due, che non sono sinonimi - e che la violenza di genere diffusa è dovuta anche all'immigrazione.
Dalle mie parti fare così si chiama "buttàlla in caciara", ed è il tipico atteggiamento di chi è ignorante e/o vuole ottenere credibilità e consenso spostando le argomentazioni altrove. Questo uomo no.
Probabilmente anche io, che studio queste cose a livello accademico dalla metà degli anni '90 e che da più di un decennio ne ho fatto un lavoro apprezzato e un'opera di divulgazione che ha aiutato moltissime persone, vengo considerato "ideologicamente schierato". Evidentemente, sapere le cose e usarle per il bene comune anche professionalmente adesso qualcunə preferisce chiamarlo così, sperando che ne possa rimanere fuori. Invece, anche se da diversi posizionamenti, o si conosce e affronta il problema, o si è parte del problema. Buon patriarcato a tuttə. P.S. per chi è più esigente, qui una mia bibliografia aggiornata a fine '23. Ci metto solo quello che leggo, studio e ho usato con risultati, quindi non ci sono pubblicazioni troppo recenti.
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" Il 12 marzo 1921 Matteotti doveva parlare a Castelguglielmo. La lotta si era fatta da alcuni mesi violentissima; s'era avuto in Polesine il primo assassinio. Quel sabato egli percorreva la strada in calesse e Stefano Stievano, di Pincara, sindaco, gli era compagno. Ciclisti gli si fanno incontro dal paese per metterlo in guardia: gli agrari hanno preparato un'imboscata. Matteotti vuole che lo Stievano torni indietro e compie da solo il cammino che avanza. A Castelguglielmo si nota infatti movimento insolito di fascisti assoldati; una folla armata. Alla sede della Lega lo aspettano i lavoratori e Matteotti parla pacatamente esortandoli alla resistenza: ad alcuni agrari che si presentano per il contraddittorio rifiuta; era di costoro una vecchia tattica quando volevano trovare un alibi per la propria violenza: parlare ingiuriosamente ai lavoratori per provocarne la reazione facendoli cadere nell'insidia. Matteotti si offre invece di seguirli solo e di parlare alla sede agraria: così resta convenuto e dai lavoratori riesce ad ottenere che non si muovano per evitare incidenti più gravi. Non so se il coraggio e l'avvedutezza parvero provocazione. Certo non appena egli ebbe varcata la soglia padronale - attraverso doppia fila di armati -, dimentichi del patto gli sono intorno furenti, le rivoltelle in mano, perché s'induca a ritrattare ciò che fece alla Camera e dichiari che lascerà il Polesine. « Ho una dichiarazione sola da farvi: che non vi faccio dichiarazioni ». Bastonato, sputacchiato non aggiunge sillaba, ostinato nella resistenza. Lo spingono a viva forza in un camion; sparando in alto tengono lontani i proletari accorsi in suo aiuto. I carabinieri rimanevano chiusi in caserma.
Lo portano in giro per la campagna con la rivoltella spianata e tenendogli il ginocchio sul petto, sempre minacciandolo di morte se non promette di ritirarsi dalla vita politica. Visto inutile ogni sforzo finalmente si decidono a buttarlo dal camion nella via. Matteotti percorre a piedi dieci chilometri e rientra a mezzanotte a Rovigo dove lo attendevano alla sede della Deputazione provinciale per la proroga del patto agricolo il cav. Pietro Mentasti, popolare, l'avvocato Altieri, fascista, in rappresentanza dei piccoli proprietari e dei fittavoli; Giovanni Franchi e Aldo Parini, rappresentanti dei lavoratori. Gli abiti un poco in disordine, ma sereno e tranquillo. Solo dopo che uscirono gli avversari, rimproverato dai compagni per il ritardo, si scusò sorridendo: - I m'ha robà. Aveva riconosciuto alcuni dei suoi aggressori, tra gli altri un suo fittavolo a cui una volta aveva condonato l'affitto: ma non volle farne i nomi. Invece assicurò che mandanti doveva no essere il comm. Vittorio Pela di Castelguglielmo e i Finzi di Badia, parenti dell'ex sottosegretario di Mussolini. Poiché si parlò e si continua a parlare di violenze innominabili che Giacomo Matteotti avrebbe subito in questa occasione è giu sto dichiarare con testimonianza definitiva che la sua serenità e impassibilità, di cui possono far testimonianza i nominati interlocutori di quella sera, ci consentono di escludere il fatto e di ridur lo ad una ignobile vanteria fascista. La storia di questo rapimento è tuttavia impressionante e perciò abbiamo voluto raccoglierne da testimonianze incontestabili tutti i particolari. Finché non ci sarà descritta l'aggressione di Roma il ricordo di questa prova può dirci con quale animo Matteotti andò incontro alla morte. Ne aveva il presentimento. "
Piero Gobetti, Matteotti, Piero Gobetti Editore, Torino, 1924, pp. 29-32.
NOTA: il brano è tratto dall'opuscolo pubblicato alla fine del luglio del 1924, nel vivo della crisi politica ed istituzionale scatenata dalla tragica scomparsa del deputato Matteotti. Il testo riproduceva integralmente un lungo articolo comparso un mese prima con lo stesso titolo sulla rivista di Gobetti La Rivoluzione liberale, così come erano tratti da questa pubblicazione i Cenni biografici sullo scomparso posti in calce all'opuscolo.
