#Premio Cesare Zavattini
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diaridicineclub · 3 months ago
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VIII edizione del "Premio Cesare Zavattini" | Le Premiazioni
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agrpress-blog · 4 months ago
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L’AAMOD festeggia 40 anni: annunci e programma per la stagione 2024/25 L'Archivio Audiovisivo del Movimento Op... #aamod #aperossa #archivistorici #fondazioneaamod #PremioCesareZavattini #vincenzovita https://agrpress.it/laamod-festeggia-40-anni-annunci-e-programma-per-la-stagione-2024-25/?feed_id=6704&_unique_id=66d9b11bc2c00
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reginadeinisseni · 1 year ago
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I girasoli
TONINO GUERRA
I girasoli è un film del 1970 diretto da Vittorio De Sica ed interpretato da Sophia Loren e Marcello Mastroianni. La colonna sonora di Henry Mancini fu candidata al Premio Oscar
GIOVANNA PERDE  IL FIDANZATO ANTONIO E  PENSANDO SIA MORTO IN RUSSIA, DOVE SI COMBATTE UNA GUERRA VA A CERCARLO IN URSS, MA LE DICONO CHE E' MORTO. NOTIZIA FALSA PERCHE' ANTONIO RICOMPARE E VUOL TORNARE CON LEI, MA E' TROPPO TARDI LEI HA TROVATO IL SUO UNICO VERO UOMO CON CUI HA GENERATO 2 FIGLI
I girasoli è un film del 1970 diretto da Vittorio De Sica ed interpretato da Sophia Loren e Marcello Mastroianni. La colonna sonora di Henry Mancini fu candidata al Premio Oscar
I girasoli Paese di produzione Italia, Francia, Unione Sovietica Anno 1970 Durata 100 min Genere drammatico Regia Vittorio De Sica Soggetto Tonino Guerra, Georgij Mdivani, Cesare Zavattini Sceneggiatura Tonino Guerra, Georgij Mdivani, Cesare Zavattini Produttore Carlo Ponti, Arthur Cohn Distribuzione in italiano Euro International Films Fotografia Giuseppe Rotunno Montaggio Adriana Novelli Musiche Henry Mancini Scenografia Giantito Burchiellaro, Piero Poletto Costumi Enrico Sabbatini Interpreti e personaggi Sophia Loren: Giovanna Marcello Mastroianni: Antonio Ljudmila Savel'eva: Maša Pippo Starnazza: bigliettaio della stazione Galina Andreeva: Valentina, ufficiale sovietica Anna Carena: madre di Antonio Germano Longo: Ettore Nadija Čeredničenko: donna nel campo di girasoli Glauco Onorato: reduce Carlo Ponti Jr: bambino di Giovanna Silvano Tranquilli: ex reduce italiano rimasto in Russia Marisa Traversi: prostituta Gunar Zilinskij: funzionario russo
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marcogiovenale · 3 years ago
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bandi di partecipazione al premio zavattini / unarchive
bandi di partecipazione al premio zavattini / unarchive
Da oggi sono online i due bandi dedicati al riuso creativo del cinema d’archivio che l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico – AAMOD  rivolge ai giovani talenti che non abbiano compiuto nel 2022 il 36esimo anno di età. Il termine “UnArchive“, comune ad entrambi i contest, significa concettualmente disarchiviare e ricontestualizzare i materiali filmici conservati negli archivi,…
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senzabarcode · 7 years ago
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Premio Cesare Zavattini, online il bando
Premio Cesare Zavattini, online il bando
È finalmente online il bando e il regolamento 2018 per accedere al Premio Cesare Zavattini, il concorso pubblico rivolto a giovani filmmaker professionisti e non.
Al Premio Cesare Zavattinipossono partecipare filmaker di qualsiasi nazionalità, di età compresa tra i 18 e i 35 anni. Il Premio è intitolato ad uno dei padri del neorealismo italiano, nonché sostenitore instancabile del cinema come…
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tlmmagazine · 7 years ago
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di Marta Zoe Poretti
Con Sabato 19 Maggio si chiude anche l’edizione numero 71 del Festival di Cannes. Splendida Presidente della giuria Cate Blanchett, che ha impresso un significativo tocco #metoo non solo alla cerimonia di premiazione, ma all’intera kermesse.
La giuria (tra cui le attrici Kristen Stewart e Léa Seydoux, i registi Denis Villeneuve e Ava DuVernay ed il divo cinese Chang Chen) ha premiato entrambi i film italiani selezionati in concorso: Dogman di Matteo Garrone e Lazzaro felice di Alice Rohrwacher.
“Da piccolo quando ero a casa mia e pioveva sopra le lamiere chiudevo gli occhi e mi sembrava di sentire gli applausi. Invece adesso li riapro e quegli applausi siete voi, e sento che c’è un calore che è come una famiglia. Mi sento a casa e mi sento a mio agio qui con voi. La mia famiglia è il cinema e siete voi. E Cannes… Questa sabbia di Cannes, penso che ogni granello è importante. Ringrazio tutti: Rai Cinema, Cannes e tutti gli organizzatori, e Matteo che si è fidato… Ha avuto il coraggio, non so neanche io come.”
In queste parole tutta l’emozione di Marcello Fonte, mentre riceve la Palma d’oro per il Miglior Attore da Roberto Benigni. Ancora una volta, Matteo Garrone ha scelto un attore che ha vissuto una vita ai margini dello spettacolo per rappresentare la tragedia contemporanea di un uomo costretto ai margini della società. Il risultato è la variazione iperrealista della teoria del “pedinamento” di Cesare Zavattini: l’autenticità di Marcello Fonte nella parte del Canaro è deflagrante, come la desolazione di un “buono” tanto vessato e solo che diventa protagonista di un assassinio leggendario.
Palma d’oro per la Migliore Sceneggiatura ad Alice Rohrwacher che ringrazia “questa incredibile giuria e questa incredibile presidentessa per aver preso sul serio una sceneggiatura così bislacca”.
La favola rurale di Lazzaro Felice vince il premio ex-aequo con l’iraniano Jafar Panahi per Three Faces.
E’ italiano anche il premio per il Miglior Documentario: La strada dei Samouni di Stefano Savona (presentato alla Quinzaine des Réalisateurs).
La Palma d’oro va al giapponese Shoplifters di Hirokazu Kore-eda (autore di Farther and Sons e Ritratto di famiglia con tempesta, che torna con un nuovo dramma familiare, specchio della crudeltà delle disuguaglianze sociali).
Ecco tutti i premi principali assegnati a Cannes 2018:
PALMA D’ORO PER IL MIGLIOR FILM
SHOPLIFTERS di Kore-Eda Hirokazu
GRAN PREMIO
BLACKKKLANSMAN di Spike Lee
PREMIO DELLA GIURIA
CAPHARNAÜM (CAPERNAUM) di Nadine Labaki
PREMIO ALLA REGIA
PAWEL PAWLIKOWSKI per Cold War
PALMA D’ORO SPECIALE
LE LIVRE D’IMAGE di Jean-Luc Godard
PREMIO PER LA MIGLIORE ATTRICE
SAMAL YESLYAMOVA per Ayka
PREMIO PER IL MIGLIOR ATTORE
MARCELLO FONTE per Dogman
CAMERA D’OR PER LA MIGLIORE OPERA PRIMA
GIRL di Lukas Dhont
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La cerimonia di premiazione non è stata solo emozione e amore per il cinema. Asia Argento, prima di assegnare il premio alla Migliore Attrice, è tornata a denunciare con parole esplicite le violenze subite da Harvey Weinstein. Un atto di accusa che non si limita al passato, ma afferma con forza la fine della coltre di tolleranza e silenzio che nel mondo dello spettacolo ha sempre nascosto gli abusi sulle donne:
“Nel 1997 sono stata stuprata da Harvey Weinstein qui a Cannes.  Avevo 21 anni. Questo festival era il suo territorio di caccia. Voglio fare una previsione: Harvey Weinstein qui non sarà mai più benvenuto. Vivrà in disgrazia, escluso dalla comunità che un tempo lo accoglieva e nascondeva i suoi crimini. Perfino stasera, seduti tra di voi, ci sono quelli che devono ancora rispondere per i loro comportamenti contro le donne. Comportamenti che non appartengono a questa industria, che sono inaccettabili e indegni di questa industria, o qualunque altro posto di lavoro. Voi sapete chi siete. Ma soprattutto noi sappiamo chi siete. E non vi permetteremo più di farla franca.”
Cala così il sipario su Cannes 2018, un’edizione che di certo non è stata avara di emozioni.
In chiusura, un irresistibile John Travolta ha presentato l’edizione restaurata di Grease: un grande evento al Cinéma de la Page per celebrare i quarant’anni del Musical che è ormai un cult senza tempo.
E non dimentichiamo il ritorno in grande stile di Lars Von Trier. Dichiarato “persona non gradita” nel 2011 dopo le famigerate affermazioni sull’umanità di Hitler, il regista danese torna a quello che è stato il suo Festival di riferimento fin dagli esordi con L’elemento del crimine (1984). Per il figliol prodigo, non poteva che essere un ritorno esplosivo: all’anteprima dell’Horror di impianto filosoficoThe House that Jack built (con Matt Dillon, Uma Thurman e Bruno Ganz) un centinaio di giornalisti abbandona la sala, mentre la notizia di sequenze pantagrueliche, mutilazioni di donne e bambini riempie le prime pagine di tutto il mondo. Naturalmente, Von Trier resta il Re della benzina sul fuoco: “Non ho mai ucciso nessuno, ma se l’avessi fatto, sarebbe stato un giornalista” – ha dichiarato al quotidiano Le Figaro.
