#NEI PETTI DEGLI ALTRI
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MAHMOOD
#non posso evitare di dirlo#NEI PETTI DEGLI ALTRI#scusate#ma questa battutaccia vive rent free nella mia testa da almeno una settimana#mahmood#summer tour
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Citazioni latine
Citazioni e frasi latine Citazioni latine e frasi latine di uso comune nella lingua italiana e non solo. Raccolta di citazioni, frasi latine e pillole di saggezza degli antichi latini. Il latino è una lingua precisa, essenziale. Verrà abbandonata non perché inadeguata alle nuove esigenze del progresso, ma perché gli uomini nuovi non saranno più adeguati ad essa. Quando inizierà l’era dei demagoghi, dei ciarlatani, una lingua come quella latina non potrà più servire e qualsiasi cafone potrà impunemente tenere un discorso pubblico e parlare in modo tale da non essere cacciato a calci giù dalla tribuna. E il segreto consisterà nel fatto che egli, sfruttando un frasario approssimativo, elusivo e di gradevole effetto 'sonoro' potrà parlare per un’ora senza dire niente. Cosa impossibile col latino. Giovannino Guareschi Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor. (Che nasca un giorno dalle mie ceneri un vendicatore) Virgilio Ab equinis pedibus procul recede (Indietreggia lontano dagli zoccoli equini) Ab uno disce omnis (Da uno capisci come sono tutti) - Virgilio Accidere ex una scintilla incendia passim (A volte da una sola scintilla scoppia un incendio) - Lucrezio Acta est fabula (Lo spettacolo è finito) - Augusto Ad maiora (A successi più grandi) Barba non facit philosophum (La barba non fa il filosofo) - Plutarco Aliena vitia in oculis habemus, a tergo nostra sunt (Abbiamo davanti agli occhi i vizi degli altri, mentre i nostri ci stanno dietro) - Seneca Quid non mortalia pectora cogis, Auri sacra fames (a cosa non spingi i petti mortali, miserabile cupidigia dell'oro) - Virgilio Alterius non sit qui suus esse potest (Non appartenga a un altro chi può appartenere a se stesso) - Cicerone Apertis verbis (A chiare lettere) Audaces fortuna iuvat (La fortuna aiuta gli audaci) Bene vixit qui bene latuit (Ha vissuto bene chi ha saputo stare ben nascosto) Caput imperare, non pedes (A comandare è la testa, non i piedi) Carpe diem (Vivi alla giornata) Castigat ridendo mores (Scherzando sferza i costumi) - Jean de Santeuil Cibi condimentum esse famem (La fame è il condimento del cibo) - Cicerone Corruptio optimi pessima (Ciò che era ottimo, una volta corrotto, è pessimo) - Gregorio Magno Iustum est bellum, quibus necessarium. (La guerra è giusta per coloro per i quali è necessaria). Tito Livio, Ab urbe condita, I sec. Credo ut intelligam, non intelligo ut credam (Credo per comprendere, non comprendo per credere) - Sant'Anselmo Non est vivere, sed valere vita est. (La vita non è vivere, ma stare bene.) - Marco Valerio Marziale De gustibus non est disputandum (Sui gusti non si discute) De iure (Di diritto) De minimis non curat praetor (Il pretore non si cura di cose di poca importanza) Deligere oportet quem velis diligere (Bisogna scegliere chi si vuole amare) - Cicerone Dictum factum (Detto fatto) - Ennio Do ut des (Do perché tu mi dia) - Magistrato Paolo Doctum doces (Insegni a uno che già sa) - Plauto Sic lusus animo debent aliquando dari, ad cogitandum melior ut redeat tibi. (Così, di tanto in tanto, devi lasciare svagare la mente, perché torni a te più pronta quando occorre pensare.) - Fedro Dura lex sed lex (E' una legge dura, ma è la legge) - Digesto Edamus, bibamus, gaudeamus (Mangiamo, beviamo, godiamo) Equus fulvus prius enectus quam fatigatus (---) Erga omnes (Nei confronti di tutti) Errare humanum est, perseverare autem