#Francesco Dezio
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visual-cortex · 3 months ago
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Dama con gattina, by Francesco Dezio
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alemicheli76 · 1 year ago
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Il blog consiglia "Qualcuno è uscito vivo dagli anni ottanta" di Francesco Dezio, Les Flaneurs. Da non perdere!
«Andavamo a impattare con la cruda realtà, e la realtà qui è che tutto sprofonda nell’indifferenza» Un giovane punk alle prese con droghe e controcultura, un agitatore culturale determinato a scuotere le generazioni del suo tempo, una cantante su una nave da crociera, Joe Lansdale in visita alla Cava dei Dinosauri, un impiegato di un piccolo salottificio, un concerto di Iggy Pop, una straniante…
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pangeanews · 7 years ago
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Rassegnatevi, Charles Bukowski è morto, sepolto, andato. Meglio leggersi i suoi figli illegittimi italiani
Dobbiamo metterci l’anima in pace: Bukowski è morto, sepolto, andato. Basta! Per quanto si possa continuare a rimestare nella tomba, non lo si potrà tirare fuori vivo, bersi ancora un birra in sua compagnia e parlare di donne. Lo so che è dura da accettare, ma tutto finisce, anche le storie d’amore letterarie, per quanto la cosa possa essere spiacevole. Certo, nel panorama attuale, non è che abbondino gli autori di rottura e, se l’idea è quella di comprare uno dei nostri scrittori che si contendono le vetrine, è sempre meglio tornare a lui. Ma non si può nemmeno continuare a limitarsi a uno conclamato e su cui si sono scritte tesi e tesi di laurea. Sarebbe come rinchiudersi in casa, a vent’anni, con le mutandine dimenticate da un amore oramai finito, e non uscire più. È una cosa ossessiva, maniacale, un vero e proprio culto dei morti. Necrofilia, insomma. Le case editrici, in tal senso, non ci aiutano. Invece che cercare nuovi autori di spessore, insistono nello spremere sangue dalle ossa dei trapassati e nel far leva sulla nostra nostalgia. E così ecco l’ennesima edizione, con un bel po’ di racconti inediti: La campana non suona per te, Guanda, 2018. E chissà quanto ancora ci dovremo aspettare nei prossimi anni. Già ne abbiamo viste in abbondanza: lettere agli amici, poesie come se piovesse. Per Dio, fermatevi, e lasciate riposare in pace il povero Bukowski!
Non voglio dire che sia tutto da buttare quello che è stato dato alle stampe post mortem, ma neppure che si sia trattato, ogni volta, di qualcosa di imprescindibile. Lo scrittore di L.A. era un buon diavolo ma, poveretto, molte, troppe volte ha scritto anche solo per allenamento, per far quadrare i conti in casa, perché il lavoro di narratore aveva preso a girare come si deve alla fine e, giustamente, voleva ottenere in età matura tutto ciò che non aveva avuto in gioventù. È comprensibile. Tra quelli che per vivere hanno dovuto tirar fuori tutta l’ispirazione possibile e anche di più, peraltro, lui è tra quelli che hanno fatto meglio. Però… però, più di una volta, i suoi racconti, si percepisce, sono buttati giù in fretta, solo perché c’è un pezzo da consegnare il prima possibile, magari per una rivista pornografica o affine. Se non furono pubblicati a suo tempo, ci sarà stato pure un motivo.
Se poi siete degli studiosi incalliti del personaggio, allora ok, compratevi pure questo libro, beveteci e fumateci sopra qualcosa. La lettura è piacevole, scorrevole. Bukowski, anche quando non è al suo meglio, è comunque una spanna sopra la maggior parte. La prosa è sempre quella a cui ci ha abituati: secca, cinica, dall’ironia bastarda, e meno estemporanea di quanto potrebbe sembrare. In La campana non suona per te, troverete quelli che si potrebbero definire tanti lavori allo stadio di abbozzo che, tra la fine degli anni ’40 e la metà degli ’80, finirono su tutta una serie di riviste underground e altre meno nobili. Successivamente, nel corso degli anni, questi scritti verranno sviluppati e resi in una forma migliore in altre pubblicazioni, oramai note a tutti, dalle Storie di ordinaria follia ai romanzi. Resta il fatto che, se cercate il meglio di Bukowski, o se siete un giovane che non l’ha mai letto, meglio sarebbe partire con qualche suo classico.
Se poi posso mandare al diavolo il proverbiale distacco del recensore, per rivolgere uno spassionato consiglio al lettore, quello che mi permetterei di dirgli è: guarda che ci sono tanti autori italiani che magari potrebbero piacerti altrettanto, ma se ti fossilizzi su Bukowski non li scoprirai mai. Leggere gli americani è importante, direi fondamentale, ma l’America non è il mondo e, soprattutto, l’America ha molti figli sparsi per il globo, anche qui nel nostro paese. In tanti siamo eredi illegittimi di Hank, di Carver, Bret Easton Ellis, e via dicendo. Per cui, sempre se posso permettermi, caro lettore, fratello, potresti per esempio andarti a leggere il bravissimo Francesco Dezio, con il suo libro di prossima uscita per TerraRossa, La gente per bene. Per non parlare del sommo Franz Krauspenhaar che, sinceramente, non mi sembra manchi di niente per essere altrettanto folle, sporcaccione e geniale, se non il successo mondiale – ma quello è un particolare secondario. Poi ce ne sarebbero tanti, alcuni che certo non necessitano di pubblicità alla fine di una recensione un poco sopra le righe come questa. Cerca tra i piccoli e qualcosa troverai, come il mio amico Stefano Gianuario, con il suo Vanilla Scent, Robin Edizioni, 2017, che credo sia l’unico ad aver buttato giù più birra di Bukowski riuscendo comunque a non risentirne nella sintassi – o forse era l’editor a non essere sbronzo? Poi, incidentalmente, se ti va, ci sarei pure io, che sono stato definito “più bukowskiano di Bukowski” da un altro critico che avevo corrotto offrendogli da bere, secondo lo stile appreso oltreoceano.