Last but not least: la chiusura del Festival di Cannes è tutta per Terry Gilliam e il suo The Man who killed Don Quixote (L’uomo che uccise Don Chisciotte). L’adattamento del classico di Cervantes, Don Chisciotte de La Mancha, arriva dopo 25 anni di vicissitudini rocambolesche e difficoltà produttive oltre i limiti del surreale. Solo Martedì 8 Maggio Gilliam ha vinto la sua personale battaglia contro i mulini a vento, insieme alla causa intentata dal produttore Paul Blanco di Alafama Films. Superato brillantemente perfino un malore e un ictus, il regista britannico ha accolto con il pubblico con la sua proverbiale ironia: la maledizione del Chisciotte è vinta, ed uno dei film più sognati e sofferti della Storia del Cinema è davvero realtà.
dogman marcello fonte
lazzaro felice
shoplifters palma d’oro
von trier the house that jack built
gilliam don quixote
#thelovingmemory
  #Cannes2018 : Tutti i premi e gli highlight del Festival di Cannes di Marta Zoe Poretti Con Sabato 19 Maggio si chiude anche l’edizione numero 71 del Festival di Cannes.
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belllaura · 6 years ago
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lospeakerscorner · 5 years ago
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Otto giorni di grande cinema nel 60esimo anniversario della fondazione del festival Laceno d’oro nel segno di Pier Paolo Pasolini
AVELLINO – Otto giorni di grande cinema d’autore, di sperimentazione e di ricerca, con oltre ottanta proiezioni, più di trenta ospiti internazionali e italiani, tre concorsi con opere da tutto il mondo, retrospettive, masterclass, mostre e convegni: Avellino torna a essere al centro della scena cinematografica indipendente e del nuovo “cinema del reale” con la 44esima edizione del festival internazionale Laceno d’oro in da domenia 1 e fino all’8 dicembre.
Quest’anno si celebra il sessantesimo anniversario dalla prima edizione  del festival: nel 1959 nacque dalla felice intuizione di Pier Paolo Pasolini per valorizzare il territorio irpino con una rassegna di ispirazione neorealista.
Un anno importante quindi per la manifestazione organizzata dal Circolo ImmaginAzione con la direzione artistica di Antonio Spagnuolo in collaborazione con Aldo Spiniello, Sergio Sozzo, Leonardo Lardieri della rivista cinematografica Sentieri Selvaggi e Maria Vittoria Pellecchia, e con il contributo di Regione Campania e MIBACT – Direzione Generale Cinema e Audiovisivo, che porterà in città molti ospiti di prestigio internazionale insieme a grandi autori del panorama culturale italiano.
Quartier generale il Cinema Partenio con eventi anche al Complesso Monumentale Carcere Borbonico e al Cinema Comunale di Bagnoli Irpino, sede storica della manifestazione al tempo di Pasolini.
Tra i protagonisti più attesi il regista portoghese João Botelho, che presiederà la giuria del concorso di lungometraggi “Laceno d’oro 44” e presenterà il suo film Pilgrimage (2017), sui viaggi dei marinai portoghesi verso l’Oriente, tra narrazione letteraria, racconti familiari, teatro e musica (Mercoledì 4 dicembre ore 21 Cinema Partenio).
Saranno premiati alla carriera i registi Franco Maresco, autore di La mafia non è più quella di una volta, un viaggio dentro la mafia e l’antimafia nella Palermo di oggi, Premio speciale della giuria a Venezia ’76 e Pedro Costa, sontuoso regista portoghese che presenterà il suo ultimo film Vitalina Varela, Pardo d’oro a Locarno 2019 per il miglior film e miglior interpretazione femminile, potente opera sull’emigrazione capoverdiana a Lisbona.
Maresco e Costa, a cui saranno dedicate due retrospettive con una selezione dei film più significativi, terranno anche due masterclass per approfondire i temi delle loro cinematografie.
Tra gli ospiti italiani il regista Mimmo Calopresti con il suo ultimo lavoro Aspromonte – La terra degli . Nel cast Valeria Bruni Tedeschi, Sergio Rubini e Marcello Fonte.
Ambientato in un paesino della Calabria, il film è un western atipico sulla fine di un mondo e sul sogno di cambiare il corso degli eventi grazie alla voglia di riscatto di un popolo.
La regista e sceneggiatrice friulana Katja Colja presenta invece il suo esordio di successo Rosa, con protagonista Lunetta Savino. Racconta la storia di una donna sessantenne che affronta il dolore della perdita della figlia insieme al marito ma che reagisce, al contrario dell’uomo, facendo nuove esperienze fino alla rinascita.
Cuore del festival i tre concorsi internazionali con opere pervenute da tutto il mondo: in gara sette lungometraggi, dodici documentari e diciotto cortometraggi.
La cerimonia di premiazione dei film vincitori, che si aggiudicheranno un premio di  3000 euro per i lunghi e di  1.500 euro per doc e corti, si svolgerà domenica 8 dicembre alle ore 21 al Cinema Partenio.
Numerosi gli omaggi a grandi autori del cinema a partire dal nume tutelare del festival Pier Paolo Pasolini con la proiezione del film 12 dicembre (1971) sulla strage di Piazza Fontana del 1969, un film non ufficialmente attribuito al regista per non subire conseguenze legali ma che lui stesso dichiarò successivamente come suo.
Al film seguirà un dibattito con Roberto Chiesi della Fondazione Pasolini.
Il festival organizza inoltre il convegno Da Piazza Fontana ad oggi: terroristi, vittime, riscatto e riconciliazione. Intervengono Ciriaco De Mita, il prefetto Carlo De Stefano, ex capo dell’antiterrorismo, il sociologo Antonello Petrillo, l’ex deputato Nicodemo Oliviero e lo scrittore e giornalista Angelo Picariello che presenta il suo libro Un’azalea in via Fani.
Il Laceno d’oro ricorda, ancora, Cesare Zavattini, il “poeta del Neorealismo”, anch’egli fortemente legato all’Irpinia e illustre sostenitore del Laceno d’oro, con la proiezione di La lunga calza verde di Roberto Gavioli, tratto da un soggetto di Zavattini.
Inoltre, a trent’anni dalla scomparsa, omaggio al regista e attore americano John Cassavetes con la proiezione di Una moglie e La sera della prima. 
Infine, sarà dedicata una retrospettiva a Luigi Di Gianni, regista napoletano e maestro del documentario antropologico, con quattro lavori: Magia Lucana, La potenza degli spiriti, Il male di San Donato, Vajont (Natale 1963).
Per la sezione Spazio Campania, vetrina per le produzioni del territorio, saranno in visione venti opere tra cui Never Forever di Fabio Massa, La Gita di Salvatore Allocca, Veronica non sa fumare di Chiara Marotta, V†M – Vita e morti a due passi dalla scuola di Cyop&Kaf.
Sugli schermi del Laceno d’oro nelle sale del Cinema Partenio si alterneranno, fuori concorso, opere che hanno avuto già una distribuzione nazionale e produzioni indipendenti italiane:
I diari di Angela – Noi due cineasti diAngela Ricci Lucchi e Yervant Gianikian, l’archivio di immagini della storica coppia di cineasti;
Soledi Carlo Sironi, sul tema della maternità surrogata, Storia dal qui di Eleonora Mastropietro, sul ritorno dell’autrice nel suo paese d’origine in provincia di Foggia;
La città che cura di Erika Rossi, storia di una periferia e le sue difficoltà, dove un gruppo di persone cerca la condivisione per “curare” la solitudine;
Albero, nostrodi Federica Ravera, film-documentario che celebra l’opera di Ermanno Olmi;
Sono innamorato di Pippa Baccadi Simone Manetti, storia della giovane artista violentata e uccisa in Turchia nel corso del suo viaggio per la pace tra i popoli.
Il festival conferma anche la sua attenzione per la storia del cinema con due mostre fotografiche al Carcere Borbonico: CINEMA | 1936-1956, il lungo viaggio del cinema italiano a cura di Orio Caldiron e Matilde Hochkofle. Interverranno Orio Caldiron, il critico cinematografico Valerio Caprara e lo storico del cinema Paolo Speranza. La mostra ripercorre alcuni dei momenti più importanti del lungo viaggio del cinema italiano attraverso le pagine della rivista Cinema che, nata nel 1936, diventa la sede privilegiata delle inquietudini e delle aspirazioni di un gruppo di giovani critici che si battono per un cinema in grado di rappresentare la realtà italiana e insieme il loro radicale rifiuto del clima opprimente del regime fascista. La rivista chiude i battenti nel luglio 1956, in tempo per interrogarsi sul panorama dei giovani registi e sulla rinnovata vitalità del cinema popolare.
Un’altra mostra in programma: Il giudice sceneggiatore. Dante Troisi e il cinema, sul giudice e scrittore irpino a cura di Paolo Speranza.
I lungometraggi stranieri in corsa per il Premio Laceno d’oro 44 sono:
dalla Spagna Zumiriki di Oskar Alegria,
dalla Francia Thunder from the Seadi Yotam Ben-David
dal Venezuela La Imagen del Tiempodi Jeissy Trompiz.