#Giacomo Matteotti#Piero Gobetti#antifascismo#socialismo#PSU#PSI#marxismo#Castelguglielmo#squadrismo#riformismo#riformisti#Veneto#Polesine#Rovigo#Partito Socialista Unitario#politica italiana#Storia d'Italia#XX secolo#gradualismo#sindacalismo#proletariato#rivoluzione#intellettuali italiani del '900#Regno d'Italia#primo dopoguerra#letture#leggere#La Rivoluzione liberale#democrazia#biennio nero
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Sulla violenza troverete scritto tutto e il contrario di tutto. Potreste informarvi su dati e statistiche relative alla violenza fisica, psicologica, sociale e collettiva. Numeri che raffigurano entità astratte, numeri che spesso perdono la valenza umana dei temi trattati. Numeri rassicuranti, che ci liberano dal senso di colpa.
Ma c’è qualcosa che passa sempre in secondo piano: il dolore di chi la violenza la subisce. Narrare la violenza è un atto di coraggio. Raccontare abusi, percosse, parole denigranti è già difficile, ma affermare di aver permesso a qualcuno di infliggere quel dolore richiede ancora più forza. Perché chi è vittima deve sempre giustificarsi?
Le parole sono importanti. Lo sappiamo, lo diciamo da anni. Le parole feriscono quanto i gesti e la subdola reiterazione dell’offesa si insinua anche nelle persone con maggiore autostima. L’offesa, alla lunga, diventa la manifestazione concreta di ciò che è già nostro da secoli: il senso di colpa, il senso del peccato.
E allora proviamo a rovesciare la prospettiva. Perché siamo abituati a guardare certe forme di violenza come distanti, appartenenti a mondi “altri”, mentre ignoriamo ciò che accade a pochi metri da noi?
Dall’Iran alle nostre università: lo stesso meccanismo, lo stesso silenzio.
Vedendo il film ispirato al romanzo di Nafisi, Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafisi, si era già evidenziata una rappresentazione stereotipata della società iraniana percepita dallo spettatore come altro da sé. Guardando il film (meno leggendo il libro) abbiamo la sensazione si parli solo di un mondo lontano: l’Iran post-rivoluzionario, la sua censura, la sua repressione delle donne. Studentesse costrette a leggere in segreto sembrano vivere in una realtà aliena e noi, dall’altra parte, ci sentiamo al sicuro, privilegiate e libere.
Vedendo il film ispirato al romanzo di Nafisi, Leggere Lolita a Teheran di Azar Nafisi, si era già evidenziata una rappresentazione stereotipata della società iraniana percepita dallo spettatore come altro da sé. Guardando il film (meno leggendo il libro) abbiamo la sensazione si parli solo di un mondo lontano: l’Iran post-rivoluzionario, la sua censura, la sua repressione delle donne. Studentesse costrette a leggere in segreto sembrano vivere in una realtà aliena, e noi, dall’altra parte, ci sentiamo al sicuro, privilegiate e libere.
Ma siamo davvero così libere? Davvero questa condizione è reale o frutto di una convinzione? Esistono realtà molto simili a quelle che siamo soliti criticare altrove? Ci siamo mai chiesti se le nostre studentesse subiscano molestie nei nostri atenei? Quante sono vittime di pressioni psicologiche? Quante rinunciano a denunciare per paura di ritorsioni?
E’ notizia di questi giorni di una ricerca condotta dalla Conferenza dei Rettori delle Università Italiane (CRUI) che ha fotografato la realtà delle molestie di genere nei nostri atenei. Tra marzo e novembre 2024 sono state raccolte 243 segnalazioni. Non numeri astratti, ma storie di chi ha avuto il coraggio di parlare.
I dati raccolti dimostrano che 103 casi riguardano molestie sessuali, fisiche o cybermolestie. Il 38% delle denunce riguarda pressioni psicologiche e abuso di potere. La ricerca ha messo in luce, inoltre, la carenza di presenza istituzionale negli atenei: 3 università su 4 non hanno, infatti, sportelli antiviolenza strutturati.Da Il POST: Due studentesse si sono incatenate nell’atrio dell’universita’ genovese, per chidere l’istituzione di un centro antiviolenza che manca nell’ateneo, dopo ripetiti episodi sessisti. Genova, 11 novembre 2024. – ANSA/LUCA ZENNARO
Il potere delle parole: ferite invisibili
Studi di neurolinguistica condotti nell’ultimo decennio hanno dimostrato che il dolore psicologico ripetuto, attiva nel cervello le stesse aree del dolore fisico. La violenza verbale e psicologica è un veleno: fa dubitare di se stessi, ci convince che forse abbiamo frainteso, ci fa arrivare al punto di autoaccusarci di troppa sensibilità. È un meccanismo lento e distruttivo, che si nutre del silenzio.
Il punto, infatti, è proprio questo: il silenzio non è solo delle vittime, ma della società intera.
Ci scandalizziamo e insorgiamo per i racconti di donne velate costrette a studiare di nascosto, ma le molestie nei nostri atenei sono un tabù. Forse molti sanno anche che esistano, eppure vengono restituite all’immaginario comune come minimizzate, ridotte a malintesi ed esagerazioni.
La CRUI ha, inoltre, posto l’attenzione su un dato preoccupante: nelle università del Sud le segnalazioni sono pochissime. Questo, chiaramente, non significa che il problema sia meno diffuso, ma che persista ancor di più nelle donne la paura di denunciare sia per evitare ritorsioni sia per la possibilità le ragazze denunciano di meno per paura di non essere credute.
E allora torniamo alla domanda iniziale: il problema è davvero altrove? O semplicemente altrove è più evidente e noi preferiamo illuderci di essere diversi?
Negli ultimi anni, fortunatamente, è aumentata la sensibilità da parte dei rettori che hanno chiesto strumenti più incisivi per contrastare gli abusi. Un caso emblematico è il recente licenziamento di un primario dell’Università di Pavia, accusato di molestie. Giovanna Iannantuoni, presidente della CRUI ha dichiarato: “Il cambiamento culturale deve cominciare fin dall’infanzia. Se si tarda a intervenire, si giunge all’università con problemi già consolidati”.