Matteo Fais
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lapetitemortarts · 6 years ago
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Francesco Dezio
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marcogiovenale · 5 years ago
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in fondo royet-journoud e simenon vanno d'accordo
in fondo royet-journoud e simenon vanno d’accordo
thx to Astrid Prettywood and Hélène Giannecchini
thx to Francesco Dezio _
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ultimenotiziepuglia · 5 years ago
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optimisticnutcreation · 6 years ago
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“La gente per bene”,FRANCESCO DEZIO ospite di VIAGGI LETTERARI NEL BORGO. Alle 18.30 presso il Salotto letterario "Centro Studi G.Degennaro"(L.go Teatro 7, Bitonto) Per il "Parco delle Arti" -
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puglialink · 7 years ago
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spinebookstore · 7 years ago
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Oggi vi aspettiamo all'Officina degli Esordi per l'ultima grande giornata full immersion prima della pausa natalizia (VI RICORDIAMO CHE DOMANI 24 DICEMBRE SAREMO CHIUSI). Oltre a tanti illustratori, editori, grafici e affini, tanti eventi in programma: ◆ ◇ a partire dalle 10.30 La Scuola Open Source e Ciclofficina Cicli Selvaggi aprono i loro spazi per esplorare insieme il tema della bici musicale e le sue declinazioni, con jam session finale! ◆ ◇ dalle 16:00 Giochi d’Artificio (carte, dadi, giochi da tavolo, vari & eventuali) ◆ ◇ ore 18.00 La grafica editoriale, incontro con Francesco Dezio di TerraRossa Edizioni, chiacchiera con lui il giornalista Luca Romano ◆ ◇ ore 20.00 Il dizionario dei gesti, a volte le parole non bastano, Iacobelli Editore. Incontro con l'autrice Lilia Angela Cavallo ◆ ◇ ore 11.30 / 16.00 / 19.00 3 incontri di BlingBling Xmas - Laboratorio di origami natalizi BlingBling Xmas è un laboratorio di basic design per impareare una tecnica base degli origami per creare oggetti, nello specifico decorazioni per le festività natalizie. (presso Officina degli Esordi)
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pangeanews · 7 years ago
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“Odio la gente per bene”: dialogo con Francesco Dezio sul ‘romanzo sociale’
Questo Francesco Dezio è uno scrittore ben strano: parla della realtà. Avete presente quelle cose brutte, tipo la gente che lavora in fabbrica, o quelli che guadagnano meno di mille euro al mese? E noi che ci eravamo ormai convinti che la letteratura fosse tutta incentrata su maghetti preadolescenti con i super poteri, o peggio ancora sui commissari di polizia – oh Signore, i commissari di polizia! E mica Dezio si è limitato a scriverne una volta sola di questi individui così poco romanzeschi. No, Signori! Sta testa dura ci ha costruito tutta la sua, per quanto ancora breve, carriera letteraria. E ciò, per di più, senza inserirci neppure una sfumatura di grigio, rosso, o nero. Solo vita di merda, lavori di merda, e via dicendo. Pensate un po’, leggendolo, potreste scoprire che l’esistenza non si svolge in una sala delle torture, dove un ricco signorino miliardario frusta sul culo giovani studentesse universitarie vergini – perdonate lo spoileraggio, ma vi ho appena risparmiato la lettura di cinquecento pagine piuttosto grigie.
Se anche voi, dunque, non vi identificate con quelli che navigano nell’oro o sono dotati di poteri magici, vi invitiamo a conoscere quest’uomo comune che a un certo punto ha deciso di fare lo scrittore, rivelandosi tutto fuorché una penna qualsiasi. Avvicinatevi gente. Guardate da vicino uno che iniziò, pur senza avere santi in paradiso, pubblicando con Feltrinelli (Nicola Rubino è entrato in fabbrica), per poi essere rilanciato da TerraRossa Edizioni di Giovanni Turi, il suo attuale editore. Noi siamo andati a intervistarlo in occasione dell’uscita del suo ultimo libro, La gente per bene.
Venite, gente, avvicinatevi. Benvenuti nella realtà. State solo attenti a non farvi mordere.
Francesco, chi è la gente per bene del titolo?
Tutti quanti si sentono per bene e tutti quanti siamo un po’ la gente per bene. Perfino quegli imprenditori che io attacco così ferocemente. Ognuno pensa di trovarsi dalla parte giusta, in particolare quelle categorie che l’unico bene che vorrebbero fare è il loro. Quelle stesse raccontate da Matteo Salvatore, un cantastorie foggiano, menestrello della disperazione dal talento istrionico, sfottente e genio ribaldo – una vita da farci un film – ripreso anche da Capossela, che nella canzone Padrone mio dice “Padrone mio, ti voglio arricchire”. Il pezzo mi ha accompagnato durante tutta la stesura del romanzo. Ma questa espressione antifrastica – la gente per bene –, così come il mio sarcasmo, si spiegano ancor di più alla luce dell’esergo, tratto dal Bianciardi di Il lavoro culturale, che penso calzi alla perfezione con questi temi: “La gente per bene aveva a noia questa folla di omaccioni massicci, troppo vestiti e troppo sudati, che certamente non odoravano di rose”.
Quella che racconti tu non è solo la storia di un uomo, ma di un Paese, l’emblema di quella realtà che tutti quanti stiamo vivendo…
Si potrebbe quasi parlare di una storia con la quale spiegare il risultato elettorale. Alla fine, come vedi, siamo pienamente sul pezzo. La gente per bene esce proprio in un momento in cui i nodi stanno venendo al pettine. C’è una grande rabbia sotterranea che attraversa il Paese e, sul fronte opposto, un’altra Italia che rifiuta invece di sentirsi raccontare simili storie in letteratura, preferendo lo stupido e vuoto intrattenimento. Certo, la narrativa è sempre più distante da questi temi, come dalla gente. Quasi la schifa. Non c’è proprio la volontà di raccontare come se la passano questi individui che non leggono, non sono borghesi, ma persone normali che fanno lavori di merda – quando hanno la fortuna di avere almeno un lavoro di merda! La letteratura non vuole descrivere ciò che abbiamo sotto gli occhi, il fatto che oramai si lavora al minuto, questo mondo insensato insomma. Ma, io, è di questa insensatezza che volevo narrare e l’ho fatto cercando di usare anche dei toni comici, perché questa grande disfatta è al contempo una grande commedia a cui non si trova soluzione purtroppo.