Ancore, quattro titoli dall’Italia:
Padrone dove seidi Carlo Michele Schirinzi,
America di Giacomo Abbruzzese,
Giù dal vivo di Nazareno Nicoletti,
Fortezzadi Ludovica Andò e Emiliano Aiello.
Il film vincitore sarà scelto da una giuria di qualità, presieduta da João Botelho, con il critico cinematografico Cecilia Ermini e dal regista Simone Manetti. 
I documentari in gara per il premio Laceno d’oro doc  arrivano da Giappone, Olanda, Belgio, Portogallo e Italia. I lavori saranno giudicati dai registi Erika Rossi e Lo Thivolle, e dal critico cinematografico Matteo Berardini.
In corsa per il premio Gli occhi sulla città, diciotto cortometraggi internazionali, dagli Stati Uniti all’Inghilterra, dal Perù alla Russia.
Il vincitore dei corti sarà scelto da una giuria composta dal direttore della fotografia Ferran Paredes Rubio, dallo scrittore e filmmaker Daniele Ietri Pitton e Vincenzo Madaro, direttore artistico di “Vicoli Corti”.
Il Laceno d’oro, organizzato dal Circolo ImmaginAzione con la direzione artistica di Antonio Spagnuolo in collaborazione con Aldo Spiniello, Sergio Sozzo, Leonardo Lardieri della rivista cinematografica Sentieri Selvaggi e Maria Vittoria Pellecchia, con il contributo di Regione Campania e MIBACT – Direzione Generale Cinema e Audiovisivo. Con il patrocinio della Provincia di Avellino, Comune di Avellino, Comune di Bagnoli Irpino, Ordine dei giornalisti della Campania.  In partenariato con Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio di Salerno e Avellino. In collaborazione con Sentieri Selvaggi, Centro Studi Archivio Pier Paolo Pasolini, Istituto Centrale per la Demoetnoantropologia, Quaderni di Cinemasud, Cactus Film Produzione, Eikon associazione culturale, Coordinamento Festival Cinematografici Campania, Roulette Agency e Godot Art Bistrot, Soprintendenza ABAP di Salerno e Avellino.
Di seguito il programma in dettaglio, l’elenco opere in concorso e Spazio Campania.
Programma giornaliero
Elenco opere concorsi
Elenco opere Spazio Campania
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    Al via il 44esimo Laceno d’oro Otto giorni di grande cinema nel 60esimo anniversario della fondazione del festival Laceno d’oro nel segno di Pier Paolo Pasolini…
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diaridicineclub · 5 years ago
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Premio Cesare Zavattini 2020/21
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Un premio istituito dalla Fondazione AAMOD per incentivare la conoscenza e il riuso creativo del materiale d’archivio.ON LINE IL BANDO DEL V PREMIO ZAVATTINI 20/21 – Scadenza 10 Settembre 2020Possono partecipare giovani filmmaker tra i 18 e i 35 anni di età che vogliano realizzare progetti di cortometraggio attraverso il riuso creativo del cinema d'archivio.Una Giuria selezionerà nove progetti tra quelli pervenuti, i cui autori saranno ammessi a un workshop gratuito di formazione e sviluppo delle loro proposte. Al termine del workshop, condotto da professionisti del settore, la stessa Giuria sceglierà i tre progetti vincitori, che avranno il sostegno del Premio Zavattini per la loro realizzazione:Gli autori potranno utilizzare gratuitamente il materiale filmico della Fondazione AAMOD e degli archivi partner e avranno servizi di supporto per la post-produzione. Per ogni cortometraggio realizzato, inoltre, è previsto un premio di 2.000 euro che sarà consegnato agli autori in una cerimonia pubblica.Il Bando e il Regolamento del Premio, con i relativi format di partecipazione, si possono scaricare dal sito www.premiozavattini.it.Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico | MiBACT | Regione Lazio | Istituto Luce Cinecittà | Cineteca Sarda-Società Umanitaria | Home Movies - Archivio Nazionale del Film di Famiglia | AMM - Archivio delle memorie migranti | Deriva FILM | OfficinaVisioni | Bookciak Magazine | UCCA (Unione Circoli Cinematografici Arci) | FICC Federazione Italiana dei Circoli del Cinema | Radio Radicale | Diari di Cineclub
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basalocastillo · 5 years ago
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#vittoriodesica moría el 13 de noviembre de 1974. Actor y director de cine italiano. Ganador de 4 premios Óscar. Figura clave del movimiento cinematográfico, conocido como neorrealismo italiano, al que contribuyó con dos destacadas películas, escritas en colaboración con Cesare Zavattini. Una de ellas es Sciucià, traducida en España como El limpiabotas (Sciuscià es una deformación de la expresión inglesa «shoe shine»). Este film narra la historia de un grupo de niños que durante la Segunda guerra mundial qse ofrecen para trabajar como limpiabotas para los soldados estadounidenses. La segunda gran obra neorrealista de Vittorio De Sica es su universalmente conocida Ladrón de bicicletas. De Sica se inició en la escena cuando en 1927 ingresó en calidad de segundo actor joven en la compañía de Sergio Tofano, Luigi Almirante y Giuditta Rissone. Después de las dos películas mencionadas continuó con Milagro en Milán, producida en 1950, y Umberto D en 1952. A partir de esta época, De Sica se fue alejando del cine «de autor» para participar en proyectos menos ambiciosos y con una mayor carga comercial. En la década de 1970, volvió el De Sica más personal, con películas como El jardín de los Finzi Contini y el que sería su último filme: El viaje (1974). La crítica destaca asimismo su film de 1960, Dos mujeres. Habría de valerle a Sofía Loren el Óscar a la mejor actriz. Para el rodaje de La puerta del cielo, Vittorio de Sica dio trabajo como extras a alrededor de 300 judíos y otros amenazados por el nazismo. Para evitar su captura y deportación, el director de Ladrón de bicicletas prolongó lo más que pudo el rodaje, permitiendo así que pudieran eludir el cerco nazi-fascista hasta la llegada de los aliados en junio de 1944. #cineitaliano #cineastasitalianos #vıttoriodesica (en Getafe, Madrid) https://www.instagram.com/p/B40fRSvCYSO/?igshid=3bqhp7it8385
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libretaencomposicion · 5 years ago
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«Glauber Rocha sobre Luis Buñuel, fragmento extraído de “Revolução do Cinema Novo”». hinokikinoki: 1. Un hechizo bloquea las puertas de la Iglesia.            Los curas paralizados, los fieles misteriosamente detenidos.            El pueblo estalla en las plazas, aparece la carga de caballería.            Mientras las masas luchan contra la fuerza policial del fascismo, suenan las campanas.            Un rebaño de corderos, manos y serviles, marcha en dirección a los templos. 2. Último maldito de un cine que se perdió en la histeria artesanal, Luis Buñuel nació en Calanda, en 1900; hijo de la misma generación española de Lorca, Picasso, Ortega y Gasset, Miró, Alberti y Dalí, fue con este último que inició su carrera cinematográfica al realizar, en 1929, Un perro andaluz.            Educado por los jesuitas en la adolescencia, asistió a la Universidad de Madrid y posteriormente se marchó rumbo a París: Un perro andaluz fue su carta de presentación para ingresar al grupo surrealista.            Al exhibirse La edad de oro, en 1930, los conservadores lanzaron una bomba de gas en el pequeño cine del barrio latino y rasgaron las obras que estaban expuestas de Max Ernst, Man Ray, Miró, Tanguy y Dalí.            En 1961, Viridiana recibió media Palma de Oro en el Festival de Cannes: la censura franquista perdió el control, inició procesos, expulsó funcionarios y consiguió que el mundo católico rechace la película.            En Francia, André Malraux decía que no podía prohibir una película extranjera premiada en Cannes: era un truco; aun siendo español, Buñuel era considerado por la crítica y el público como parte del “espíritu francés”.            Entre Las Hurdes/Tierra sin pan, un documental sobre esa miserable región española, de 1933, y Viridiana, de 1961, cuando regresó a trabajar en España, la carrera de Buñuel siempre fue arriesgada y accidentada: osciló entre Francia y Méjico; realizó documentales de montaje, hizo doblajes para estudios estadunidenses, transmitió discursos radiofónicos contra el nazismo.            Quince años después de Las Hurdes encontró al mejicano Oscar Dancigers, que le propuso realizar películas comerciales. Buñuel aceptó y comenzó, en Méjico, una producción que estará marcada por tres obras maestras: Robinson Crusoe, 1952; Los olvidados, 1959- premio a la mejor realización de Cannes-; y Él, 1953.            En medio de las películas comerciales, Buñuel consigue insertar algo de su personalidad: realiza un viejo proyecto, Cumbre Borrascosas/Abismos de pasión, 1953, según el texto de Emily Brontë; y Ensayo de un crimen/La vida criminal de Archibaldo de la Cruz, 1955, basado en la novela de Rodolfo Usigli. En ese mismo año, 1955, regresa a Francia y filma Así es la aurora; vuelve a Méjico para realizar La muerte en el jardín, en 1956, pero para esa época ya tenía el suficiente poder dentro del proceso industrial como para conseguir la libertad ansiada durante veintiocho años, desde La edad de oro.            Nazarín, de 1958, irrumpió en el festival de Cannes de 1959, y conquistó el premio especial del jurado; en Los ambiciosos (último trabajo de Gérard Philipe) realizó una crítica feroz de las republiquetas fascistas de América del sur; La Joven, de 1960, ganó en Cannes el premio especial hors-concours; 1961 es el año de Viridiana; 1962 el de El ángel exterminador. 