Perché il problema, lo sappiamo già, non inizia all’università, inizia molto prima. Inizia con il fiocco rosa, quando nasce una “femminuccia“.
Abbattere gli stereotipi per scardinare il sistema
Si torna, ancora una volta, a sottilineare la necessità di porre un accento forte sulla relazione tra cultura patriarcale e violenza. Tra educazione al rispetto e dis-educazione alla dis-ugliaglianza. Il soggetto che insulta, che umilia, che esercita il proprio potere per denigrare, spesso è stato vittima a sua volta. Vittima inconsapevole di una società che impone anche a lui comportamenti stereotipati per potersi conformare alla norma, per rientrare in essa. Questo, ovviamente, non giustifica nulla e nessuno, ma ci dice che la violenza è un sistema, non un’eccezione.
Abbattere gli stereotipi è una necessità globale, che è presente trasversalmente con manifestazioni diverse. E’ il primo grande passo per scardinare un meccanismo che ci dipinge sempre uguali, al di là dello scorrere del tempo. Un meccanismo che permette alla violenza di continuare, cambiando solo forma. Cambiando aspetto, ma non obiettivo, mantendo solido un filo invisibile che collega popoli, culture, ceti sociali, appartenenze politiche apparentemente anche contrastanti.
Non pensiamo che la libertà sia qualcosa che “noi” abbiamo e che “gli altri” devono ancora conquistare. Perché la libertà non è reale finché le parole possono ancora ferire senza conseguenze, finché un uomo penserà a una donna come una possibile preda sessuale, finché si sentirà nel pieno diritto di sconfinare nel suo spazio prossemico e, ben oltre, di accedere al suo corpo come fosse un bottino di guerra appena conquistato. Il potere sul corpo di una donna è il potere di una società che ha bisogno di mantenere fissi i suoi “capisaldi” affinché non perda la coordinata principale di riferimento: il patriarcato.
Il potere resta intatto finché il silenzio continua a proteggere chi lo esercita.
Il problema non è altrove. Il problema è ovunque.
Source: Molestie nelle università italiane: la violenza è senza patria.
#femminismo#università#molestie#donne#feminism#radical feminism#gender stereotypes#sexism#intersectional feminism
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Amare per … Amare come …
Il 29 novembre si è tenuto, presso il Centro Socio culturale di Solbiate Olona, un incontro dal titolo “Amare per ….Amare come…”, un evento dedicato al contrasto della violenza sulla donna.
La serata, introdotta dai saluti dall’assessore alle politiche sociali e alla cultura Giada Martucci, è stata moderata dalla presidente della Commissione sociale Letizia Valerio, che ha proposto al pubblico la lettura di un brano tratto dal libro “Effimera libertà” di Amilca Ismael.
Non è stato semplice restare indifferenti alle parole di grande sofferenza, di paura per la propria vita, di senso di ingiustizia per il sangue versato e per il corpo offeso di una giovane donna. Certamente hanno ricordato con forza che la violenza sulle donne è una delle più gravi violazioni dei diritti umani.
La moderatrice, riportando alcuni dati, ha sottolineato che la violenza contro le donne è un fenomeno generato da molti fattori interdipendenti che riguardano diversi ambiti: sociali, culturali, politici e relazionali.
In Italia, i dati Istat mostrano che il 31,5% delle donne ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Le forme più gravi di violenza sono esercitate da partner o ex partner, parenti o amici. La violenza all’interno delle relazioni affettive è la più diffusa in ogni società e cultura.
Per l’occasione, sono state coinvolte due psicologhe, la dott.ssa Stefania Benazzi, psicologa e psicoterapeuta del Centro accoglienza ICORE di Marnate e la dott.ssa Alessandra Borsani psicologa coordinatrice di un servizio per le famiglie che accoglie anche donne e minori vittime di violenza.
L’intervento delle relatrici ha riguardato
• la Violenza psicologica e del Controllo
• gli effetti della violenza sulla donna, sulla mamma, sui bambini, da parte dell’uomo
• l’importanza della rete sociale e della rete istituzionale
Hanno fatto da cornice ed arricchito l’incontro una Mostra del Gruppo Artisti di Solbiate e la lettura di poesie da parte di alcuni poeti solbiatesi.
La serata, densa di nuovi significati, ha lasciato spazio ai numerosi interventi del pubblico sia sul tema che sull'importanza di continuare a gettare semi di conoscenza utili a favorire lo sviluppo di una rete sociale che sia di supporto alle vittime di violenza.
Un Grazie particolare al Centro Antiviolenza ICORE che si occupa di ascolto ed accompagnamento contro la violenza verso le donne: "Tu, non sei sola". https://www.centroantiviolenzaicore.com/
La mostra delel opere degli artisti solbiatesi proseguirà fino all'8 di dicembre, presso il Centro Anziani in Piazza Gabardi. Orari di apertura da lunedì a venerdì dalle 15,00 alle 18,00.