Restiamo su questo punto ancora un attimo. La storia che hai raccontato, dicevo, è anche una storia italiana, che ripercorre tutta la traversata del periodo repubblicano fino a oggi. Tu parli inoltre della tua terra, dell’esplosione del settore manifatturiero, nella fattispecie legata al mondo del divano.
La zona in cui vivo era una specie di triangolo delle Bermuda economico, sito tra Altamura, Santeramo, Matera. Conosciuto appunto come il polo del divano e che, a suo tempo, non aveva niente da invidiare ad altri distretti del Nord. Non a caso, noi eravamo considerati i veneti della situazione. L’altamurano è sempre stato conosciuto come un grande lavoratore, una bestia da soma. Non potevo esimermi dal raccontare anche questa realtà poco conosciuta. Ho compiuto tale operazione partendo dalle origini, per far capire come il mondo del lavoro sia andato sempre peggiorando, o, perlomeno, come le dinamiche di sfruttamento siano rimaste identiche lungo tutte le tappe della nostra storia.
In effetti, nel libro, anche il succedersi delle generazioni è un modo per descrivere l’Italia…
E un modo per dirla tutta, una volta per sempre. Raccontare come stanno le cose…
Cose che, peraltro, tu ben conosci…
Certo. Io parlo di un mondo che ho vissuto per anni, con cui sono andato a impattare, anche come tecnico delle industrie meccaniche, in particolare come disegnatore.
Come si scrive un romanzo sociale?
A me viene automatico. Non riesco a non affrontare queste tematiche. Tutto parte dalla rabbia accumulata che poi si tenta di mettere su carta, per fare il punto della situazione. È così che mi sono ritrovato tra le mani un romanzo di questo tipo. Volevo solo raccontare della mia incontenibile incazzatura.
Quali sono i tuoi precursori nella narrativa italiana?
Senz’altro il Bianciardi di La vita agra. Un altro è Ottiero Ottieri, con Donnarumma all’assalto, un romanzo dall’impronta fortemente realistica. C’è poi un altro illustre dimenticato, Tommaso Di Ciaula, che scrisse Tuta blu. Ire, ricordi e sogni di un operaio del Sud., uscito per Feltrinelli nel 1978. In quel testo raccontava appunto le vicissitudini, i sogni e la disperazione dell’operaio, o operaio massa come si diceva una volta, ma meglio ancora il metal-mezzadro, una categoria coniata per indicare chi si divideva, nell’attività lavorativa, tra la campagna e l’officina. Ho sempre letto con grande piacere tutto quel che concerne la letteratura operaista. Ma devo riscontrare con rammarico che non vi è niente di assimilabile nella narrativa attuale. Un tempo alla Feltrinelli, pensa un po’, c’era una collana denominata I Franchi Tiratori, in cui si dava la possibilità a dei signori nessuno di raccontare le loro storie. Tanto per fare un nome di quelli che spuntarono a quei tempi: Gavino Ledda, con Padre padrone. Oggi, invece, quel genere di narrativa è diventato marginale. Io, dalla Feltrinelli, per intenderci, mi sono sentito dire che certe tematiche sono un déjà vu. Chiaramente, non condivido questa visione. Ho casomai la sensazione che non si voglia dare spazio agli outsider, a chi non vuole stare dalla parte giusta della barricata.
Per come la vedo io, ma mi pare che tu condivida la mia visione, la letteratura si è fatta ancella della propaganda. Il tentativo è quello di cercare di restituire una visione il più edulcorata possibile della realtà, che non offenda e non induca alla riflessione sociale.
Esattamente. La letteratura è nelle mani della borghesia. È lei a scriverla e sempre lei ne costituisce l’acquirente principale, quello a cui pensano gli editori quando selezionano i testi. Testi che, poi, sono la spazzatura che viene data in pasto alla gente comune, dalle storie dei vari commissari Montalbano, a Fabio Volo. Si tratta di racconti privi di senso, che non esprimono niente, che non mi rappresentano, che non raccontano il mondo che ho vissuto. In ultimo, la narrativa deve essere una rappresentazione della realtà. Se l’editoria viene meno a questo proposito, tanto vale rifarsi solo ai classici e smettere di leggere i contemporanei.
Ne convengo. La classe sociale dominante impone la sua visione del mondo, attraverso tutti gli strumenti a disposizione, quindi anche la letteratura. Ma c’è un aspetto che mi ha molto colpito del tuo romanzo e sono quasi certo che pochi, nell’idiozia generale diffusa, lo noteranno. Il tuo personaggio non è uno dei soliti cretini convinti che il lavoro nobiliti l’uomo. Fondamentalmente, l’incapacità di inserirsi nel tessuto sociale, al di là del fatto che venga umiliato sul piano lavorativo o che proprio non trovi lavoro, al di là di questo, lui per primo sente una sorta di refrattarietà, un rigetto di quell’universo, perché sa che il lavoro, qualunque lavoro, non è uno strumento di affrancamento, o di realizzazione di sé. Per questo la sua è una rivolta, oltre che sociale, esistenziale, contro la stolta mentalità che osanna la fatica.
Sì, assolutamente. Infatti, ho insistito molto sulla cosiddetta mentalità degli imprenditori, sulle loro idee balorde: un’attitudine a metà tra il padrone e il buon padre di famiglia, attraverso cui vorrebbero assoggettare tutti, anche i dipendenti, rendendoli dediti alla loro causa, degli yes man che…
… Non devono lavorare per vivere, ma devono vivere per lavorare…
Alla fine, sì, la loro morale è quella: vivere per lavorare. Sai, mi hanno sempre fatto sorridere le loro biografie. Per questo ne ho creata una ad hoc, nel libro, su un modello di affarista del sud, la cui industria riesce anche a farsi quotare a Wall Street. Questo rappresenta un esempio per indagare la pochezza di simili individui. Nel romanzo, come avrai notato, ci sono vari punti di vista, quello dell’operaio così come quello dell’imprenditore. Volevo dare voce a entrambi.
Ciò che pensavo, leggendo la biografia dell’imprenditore dei divani, è che in realtà lui è uno schiavo, proprio come i suoi operai, perché è vittima di un circolo vizioso: la logica della produzione. L’unica differenza tra lui e i suoi sottoposti è che lui è uno servo con un reddito maggiore.
