#Recensione Nostalgia di Dio
Explore tagged Tumblr posts
Text
Nostalgia di Dio
Al Fabbricone di Prato, va in scena l’ultimo lavoro di Lucia Calamaro, tra luci e ombre, respiri profondi e scorciatoie di senso.
(more…)
View On WordPress
#Alfredo Angelici#Cecilia Di Giuli#Diego Maiello#Francesco Spaziani#Gianni Staropoli#Luca Privitera#Lucia Calamaro#Recensione Nostalgia di Dio#Simona Senzacqua#Teatro Stabile dell’Umbria
0 notes
Text
Rassegnatevi, Charles Bukowski è morto, sepolto, andato. Meglio leggersi i suoi figli illegittimi italiani
Dobbiamo metterci l’anima in pace: Bukowski è morto, sepolto, andato. Basta! Per quanto si possa continuare a rimestare nella tomba, non lo si potrà tirare fuori vivo, bersi ancora un birra in sua compagnia e parlare di donne. Lo so che è dura da accettare, ma tutto finisce, anche le storie d’amore letterarie, per quanto la cosa possa essere spiacevole. Certo, nel panorama attuale, non è che abbondino gli autori di rottura e, se l’idea è quella di comprare uno dei nostri scrittori che si contendono le vetrine, è sempre meglio tornare a lui. Ma non si può nemmeno continuare a limitarsi a uno conclamato e su cui si sono scritte tesi e tesi di laurea. Sarebbe come rinchiudersi in casa, a vent’anni, con le mutandine dimenticate da un amore oramai finito, e non uscire più. È una cosa ossessiva, maniacale, un vero e proprio culto dei morti. Necrofilia, insomma. Le case editrici, in tal senso, non ci aiutano. Invece che cercare nuovi autori di spessore, insistono nello spremere sangue dalle ossa dei trapassati e nel far leva sulla nostra nostalgia. E così ecco l’ennesima edizione, con un bel po’ di racconti inediti: La campana non suona per te, Guanda, 2018. E chissà quanto ancora ci dovremo aspettare nei prossimi anni. Già ne abbiamo viste in abbondanza: lettere agli amici, poesie come se piovesse. Per Dio, fermatevi, e lasciate riposare in pace il povero Bukowski!
Non voglio dire che sia tutto da buttare quello che è stato dato alle stampe post mortem, ma neppure che si sia trattato, ogni volta, di qualcosa di imprescindibile. Lo scrittore di L.A. era un buon diavolo ma, poveretto, molte, troppe volte ha scritto anche solo per allenamento, per far quadrare i conti in casa, perché il lavoro di narratore aveva preso a girare come si deve alla fine e, giustamente, voleva ottenere in età matura tutto ciò che non aveva avuto in gioventù. È comprensibile. Tra quelli che per vivere hanno dovuto tirar fuori tutta l’ispirazione possibile e anche di più, peraltro, lui è tra quelli che hanno fatto meglio. Però… però, più di una volta, i suoi racconti, si percepisce, sono buttati giù in fretta, solo perché c’è un pezzo da consegnare il prima possibile, magari per una rivista pornografica o affine. Se non furono pubblicati a suo tempo, ci sarà stato pure un motivo.
Se poi siete degli studiosi incalliti del personaggio, allora ok, compratevi pure questo libro, beveteci e fumateci sopra qualcosa. La lettura è piacevole, scorrevole. Bukowski, anche quando non è al suo meglio, è comunque una spanna sopra la maggior parte. La prosa è sempre quella a cui ci ha abituati: secca, cinica, dall’ironia bastarda, e meno estemporanea di quanto potrebbe sembrare. In La campana non suona per te, troverete quelli che si potrebbero definire tanti lavori allo stadio di abbozzo che, tra la fine degli anni ’40 e la metà degli ’80, finirono su tutta una serie di riviste underground e altre meno nobili. Successivamente, nel corso degli anni, questi scritti verranno sviluppati e resi in una forma migliore in altre pubblicazioni, oramai note a tutti, dalle Storie di ordinaria follia ai romanzi. Resta il fatto che, se cercate il meglio di Bukowski, o se siete un giovane che non l’ha mai letto, meglio sarebbe partire con qualche suo classico.