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Io non credo proprio che avere o meno una laurea sia esattamente il criterio con cui giudicare la preparazione di una persona in una materia. Abbastanza classista come posizione. Una persona può formarsi fuori dal sistema d'istruzione istituzionale. Facendo un esempio concreto e vissuto in prima persona, sono stata recentemente ad un incontro sulla violenza di genere dove una giornalista laureata che ha seguito diversi casi di femminicidio nella mia zona non credeva nell'esistenza del patriarcato...
guarda mi fa piacere che tu abbia deciso di impiegare del tempo della tua vita per commentare un post di tre righe come se esso potesse rappresentare il punto definitivo sul rapporto istruzione-effettiva competenza, non senza buttare lì anche un "ma hai detto una cosa classista", ché evidentemente in questi tempi si deve per forza vivere di emozioni forti.
a dire la verità, andando oltre la superficie (la butto lì: forse perché tre righe di post non sono sufficienti per esprimere un giudizio completo [né questa è mai stata la mia intenzione], né per esprimere gratuitamente un giudizio necessariamente incompleto sul summenzionato?), va a finire che sono più d'accordo con te che altro. il titolo di istruzione può voler dire ben poco. ce n'é finché vuoi di gente iper-titolata a cui non potresti lasciare in mano manco i soldi del caffè da reggere finché ti allacci le scarpe, da quanto è inetta. e, di contro, ci sono sia esempi eccellenti, sia più "ordinari" (che magari conosciamo nella vita quotidiana senza che diventino mai casi noti) di persone con cultura e competenze sconfinate, che non hanno "il pezzo di carta". non stiamo dicendo niente di nuovo, l'acqua è bagnata e il fuoco brucia, tanto per chiudere il cerchio.
in ogni caso, fermo restando quanto detto sopra, non è che proprio tutti possano dire proprio tutto, sempre e in ogni caso. non vai a farti curare dalla persona che si è formata individualmente, non ti fai costruire la casa da una persona che non ha studiato entro il sistema "canonico" ma ha davvero una grande grandissima passione per l'edilizia. e via dicendo. per fare determinate cose servono determinate competenze, le quali, spesso, si acquisiscono mediante uno o più percorsi di studi (o di formazione più empirica, a seconda, ma pur sempre di formazione si tratta - che non rientra nel campo dell'hobby). è una garanzia infallibile? assolutamente no. è però sensato esigere persone competenti, la cui competenza possa essere misurata (anche) secondo un metro di paragone convenzionale, seppur alle volte fallibile? secondo me sì. e il classismo magari lo lasciamo da un'altra parte, ché tanto ne è già pieno il mondo
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Il presidente argentino Milei si propone come modello di governo della crisi economica, sociale, politica ed ecologica attraverso la rottura di ogni consenso sociale e politico e di ogni regola del potere (democraticamente) costituito
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Già dalle prime misure varate subito dopo la sua assunzione ufficiale dell’incarico, in una cerimonia celebrata per la prima volta nella storia in piazza e voltando intenzionalmente le spalle al congresso, Milei ha mostrato la sua avversione per ogni procedimento formale costituzionale, presentando un pacchetto di quasi 900 leggi per mutare radicalmente l’assetto giuridico-istituzionale dello Stato argentino mediante un Decreto Nazionale di Urgenza (Dnu) e una Legge Omnibus. Si tratta di due maxi-provvedimenti emessi con procedura di urgenza in modo da bypassare i meccanismi democratici formali tipici di ogni democrazia parlamentare. Il processo Milei incarna un progetto autoritario e messianico (non si sottovaluti la conversione all’ebraismo ortodosso del presidente) di rifondazione istituzionale, un reale «processo di riorganizzazione nazionale», l’espressione usata da primo comunicato della giunta militare nel 1976 e ripresa dallo stesso Milei durante il suo discorso di insediamento. Il Dnu è già entrato in vigore da quasi un mese e mezzo, e potrà essere revocato soltanto dai tribunali. Proprio in questi giorni la legge omnibus è stata respinta dal parlamento, nonostante l’opposizione friendly del Pro di Macri, della vecchia Ucr e del peronismo di destra, e dovrà tornare nelle commissioni. Questi due provvedimenti sono stati accompagnati da un terzo – il cosiddetto Protocollo Repressivo della ministra della sicurezza, Patricia Bullrich – che autorizza la violenza statale e cioè la sorveglianza, la prevenzione arbitraria e soprattutto la repressione poliziesca indiscriminata di ogni manifestazione pubblica di dissenso, di ogni blocco di strade a causa di proteste, così come l’aumento delle pene di reclusione per reati politici. Già nelle prime manifestazioni di opposizione al governo abbiamo visto scene – arresti indiscriminati, attacchi feroci e intimidatori delle forze dell’ordine ai manifestanti e anche alla stampa – che non si vedevano dagli anni più bui della storia del paese. Da notare che il protocollo è divenuto operativo prima della sua approvazione in parlamento. Un’eccezione che opera in uno stato di eccezione più ampio.
L’agenda di governo del processo Milei eccede anche qualsiasi tentativo di comprensione attraverso categorie economicistiche, anche tipicamente neoliberali, come austerity, aggiustamento strutturale, azzeramento del deficit fiscale, riduzione del debito pubblico, ecc. Nella sua essenza è un tentativo di cambiare, secondo una modalità autoritaria e intransigente, la costituzione materiale dello Stato-nazione, ovvero di eliminare qualsiasi tipo di regolazione istituzionale della vita sociale e ambientale per favorire in modo dispotico non il «libero mercato», bensì la produzione di valore, la speculazione e la rendita finanziaria, l’appropriazione di terre da parte di grandi proprietari e corporazioni e l’estrattivismo in tutte le sue dimensioni, senza alcun tipo di mediazione (giuridica, sindacale, ecc.). Si tratta di un modello di società di tipo pre-contrattualista, un modello di accumulazione brutale fondato sull’assurda concezione secondo cui la società è fatta soltanto dal libero scambio tra individui. Da qui la sua infatuazione per Margaret Thatcher. Così, con i suoi due decreti fondativi, sommati a una svalutazione della moneta del 120%, alla liberalizzazione dei prezzi dei generi alimentari, dei farmaci e dei contratti per gli affitti, alla cancellazione di ogni sussidio statale al trasporto e ai servizi pubblici (acqua, luce, gas, ecc.) e al blocco delle opere pubbliche, il processo Milei si è tradotto in uno dei più brutali trasferimenti di ricchezza di tutta la storia argentina dalle classi popolari all’oligarchia agro-finanziaria. Le statistiche in questi mesi registrano un calo del consumo dei generi alimentari di prima necessità del 40%, insieme a un crollo del 40% degli acquisti di farmaci essenziali. Un’estrazione feroce su una popolazione socialmente già allo stremo, dopo tre anni di inflazione galoppante.