Di biografie di imprenditori ne ho lette a centinaia e posso confermare che, effettivamente, si sentono realizzati unicamente dal produrre. Per il resto non hanno alcun altro valore aggiunto, anche a livello umano. Sono privi di interessi, delle persone orribili fondamentalmente. Esseri unidimensionali. Se nella descrizione che ne do sembra che abbia semplicemente creato una macchietta, una caricatura, è perché loro stessi sono, spesso senza rendersene conto, la caricatura di sé stessi. Da questo punto di vista, non ho dovuto inventare granché.
Come hai scritto questo romanzo? Vorrei sapere delle tue scelte relative al registro linguistico, per esempio delle molte frasi in dialetto che hai inserito evitando di usare un italiano pulito. Mi piacerebbe anche sapere quanto tempo ci hai messo per portare a compimento il lavoro.
Per scriverlo ci ho messo circa un anno. Per il resto, devo dirti che mi piace molto giocare con il gergo. Si tratta di uno stile che ormai ho introiettato. Far parlare la gente in un libro non è semplice, rendere in modo realistico la commistione tra dialetto e italiano che sporca entrambi e crea una lingua di mezzo. È un esperimento che mi sono arrischiato a compiere, cercando di non eccedere, in modo tale che il testo potesse risultare comprensibile a livello nazionale. Credo sia fondamentale muoversi tra questi diversi registri, tanto quanto usare termini specialistici lì dove questi tornano utili a rendere gli aspetti più operativi del sistema.
Vorrei chiederti come è stato l’intervento sul testo di Giovanni Turi, tuo editore ed editor.
Si è trattato di un intervento di sottrazione. Giovanni ha eliminato un po’ di pagine inutili, per esempio il capitolo più sessualmente esplicito che risultava un po’ fuorviante. C’è da sottolineare, comunque, che fra di noi il confronto e la discussione sono stati costanti. Personalmente, io ho sempre teso a una revisione forte del testo, nel tentativo di giungere a una parola il più possibile esatta e, soprattutto, essenziale.
Matteo Fais
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ultimenotiziepuglia · 6 years ago
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ultimenotiziepuglia · 6 years ago
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pangeanews · 6 years ago
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Da Ingmar Bergman a Osamu Dazai, da Bret Easton Ellis ad Antonio Tabucchi, Beppe Fenoglio e James Ellroy, 9 scrittori italiani confessano i loro debiti letterari (stuzzicati da Matteo Fais)
“Nessun autore si sveglia la mattina e scrive”: ecco uno dei pochi insegnamenti significativi che abbia ricevuto a scuola. La considerazione è incontestabile. Ogni testo si rivela, infatti, nella sua essenza, un ipertesto. È costituito di rimandi e può, almeno potenzialmente, fungere da rimando per chi lo leggerà. Con buona pace di coloro che pensano di poter vivere alieni da qualsiasi legame, ognuno di noi e quindi ogni scrittore ha padri, madri, figli – spesso vastissime parentele.
Quando si decide di scrivere un romanzo è praticamente impossibile, al netto della volontà che sempre dovrebbe animarci di essere originali e non epigoni, non prendere a modello chi ci ha preceduti. Vuoi per lo stile, la forma, il contenuto, la struttura, anche quando non lo dichiariamo, c’è ogni volta della farina che non proviene dal nostro sacco nel momento in cui ci mettiamo a impastare una storia. Per questo abbiamo chiesto a nove autori di rivelare il nome di una o più opere che abbiano avuto una spiccata influenza su uno dei loro romanzi. Niente di troppo indiscreto ma, com’è buona tradizione in ogni paese italiano, viene naturale domandare “ma tu di chi sei figlio?”.
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Osamu Dazai e Matteo Fais
Il legame tra il mio Storia Minima e Lo squalificato di Osamu Dazai è, per così dire, postumo e trascendentale – spero che la cosa non suoni troppo new age. In soldoni, non avevo letto il libro in questione prima di scrivere il mio. Eppure, Storia Minima, come ho scoperto successivamente, è un po’ la versione europea, a settant’anni di distanza, di uno dei più bei testi maledetti che si siano mai scritti all’altro capo del mondo. Entrambi i nostri personaggi sono radicalmente estraniati rispetto al contesto sociale che li circonda. Yozo e il mio protagonista senza nome rifiutano la logica alienante del lavoro a ogni costo –  il secondo vi è in parte costretto, visto che non lo trova e rientra per tal motivo nella categoria dei cosiddetti “scoraggiati”. Sia l’uno che l’altro non riescono a intrecciare relazioni stabili, un po’ per assenza di attitudine, un po’ perché la struttura relazionale negli universi intorno a loro sta da tempo andando in pezzi e questi ne hanno una intima e disturbante, più o meno conscia, consapevolezza. Sono, insomma, due caratteri che “non ce la possono fare”, come si suol dire. La condanna di un tempo di decadenza pesa su di loro, unito all’oscura percezione che la vita sia in fondo invivibile e non se ne possa uscire sani e salvi – sia io che l’autore giapponese, con l’esistenzialismo, ci andiamo a nozze. Incapacità nello stare al mondo, tormento e al contempo una strana macabra ironia segnano i nostri testi così lontani eppure inspiegabilmente vicini. Lui è stato tradotto in italiano, io spero un giorno di vedermi trasposto in ideogrammi. Per il resto, l’autore si è suicidato il giorno del suo trentanovesimo compleanno. Scusate, dunque, se, con qualche anno in meno, non mi spingo oltre con le possibili analogie.
Matteo Fais è nato a Cagliari, nel 1981. Ha scritto su diverse riviste. Al momento, è collaboratore fisso di “Pangea.news” e “VVox Veneto”. Il suo esordio letterario è avvenuto con L’Eccezionalità della regola e altre storie bastarde, Robin Edizioni. Per lo stesso editore ha pubblicato di recente Storia Minima.