3. Al responder a los periodistas, Buñuel es franco: La moral burguesa es para mí lo inmoral, aquello contra lo que se debe luchar: una moral fundada en base a nuestras injustas instituciones sociales, como la religión, la patria, la familia, la cultura; en fin, esto que se denomina los “pilares de la sociedad”. Sí, he realizado películas comerciales, pero siempre seguí mis principios surrealistas: la necesidad de comer no disculpa jamás a la prostitución del arte. En veinte películas realizadas tengo algunas pésimas, pero nunca traicioné mi código moral. Me opongo a la moral convencional, a los fantasmas tradicionales, a toda esa basura moral de la sociedad introducida en el sentimentalismo. Para mí, Los olvidados es efectivamente una película de lucha social. Simplemente porque me considero honesto conmigo mismo, debo hacer una obra social. Yo sé que voy en este camino. Pero a partir de lo social no deseo hacer películas de tesis. Observo las cosas que me emocionan y quiero transponerlas a la pantalla, pero siempre con esa especie de amor que tengo por lo instintivio y por lo irracional que puede aparecer en todo. Siempre me encuentro lanzado hacia lo desconocido y extraño, que me fascinan sin que pueda saber por qué. Sí, yo soy ateo gracias a Dios; es necesario buscar a Dios en el hombre, lo que resulta mucho más simple… A los sesenta y un años, financiado por el joven productor Gustavo Alatriste, Luis Buñuel trabaja de forma solitaria en Méjico, luchando contra la vejez y la muerte, viril como un hombre de cuarenta, dispuesto a completar la obra cinematográfica más importante de todos los tiempos.            El surrealista irreverente de 1928 se declara viejo como para ir detrás del escándalo: pero cada película que hace estremece las estructuras de la Iglesia y del Fascismo. Dice que no volverá a España mientras sea un territorio católico y fascista: el odio a Franco es el símbolo de su furia contra el Estado totalitario. El odio a la Iglesia es el símbolo de una lucha eterna contra la mutilación del hombre por los dogmas.            En Nazarín es el Cristo traicionado por la Iglesia y perseguido por el Estado el que se escandaliza frente a la piedad humana; Viridiana es el demonio, que se instala para corromper los principios del crisitianismo y liberar al hombre, a pesar de su cinismo, de las deformaciones morales que continuamente adopta como condiciones para sobrevivir; El ángel exterminador representa la falta de piedad por ese mismo hombre que, siendo libre, está sujeto al Estado y la Iglesia.            El surrealista de ayer es el anarquista de hoy: sirve a la revolución en la medida en que ataca las bases de las instituciones del capitalismo.            En la izquierda eterna, contrario al orden establecido, Buñuel será siempre un hombre condenado. 4. De Eisenstein a Visconti y Antonioni, el cine es racionalista, obedeció a una revolución histórica; del expresionismo de Murnau a Orson Welles, dejando herencias en nórdicos y americanos, el cine vivió de explosiones que nunca consiguieron librarlo de sus orígenes teatrales y literarios; de Buñuel y Jean Vigo a Rossellini, el cine desarrolla un camino marginal, caracterizado por la libertad, el misticismo y la anarquía.            Es el cine más ligado a los primitivos, que nace inculto en Griffith, se derrama romántico y pueril en Chaplin y se flagela y congratula estúpido en Fellini; es el mismo cine que se resiste a la industria y les da pelea a los productores, al público, a la censura y a la crítica interesada en servir al buen gusto, la moral, el respeto y la tradición.            Es el origen del nuevo cine, de cine-libre, del cine de autor, de las películas que mataron al “director-monstruo”, a la “vedette-sagrada”, al “fotógrafo-luz”; es la mise-en-scène que se salió del encuadre: la película que dejó de ser una narrativa gráfica de dramas pueriles y literarios para transformarse en una poderosa expresión en manos de hombres libres de los esquemas industriales: el cine político, el cine de ideas; el cine-verdad, de investigación, de Jean Rouch; el cine de reportaje-ficción de François Reichenbach; el documental social de Chris Marker, el cinema novo Brasileño. 5. Gabriel Figueroa, el famoso iluminador mejicano, es uno de los fotógrafos preferidos por Buñuel. Misteriosamente, en estas películas Figueroa aparece diferente, sin nubes cargadas y sin el contraluz romántico.            Respuesta a la prensa francesa: “cuando todo está iluminado y se ha terminado de componer el encuadre, Luis se aproxima, le da un empujón a la cámara hacia la dirección contraria y ordena comenzar el rodaje…”.            El cine no es un monstruo, el mundo no está contenido en los límites de un encuadre determinado por esta o aquella lente.            Rossellini: “El cine es una cosa muy pequeña […] es muy fácil fotografiar un rostro; lo difícil es fotografiar el mundo…”.            Al despreciar años y años de teorías, los libros de Eisenstein, Rudolf Arnheim, Bela Balázs, Umberto Barbaro; respetando al hombre pero nunca a las ideas de André Bazin, así como a aquella dulce pirámide himanista de Cesare Zavattini, Buñuel define su estilo: Nunca tengo problemas con la técnica. Le tengo horror a las películas de ‘angulaciones’, detesto los cuadros insólitos. Con mi operador, cuando él me propone una bella composición, comienzo a sonreír a lo deshago todo, para filmar sin efectos […] Detesto también la mise-en-scène tradicional, el campo, el contracampo […] Amo los planos largos, las tomas en continuidad […] Miro un guión durante cinco semanas y me aburro […] después del ensayo ruedo apenas dos o tres veces cada escena […] si filmo doscientos cincuenta planos, el montaje final tendrá la misma cualidad […] Nada de lujo. 6. El montaje no pretende informar a través de la lógica: despierta, critica, aniquila por la violencia, por la introducción del plano anárquico, profano, erótico- siempre por las imágenes prohibidas en el contexto de la burguesía.            Su estilo es una idea un movimiento- la libertad de esta acción es seguida por un ojo atento a los detalles: la ducha de agua caliente y fría, irregularmente, sin permitir jamás que el espectador pare de pensar.            El diálogo oscila entre lo coloquial y lo poético: el hombre habla siempre según esta o aquella posición frente al problema; la violencia es absoluta contra los débiles: el ciego pateado en La edad de oro, el paralítico torturado en Los olvidados, la abeja aplastada en Ensayo de un crimen, violencia contra los tabúes del amor y del sexo: la imagen de la mujer amada en el sanitario en La edad de oro o la indecisión de las manos de la monja Viridiana frente a las tetas cargadas de una vaca.            Contra las inhibiciones del hombre, las fugas de la masturbación -el solitario y desesperado Robinson vagando por la isla desierta y la homosexualidad que se establece entre él y Viernes; los puños en forma de pene en la cuerda que salta la muchacha en Viridiana, la misma con la que el tío perverso se suicida; las histeria mística de las prostituas que desean al santo, puro, bello y viril cura Nazario; el erotismo en la secuencia del lava pies en Él, cuando estalla en la Iglesia un clima prostibulario; la cámara que pasea sobre las espaldas semidesnudas de la muchacha en La joven; el burgués libertino que abandona una orgía, la fantasía con los trajes de Cristo en el final patético de La edad de oro; la fusión de los símbolos tabúes del sexo y de la Iglesia en la corona  de espinas que la joven quema en el momento en que Viridiana aparece con los cabellos sueltos y el rostro sensual; la mujer apestada de Nazarín quien, recibiendo la extremaunción, expulsa al cura para quedarse en la cama con el marido apasionado -o la Iglesia como prisión eterna del hombre, como sucede al final de Él, cuando el personaje que buscaba la paz en el convento se dirige completamente desorientado hacia la misa; o en la interrupción política y panfletaria del cura Nazario, que se desvía de su camino para decirle duras verdades a un gordo y prepotente oficial del Ejército.            Este montaje -de sugestión, por momentos de crítica rigurosa, en otros casos panfletario, casi nunca hermético- desestructura siempre alguna situación de orden, aquello que el espectador acepta como normal: el poder del Estado, el miedo a Dios expresado en los dogmas católicos, la conciencia en crisis o la necesidad de ser piadoso para estar en paz con uno mismo y con sus semejantes: las fugas, sublimaciones, el culto silencioso de la frustración, la pasividad.            Resulta claro en Buñuel que el fuerte devora impiadosamente al más débil: la zorra caza y devora la gallina en La joven; un gato siempre se arroja sobre un ratón.            En Viridiana, este montaje adquiere, por primera vez, en la historia del cine, un sentido transcendente, superando inclusive el efecto óptico de los clásicos del cine soviético: los mendigos, dirigidos por la monja virgen, abandonan el trabajo en el campo y, al mediodía, se arrodillan para rezar el ave maría.            Imágenes inquietas del trabajo obrero aparecen insertadas irregularmente a medida que los hombres rezan, agradeciendo la felicidad de cada día: la sucesión de estas imágenes de albañiles, carpinteros y aserradores crea, en simultáneo con la gracia religiosa, una monstruosa corriente de esclavización.            