È questo il primo risultato di un’applicazione sadica, fanatica e alla lettera della terapia dello «shock economico» di Milton Friedman, il quale sosteneva che la rifondazione in senso neoliberale di una società doveva avvenire nei primi sei mesi di governo e, se possibile, nel pieno di una grave crisi economica. E tuttavia il «messianismo neoliberale» di Milei non è del tutto comprensibile al di fuori della storia coloniale dell’Argentina. Sta qui la sua principale differenza con i sovranismi del Nord globale. Il processo Milei affonda il suo immaginario politico nel progetto del «colonialismo d’insediamento» razziale delle élites bianche creole argentine di fine Ottocento, ovvero in un paese oligarchico governato da un blocco sociale agro-esportatore liberale e assai vincolato al capitalismo finanziario internazionale dell’epoca, e quindi fondato sulla negazione ed esclusione strutturale delle masse autoctone. Il processo Milei trae buona parte della sua linfa culturale da questa Argentina coloniale e pre-peronista, ovvero da un modello di paese costruito su un genocidio di stato e cioè sull’esclusione e repressione dei «gauchos» e delle masse proletarie meticce, e sullo sterminio pianificato dei popoli indigeni e degli afro-discendenti. Il «ritorno all’Argentina potenza» invocato da Milei, la sua santificazione di una personalità storica come Juan Bautista Alberdi (1810-1884), sta a significare un ritorno messianico a questa sorta di «paradiso adamico» rappresentato da un paese fondato sul terrorismo di stato, ovvero su un progetto volutamente omicida di «bianchizzazione» della popolazione. Sta qui il senso della prima frase enunciata da Milei durante la cerimonia di assunzione: «È finita la lunga notte populista, viva la libertad carajo!». Milei vede la storia post-peronista come una storia di progressiva decadenza economico-culturale; e questa decadenza, nella sua enunciazione, è dovuta ai diversi tentativi populisti di inclusione del cosiddetto «subsuelo de la nacion» (il proletariato autoctono e meticcio) nella grammatica istituzionale della cittadinanza moderna, e attraverso la redistribuzione della ricchezza. È su questo sfondo della storia nazionale che va interpretata una delle sue enunciazioni più note: «Qualsiasi tentativo di giustizia sociale è un’aberrazione». Non può sorprendere dunque se nel processo Milei si cercherà di azzerare, prima o poi, come peraltro già annunciato, le importanti ed esemplari conquiste di trent’anni di lotta per i diritti umani, per la Memoria, la Verdad y la Justicia, riguardo ai delitti di lesa umanità commessi dal terrorismo di Stato durante l’ultima dittatura civico-militare tra il 1976 e il 1983 finita con 30mila desaparecidos. Da quanto detto, inoltre, non è difficile intuire che lo schieramento internazionale con Stati uniti e Israele, e l’uscita dai Brics, già annunciati da Milei, non obbediscono soltanto a ragionamenti puramente geopolitici, o semplicemente ideologici, e meno che mai economici, poiché Cina e Brasile sono i principali partner economici dell’Argentina, ma ha radici piuttosto profonde.
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1. La cassa integrazione straordinaria fino al dicembre 2023 pone fine a 7 mesi senza stipendio. Non è una cassa per cessazione d’attività. (...) L’assedio, almeno sul reddito, è rotto. Torniamo a respirare, dopo che hanno provato in tutti i modi a soffocarci.
2. Le buone notizie però finiscono qua. Da festeggiare non c’è nulla. (...) Si è consumato un atto di violenza sociale. E soprattutto, si è consumato un precedente pericoloso per i diritti dell’intero mondo del lavoro.
3. Questa cassa è in deroga a qualsiasi regola finora conosciuta. Dimostra che il Governo poteva tutto e che nulla ha fatto. Potevano chiudere la partita del nostro reddito in qualsiasi momento, in cinque minuti e con decretazione d’urgenza. Hanno atteso mesi. (...)
4. Si sancisce il principio che si può non pagare gli stipendi. E che si può non farlo per mesi. (...)
5. Avvertiamo da subito: in un mondo che corre verso la stretta creditizia, questo precedente contribuirà ad aumentare il numero di aziende che semplicemente smette di pagare gli stipendi. (...)
6. (...) Ora si riaprirà la danza dei tavoli istituzionali. La domanda resta però: che valore ha firmare accordi con chi non li rispetta e senza che nessuno agisca per farli rispettare?
7. Siamo a tutti gli effetti arrivati a due anni interi di cassa integrazione. Fatto una volta, lo si può fare altre volte. Il Governo ha deciso di nazionalizzare di fatto i nostri stipendi. Ma non sta facendo niente sulla politica industriale che servirebbe per far ripartire l’azienda. (...)
8. E noi da tempo chiediamo che vengano messe a disposizione del progetto che stiamo elaborando, l’unico in campo oggi, tutti gli strumenti di valutazione e di controllo da parte istituzionale, comprese le leve finanziarie previste, per poterlo mettere a terra, noi chiediamo che a questo punto lo stato entri nell’intero processo di reindustrializzazione. (...)
9. (...) Chi parla di reindustrializzazione, fornisca risposte puntuali. Perché se non sei chiarezza, sei parte della confusione. E la confusione serve a generare divisione. La divisione genera rassegnazione. La rassegnazione è solo il preludio della resa.