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Tommaso Di Ciaula, Beppe Lopez e Francesco Dezio
Volendo individuare una genealogia letteraria ai romanzi che ho scritto – titoli che hanno contribuito a formare la mia poetica, se così si può dire –, uno sarebbe sicuramente Tuta Blu di Tommaso Di Ciaula (Feltrinelli 1978). Un romanzo che, in modo diaristico (oggi parleremmo di memoir), narra ire, ricordi e sogni, di un metalmezzadro (colui che si divideva tra il lavoro nei campi e la fabbrica). Ciò che mi colpì, all’epoca, fu la freschezza del linguaggio – schietto, immediato e modellato sull’oralità – che senza mediazioni intellettualistiche raccontò la realtà in cui vivevano gli operai del sud Italia post boom economico. Lo faceva mettendo insieme frammenti di esperienza, cronache, considerazioni sulla politica di quegli anni, incazzature e soprattutto slanci lirici e visionari di un mondo rurale che stava sparendo o perdendo di identità in favore di un’industrializzazione che, fin da allora, si stava svolgendo in modo raffazzonato, incerto e all’insegna del familismo amorale. Degno di nota è il fatto che a pubblicarlo fu un editore come Feltrinelli, all’epoca in prima linea nel dare voce (anche) agli irregolari e non professionisti della scrittura (il popolo) che, fuori delle categorie borghesi, avevano una verità forte da sparare in faccia al mondo (per dirla alla Demetrio Stratos). Le parole di Tommaso trovarono spazio in una collana, “I franchi narratori”, voluta da Nanni Balestrini – davvero altri tempi. Il libro, uscito poi dal catalogo Feltrinelli, è stato ripubblicato da un piccolo editore veneto, Zambon. Al momento, che io sappia, è tornato nuovamente fuori catalogo. L’altro fratello letterario è, invece, Beppe Lopez, l’autore di Capatosta (Mondadori, 2000). Il libro è concepito come una cronaca familiare: intorno agli anni Trenta, in un quartiere popolare di Bari, nasce Ianguasand’, soprannominata Capatosta, figlia non voluta di Donna Sabbedd’, la rancorosa madre che a lei attribuirà la responsabilità di ogni sorta di sventura, tra cui la morte del marito. Ciò che rende questo romanzo un classico della narrativa italiana contemporanea è il pastiche stilistico – un italiano arditamente imbastardito col dialetto barese – che non ha nulla da invidiare a quello di Gadda, Pasolini, Verga o Raffaele Nigro nei Fuochi nel Basento. È un Sud inaudito quello narrato da Lopez, né contadino, né borghese, né operaio, né cittadino, né magico, né metropolitano (dalla postfazione alla riedizione per Besa, perché anche questo capolavoro è scomparso per un po’: è un destino peggiore di quello degli Atridi, il nostro).
Francesco Dezio è nato ad Altamura nel 1970 e ha esordito nel 1998 con un racconto nell’antologia Sporco al sole. Racconti del sud estremo (Besa). Nel 2004 ha pubblicato con Feltrinelli il romanzo Nicola Rubino è entrato in fabbrica, opera che inaugura una nuova stagione della cosiddetta letteratura industriale e ora riproposta da TerraRossa Edizioni. Del 2014 è la sua prima raccolta di racconti, Qualcuno è uscito vivo dagli anni Ottanta (Stilo), diversi dei quali già apparsi su quotidiani e riviste. Nel 2008 è stato ospite di cinque puntate della trasmissione Fahrenheit, su Rai Radio 3. Ha collaborato con “l’Unità”, “la Repubblica-Bari”, “Corriere del Mezzogiorno”. Il suo ultimo romanzo è La gente per bene (TerraRossa Edizioni, 2018).
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James Ellroy e Adriano Angelini Sut
Se devo indicare un libro, un romanzo, che abbia influenzato in maniera determinante il mio gusto letterario, non ho dubbi: American Tabloid di James Ellroy. Si tratta del primo di una trilogia di romanzi che l’autore di Los Angeles ha dedicato agli Stati Uniti, la Underworld USA Trilogy (il secondo è Sei Pezzi da Mille, il terzo Il Sangue è Randagio). È la ricostruzione ossessiva e a tratti visionaria della storia americana, dal 1960 all’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Nella storia si muovono personaggi reali le cui gesta romanzate rimettono in scena gli avvenimenti di quegli anni. Da J. Edgar Hoover, il temuto capo dell’FBI dell’epoca, ai leader del Ku Klux Klan. Dai boss della mafia italiana e messicana (Carlos Marcello, Sam Giancana), ai politici doc del tempo, soprattutto la famiglia Kennedy, a cominciare dal vecchio Joe Kennedy (col suo controverso rapporto con la mafia italiana di Chicago, nella roccaforte elettorale del Massachusetts). È, in particolare, lo stile che, per quanto mi riguarda, ha rappresentato un punto di svolta nella mia formazione mentale e letteraria. Uno stile che oserei definire ipnotico. Lì dove la ripetitività ossessiva di nomi, situazioni, frasi tronche, abbozzi di pensieri, flussi di coscienza, una punteggiatura minuziosamente rivoluzionaria (i periodi irrelati la fanno da padrone, con grande dispiacere dei professori di liceo), ti costringono a leggere trattenendo il respiro e spesso facendoti rischiare la trance. Sublime trance. American Tabloid è stato anche la miccia che ha permesso alla mia scintilla creativa di dar vita al mio romanzo biografico del 2015, Jackie (Gaffi Editore), col quale ho ripercorso la storia di Jacqueline Kennedy, moglie di John Fitzgerald Kennedy e, secondo me, prima e unica vera First Lady della storia statunitense (imitata, malissimo, da tutte le sue eredi). Jackie si racconta dal letto di morte, in una falsa autobiografia scritta in prima persona e che, come American Tabloid, cerca di ripercorrere quegli anni da un punto di vista diverso: quello di una donna, esperta d’arte e simbolo della moda, del gusto e del look, amata e acclamata come una diva del cinema in tutto il mondo.
 Adriano Angelini Sut, romano, traduttore e scrittore. Ha pubblicato nel 2009 101 cose da fare a Roma di notte (Newton Compton). Nel 2015 esce Jackie (Gaffi Editore), un romanzo biografico su Jacqueline Kennedy. Nel 2017 Mary Shelley e la Maledizione del lago (Giulio Perrone), la biografia romanzata su Mary Shelley. Nel 2018 è presentato allo Strega con il romanzo L’ultimo singolo di Lucio Battisti (Gaffi Editore). Ha collaborato con “Il Foglio” e “Radioradicale.it”. Collabora con http://bit.ly/2Tv8oYI. Fra le sue traduzioni, Ogni Cosa è Maschera di Janice Galloway (Gaffi); Sex Trafficking di Siddarth Kara (Castelvecchi); Il programma di  James Dashner (Fanucci).