Se poi posso mandare al diavolo il proverbiale distacco del recensore, per rivolgere uno spassionato consiglio al lettore, quello che mi permetterei di dirgli è: guarda che ci sono tanti autori italiani che magari potrebbero piacerti altrettanto, ma se ti fossilizzi su Bukowski non li scoprirai mai. Leggere gli americani è importante, direi fondamentale, ma l’America non è il mondo e, soprattutto, l’America ha molti figli sparsi per il globo, anche qui nel nostro paese. In tanti siamo eredi illegittimi di Hank, di Carver, Bret Easton Ellis, e via dicendo. Per cui, sempre se posso permettermi, caro lettore, fratello, potresti per esempio andarti a leggere il bravissimo Francesco Dezio, con il suo libro di prossima uscita per TerraRossa, La gente per bene. Per non parlare del sommo Franz Krauspenhaar che, sinceramente, non mi sembra manchi di niente per essere altrettanto folle, sporcaccione e geniale, se non il successo mondiale – ma quello è un particolare secondario. Poi ce ne sarebbero tanti, alcuni che certo non necessitano di pubblicità alla fine di una recensione un poco sopra le righe come questa. Cerca tra i piccoli e qualcosa troverai, come il mio amico Stefano Gianuario, con il suo Vanilla Scent, Robin Edizioni, 2017, che credo sia l’unico ad aver buttato giù più birra di Bukowski riuscendo comunque a non risentirne nella sintassi – o forse era l’editor a non essere sbronzo? Poi, incidentalmente, se ti va, ci sarei pure io, che sono stato definito “più bukowskiano di Bukowski” da un altro critico che avevo corrotto offrendogli da bere, secondo lo stile appreso oltreoceano.
Matteo Fais
L'articolo Rassegnatevi, Charles Bukowski è morto, sepolto, andato. Meglio leggersi i suoi figli illegittimi italiani proviene da Pangea.
from pangea.news http://ift.tt/2HfMOkv
1 note
·
View note
Text
Woodstock, o del tradimento. In fondo, fu solo un concerto. 50 anni di vane speranze e di illusioni perdute
Infine, fu un concerto. Un ‘concertone’, certo, nella speranza che la musica – debitamente ossigenata dagli acidi – riuscisse a costruire un altro mondo, decisamente migliore. Infine, fu questo. Un concerto. Consapevoli che il mondo non si può cambiare – guarda che stortura omicida sono diventate le sgargianti ideologie – beh, fumiamocelo, devoti alla visione interiore, mentre Joan strimpella We Shall Overcome. Saranno stati un milione, una comunità, ma ciascuno era recluso nel proprio mondo, nella propria aspettativa ribelle, nel proprio io esagerato dalle droghe.
*
L’arte, fenomeno del tutto individuale, diventò ‘sociale’. Woodstock non è la recensione di un concerto – è Storia. Come Waterloo, come la guerra dei Trent’anni e quella in Vietnam. Solo che quei tre giorni – 15-18 agosto – nel paese di Bethel, che oggi fa 4mila abitanti e anche allora pareva il nome di un angelo caduto, non cambiarono il mondo. Non cambiarono nulla. Piuttosto. Istituzionalizzarono la strategia del ‘concertone’ – da lì ne sarebbero seguiti molti – dove, appunto, la musica è il pretesto per la protesta, per lo sperpero delle buone intenzioni.
*
Si dovrebbe dire chi non c’era. Bob Dylan, John Lennon, i Rolling Stones, Jim Morrison, i Led Zeppelin. A dirla tutta, la scaletta del ‘concertone’ sull’Isola di Wight era più figa. Ma non è quello il punto: Woodstock è un simbolo, una griffe, una spilla, un marchio. Lo nomini e sai che sei lì, 50 anni fa, a illuderti che una schitarrata possa sostituire, per sempre, il frastuono dei mitra, che l’umanità possa tornare adamitica, che i cantanti, in fondo, sono santi.
*
Le celebrazioni non si contano: l’Eden pitturato con l’Lsd e buona musica intorno si è sfasciato nel delirio dei consumi, nell’acquazzone di antidepressivi per accettare la vita, nello zen come pratica per produrre di più, un Oriente adattato alla metropoli. Oggi, per dire, su Sky Arte, dalle 21.15, potete capire quel momento di fango e di gloria grazie a un paio di documentari: Come Together. Da Woodstock a Coachella, sulla nascita del festival, e l’altro, Jimi Hendrix. Live at Woodstock, sulla performance leggendaria, le due ore che serrano il festival in mitologia su pentagramma, l’esibizione dell’uomo che usava la chitarra come la gola di Dio.
*
In Jimi Hendrix l’esasperazione di un’epoca. Il talento purissimo, assoluto, desolato nel vomito. Londra, 18 settembre 1970, muore, un mese prima di compiere 28 anni, il genio della chitarra elettrica, soffocato dai propri rifiuti organici. I figli dei fiori, così, diventarono businessman dei sogni perduti, oppure rivoluzionari armati, proletari della rivolta. Durano troppo poco I figli degli dèi, durò tre giorni il sogno.