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#insorgiamo
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CARCERE DI PADOVA: 6 AGENTI IN OSPEDALE. OSAPP/BENEDUCI: "SERVONO RISPOSTE IMMEDIATE, BASTA SILENZIO ISTITUZIONALE"
COMUNICATO STAMPA OSAPP_ Gravissima aggressione nella Casa di Reclusione di Padova: sei agenti di Polizia Penitenziaria in ospedale. Il Segretario Generale OSAPP, Leo Beneduci: “Servono risposte immediate, basta col silenzio istituzionale”. Una notte di violenza inaudita ha sconvolto la Casa di Reclusione di Padova. Ieri sera, intorno alle ore 22, un detenuto di nazionalità romena, già noto per…
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Uomo bianco salva donna nera: il recupero istituzionale che maschera razzismo
Avete presente il precedente post sul reality di polizia e body cam che invisibilizza le vittime di violenza domestica? Scorrendo tra i video ne ho finalmente trovato uno in cui la vittima è presente. Indovinate un po’? È afroamericana è l’uomo da cui è stata protetta era il suo ex ucciso nel corso dell’intervento poliziesco. Continue reading Untitled

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#Contrattacco Maschilista#Cultura Patriarcale#Fascismi#Femminicidio#Femminismo Intersezionale#Intersezionalità#Paternalismo#Razzismo#Stereotipi#Violenza di Genere#Violenza Istituzionale
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CHI E' AUGUSTA MONTARULI
La condanna per peculato confermata a Domani da Fratelli d’Italia è di un anno e sei mesi, la ministra Anna Maria Bernini non commenta.
Ha acquistato con i soldi della regione borse, Swarovski e i libri Mia suocera beve e Sexploration, di cui però, riportavano le motivazioni della sentenza dell’appello «non si coglieva il nesso con l’evento letterario sulla violenza sulle donne»
Stefano Bonaccini, favorito nella corsa alla segreteria del Pd, chiede che lasci subito il suo incarico ministeriale. Si apre un enorme caso politico per la presidente del Consiglio che tiene la linea della fermezza su un anarchico al 41 bis nel nome della legalità e insegue i giornalisti nelle aule di tribunale.
La sottosegretaria del ministero dell’Università Augusta Montaruli, deputata vicinissima alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, è stata definitivamente condannata per peculato a un anno e sei mesi per il caso dei rimborsi in Piemonte. I fatti risalgono a quando era consigliera regionale. La Cassazione sì è pronunciata giovedì notte: la notizia è stata riportata dalla stampa locale e confermata a Domani da Fratelli d’Italia. La ministra dell’Università Anna Maria Bernini (di Forza Italia) non commenta.
La Corte d’Appello aveva già condannato Montaruli per essersi fatta rimborsare impropriamente spese per un totale di oltre 25mila euro: 20mila euro di bar e ristoranti, borse, Swarovski e altri beni fra cui i libri Mia suocera beve e Sexploration. Giochi proibiti per coppie, di cui però, riportavano le motivazioni, «non si coglieva il nesso con l’evento letterario sulla violenza sulle donne, stranamente organizzato in notturna».
La Cassazione nel 2019 aveva rimandato all’appello e il bis si è concluso nel 2021. Ancora colpevole. La condanna definitiva adesso è di un anno e sei mesi, un mese in meno rispetto a quanto stabilito dalla Corte d’Appello la seconda volta.
Il caso
Il caso risale quasi a dieci anni fa e riguarda le spese fatte tra il 2010 e il 2014. La procura di Torino aveva contestato una lunga serie di acquisti: cene, abiti di lusso, e, dettaglio entrato di prepotenza nell’immaginario dei media, le mutande verdi del governatore, il leghista Roberto Cota. Le spese contestate a Montaruli all’inizio erano 41.552 euro.
La difesa si basava sul fatto che avevano presentato gli scontrini, ma senza fare particolari pressioni per ottenere i rimborsi: «In merito alle spese attribuite ai miei assistiti – ha detto a questo proposito l’avvocato Guido Carlo Alleva, difensore di Cota e della parlamentare Montaruli (FdI) – non vi furono comunicazioni, discussioni o anche semplici conversazioni con i capigruppo». Non ci sono state «insistenze, proteste o pressioni per ottenere il rimborso, né verso le segretarie, né verso chiunque altro. Si tratta di semplice presentazione di scontrini».
Montaruli, classe 1983, prima di essere nominata sottosegretaria ha iniziato da giovanissima a fare politica. A partire dai pellegrinaggi a Predappio sulla tomba di Benito Mussolini, che ha definito «un errore di gioventù» a DiMartedì, trasmissione che il 1° novembre ha mostrato la foto dell’happening neofascista in onore del Duce a cui lei ha preso parte.
Rappresentante degli studenti universitari per il Fuan, Fronte universitario d’azione nazionale, ha trasformato il suo attivismo in presenza istituzionale.
Avvocata, Montaruli è stata militante nel Popolo della libertà prima e in FdI poi, consigliera comunale e assessora alla cultura a San Mauro Torinese dal 2007 al 2010. Dopo essere stata eletta consigliere regionale è diventata portavoce nazionale della Giovane Italia nel 2012. Candidata già nel 2013, è entrata a Montecitorio nel 2018, quando il caso dei rimborsi era già conclamato.
La lista dei guai di Fratelli d’Italia nelle aule giudiziarie si arricchise così di un caso inedito, quello di una pregiudicata in parlamento. Andrea Delmastro Delle Vedove, sottosegretario alla Giustizia ed ex avvocato di Meloni, è indagato per rivelazione di segreto d’ufficio per aver passato al collega di partito Giovanni Donzelli intercettazioni tra l’anarchico Alfredo Cospito e i boss mafiosi al 41 bis.