Si el montaje es la idea en movimiento, interrumpida por una visión aguda (siempre desprovista de rogor, marcada por la irreverencia poética), la mis-en-scène de Buñuel no resulta menos extraña: Ensayo de un crimen es la gran pieza de mal gusto creada por el cine: la escenografía de estudio vulgar, los actores vestidos de actores; Élse dirige hacia el melodrama y explora las raíces de la esclavitud del hombre común en sus emociones más legítimas y torpes -los actores abren los ojos, hacen discursos, transitan golpeándose por las paredes- como en Robinson Crusoe, en la que el héroe, vestido de cuero y protegido por un paraguas rústico, vaga por la isla con movimientos semicirculares, solitario y libre, buscando al hombre para amarlo y devorarlo.            De Un perro andaluz a El ángel exterminador, Buñuel usa al cine para enfrentar a sus personajes con su propio inconsciente; el hombre desnudo y del revés; por esto precisamente, Buñuel continúa siendo surrealista como Dalí (con quien rompió, acusándolo de servir al gusto fácil de la burguesía), pero lógico hasta donde lo puede ser: la mis-en-scène de lo imprevisto, dirigida siempre hacia el misterio, continúa ligada, sin embargo, al ritmo, a la plástica y a la literatura española: en el Méjico de Nazarín aparece reconstruida España, tanto en las marcas de la arquitectura colonial como en el texto, directamente influenciado por Lorca; las imágenes del agua, de la luna y de los ángeles sensuales permanecen desde Un perro andaluz hasta El ángel exterminador; a pesar de rechazar los encuadres insólitos, Buñuel trabaja con Goya y Miró -en la cena de Viridiana, en las visiones de Robinson en la isla.            Aquello que los franceses buscan de su propia cultura en la obra de Buñuel sería la famosa influencia del surrealismo: sin embargo, Buñuel sólo conoció a André Breton después de Un perro andaluz y nunca se transformó en un portavoz de las ideas generales del grupo.            Francia, con la nouvelle vague capturada por las lecciones de Buñuel (aun con sus problemas y su coraje: el anarquismo epidérmico de Godard, la maldición pequeño-burguesa de Traffaut, el trabajo artesanal de Resnais inspirado en La edad de oro, tanto en las imágenes como en el sonido), no puede aceptar que el genio de su cine sea español.            Por eso, en un país moralista, la censura libera a Buñuel: París es el único lugar del mundo en el que sus películas son estrenadas sin cortes. 7. El cura Nazario es el hombre puro, piadoso, penitente. Acoge a una prostitua criminal y, en legítima defensa, entra en conflicto con la Iglesia. Para evitar escándolos, deja los hábitos y recorre el mundo como peregrino, dando pan y ropa, cuidando de los apestados y escenificando -contra su voluntad- milagros para llevarles algo de felicidad a los humildes.            Tras la partida de Nazario, la prostituta Andara incendia la casa miserable del cura y corre detrás del protector, seguida por otra amiga. Acusados de complicidad, son perseguidos.            Detenido, a Nazario lo arrojan a una fosa criminales; es golpeado, violado.            Liberado, zaparrastroso y hambriento, encuentra en el camino a una viejita que le ofrece un ananá como limosna.            Con la fruta suspendida en las manos, atontado y escandalizado, Nazario sigue su camino. 8. Nazarín, Viridiana y El ángel exterminador constituyen la trilogía que ofrece el camino más definido para descubrir a Buñuel.            La libertad, el cinismo, el humor y la irreverencia no son marcas en las que habría que reconocer una posición anarquista. Si tanto en Los olvidados como en Las Hurdes y Los ambiciosos el autor realiza una obra de nítido carácter social y político; si Buñuel enfrenta la moral de la Iglesia y del Estado, sin tomar posición en términos moralistas; si no acepta para sí mismo ninguna forma de orden vigente, esto no significa que niegue la posibilidad de un orden nuevo.            No se opone a realizar obras didácticas porque se niegue  a defender la moral.            No es un individualista a partir de su preocupación por las raíces de la esclavitud del hombre.            Al descubrir en las entrelíneas la felicidad extrema del amor y del sexo, lo que Buñuel propone es un orden nuevo, que parte de la absoluta libertad. 9. En Nazarín observamos a un héroe esclavizado por la Iglesia que en ningún momento recurre al engaño, ni siquiera cuando se ve obligado a contrariar la fe que deposita en sus poderes la madre desesperada que pretende salvar a su hijo enfermo.            Es el mismo héroe que, herido en la carne por la estupidez humana, condena la frase final de Cristo en la cruz, el patético “perdonadlos, porque ellos no saben lo que hacen” y que, al salir de prisión, queda semiloco cuando recibe la limosna.            Buñuel no detesta a la masa, pero critica al pueblo que, capturado por la historia, puede seguir el destino de los fascistas.            Lo que busca en la tragedia del cura Nazario es la propia tragedia de quien se aniquila a sí mismo por el servilismo: devela las fuentes que carecen de lógica, pero exige racionalidad. Busca un orden de hombres libres, lúcidos frente a su libertad -no existen principios de ley que justifiquen la opresión de la humanidad: por eso, Nazario llega hasta un oficial del Ejército, que antes había humillado al pobre caminante, y puede decirle duras verdades.            Al querer hacer la revolución a través de la conciencia libre de cada hombre, entre la izquierda y la derecha, representa la particular tercera posición de quien no acepta el mundo capitalista, católico y burgués, de quien duda del nuevo mundo que se construye en nombre de la Historia.            Buñuel, por su parte, apostará siempre por la sociedad en la cual el hombre pueda ser más libre; a pesar de que algunos apresurados lo clasifiquen como anarquista de derecha, Buñuel, después de Viridiana (gran suceso en la Cortina de Hierro) y Los ambiciosos (la más violenta bofetada que la dinastía de los Francos y los Batistas podía recibir), se mantuvo siempre de buenas relaciones con los comunistas.            El ángel exterminador recibió el gran premio del festival jesuita de Sestri Levante, coronación de Italia, que confundió a la izquierda y la derecha. 10. “Soy ateo gracias a Dios…la Iglesia traicionó a Cristo…” -declaró seriamente.            Su mayor héroe es un cura al que el clero no le hizo justicia.            Muchos artistas recurren a Cristo para fabular en el mundo de hoy.            En el caso de Buñuel, es diferente: desde Un perro andaluz los elementos de la mitología católica marcan su obra.            Hay quien dice: “vocación frustrada de jesuita…un místico inadaptado…”. Cuando rodaba Él, vistió una sotana para dirigir a Arturo de Córdova; estudió, sobre todo, la vida de los santos -fue educado por los jesuitas y es hijo de España, tierra católica.            Desprovisto de las visiones surrealistas, Nazarín constituye su tentativa de encontrarse con el mundo -sería algo así como el autor sin su máscara, si fuese posible identificar en esta fábula una lección para la Iglesia.            El dolor autobiográfico: “miren, los mejores hombres están afuera, por su culpa…”.            La sospecha no parece infundada, porque nunca un héroe fue tan amado en el cine.            Ningún gesto de piedad hacia el héroe masacrado: dominados por el escándalo del inesperado humanismo imposible, Buñuel y el cura Nazario se quedan tontos con un ananá en las manos.            Después de Nazarín, realizó La joven: “las vírgenes más terribles son las de trece años…”. Esta es una película decadente, un tanto perezosa, aunque tal vez discreta frente a Viridiana: “las vírgenes más terribles son las monjas…”. Pero luego vino Los ambiciosos.            Para Buñuel, Viridiana es el virus que se instaura en la Diosa. La duda de Robinson caminando en semicírculo: de Nazarín a Viridana es otro círculo que se desarrolla. Con un ananá en las manos, atontado, en este caminar por los mismos caminos, retorno al convento escuchando el “Aleluya” de Händel y encuentro a la casa Viridiana en la paz de un claustro.            Allí, la joven va a visitar a su tío; él intenta abusar de ella, pero consigue dominar sus instintos; luego, intenta que se quede en su casa, mintiendo; la joven parte; atormentado, el tío se ahorca; la joven sufre una crisis de conciencia; abandona el convento y hereda la estancia del tío; recoge mendigos y realiza obras de asistencia social; los mendigos inician el desorden; uno de ellos intenta abusar de ella por segunda vez; Viridiana roma conciencia de la carne; se suelta los cabellos; jugará a las cartas siempre con el viejo Jorge, que no es otro sino Francisco Rabal, el creador del cura Nazario.            El cura es virgen: lo que la prostituta Andara siente por él es amor, deseo sexual.            Cuando su tía le pregunta si aquella adoración religiosa no contiene otras emociones, Andara abre los brazos y grita histéricamente: “¡Calumnia! ¡Calumnia!”.            Toda la carga erótica de Viridiana es desplazada hacia la adoración del pequeño Cristo crucificado que trae consigo: al llegar a la casa del tío, en su cuarto, se quita el hábito.            La cámara muestra discretamente sus bellas piernas y surge la mujer, en el preciso momento en que la santa se desviste.            En la sala, el tío toca el Réquiem de Mozart.            En el cuarto, Viridiana, de camisa blanca, la reza a su Cristo.            A la mañana siguiente, va hacia el corral y observa a un hombre ordeñando una vaca; intenta hacerlo ella; su mano, crispada, se detiene sobre las ubres cargadas, fálicas.            Buñuel explica: “Cuando estudiaba con los jesuitas, los curas reprimían nuestros instintos sexuales y toda nuestra energía era empleada en el fervor religioso […], a la noche, silenciosamente, nos masturbábamos delante las imágenes de la Virgen María…”.            