*
Infine, fu un concerto. Sui fiori ebbe ragione il denaro. La nostalgia di una giovinezza tradita.
L'articolo Woodstock, o del tradimento. In fondo, fu solo un concerto. 50 anni di vane speranze e di illusioni perdute proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2Tzu6vS
0 notes
Text
“Chi ha oggi le palle di scrivere (e di pubblicare) un libro come questo?”: 30 anni dopo la condanna a morte comminata a Salman Rushdie
La scrittura è sempre in contrasto con la Scrittura – il grande scrittore è Dio, chi sei tu, misero scrivano, che vuoi competere con Lui? Per essere ammesso al pubblico, ogni scrittore deve limitarsi a stare nel recinto della Scrittura, deve limare quel mondo, divino. Mi sembra normale che i grandi sistemi religiosi, attraverso sistemi più o meno deliziosamente coercitivi – dall’Indice dei libri proibiti alle esecuzioni pubbliche – abbiamo castrato gli scrittori: ogni scrittura offre delle vie di uscita dall’egida divina, ci fa scappare dall’algido giardino di Eden. Ogni scrittura che non sia la Scrittura, dunque, è apocrifa, è cosa occulta, che va occultata.
*
Se al piano celestiale sostituiamo quello terrestre è lo stesso, state tranquilli, cambiano soltanto, drasticamente, le altezze. La politica ha bisogno che sia apocrifo – cioè glassato nell’indifferenza – il poeta; la scrittura va bene purché non leda la scrittura del codice civile, le norme del convivere civile, è accettata se declinata in una qualche inoffensiva scuola di scrittura.
*
Il giorno di San Valentino di trent’anni fa l’Ayatollah Khomeyni, Guida Suprema dell’Iran, compie una azione estetica che non si vedeva dai tempi di Stalin, scocca l’anatema, la fatwa: “Informo tutti i coraggiosi Musulmani del mondo che l’autore dei Versi satanici, un testo scritto, editato e pubblicato contro l’Islam, il Profeta e il Corano, insieme a tutti gli editori consapevoli del suo contenuto, sono condannati a morte. Invito i valorosi Musulmani, ovunque siano nel mondo, a ucciderli senza indugio, così che nessuno osi insultare le sacre credenze dei Musulmani da ora in poi”. Dio – o il regno del Caso – decise da che parte stare: quattro mesi dopo Khomeyni lasciò questa terra. I Musulmani non scherzano: da allora Rushdie vive sotto scorta, ha cambiato casa decine di volte. A subirne le conseguenze sono anche i traduttori dei Versi satanici: il traduttore giapponese viene ucciso, a Tokyo, quello italiano, Ettore Capriolo (che ha tradotto anche Camus e Bellow, Thomas Wolfe e Norman Mailer, Truman Capote, Vladimir Nabokov e Joseph Conrad), viene pugnalato nella sua casa, a Milano, nel luglio del 1991. Oggi i Versi satanici sono stampati da Mondadori in economica, ci sono, ma non è semplice trovarli in libreria.
*
In fondo, trent’anni dalla condanna a morte di Rushdie sono il grande discorso sul fraintendimento. Khomeyni fraintende un romanzo, ritenendolo un libro a tesi, contro il Corano – e così non è. D’altra parte, i sostenitori del romanzo lo citano per perorare l’illuministica necessità della libertà di opinione e di stampa, senza averlo letto. Un’opera d’arte – tale è un libro ascritto al genere ‘romanzo’ – va giudicata per i suoi aspetti formali – cioè: qualità di scrittura e rotondità di trama – non per le attese morali. Ma è proprio la forma, il discorso sul bello – che può essere la catabasi nell’osceno – a spaventare. Che poi una ‘forma’ possa scatenare una scelta, possa scaraventare nella conversione direi che è auspicabile – l’opera d’arte sovrasta il suo esecutore e le sue intenzioni.
*
Ogni atto scritto fomenta il fraintendimento: con le parole Dio crea il mondo, con le parole il serpente travia l’uomo, lo perde. Bisogna obbedire alla parola di Dio o dotarsi di una personalità propria, scrivendola? Ogni costruzione della personalità ha il fine di strangolarla.