Nicola Procaccini, europarlamentare e responsabile energia del partito (nonché amico fraterno di Meloni) è indagato con le accuse di turbativa d’asta e induzione indebita a dare o promettere utilità dalla procura di Latina. La legge Severino si applica solo per le pene superiori ai due anni, dunque Montaruli non decade automaticamente dal ruolo di parlamentare, come accaduto a Silvio Berlusconi nel 2013.
Stefano Bonaccini, favorito nella corsa alla segreteria del Pd, chiede che lasci subito il suo incarico ministeriale. Si apre un enorme caso politico per la presidente del Consiglio che tiene la linea della fermezza su un anarchico al 41 bis nel nome della legalità e insegue i giornalisti nelle aule di tribunale. Accetterà che una pregiudicata continui a sedere in parlamento?
Fabio Massarenti
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" [Giacomo Matteotti] Non ostentava presunzioni teoriche: dichiarava candidamente di non aver tempo per risolvere i problemi filosofici perché doveva studiare bilanci e rivedere i conti degli amministratori socialisti. E così si risparmiava ogni sfoggio di cultura. Ma il suo marxismo non era ignaro di Hegel, né aveva trascurato Sorel e il bergsonismo. È soreliana la sua intransigenza. La concezione riformista di un sindacalismo graduale invece non era tanto teorica quanto suggeritagli dall'esperienza di ogni giorno in un paese servile che è difficile scuotere senza che si abbandoni a intemperanze penose. Egli fu forse il solo socialista italiano (preceduto nel decennio giolittiano da Gaetano Salvemini) per il quale riformismo non fosse sinonimo di opportunismo. Accettava da Marx l'imperativo di scuotere il proletariato per aprirgli il sogno di una vita libera e cosciente; e pur con riserve poco ortodosse non repudiava neppure il collettivismo. Ma la sua attenzione era poi tutta a un momento d'azione intermedio e realistico: formare tra i socialisti i nuclei della nuova società: il Comune, la scuola, la Cooperativa, la Lega. Così la rivoluzione avviene in quanto i lavoratori imparano a gestire la cosa pubblica, non per un decreto o per una rivoluzione quarantottesca. La base della conquista del potere e della violenza ostetrica della nuova storia non sarebbe stata vitale senza questa preparazione.
E del resto, troppo intento alla difesa presente dei lavoratori, Matteotti non aveva tempo per le profezie. Più gli premeva che operai e contadini si provassero come amministratori, affinché imparassero e perciò nei varii Consigli comunali soleva starsene come un consigliere di riserva, pronto a riparare gli errori, ma voleva i più umili allo sperimento delle cariche esecutive. Non ebbe mai in comune coi riformisti la complicità nel protezionismo, anzi non esitò a rimanere solo col vecchio Modigliani ostinato nelle battaglie liberiste, che per lui non erano soltanto una denuncia delle imprese speculative di sfruttatori del proletariato, ma anche una scuola di autonomia e di maturità politica concreta nella sua provincia. Così procede tutta la cultura e tutta l'azione di Matteotti, per esigenze federaliste, dalla periferia al centro, dalla cooperativa al Comune, dalla provincia allo Stato. Il suo socialismo fu sempre un socialismo applicato, una difesa economica dei lavoratori, sia che proponesse sulla "Lotta" di Rovigo o nella Lega dei Comuni socialisti dei passi progressivi, sia che parlasse dall' "Avanti!" o dalla "Giustizia" a tutto il proletariato italiano, sia che come relatore della Giunta di Bilancio portasse nella sede più drammatica e travolgente il suo processo alle dominanti oligarchie plutocratiche. "
Piero Gobetti, Matteotti, Piero Gobetti Editore, Torino, 1924, pp. 25-27.
NOTA: il brano è tratto dall'opuscolo pubblicato alla fine del luglio del 1924, nel vivo della crisi politica ed istituzionale scatenata dalla tragica scomparsa del deputato Matteotti. Il testo riproduceva integralmente un lungo articolo comparso un mese prima con lo stesso titolo sulla rivista di Gobetti La Rivoluzione liberale, così come erano tratti da questa pubblicazione i Cenni biografici sullo scomparso posti in calce all'opuscolo.
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Margot Wallström

Le società con parità di genere godono di migliore salute, una più forte crescita economica e maggiore sicurezza, oltre a contribuire alla pace.
Si parte dal principio delle tre R: rights, representation e resources, diritti, rappresentazione e risorse.
Per “diritti” si intende il promuovere e affrontare le principali emergenze in materia di parità di genere, come la discriminazione e la violenza sulle donne. Con la seconda R, quella della “rappresentazione”, si punta a garantire la presenza delle donne nei ruoli decisionali, sia pubblici che privati. Infine, con “risorse” si intende la possibilità di distribuire equamente fondi e, appunto, risorse tra uomini e donne.
Margot Wallström è stata Ministra degli Affari Esteri della Svezia dal 2014 al 2019.
Appartenente al Partito Socialdemocratico, ha avuto una lunga carriera nel parlamento svedese e nella Commissione Europea apportando significativi contributi per la tutela dell’ambiente e i diritti delle donne.
È stata la prima rappresentante speciale delle Nazioni Unite sulla violenza sessuale nei conflitti dal 2010 al 2012, Vicepresidente della Commissione europea, Commissaria per le relazioni istituzionali e la strategia di comunicazione, Commissaria europea per l’ambiente e Ministra per la tutela dei consumatori, donne e gioventù.
È stata la prima ministra degli esteri di un paese dell’Unione Europea a voler riconoscere la Palestina come Stato.
Nata a Skellefteå, il 28 settembre 1954, è scesa in politica a soli diciannove anni, a venticinque era già stata eletta al Parlamento.
Nel 2006 è stata votata come la donna più popolare in Svezia, battendo reali e atleti.