El cura Nazario no se entrega al pecado de la carne: se queda con el ananá en las manos, casto y puro.            Viridiana no se desespera.            Toma conciencia del sexo, de la santidad inútil, de un mundo que no puede ser enfrentado con la pureza del cura Nazario y sí con la naturalidad de quien inicia su proceso de identificación realizando primero el sexo, para después realizar las ideas.            “Para mí -dice Buñuel-, Viridiana es más virgen después de dormir con Jorge…”.            Esta película muestra otro camino para reconocer al autor en los dominios de la Iglesia. En la última cena, Cristo ya sabía que Judas era el traidor. Como un Judas anárquico, trabajando de actor, Buñuel preside el segundo banquete de la traición, instaura la bacanal y despierta en los humildes los más bajos instintos: la bacanal que no se ve en La edad de oro. “Para celebrar la más bestial de las orgías, permanecieron encerrados en aquel castillo inexpugnable ciento veinte días; eran cuatro criminales que no tenía otro Dios más que la lujuria, otra ley sino su depravación […] sin principios, sin religión […] la mayor infamia que nadie podría nombrar […] ellos habían hecho entrar al castillo, únicamente con el objetivo de servir a sus inmundos deseos, a ocho maravillosas jóvenes, ocho espléndidas adolescentes, y para que su imaginación ya corrompida por el exceso fuese excitada continuadamente, ellos habían traído también a cuatro mujeres depravadas que alimentaban incesantemente la voluptuosidad criminal de los cuatro monstruos…”. Esos fragmentos del cartel que precede a la secuencia del final de La edad de oro, son una especie de guión para una orgía, que los mendigos realizan en la casa piadosa de Viridiana.            La Iglesia tiembla otra vez, pero no existe un sólo detalle de mal gusto, ningún impacto fácil.            La burguesía no aplaudió -a través de la liberación de la carne y de los instintos criminales, Buñuel reveló la fase trágica de todas las clases.            ¿Y de ahí? No tengo más el ananá en las manos, juego a las cartas con el sexo, prefiero escuchar un rock&roll. 11. El ángel descendió con su hechizo, cerró las puertas; no se puede entrar ni salir de la lujosa mansión, donde hay un grupo de aristócratas.            Pasan algunos corderos, un oso.            El pueblo no puede trasponer las rejas del jardín, toda la ciudad se moviliza.            ¿Donde está ahora, algunos días después, aquella seriedad?            Los hombres andan semidesnudos y con barba, los elegantes vestidos están rasgados, todos se disputan un caño de agua que extraen de la pared.            La pareja se encierra en el armario -suicidió. Otro hombre muere de hambre.            La visión del cielo simple, una estampita de Cristo rodeada de flores, nieve de algodón de pesebre -la ingenuidad frente a la cámara que circula trágicamente por aquella sala hasta que alguien, señalado por un milagro, descubre la clave.            Deben buscar los mismos lugares que ocuparon anteriormente, en la primera noche, cuando estaban sentados en la mesa. Debe sonar la misma música.            Recuperar la tranquilidad.            En la Iglesia, se celebra una misa a modo de tributo por el milagro.            El hechizo cierra las puertas, encierra a los curas: el pueblo estalla en la plaza, los corderos entran a la Iglesia.            ¿Qué significa la última secuencia de El ángel exterminador? ¿Una declaración de que la Iglesia y el fascismo van de la mano?            Salida que se le abre a quien está jugando a las cartas con el sexo y escuchando rock&roll -¿mostrando que el mejor camino es aquel que lleva a las plazas y no a los templos?            ¿El anarquismo se encontraría en crisis? ¿El hombre libre precisa disciplinar la libertad y la violencia para fines políticos? Los planes finales de El ángel exterminador son rápidos e incisivos: en la plaza, con la toma del periódico de actualidad, la visión es dramática; rumbo a las iglesias los corderos, en un tiempo breve, están en la frontera del humor. 12. Luis Buñuel, a los sesenta y cinco años, declarando que ya no está en edad para hacer escándalos, realiza otra película en Méjico, Simón del desierto [1964-1965].            Gustavo Alatriste, joven millonario, financia a un hombre que detesta Hollywood, buscado por el Vaticano y por la policía de Franco, que no tiene compromisos con nadie: maldito en la industria, Buñuel esperó más de treinta años para conseguir libertad de expresión.            Se convirtió en el cineasta más importante de todos los tiempos y en uno de los artistas más extraños de nuestra época.            Si esta última película -todavía inédita- no termina siendo una opción entre la plaza y la Iglesia, se orientará hacia los mismos caminos de antes y se podrá encontrar con el Michelangelo Antonioni de El Eclipse (1962- la destrucción del cine figurativo, la reducción del hombre a objeto) o con el Rossellini místico de la entrevista que niega al cine, al arte y al pensamiento, exigiendo el dominio axiológico de la ciencia.            Último maldito, Buñuel no tendrá seguidores.            El otro plano, según su amigo y productor Oscar Dancigers “lleva una vida tranquila, de burgués padre de familia, económico y modesto […] ama beber, comer, buscar a los raros y buenos amigos…”. Traducción del portugués: Hinoki Kinoki
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marcogiovenale · 3 years ago
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macro / giuseppe garrera: omaggio a lorenza mazzetti, in occasione della giornata della memoria
macro / giuseppe garrera: omaggio a lorenza mazzetti, in occasione della giornata della memoria
continua qui (immagini e vicende, fino alla fondazione del “Free Cinema Movement” e al ritorno in Italia): https://www.museomacro.it/it/extra/parole-it/giornata-della-memoria-un-omaggio-a-lorenza-mazzetti-il-cielo-cade/ _
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italianaradio · 6 years ago
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PENTEDATTILO FILM FESTIVAL Ultime proiezioni al cinema Nuovo di Siderno
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PENTEDATTILO FILM FESTIVAL Ultime proiezioni al cinema Nuovo di Siderno
PENTEDATTILO FILM FESTIVAL Ultime proiezioni al cinema Nuovo di Siderno
Oggi ultimo giorno di proiezioni dei cortometraggi da tutto il mondo in occasione del tour conclusivo della XII edizione del Pentedattilo Film Festival. “A Siderno, al Cinema Teatro Nuovo, le ultime occasioni per vedere una selezione dei migliori cortometraggi piu’ rappresentativi del momento, tra quelli premiati a Pentedattilo lo scorso novembre. Tutto pronto per una programmazione ricca di corti in lingua originale e sottotitolati per la seconda e ultima matinée, destinata alle scuole secondarie di secondo grado del territorio, e per la maratona di proiezioni programmata per stasera alle ore 20:30. Siamo particolarmente contenti di questa collaborazione con il Cinema Teatro Nuovo di Siderno che ci consente di concludere nella Locride questa XII edizione del PFF“, hanno commentato il direttore artistico del Pentedattilo Film festival, Americo Melchionda, e la direttrice di produzione, Maria Milasi.
 Per le delegazioni dell’istituto di Stato Industria e Artigianato (Ipsia) e dell’istituto professionale Statale Servizi Alberghieri e Ristorazione di Siderno e del liceo Scienze Umane e Linguistico Giuseppe Mazzini di Locri, i cortometraggi Event Horizon (Regno Unito 2016) di Joséfa Celestin e Nightshade (Olanda 2018) di Shady El-Hamus esplorano i delicati temi dell’adolescenza e del bullismo, dell’immigrazione e del destino che i padri scrivono per i figli. La multiculturalità e i conflitti familiari generati dalle scelte di vita sono al centro del corto di Hleb Papou (Italia 2017) intitolato Il legionario mentre il travaglio dell’identità in una società avvezza ai pregiudizi è il tema trattato nel video musicale Ultrasound – Kon Tiki (Regno Unito 2016) di Andrew Rutter, premiato in concorso con la menzione d’onore sezione Music video del PFF e vincitore del New Renaissance Film Festival di Londra. I confini geografici e le barriere culturali che degenerano in conflitti e persecuzioni sono raccontati con ironia da Mark Playne in 2 by 2 (Turchia 2017) mentre la Storia che si intreccia con la quotidianità di una bambina rimasta libera nel pensiero ai tempi del Fascismo si dipana nel corto di Letizia Lamartire Piccole Italiane (Italia 2017). L’incontro tra cinema e danza contemporanea nella cornice di un istituto di cura singolare almeno quanto l’inabilità da curare, ossia quella di smettere di ballare, viene raccontato da Jessica Wright e Morgann Runacre -Temple in Curling Albrecht (Regno Unito 2017), commissionato dall’English National Ballet, prodotto in collaborazione con il Manchester International Festival e premiato dalla direzione artistica e dai selezionatori del Pentedattilo Film Festival per la migliore Colonna sonora. A completare il mosaico della matinèe la proiezione di Nina di Mario Piredda (Italia 2017), uno dei sei cortometraggi che compongono la Webseries 13.11, ambientata in sei città europee nel giorno degli attentati di Parigi del 13 novembre 2015, prodotta in Italia da ElenFant Film nel 2017 e proiettata interamente, per la prima volta in Calabria, al cinema Metropolitano nell’ambito della tappa di Reggio del tour conclusivo della XII edizione del Pentedattilo Film Festival.