*
Di Salman Rushdie ricordo I figli della Mezzanotte, letto con funerea furia, e una delle mogli, Padma Lakshmi. Non penso che I versi satanici sia un grande libro: preferisco le scudisciate narrative di Naipaul, per dire. Per me il discorso si chiude dove per gli altri si apre. Sottilmente, i vili dicono che se l’è cercata, Salman – per altro, perpetuando la vendita dei suoi romanzi, a volte troppo laccati – perché certe cose non vanno scritte e certe intimità e identità non vanno solleticate. Al contrario, lo scrittore dovrebbe scrivere sempre ciò che non vorremmo leggere, dovrebbe mostrare le pudenda di Dio e metterle in piazza: può non prendere posizione su nulla, nella vita reale, ma dare tutto – anche la vita – per assegnare una pazza autorevolezza alla sua creazione.
*
Lo scrittore ha a che fare con il puzzo e con l’oscuro – ha riverenza nei riguardi della gioia. Non è un tiepido operaio della scrittura. Nel canone biblico, d’altronde, il massimo erotico – il Cantico dei Cantici – è accolto di fianco al nichilista assoluto – Kohèlet – il libro della vitalità associato a quello della rassegnazione e del cinismo. Gli ebrei lo sanno – e ci sguazzano. Leggete Isaac B. Singer, per dire. Noi pensiamo che il ‘cattolico’ sia lindo, dimori sotto un sudario: di Manzoni squalifichiamo la dostoevskijana indagine nel male e di Testori accettiamo solo il neorealismo da brigante brianzolo.
*
In una articolessa pubblicata su Aeon, “Islam after Salman”, Bruce Fudge ribadisce ciò che intuiamo già. Attacca con una frase pronunciata dieci anni fa – dieci! – da Hanif Kureishi – “Nessuno avrebbe oggi le palle di scrivere I versi satanici, figuriamoci pubblicare un libro del genere” – giungendo, quasi subito, a una conclusione sconfortante. “Tre decenni dopo, il romanzo è ancora ristampato, facilmente disponibile, e il suo autore cammina ancora come un uomo libero. Se la battaglia dei Versi satanici è stata vinta, tuttavia, una guerra più importante è perduta. Chi oserebbe oggi scrivere un romanzo provocatorio sulle origini dell’Islam?… Qualche scrittore di origine musulmana potrebbe ricavare dalla vita del profeta Maometto una storia innovativa, irriverente e risolutamente senza Dio?”. La risposta è scontata.
*
In una ragionata recensione pubblicata il 23 febbraio del 1989 sul The New York Times, dal titolo “The Satanic Verses: What Rushdie Wrote”, Michiko Kakutani, che ha capito subito il carattere formale del libro (“gran parte della rabbia che ha animato i primi libri, in particolare La vergogna, si è dissipata, sostituita da un lirismo che pare nostalgia”), ricalca alcune parole di Rushdie. “Racconto il disagio di una identità plurima. Ciò che si dice nel romanzo è che dobbiamo trovare un accordo con questo disagio. Stiamo diventando un mondo di migranti, fatto a pezzi, con milioni di frammenti, qua e là. Siamo qui. Ma non siamo realmente lontani da dove eravamo, da dove veniamo”.
*
Le parole di Rushdie, rilette trent’anni dopo, impressionano. Disagio, migrazione, impossibilità di piantare davvero radici altrove. Sradicati, non abbiamo nulla da dire – ci dicono gli altri, ci misurano i soldi. Per questo ci vorrebbero tutti sradicati, felici a Roma come a New York, è uguale (ma non è uguale nulla, né la scansione della luce, né la stagionatura dell’ombra: la ‘natura’ non è la nostra anima di polistirolo e testosterone). Lo scrittore raccoglie i suoi frammenti, disciplina le sue identità.
*
Allah pare essere più volubile e permaloso di Dio. I grandi scrittori ebrei americani hanno giocato spesso le loro armi narrative per setacciare le ambiguità di Dio, per cavargli l’iride dalle orbite. Per sua natura, Cristo ha accettato tutte le umiliazioni, anche quelle dell’arte. In questo lato letterario – la provincia Italia, dove è incapsulato il Vaticano – gli scrittori non sembrano avere gli strumenti culturali e formali per azzannare alla giugulare Cristo. Restano indifferenti, in una palude narrativa politica o inevitabilmente sociologica. Ma la sfida a Dio è necessaria allo scrittore perché è anche la sfida contro la morte, la faccia cruenta dell’aldilà. Proprio perché abbiamo dei limiti dobbiamo sfondare l’illimite. I musulmani sono intoccabili, i cristiani sono impalpabili. La scrittura, se brandita per auscultare le voglie dell’io o per promuovere la buona integrazione, non ha proprio senso – la scrittura è una legione di lupi gettata in faccia ai buoni di cuore. (d.b.)
L'articolo “Chi ha oggi le palle di scrivere (e di pubblicare) un libro come questo?”: 30 anni dopo la condanna a morte comminata a Salman Rushdie proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2U86rC8
0 notes