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Beppe Fenoglio e Davide Rosso
Tutto ebbe inizio con Un giorno di fuoco di Beppe Fenoglio, la mia caduta da cavallo. Da quel momento in poi c’è stato un prima e un dopo, uno spartiacque tra la fitta nebbia in cui mi trovavo e la possibilità di intravedere qualcosa. Con quel libro mi si svelò un mondo e un modo di fare letteratura nuovo e più autentico, capace di narrare piccole storie in uno spazio geografico ristretto trascendendole al massimo grado. Capii, una volta per tutte, che avrei potuto raccontare quei pochi chilometri quadrati che percorrevo in tondo senza bisogno di allontanarmi troppo. Insomma, ero seduto sopra un tesoro e non lo sapevo. Fenoglio mi ha semplicemente aperto gli occhi. Della sua scrittura, due sono le peculiarità che prediligo e che ho fatto mie: il modo di trattare il paesaggio – in questo caso le Langhe – al pari degli altri personaggi della storia, una presenza viva e costante, capace di dare una svolta al racconto, partecipe e determinante; e la piccolezza delle storie narrate, il garbuglio dei sentimenti, il rancore, la grettezza, ma anche lo slancio eroico, epico, la forza d’animo, la lealtà, la purezza morale descritte con vivo realismo, con lucidità e spietatezza. Eventi che Fenoglio consegna al lettore con un’intensità bruciante, con una lingua netta e precisa, senza giri di parole, trasformando vicende all’apparenza insignificanti in qualcosa dal grande peso specifico. Per non parlare dell’attualità di certe sue storie. Basti pensare al racconto eponimo con quell’incipit fulminante: “Alla fine di giugno Pietro Gallesio diede la parola alla doppietta…”, il cui protagonista, stanco e vessato dalle tasse, potrebbe essere benissimo uno dei tanti imprenditori disperati alle prese con Equitalia. Ma non solo l’opera in sé, anche lo scrittore, l’uomo in carne e ossa, con la sua vicenda biografica, è stato un modello per me, e lo è tuttora. Ho sempre guardato con ammirazione il suo nobile provincialismo, la dedizione e il rigore con cui affrontava i suoi scritti, e la fede che nutriva nei confronti della letteratura.
Davide Rosso è nato a Cuneo il 25/10/1973. Nel 2017 ha pubblicato il romanzo La perseveranza, con la casa editrice Italic-Pequod di Ancona.
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Piera Paolo Pasolini e Giuseppe Casa
Chissà perché Teorema mi ricorda Massimo Recalcati mentre discetta sulla paralisi etica, sociale e culturale della famiglia moderna –  o meglio, la parodia che ne fa un comico in tv –  che con “Lacaaan” spiega: “All’uomo piace godere, all’animale no”. Attenzione: “tutto è simbolo”, ci avvisa il vate che c’è in Pasolini (torna in questo romanzo la scavatrice zampilla lacrime). Ma “i fatti”, che a me interessano e che per la prima volta mi mettono in sintonia con il poeta di Casarsa, per quel che riguarda il mio Metamorph, sono questi: un giovane Dio seduttivo e libertino non ben identificato è ospite nella bella casa di una famiglia borghese. C’è una descrizione scarna dei personaggi; capo famiglia indaffarato, moglie annoiata, figlio mezzo frocio, figlia minorenne viziata (ma tutti sicuri del posto che spetta loro in società), e infine la donna di servizio, mezza ninfomane e mezza mistica. L’ospite, come nei migliori capitoli di un film lynchiano, uno alla volta, si scopa l’intera famiglia, compreso la serva, e, quando sparisce, lascia tutti nel caos e nello sconforto. Dio è arrivato, tutti sono stati bene, ma non c’è stata Salvezza. Nessuna Redenzione. Alla fine il capo famiglia dona la sua fabbrica alla classe operaia e, estraneo a tutto, si allontana nudo in mezzo alla folla. Dove porta tutto questo? Non ci sono risposte a questa domanda, ma solo un urlo disperato nel deserto.
Giuseppe Casa è nato a Licata, nel 1963. Ha scritto Veronica dal vivo, Transeuropa Edizioni, 1998; In questo cuore buio, Transeuropa Edizioni, 1999; La notte è cambiata, Rizzoli, 2002; Superfish a Manhatthan, Edizioni Interculturali, 2003; Diario di Orvieto, Tondelliana, Transeuropa Edizioni, 2004; Men on men. Antologia di racconti gay. Vol. 3, Arnoldo Mondadori Editore 2004; Pit Bull. Cani che combattono, Stampa Alternativa, 2008; La Donna Del Lago, Lite Editions, 2012; Blues, Koi Press, 2012; Metamorph, Foschi, 2013; Io non sono mai stato qui, Clown Bianco, 2017.
* John Barth e Cristò
Ho scritto L’orizzonte degli eventi, un romanzo breve pubblicato nel 2011 da Il grillo editore, pensando a John Barth. L’opera galleggiante, La fine della strada e i suoi racconti pubblicati in Italia mi avevano stregato. La sua riflessione sulla presenza dello scrittore nella scrittura mi ha regalato l’idea per un personaggio che mi ha dato grandi soddisfazioni: Giovanni Bartolomeo (il protagonista del mio libro), uno scrittore anziano affetto dal morbo di Alzheimer che sta leggendo il libro che l’ha reso famoso. Purtroppo, però, non ricorda di averlo scritto lui e lo critica ferocemente ripetendo: «questo libro è una porcheria».
Cristò (1976), barese, ha pubblicato Come pescare, cucinare e suonare la trota (Florestano), L’orizzonte degli eventi (Il grillo), That’s (im)possibile (Caratterimobili e Intermezzi), La carne (Intermezzi), Restiamo così quando ve ne andate (TerraRossa).