diabolicum (Errare è umano, perseverare è diabolico) Errat interdum quadrupes, cum titubat quadrupes, labitur ergo bipes (---) Esse cupit mannus, sed ephippia ferre recusat (---) Etiam capillus unus habet umbram suam (Anche un solo capello fa la sua ombra) - Publilio Sirio Ex abrupto (Improvvisamente) Ex abundantia enim cordis os loquitur (La bocca parla per l'abbondanza del cuore) - Vangelo secondo Matteo Ex aequo (Alla pari) Excusatio non petita, accusatio manifesta (Scusa non richiesta, accusa manifesta) Exhaustum polidrum, malo quam vile capistrum (---) Expertus metuit (Colui che ha esperienza teme) - Orazio Facta non verba (Fatti, non parole) Fallacia alia aliam trudit (Un inganno tira l'altro) - Terenzio
La saggezza di Cicerone Fama crescit eundo (La fama, andando, diventa più grande) - Virgilio Frangar, non flectar (Mi spezzerò, ma non mi piegherò) - Seneca Gutta cavat lapidem (La goccia fa il buco nella pietra Hic manebimus optime (Qui molto bene resteremo) - Livio Summum ius summa iniuria. (Sommo diritto somma ingiustizia.) - Cicerone Sicut mater, ita et filia eius. (Quale la madre tale la figlia.) - Ezechiele Esse oportet ut vivas, non vivere ut edas. (Devi mangiare per vivere, non vivere per mangiare.) - Cornificio Ex silentio nutritur iustitia. (Di silenzio si nutre la giustizia.) San Bonaventura Homo faber fortunae suae (L'uomo è l'artefice delle sue fortune) Homo homini lupus (L'uomo è un lupo per l'altro uomo) - Plauto Homo mundus minor (L'uomo è un mondo in miniatura) - Boezio Homo proponit sed Deus disponit (L'uomo propone ma Dio dispone) - Tommaso di Kempis Homo sine pecunia est imago mortis (L'uomo senza denari è l'immagine della morte) In dubio pro reo (Nel dubbio a favore dell'imputato) In dubis abstine (Nelle situazioni ambigue astieniti) In saecula saeculorum (Nei secoli dei secoli) In vino veritas (Sotto l'effetto del vino, viene fuori la verità) Inscitia omnis arrogantiae mater est. (L'ignoranza è madre dell'arroganza) Ipse dixit (L'ha detto lui!) - Pitagora Lupus in fabula (Il lupo nel discorso) Mala tempora currunt sed peiora parantur (Corrono brutti tempi, ma se ne preparano di peggiori) - Cicerone Manus manum lavat (Una mano lava l'altra) - Seneca Melius abundare quam deficere (Meglio abbondare che scarseggiare) Memento audere semper (Ricordati di osare sempre) - Gabriele D'Annunzio Memento mori (Ricordati che si muore) Mens sana in corpore sano (Mente sana in corpo sano) Mihi pinnas inciderant (Mi avevano tarpato le ali) - Cicerone Mors et fugacem persequitur virum (La morte raggiunge anche l'uomo che fugge) - Orazio Mors omnia solvit (La morte scioglie tutto) - Giustiniano Mors tua vita mea (Morte tua vita mia) Mortui non mordent (I morti non mordono) Multa paucis (Molte cose in poche parole) Mutatis mutandis (Cambiato ciò che bisogna cambiare) Nascimur uno modo, multis morimur (Nasciamo in un solo modo, ma moriamo in molti) - Cestio Pio Necesse est multos timeat quem multi timent (Deve temere molti chi molti temono) - Laberio Necesse habent cum insanientibus furere (Tra i pazzi devon necessariamente impazzire) - Petronio Nemo potest duobus dominis servire (Nessuno può servire due padroni) - Vangelo secondo Matteo Nemo propheta in patria (Nessuno è profeta in patria) - Vangelo Nihil credendum nisi prius intellectum. (Non si deve credere a nulla se prima non lo si è capito). - Pietro Abelardo. Nihil inimicus quam sibi ipse (Niente vi è di più nemico di sestessi) - Cicerone Nihil morte certium (Niente è più certo delle morte) Nil est dictu facilius (Niente è più facile che parlare) - Terenzio Nomen omen (Il nome è un presagio) Nomina sunt consequentia rerum (I nomi sono corrispondenti alle