L’anno seguente ha presieduto il Consiglio delle donne leader mondiali.
Nel 2009, sempre al Parlamento Europeo, nella commissione guidata da José Barroso è stata vice presidente e responsabile delle Relazioni Istituzionali.
Nel 2014 è diventata ministra degli Affari Esteri nel governo svedese di Löfven I promettendo una politica femminista.
Durante il suo mandato è riuscita a inimicarsi l’Arabia Saudita criticando la mancanza dei diritti delle donne nel paese e minacciando di revocare l’accordo di esportazione di armi. L’incidente diplomatico è stato appianato dal re di Svezia in persona.
Successivamente si è schierata contro le politiche israeliane nei confronti della popolazione palestinese ed è stata dichiarata antisemita e non gradita nello stato di Israele.
Ha contestato anche le politiche turche rispetto al sesso tra minori e per l’accanimento contro la popolazione curda.
Come ministra degli esteri non si è certo distinta per la sua diplomazia, anche se ha dovuto arretrare su alcune dichiarazioni per mantenere il suo ruolo istituzionale.
Nel 2015 ha fatto parte del Comitato per il finanziamento umanitario dell’ONU, in preparazione del World Humanitarian Summit.
Margot Wallström è una donna che non si è fatta spaventare da niente e da nessuno.
Per prima ha aperto un blog al Parlamento Europeo, un luogo aperto dove confrontarsi su temi politici.
È stata insignita con numerosi premi, ha ricevuto diverse lauree ad honorem ed è presidente del Consiglio dell’Università di Lund.
Attualmente è nel direttivo di diverse no profit per la tutela dei diritti umani, di genere e ambientali.
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Tanti anni fa, in previsione di una mostra che si sarebbe tenuta in un bel palazzotto della mia città, io e una mia amica (che ora non è più mia amica) realizzammo una storia che parlava della violenza sulle donne.
Dopo averla visionata, l'allora assessore al sociale pretese che la cambiassi perché riteneva che "il sesso come strumento di guarigione per una donna che aveva subito degli abusi suonava come una scelta di cattivo gusto, inautentica", in pratica una non-soluzione. La mia amica naturalmente si arrabbiò, e io cercai di seppellire la discordia disegnando una nuova tavola a mo' di compromesso.
Avrei voluto dire di più, ma così avrei finito per rivelare cose che solo alla mia amica spettava condividere.
Considerata la vapidità dell'arte "istituzionale", in cui ogni dettaglio sembra il rehearsal di una pubblicità dell'Esselunga, e della realtà di oggi, dove alcune femministe si indignano per dichiarazioni di altre donne che non parlano per frasi fatte ma per esperienza, penso che quella volta stessimo già grattando la superficie di un problema più ampio.
Se avessi potuto, avrei detto che forse sarebbe opportuno lasciare che a esprimersi siano le persone che le violenze le hanno subite, anziché preoccuparsi del parere della gente o della sottile differenza tra buono e cattivo gusto. Che l'arte non è solo aulica rappresentazione e rigore formale, che per necessità (e per sua natura) dev'essere sporca, brutale, sgradevole, soprattutto se si fa portavoce di un malessere sepolto, diventando o nascendo in quanto atto politico.
Questo avrei voluto dire, e anche se adesso la mia amica non c'è più (perché io non esisto più per lei) a volte la penso, consapevole del fatto che il suo male l'ha segnata in profondità, ma non l'ha mai definita. Perché lei è più grande del suo male.
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Opera di scarso valore.
Il film, splendido, di Paola Cortellesi ha incassato in poche settimane più di 20milioni di euro, il film italiano più visto nelle sale, che, come si sa, sono in forte sofferenza.
Riceve quotidianamente riconoscimenti, premi, elogi, tranne da Adinolfi, ma una critica di Adinolfi è utile come una banana per fare la carbonara.
È uno splendido affresco sulla famiglia, spiace dirlo, patriarcale, sulla violenza sulle donne, sulla condizione delle donne.
Molto intelligentemente è ambientato nel passato, ma è solare che parla al presente e forse anche al futuro.
Tutto ottimo, tutto strameritato, tutto bellissimo.
E si potrebbe davvero farlo vedere nelle scuole e aprire un importante ed utile dibattito tra gli studenti su temi di così scottante attualità, purtroppo.
Il problema è che è una “Opera di scarso valore”.
È il ministero della Cultura a dirlo, infatti negò i finanziamenti al film della Cortellesi.
Il ministero della Cultura di cui è titolare Sancoso, quello che giudica i libri senza leggerli e fa pubblicità istituzionale al libro di Gioggia.
Sancoso, quello che ha iniziato nel Movimento Sociale, che ha scritto per Feltri, IL Giornale, Libero ed Il Foglio.
Ecco, questo Coso qui e il suo ministero non hanno capito il valore del film italiano più visto dell’anno negandogli i finanziamenti.
Questi non riconoscerebbero un diamante da un sasso.
Questi sono talmente inadeguati, incapaci, arroganti e cialtroni che qualsiasi cosa tocchino non la trasformano in oro, ma in materia organica di scarto.
E viene da chiedersi quante altre opere di registi o registe italiane non hanno visto la luce, in un momento di crisi del nostro cinema, perché ritenute da Sancoso e soci “opere di scarso valore
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Ministro Locatelli: "Il 66% delle donne con disabilità ha subito violenza"
24 novembre 2023 11:24 “Il tema è frequentissimo e poco capito. C’è un lavoro da fare affinché si arrivi a una cultura del rispetto che deve partire anche dai più piccoli” “Arrivare a cultura del rispetto” Secondo il ministro Locatelli, dunque, “c’è un lavoro da fare, e oltre che con le associazioni è importante unire le forze anche a livello istituzionale, con la ministra Roccella, il…

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