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Bret Easton Ellis e Andrea Campucci
“Il pensiero moderno ha realizzato un notevole progresso col ridurre l’esistente alla serie di apparizioni che lo manifestano…”: così esordisce J.P. Sartre nella sua introduzione a L’essere e il nulla, gettando alle ortiche tutto quel fardello ontologicamente detestabile fatto di dualismi fra “interiore” ed “esteriore”, “fenomeno” e “noumeno”, “sostanza” e “accidente” e via discorrendo. Ora, la ricerca filosofica si è da sempre spaccata le corna nel tentativo di dare una veste a questo tipo di indagine e uno dei meriti dell’esistenzialismo è proprio quello di aver saputo prendere atto di quell’omogeneità che intercorre fra “essenza” ed “esistenza”. Ma facciamola corta. Quando Patrick Bateman, sciagurato protagonista di American psycho di Bret Easton Ellis, afferma, tra uno sgozzamento e qualche allegra amputazione, “quello che conta è la superficie, solo la superficie”, egli sembra far suo, su un piano esistenziale, quello che secoli e secoli di indagine filosofica hanno prodotto a livello epistemologico. Insomma, che sia una cena al Dorsia, un paio di scarpe Ferragamo, o la lingua di Bethany tagliuzzata con le forbici o il sangue che sprizza copioso dal corpo di Tiffany, ecco, fra le due categorie di “fenomeni” non c’è alcuna differenza. Le apparenze, le cravatte di seta Ermenegildo Zegna, le scarpe Paul Stuart, divengono della stessa materia dello sperma e del sangue, sono ontologicamente omogenee. Ed è qui che compare il comico, la risata dissacrante che esplode nel momento della giustapposizione, pirandellianamente intesa come dissonanza (si legga il saggio sull’umorismo), giustapposizione di cui i postmoderni hanno fatto una cifra stilistica. C’è tutto questo in un romanzo del calibro di American psycho, una lezione (naturalmente non l’unica in tutto quell’impiastro di autori che si sono svegliati con Don DeLillo, o Arbasino in Italia) che, appunto partendo dagli esiti scandalosamente nullificanti dell’esistenzialismo, ha saputo riconfigurare l’idea di narrazione come se quest’ultima non avesse nessuno scopo, nessuna impellenza sociale, raggiungendo così quell’ideale di perfetta inutilità che in fin dei conti è sempre stato il suo inespresso traguardo, e a cui anch’io, con il mio Porn food, ho cercato di avvicinarmi.
Andrea Campucci nasce a Firenze, nel 1983. Qui si laurea in filosofia e inizia a collaborare con vari editori. Nel 2009, tramite il sito ilmiolibro.it, esce il suo primo romanzo, Naive. È poi la volta di un saggio filosofico, Nietzsche, la fine della ragion pura, 2011, per l’editore Mimesis. Nel 2012 pubblica, per Arduino Sacco, la raccolta di racconti Cupio dissolvi, per poi arrivare, nel 2013, al romanzo La scampagnata, sempre per l’editore Arduino Sacco. Nel 2016 approda alla Leone edizioni con il romanzo Plastic shop. Per lo stesso editore, nel 2018, pubblica infine il romanzo Porn food.
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Ingmar Bergman e Davide Brullo
Per scrivere cerco il cortocircuito del dolore, il nodo delle vipere, e metto il dito lì, senza alternativa che una reazione a morsi. Ingmar Bergman, il grande regista, era un traditore, un vampiro: nei film le sue amanti si azzannavano per dimostrare adesione di suddito. In Persona, ad esempio, sadicamente, Bergman mette in sfida, sotto l’occhio da voyeur della telecamera, Liv Ullmann, che da poco gli ha dato una figlia, e l’amante, Bibi Andersson. Siamo nel 1966, e in quell’anno Bergman è ufficialmente sposato con la quarta moglie, Käbi, una pianista, che segue Else, Ellen e Gun. Nello stesso tempo, prosegue la relazione con Ingrid, che ha conosciuto nel 1957, che sposerà nel 1971, e da cui, nel 1959, ha una figlia. La figlia, Maria, fu cresciuta da Ingrid nella casa del marito – anche lei era sposata, come Ingmar – a cui aveva dato tre figli: solo più avanti, ben più tardi, da ragazza, scoprirà che il suo vero padre era Bergman. Questo groviglio di “relazioni incomprensibili”, come scrive Bergman, trova tragica sintesi nel 1994: a Ingrid viene diagnosticato un cancro allo stomaco. L’episodio sconvolge il regista, che comincia a scrivere un diario. Contestualmente, la moglie, che morirà nel maggio del 1995, e la figlia, Maria, scrivono il loro diario. Nel 2004 Bergman pubblica questi materiali con il titolo Tre diari. Gesto a testimonianza di un amore estremo o estrema voluttà di un uomo ‘pubblico’, di un artista che spettacolarizza il proprio dolore? Proprio questo – contraddizione, vitalismo, morte, dolore che ammutolisce i mortali e raddoppia la lingua dell’artista – è il prediletto per scrivere un libro. Il libro, Ingmar Bergman: la vita sessuale di Franz Kafka prenda atto di questo diario anomalo e dell’anomalia del desiderio di Bergman: fare un film sull’opera di Kafka – ne scrive in Lanterna magica. Così, ho immaginato il soggetto e il diario scritto intorno a questo film ipotetico, ipnotizzante, gestendo il romanzo come un saggio, curato dalla figlia Maria. Ognuno ha i propri autori magistrali, che sono capitati senza opzione né scelta – io direi: Rudyard Kipling e la Bibbia, il libro dei Re, poi Dylan Thomas e Rainer Maria Rilke, Cormac McCarthy e Hermann Broch e Herman Melville – ma lì il dolore è dettato con suprema tenerezza (“Cerchiamo di vivere nel presente e non nel domani”; “Conterò i giorni fino a quando la serenità non scenderà su di noi (in un modo o nell’altro). Conterò i giorni, dovessi contare fino alla fine dei tempi” – e con tenaglia, nell’aspro e nel limpido.
Ingmar Bergman: la vita sessuale di Franz Kafka (2015) fa parte del “Ciclo del Tradimento”, cominciato da Davide Brullo con la pubblicazione di Rinuncio (2014), proseguito con Pseudo-Paolo. La lettera di San Paolo Apostolo a San Pietro e Un alfabeto nella neve (entrambi 2018). Dal romanzo l’autore ha tratto un testo teatrale, Ingmar, per Daniela Giovanetti e Silvio Castiglioni, che ha debuttato a Rimini nel 2018.