cose) - Giustiniano Non causa pro causa (una non-causa spacciata per causa) Non plus ultra (Non più in la) Numquam periclum sine periclo vincitur (Il pericolo non lo si vince mai senza pericolo) Nunc est bibendum (Ora bisogna bere) - Orazio Oculum pro oculo, et dentem pro dente (Occhio per occhio, dente per dente) Oculus domini saginat equum (L'occhio del padrone ingrassa il cavallo) Odi profanum vulgus et arceo (Odio la massa ignorante e la tengo lontana) - Orazio Omnia fert aetas (Il tempo porta via tutte le cose) - Virgilio Omnia munda mundis (Tutto è puro per i puri) - San Paolo
Frasi e citazioni latine Omnia mutantur (Tutto cambia) - Ovidio Omnia tempus habent (Ogni cosa ha il suo tempo) - Ecclesiaste Omnia vincit amor (Tutto vince l'amore) - Virgilio) Omnis homo mendax (Tutti gli uomini sono bugiardi) - salmo Ora et labora (Prega e lavora) - San Benedetto Parce sepulto (Risparmia chi è sepolto) - Virgilio Tristis eris si solus eris. (Sarai triste se sarai solo.) Ovidio O miseras hominum mentes, o pectora caeca. (O misere menti degli uomini, o cechi cuori.) - Lucrezio Omnia mutantur, nihil interit. (Tutto cambia, nulla muore.) - Ovidio Cogitationis poenam nemo patitur. (Nessuno può essere punito per quello che pensa.) - Ulpiano Nec spe nec metu. (Nè con speranza né con timore.) - Isabella d'Este Gonzaga Patria est ubicumque est bene (La patria è dovunque sis stia bene) - Pacuvio Poeta nascitur, orator fit (Poeti si nasce, oratori si diventa) Post coitum omne animal triste (Dopo l'accoppiamento ogni essere animato è triste) Post prandium stabis, post coenam ambulabis (Dopo pranzo riposare, dopo cena passeggiare) Prima digestio fit in ore (La prima digestione avviene in bocca) Primum facere, deinde philosophari (Prima fa', poi filosofeggia) Pulvis es et in pulverem reverteris (Sei polvere e polvere ritornerai) - Genesi Qui autem invenit illuminvenit thesaurum (Chi trova un amico trova un tesoro) - Siracide Qui gladio ferit gladio perit (Chi di spada ferisce di spada perisce) - Vangelo secondo Matteo Quis custodiet ipsos custodes? (Chi sorveglierà i sorveglianti?) - Giovenale Quod erat demostrandum (Come volevasi dimostrare) - Euclide Quod scripsi scripsi (Ciò che ho scritto ho scritto) - Vangelo secondo Giovanni Quot homines tot sententiae (Tanti uomini tanti modi di pensare) - Terenzio Reductio ad absurdum (Riconduzione all'assurdità) Relata refero (Riferisco ciò che mi è stato detto) Ridendo dicere verum (Scherzando dire la verità) - Orazio Risus abundat in ore stultorum (Il riso è abbondante sulla bocca degli sciocchi) - Menandro Semel in anno licet insanire (Una volta l'anno è lecito impazzire) Semper avarus eget (L'avido ha sempre dei bisogni) Si quis dat mannos noli quaerere in dentibus annos) Si vis pacem para bellum (Se vuoi la pace, prepara la guerra) Sic stantibus rebus (Stando così le cose) Sic transit gloria mundi (Così passa la gloria del mondo) Sic vos, non vobis (Così voi, non per voi) - Pseudo-Donato Sint ut sunt aut non sint (Siano come sono o non siano) - Lorenzo Ricci Stat sua cuique dies (Ognuno ha il suo giorno) - Virgilio Tertium non datur (Una terza possibilità non è concessa) Testis unus testis nullus (Un solo teste nessun teste) Trahit sua quemque voluptas (Ognuno è attratto da ciò che gli piace) - Virgilio Ubi maior minor cessat (Di fronte al più forte il debole si fa da parte) Ut sementem feceris ita metes (Mieterai a seconda di ciò che avrai seminato) - Cicerone Vae victis (Guai ai vinti!) - Livio Vanitas vanitatum, et omnia vanitas (Vanità delle vanità e tutto è vanità) - Ecclesiaste Veni vidi vici (Sono venuto, ho visto, ho vinto) - Giulio Cesare Verae amicitiae sempiternae sunt (Le vere amicizie sono