C’e’ gia’ grande attesa per il gran finale, stasera alle ore 20:30 sempre al Cinema Teatro Nuovo di Siderno. Una serata che si preannuncia imperdibile con la proiezione di Debout Kinshasa! (Francia – Congo 2016) di Sebastien Maitre, vincitore ex aequo con Ce qui nous tient (Francia 2017) di Yann Chemin del premio miglior cortometraggio nella sezione Territori in movimento a Pentedattilo e destinatario del premio della Critica assegnato dal circolo del cinema Cesare Zavattini. Esso apre una riflessione sull’infanzia, sui diritti negati in alcuni angoli di mondo afflitti dalla povertà e sulla perseveranza e l’incrollabile forza d’animo di un ragazzino africano che non si arrende di fronte alle molteplici difficoltà. Ed ancora in programma Curling Albrecht (Regno Unito 2017) di Jessica Wright e Morgann Runacre-Temple, A Hand of Bridge (Usa 2017) di David Miller, ispirato all’omonima opera teatrale di Samuel Barber e incentrato su un tavolo da bridge attorno al quale i giocatori, in realtà due coppie, segretamente desiderano, sognano e riscoprono le loro paure. Poi ancora Retouch (Iran 2017) con il quale il regista Kaveh Mazaheri ambienta la storia nell’angolo di una casa dove un incidente, del tutto inaspettatamente, schiude ad una donna e alla sua piccola la possibilità di una nuova vita. Questi ultimi due corti sono stati premiati dalla direzione artistica e dai selezionatori del Pentedattilo Film Festival rispettivamente per il miglior Suono e la migliore Sceneggiatura. Retouch è anche un corto vincitore del premio Best Narrative allo short Tribeca film Festival di New York, fondato da Robert De Niro, e del premio Best Live all’Action Palm Springs ShortFest.
Sul grande schermo stasera anche la storia familiare dai toni scanzonati, divenuta la storia di un intero quartiere, dal titolo He said: “Mommy” (Russia – Georgia 2017) di Arsen Agadjanyan. Particolarmente apprezzata la performance dell’attore Loria Mamuka al quale la direzione artistica e i selezionatori del Pentedattilo Film Festival hanno assegnato il premio di Miglior Attore. Infine spazio anche per il cortometraggio di ispirazione shakespeariana Macbeth (Polonia 2017) di Przemysław Wyszyński e Maciej Pukzynski e per un altro affresco adolescenziale segnato da un trauma, intitolato Fifteen (Belgium – Egypt 2017) di Sameh Alaa, rispettivamente premiati dalla direzione artistica e dai selezionatori per il miglior Editing e la miglior Regia.
Stasera, inoltre, nella sezione Cineducational sarà assegnato un riconoscimento al corto piu’ apprezzatto dagli studenti nell’arco dell’intera manifestazione. Sarà anche proiettato il trailer del cortometraggio Respira diretto da Lele Nucera, attore e regista della Scuola nazionale Cinematografica della Calabria.
Siderno, 26 marzo 2019
        Oggi ultimo giorno di proiezioni dei cortometraggi da tutto il mondo in occasione del tour conclusivo della XII edizione del Pentedattilo Film Festival. “A Siderno, al Cinema Teatro Nuovo, le ultime occasioni per vedere una selezione dei migliori cortometraggi piu’ rappresentativi del momento, tra quelli premiati a Pentedattilo lo scorso novembre. Tutto pronto per una
Gianluca Albanese
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indie-eye · 7 years ago
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Il premio Cesare Zavattini è un'occasione da non perdere per i giovani filmmaker professionisti e non https://ift.tt/2sDxSa6
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pangeanews · 5 years ago
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Il canone inverso di Tondelli. Quando “Vicky” spostò l’asse della letteratura italiana sulla riviera romagnola. I suoi eroi? Panzini e Arfelli, Zavattini e Guareschi, Pasolini e Scerbanenco
Un weekend postmoderno a Riccione. Qualche anno fa – l’esito ha una data, il 2015 – ho avuto la fortuna di avventurarmi dentro alcune carte di Pier Vittorio Tondelli, quasi ignote, per lo più ignorate. Il pretesto fu l’edizione numero 53 del Premio Riccione. Che c’entra Tondelli con Riccione? Beh, tra Rimini & Riccione, all’epoca lampeggiante California italiana della dissipazione, dello scialo, della moina sull’edonismo radicale, si compie il genio di PVT. Nello stesso anno in cui Bompiani pubblica Rimini (romanzo bruttino e stagionato), è il 1985, nello stesso giorno in cui compie 30 anni, il 14 settembre, Tondelli vince una sezione del Premio Riccione, il Premio speciale Bignami, per un testo che s’intitola La notte della vittoria (“un’opera dal dialogo asciutto e ironico, che segna l’ingresso in teatro di un giovane autore già noto per i suoi romanzi”, così la comunicazione della giuria), che PVT, tramite una lettera del 3 settembre 1985, dieci giorni prima della serata di gala, rinomina Finali di partita per poi battezzarlo Dinner Party, testo, per la verità, mai andato in scena ad autore vivente. Per la cronaca, dalla bagarre del premio fu escluso un altro scrittore quasi coetaneo di Tondelli e baciato da analogo successo, Andrea De Carlo, che aveva partecipato con Time Out, su partitura di Ludovico Einaudi.
Dagli Archivi del Premio Riccione, una lettera di Pier Vittorio Tondelli a Nico Naldini
Antologia della letteratura adriatica. Premessa: gli archivi del Premio Riccione sono una miniera. Quasi inesplorata. Nel 1947, ormai è storia bibliograficamente acquisita, è passato dal Premio Riccione Italo Calvino, con Il sentiero dei nidi di ragno (da leggere lo studio eccellente di Andrea Dini, Il Premio nazionale “Riccione” 1947 e Italo Calvino, 2007). Costretto a vincere per ragioni “di partito”, il romanzo sulla Resistenza sarà pubblicato qualche mese dopo da Einaudi, surfando sull’alloro riccionese. Ma da Riccione sono passati in tanti, da Enzo Biagi (erano gli anni Cinquanta e il futuro giornalista sperava di far fortuna come drammaturgo) a Tullio Pinelli, da Enrico Vaime a Dacia Maraini (che vince tre edizioni), da Franco Quadri a Luca Ronconi e Ugo Chiti. Lasciando manoscritti, lettere, telegrammi e documenti vari. E soprattutto, una storia ancora da narrare e documentare. Come quella di Tondelli e della sua impresa più importante: costruire “una grande mostra sulla città di Riccione”, o meglio, “fare di Riccione la città mitica dell’immaginario italiano di questi ultimi sessant’anni”, attraverso un potente lavoro di ricerca letteraria. L’ambizione di Tondelli ha successo: la mostra-monstre Ricordando Fascinosa Riccione, dedicata a investigare “Personaggi, spettacolo, mode e cultura di una capitale balneare” si realizza il 22 giugno del 1990, è cementata in un catalogo edito dalla bolognese Grafis e ripreso (ampliato e analizzato) nel 2005, all’interno del libro curato da Fulvio Panzeri, Riccione e la Riviera vent’anni dopo (in questo caso, stampa Guaraldi). Nello specifico, Tondelli si occupa di Immagini letterarie di Riccione e della riviera adriatica, costruendo una antologia di autori che va da Sibilla Aleramo a Valerio Zurlini, passando per la Romagna di Alberto Arbasino (in Fratelli d’Italia), per le poesie di Tonino Guerra e di Raffaello Baldini, per l’Igea Marina di Giovannino Guareschi e naturalmente per la Rimini di Tondelli medesimo. L’esito, secondo gli appunti privati di Tondelli, è che la “storia letteraria della riviera adriatica non ha nulla da invidiare a quella di Viareggio così ricca di premi, presenze e pagine prestigiose”, insomma, “si pensa sempre alla riviera adriatica come un luogo balneare pop e middle class. In parte è vero. Ma la nostra ricerca dimostra che questi luoghi hanno un passato non solamente esclusivo, ma anche intellettuale assai prestigioso”. Tondelli lotta contro l’immaginario della Riviera trash (sono quelli gli anni di Rimini, Rimini e di Abbronzatissimi), esalta Il mare d’inverno (in un celebrato articolo su “Rockstar” del 1989), dove la spiaggia di Riccione si converte in qualcosa di esistenziale che sta tra il “deserto nordafricano” e l’inquietudine “in riva all’oceano, nel Maryland o nel Delaware”, bastona “i nostri scrittori, democratici e pop, [che] preferiscono altre mete. Si turano il naso: Riccione? Per l’amor di Dio! Rimini? Basta, basta! E non hanno mai messo piede su questa spiaggia”.