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Antonio Tabucchi e Paolo Di Paolo
È curioso, ma posso ricordare il pomeriggio di marzo del 2001, quando mi presi una pausa dai compiti, per cominciare a leggere il nuovo libro di Antonio Tabucchi, appena uscito per Feltrinelli. Copertina bellissima, fotografia misteriosa di un abbraccio. Titolo molto tabucchiano: Si sta facendo sempre più tardi. Quando lessi il più breve dei racconti, Lettera da scrivere, ebbi forse per la prima volta questo pensiero: mi piacerebbe saper scrivere così. E sulle pagine del giornale scolastico, per gioco, provai a imitare quel racconto nei modi, nel tono, nella formulazione epistolare. Su quella linea di confine fra la scuola superiore e il mondo incognito del dopo, la lettura di quel Tabucchi (di cui avevo già amato molto Sostiene Pereira) mi spinse a immaginarmi più concretamente scrittore. E devo perciò riconoscere che un anno dopo, concentrandomi sull’impresa di una mia prima raccoltina di racconti, Nuovi cieli, nuovissime carte, Empiria, la fascinazione per quello stile – lirico, direi, liquido, avvolgente, musicale, molto “letterario” – ebbe un peso più che consistente. Imitavo, sì. Dico apertamente che imitavo. E quando Dacia Maraini, senza saperlo, nella generosa prefazione scrisse che le mie pagine ricordavano quelle di Tabucchi, sobbalzai. Tana. Aveva visto bene.
Paolo Di Paolo è nato a Roma, il 7/6/1983. Nel 2003 entra in finale al Premio Italo Calvino per l’inedito, con i racconti Nuovi cieli, nuove carte. Ha pubblicato libri-intervista con scrittori italiani come Antonio Debenedetti, Raffaele La Capria e Dacia Maraini. È autore di Ogni viaggio è un romanzo. Libri, partenze, arrivi (2007), Raccontami la notte in cui sono nato (2008). Ha lavorato anche per la televisione e per il teatro: Il respiro leggero dell’Abruzzo (2001), scritto per Franca Valeri; L’innocenza dei postini, messo in scena al Napoli Teatro Festival Italia 2010. Nel 2011 pubblica Dove eravate tutti (Feltrinelli, vincitore del premio Mondello, Superpremio Vittorini e finalista al premio Zocca Giovani), nel 2012 nella collana di ebook “Zoom” Feltrinelli La miracolosa stranezza di essere vivi. Nel 2013 con Mandami tanta vita (Feltrinelli), è finalista al Premio Strega 2013. Nel 2016 pubblica con Einaudi Tempo senza scelte e con Feltrinelli Una storia quasi solo d’amore.
L'articolo Da Ingmar Bergman a Osamu Dazai, da Bret Easton Ellis ad Antonio Tabucchi, Beppe Fenoglio e James Ellroy, 9 scrittori italiani confessano i loro debiti letterari (stuzzicati da Matteo Fais) proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2FXYjhL
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spinebookstore · 7 years ago
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MOSTRA MERCATO della Spine Welcome Session 4. 20,21,22,23 Dicembre.
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Tante le novità della quarta edizione invernale dell’evento tanto atteso di Spine: non solo la distribuzione degli incontri durante il mese, ma anche l'attesissima MOSTRA MERCATO, finalmente concretizzatasi in questo 2017. Abbiamo invitato illustratori, editori, grafici e affini a mettersi in gioco, a metterci la faccia e a trascorrere 4 giorni insieme, fianco a fianco. La grande Area eventi dell’Officina degli Esordi si trasformerà un un'area espositiva e performativa. Un calendario si sta definendo, conosceremo collettivi, ospiteremo autori e piccole mostre e discuteremo di immagine legata all'editoria. . L’obiettivo è dare vita a una piccola fiera della microeditoria e di artisti indipendenti per promuovere l'autoproduzione e la creatività. Ingresso libero 20 dicembre: 17.00 - 22.00 Tutti gli altri giorni: 10.30 - 22.00 PROGRAMMA: #portfolio review: durante le 4 giornate sarà possibile prenotarsi con Diabolo Edizioni 20 Dicembre 18.00 Presentazione degli editori e dei collettivi presenti alla Mostra. 21 Dicembre ore 20.00 La Storia degli Skiantos https://www.facebook.com/events/761716137359283/permalink/761724944025069/ 22 dicembre ore 19.00 PASSARINHOS. Esercizi sul volo. Daniele Geniale e Roberta Fucci si dedicheranno a trasferire sul legno le loro considerazioni sul tema del volo. Calligrafia e Textures di becchi, ali ed occhi saranno il fuoco che i due performers seguiranno. Tutto nasce dalla meraviglia dell'osservazione dell'esistente. In natura è tutto già perfetto. Questa è la leva che spinge l'artista e la calligrafa ad interpretare le forme curve, mai spezzate dell'universo, in due micromondi: quello del lettering, universo mosso dalla tendenza alla perfezione e quello del tropicale, da cui i due attingono continuamente. 23 dicembre ore 18.00 La grafica editoriale, incontro con Francesco Dezio di TerraRossa Edizioni, chiacchiera con lui Luca Romano ore 20.00 Il dizionario dei gesti, a volte le parole non bastano, Iacobelli Editore. Incontro con l'autrice Lilia Angela Cavallo 23 dicembre: BlingBling Xmas - Laboratorio di origami natalizi BlingBling Xmas è un laboratorio di basic design per impareare una tecnica base degli origami per creare oggetti, nello specifico decorazioni per le festività natalizie. 3 incontri alle ore 11.30 / 16.00 / 19.00 Costo 7€/partecipante BlingBling è un termine che deriva dallo slang hip-hop, indica la bigiotteria vistosa ed eccessiva indossata dai rappers. BlingBling nasce quindi come un ossimoro, in cui si uniscono il rigore e l’essenzialità degli origami, all’appariscenza delle tradizionali decorazioni natalizie in glitter e colori metallizzati. Piegare, incidere, incollare; attraverso un processo composto da semplici operazioni si realizzeranno delle forme tridimensionali in carta da usare come decori per l’albero o per la casa; una volta acquisite le nozioni base ognuno si può divertire a sperimentare nuove conformazioni o perdersi nell’armonia delle geometrie perfette degli origami. www.facebook.com/blinblingpaper
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