eterne) - Cicerone Verba volant, scripta manent (Ciò che è detto se ne vola via, ciò che è scritto rimane) Verbum de verbo (Parola per parola) - Terenzio Veritas filia temporis (La verità è figlia del tempo) - Aulo Gelio Video meliora proboque: deteriora sequor (Vedo ciò che è meglio e lo lodo, ma faccio ciò che è peggio) - Ovidio Vox populi, vox Dei (Voce di popolo, voce di Dio) Vulpem pilum mutare, non mores (La volpe cambia il pelo, non le abitudini) - Svetonio Sbagliare è umano, perseverare è diabolico. - Errare humanum est, perseverare autem diabolicum Fare entrare i piedi nella stessa scarpa. - Eundem calceum omni pedi inducere Venne su dal nulla. - Ex nihilo crevit Scusarsi quando non richiesto è un'accusa evidente. - Excusatio non petita accusatio manifest Fai di necessità virtù. - Facis de necessitate virtutem Fatta la legge, trovato l'inganno. - Facta lex inventa fraus Affrettati lentamente. - Festina lente Mi spezzo ma non mi piego. - Frangar non flectar Oggi a me domani a te. - Hodie mihi cras tibi L'uomo è artefice del suo destino/fortuna. - Homo faber fortunae suae L'ignoranza della legge non scusa. - Ignorantia legis non excusat Vivere alla giornata. - In diem vivere con il vino si dice la verità. - In vino veritas Corrono brutti tempi!. - Mala tempora currunt! La necessità è madre delle arti. - Mater artium necessitas È meglio abbondare che scarseggiare. - Melius abundare quam deficere Ricordati che si muore. - Memento mori Di tanto in tanto è bello anche far pazzie. - Aliquando et insanire iucundum est. Seneca Una mente sana in un corpo sano. - Mens sana in corpore sano La tua morte è la mia vita. - Mors tua vita mea Ricordati di osare sempre. - Memento audere semper E' necessario navigare, non è necessario vivere. - Navigare necesse est, vivere non est necesse Nessun figlio non è bello per sua madre. - Nemo non formosus filius matri Ciò non dipende da noi. - Non est id in nobis Non più in là. - Non plus ultra Nec plus ultra - Non più avanti - Iscrizione scolpita da Ercole sui monti Calpe e Abila, considerati i limiti del mondo, oltre i quali ai mortali era vietato andare. Noi due siamo già una folla. - Nos duo turba sumus Ogni cosa ha il suo tempo. - Omnia tempus habent Ogni cosa a suo tempo. - Omnia cum tempora Sbagli completamente strada. - Toto erras via Dovunque c'è in mezzo il cielo. - Ubique medius caelus est Ciò che si dilaziona non si perde. - Quod differtur non aufertur Tanti uomini, altrettante opinioni. - Quot homines, tot sententiae La fortuna aiuta gli audaci. - Audaces fortuna iuvat
Repetita Iuvant Calunnia senza timore: qualcosa resta sempre attaccato. - Audacter calumniare, semper aliquid haeret L'abuso non elimina l'uso. - Abusum non tollit usum La commedia è finita. - Acta est fabula Alla lettera. - Ad litteram Per chi è puro tutto è puro. - Omnia munda mundis A ciascuno il suo, non danneggiare gli altri. - Unicuique suum, alterum non laede La patria è dovunque si stia bene. - Patria est ubicumque est bene Il denaro non ha odore. - Pecunia non olet I pesci ci sentono benissimo. - Pisces clarissime audiunt Per amor di pace. - Pro bono pacis Al nemico che fugge ponti d'oro. - Qua fugiunt hostes via munienda est Chi di spada ferisce di spada perisce. - Qui gladio ferit gladio perit Chi non è con me è contro di me. - Qui non est mecum contra me est Chi toccherà la pece ne rimarrà imbrattato. - Qui tetigerit picem inquinabitur ab ea Resa dei conti, giudizio finale. - Redde rationem Colui che discese da stirpe rustica, rimase sempre un rozzo. - De rustica progenie, semper villana fuit il riso abbonda nella bocca degli stolti - Risus abundat in ore stultorum Roma non premia i traditori. - Roma