Un biglietto autografo di Tondelli a “Marolì”, mitica factotum del Premio Riccione
Il canone inverso. La conversione passa, si sa, per l’atto culturale. Tondelli ce la mette tutta. “Non dico che abbiamo avuto dei premi Nobel, ma basterebbe valutare l’importanza di queste spiagge nell’opera di autori del Novecento per parlare di un ruolo importante nella prosa novecentesca”, scrive, ancora, in quel foglio inedito. Nel suo “canone inverso” Tondelli, aiutato dal professore bolognese Alberto Bertoni e con qualche dritta di Ezio Raimondi, imbarca Alfredo Panzini e Dante Arfelli, Alfredo Oriani e Riccardo Bacchelli, Marino Moretti, Renato Serra, Cesare Zavattini, Guido Piovene, Giorgio Scerbanenco (“le spiagge di Rimini, di Riccione e di Cervia devono essergli parse il contraltare estivo della Milano in cui si muovono i suoi ruffiani”), Filippo De Pisis, Francesco Leonetti. Una squadra che non scherza. E che Tondelli avrebbe voluto esaltare costruendo una sezione degli “antecedenti letterari”, compilando “una piccola antologia tematica sul mare: Dante, Tasso, Daniello Bartoli, Ippolito Nievo”. A questa antologia anticanonica Tondelli lavora come un matto, per due anni. Gli archivi del Premio Riccione testimoniano l’opera attraverso una ricca massa di lettere inedite: a Einaudi, alla Fondazione Mondadori, a Feltrinelli. E in particolare a Tonino Guerra (“potresti essere così gentile da orientarmi nella ricerca?”), a Maria Corti, a Nico Naldini (“Le scrivo dunque per chiederle, in riferimento al suo prezioso lavoro su autori come Comisso o Pasolini, se può segnalarmi qualche pagina o aneddoto riferito alle villeggiature riccionesi”), grazie al quale ottiene le fotografie di Pier Paolo Pasolini giovinetto sulla spiaggia di Riccione e le prime testimonianze scritte del poeta: “una lettera di Pier Paolo bambino a suo padre da Riccione”, oltre agli “originali autografi dei Quaderni Rossi di Pasolini, dove appunto si parla di Riccione” (Naldini). Una lettera al figlio di Guareschi, poi, testimonia la passione di Tondelli per Giovannino (“non poteva mancare la presenza di Guareschi…”), i cui libri “ho poi avuto modo di leggere con grande godimento e piacere”. Tondelli – più decadente che avanguardista – ha capito che i luoghi esistono finché uno scrittore si ostina a setacciarli: se Cesare Pavese vedeva l’Ohio nelle Langhe, Pier Vittorio sognava la costa americana da una spiaggia romagnola. Che poi la Riviera non sia più “discoteche fino al mattino”, “amoreggiare dietro le cabine al chiar di luna”, “sepolto di garganelli e piadine durante il giorno, a prendere il sole nel tardo pomeriggio in compagnia di qualche belva” è un fatto, si sa. I luoghi cambiano e gli scrittori attualmente dormono. (Davide Brullo)
*In copertina: Pier Vittorio Tondelli a Riccione, fotografato da Fulvia Farassino
  L'articolo Il canone inverso di Tondelli. Quando “Vicky” spostò l’asse della letteratura italiana sulla riviera romagnola. I suoi eroi? Panzini e Arfelli, Zavattini e Guareschi, Pasolini e Scerbanenco proviene da Pangea.
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tlmmagazine · 7 years ago
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di Marta Zoe Poretti
"Grazie a questa incredibile giuria e la sua incredibile presidentessa(…) Grazie ai produttori e tutti quelli che hanno reso possibile questo film e questa sceneggiatura bislacca, grazie per averla preso seriamente come i bambini prendono seriamente i giochi.”
Così Alice Rohrwacher ha ringraziato la giuria di Cannes e Cate Blanchett, che hanno scelto di premiare il suo Lazzaro Felice per la Migliore Sceneggiatura. Come per Marcello Fonte, Miglior Attore grazie Dogman di Matteo Garrone, quella della giuria è una linea precisa: premiare la diversità, il coraggio di un cinema che prende solo strade traverse, capace di mirare al cuore senza cedere alle lusinghe dello spettacolo, né agli artefatti tipici dell’autorialità (vera o presunta).
Il cinema italiano conquista così il Festival di Cannes 2018, con due film che non potrebbero essere più diversi, eppure hanno un sostanziale punto in comune: raccontare la tenerezza, attraverso due protagonisti dal candore assoluto, esclusi brutalmente dalla società e dagli uomini. Come a dire che bontà, gentilezza e dedizione rappresentano ormai un dato non realistico, un sintomo di alienazione, o forse la più inaccettabile tra le provocazioni.
Lazzaro Felice arriva oggi nelle nostre sale. Fin dal primo fotogramma, il terzo lungometraggio di Alice Rohrwacher dichiara la sua diversità, che parte dalla scelta di girare il film in 16 millimetri. Lontana dall’estetica del digitale, ma anche dalla perfezione del 35 millimetri (suo nobile fratello maggiore), il 16mm è la pellicola delle avanguardie e del cinema a basso costo, la cui grana spessa, non perfettamente definita risulta oggi quasi straniante. Nell’era del 4K, la scelta stessa del Super16 rappresenta un invito: abbandonarsi a una fiaba insolita, dai tempi dilatati, imperfetta e fuori dal tempo.
Lazzaro (Adriano Tardiolo) è un mezzadro: come a dire uno schiavo, la cui vita appartiene e dipende dalla Marchesina Alfonsina De Luna (Nicoletta Braschi). Il ragazzo non conosce altra realtà che l’Inviolata, le sue piantagioni di tabacco, il casale dove vive con Antonia (prima Agnese Graziani, poi Alba Rohrwacher) e altre decine di contadini, ammassati come fossero bestiame. Come ogni estate, la Marchesa raggiunge l’Inviolata con suo figlio Tancredi (Luca Chikovani). A differenza della madre, il Marchesino odia la tenuta, e nel disperato tentativo di sfuggire alla noia, sceglie come amico proprio Lazzaro. La bontà di Lazzaro ne aveva già fatto una sorta di scemo del villaggio: quello a cui tutti si rivolgono quando hanno bisogno di qualcosa. Ma tra l’indolente nobile e il candido ragazzo, nasce un’amicizia istantanea e vera. Un legame così autentico che finirà per rivoluzionare la vita di tutti, rompendo quel “grande inganno” che esclude l’Inviolata dalla realtà.
Lazzaro felice è un film senza coordinate: attraversa lo spazio e il tempo, mescolando presente e passato, la realtà più cruda e l’incanto della fiaba. Ma le differenze tra città e campagna, libertà e schiavitù non si rivelano che illusorie. Da Vetriolo e Bagnoregio, dagli scenari del viterbese a Castel Giorgio e la provincia di Terni, fino a una strana modernità metropolitana (che è il mash-up di Milano, Torino e Civitavecchia), il film di Alice Rohrwacher racconta una ferita italiana: ancora quella illustrata nel 1975 da Pier Paolo Pasolini con “La scomparsa delle lucciole”. Una società che ha annientato i valori della cultura rurale, senza riempire il vuoto di autentico progresso.
Uno scenario ferale, dove la sopraffazione e l’esclusione dei più deboli si consolida come norma, finalmente invincibile, già che non corrisponde più a una Signora Marchesa, ma al muro senza volto di una società intera.
lazzaro felice
lazzaro felice
lazzaro felice
  Sia il film di Alice Rohrwacher che Dogman di Matteo Garrone sono l’esempio di un cinema italiano finalmente moderno, che conosce e interpreta le sue radici, su tutte la lezione neorealista: infinitamente replicata, ma raramente così meditata, compresa e riscritta nell’ottica di un racconto contemporaneo.
Con Dogman, Garrone proietta una leggenda della cronaca nera (quella del Canaro della Magliana) nel tempo presente e nello spettrale scenario del Villaggio Coppola di Castel Volturno. Un luogo letteralmente ai confini della realtà, paradiso balneare della criminalità organizzata, ormai tetro monumento alla speculazione edilizia.
Se Garrone è tornato alla stessa location de L’imbalsamatore (2002), anche il legame con Primo Amore (2004) è dichiarato: il volto sinistro e beffardo di Vitaliano Trevisan (che del film era protagonista e sceneggiatore) è tra i primi ad accogliere l’arrivo di Marcello in carcere.
Marcello Fonte è Dogman ma resta Marcello: il premio a Cannes per il Miglior Attore è anche un premio per l’autore, che (ancora una volta) ha scelto un attore vissuto ai margini dello spettacolo per interpretare un uomo ai margini della società. Più oltre, il lavoro di Garrone con Marcello Fonte trova un equilibrio irripetibile tra tragedia classica e quella “teoria del pedinamento” che è alla base della nascita del Neorealismo.
In Dogman, come nella tragedia classica, il destino dell’eroe è noto fin dall’inizio, mentre la storia procede fatale verso una rovina ineluttabile.
Il dispositivo più antico e potente della tragedia incontra qui il cinema di Cesare Zavattini: l’idea di pedinare il personaggio, in un corpo a corpo che rivela attraverso espressioni e gesti comuni l’anima profonda del personaggio.
Dogman diventa così una perfetta tragedia contemporanea, dove umanità e verità si rivelano nel paradosso dell’alterazione iperrealista.
dogman di matteo garrone
marcello fonte, dogman
dogman di matteo garrone
  Meno perfetta la pellicola di Elice Rohwacher, bislacca per la sua stessa autrice, che rinuncia all’equilibrio e rifiuta la dittatura del ritmo, perché risplenda la magia del silenzio, dei primi piani, del suo Lazzaro.
Anche il realismo magico di Lazzaro felice, fiaba e racconto morale dal sostrato dichiaratamente politico, è intimamente legato al Neorealismo e la sua rivoluzionaria idea di profondità e “pedinamento”.
Per questo, poco importa delle imperfezioni: in un mercato impazzito, schiavo di continue nuove uscite (destinate presto a bruciarsi in nome della moltiplicazione dell’offerta) Dogman e Lazzaro felice sono l’affermazione di un cinema necessario, dalla vera urgenza narrativa, che domanda tempo, sensazioni e tutta la nostra attenzione.
#thelovingmemory
#Dogman #LazzaroFelice
#Dogman e #LazzaroFelice : cosa raccontano i film italiani premiati a #Cannes di Marta Zoe Poretti "Grazie a questa incredibile giuria e la sua incredibile presidentessa(…) Grazie ai produttori e tutti quelli che hanno reso possibile questo film e questa sceneggiatura bislacca, grazie per averla preso seriamente come i bambini prendono seriamente i giochi.”
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