traditoribus non premia Una volta all'anno è lecito impazzire. - Semel in anno licet insanire Così passa la gloria del mondo. - Sic transit gloria mundi Se desideri la pace, prepara la guerra. - Si vis pacem, para bellum La madre degli idioti è sempre incinta. - Stultorum mater sempiter gravida Fare un errore grande come il cielo. - Toto caelo errare Cogli l'attimo. - Carpe diem Sedere con le mani in mano. - Compressis manibus sedere Sui gusti non si discute. - De gustibus non disputandum est Mangiamo, beviamo, godiamo! - Edamus, bibamus, gaudeamus! Dove si trova il maggiore (in grado), il minore cessa di esercitare il suo ufficio. - Ubi major minor cessat. Nella somma corruzione della cosa pubblica, infinito il numero delle leggi. - Corruptissima repubblica plurimae leges. Tacito Per un unico punto Martino perse Asello - Uno pro puncto caruit Martinus Asello Guai ai vinti! - Vae victis! A volte da una sola scintilla scoppia un incendio - Accidere ex una scintilla incendia passim Nessuno è tenuto a fare l'impossibile - Ad impossibilia nemo tenetur Il dado è tratto. - Alea Iacta Est Portare acqua al mare. - Aquas in mare fundere Un asino in cattedra. - Asinus in cathedra Read the full article
#aforismi#cicerone#citazioni#frasi#giovenale#GiulioCesare#hilaritate#latine#latini#romani#Terenzio#tristitia#Virgilio
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E ti vorrei lasciare, una scia di baci dove il mare tocca le tue insicurezze e la tua carne nuda. Vorrei, renderti leggera come la vaniglia nei miei capelli e trascinarti nel mio mondo fino ad esserne succube: abbiamo tutti bisogno d'amore, una vita senza direi che è misera: impara da te, nella solitudine a cercare e a cercarti quando serve. Come se non avessi appoggio e dovessi imparare a camminare: cadi, ti rialzi, riprovi. Senza dare capocciate sui petti degli altri se non ti vogliono: capoccia dura, che tanto sbagli sempre. Oggi ti voglio, orgogliosa, di te stessa e della vita che hai paura di non vivere: rischia se puoi, e lavora su te stessa. Solo nel buio più nero si vedono le stelle brillare, così tu al mio fianco aspetti di essere acceso e alimentato come una fiamma. Ti voglio bene, sperando di lasciare un segno. Tuo, val
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È ufficiale: ci si può ammalare dopo il vaccino
15 luglio 2021
Le hanno chiamate “Vaccine-breakthrough infections” (VBI), sono le infezioni da Sars-Cov-2 che si verificano dopo aver completato il ciclo vaccinale. Lo studio riguarda le persone che hanno fatto i vaccini a mRNA.
Tutte le persone che si sono infettate e ammalate dopo la vaccinazione completa avevano alti livelli di anticorpi nel sangue, quindi erano da considerarsi immuni.
Gli anticorpi, se pur presenti in quantità, non hanno tuttavia evitato la malattia a 24 militari e sanitari su un totale di 1547 infettati, tanti i partecipanti dello studio. Zero protezione sia nei confronti del ceppo originale del virus che delle varianti.
Qui lo studio. La rivista è autorevole ma non è la sola a parlarne, ci conferma l’epidemiologo Stefano Petti.
Fortunatamente sembrano poche 24 persone su 1547.
“Si tratta dell’1% dei casi di Covid monitorati nello studio. Parliamo di una piccola percentuale fra i militari e i sanitari seguiti, (età media 38 anni), che però è risultata anche molto contagiosa (alcuni non hanno sviluppato sintomi, erano asintomatici): avevano una gran quantità di virus nell’orofaringe. I ricercatori ci dicono anche che ciascuno di loro ha sempre mantenuto una distanza di sicurezza dai propri interlocutori di almeno due metri”.
Alcuni erano asintomatici ma altri hanno avuto, in media, sintomi per una settimana. Qualcuno ha avuto la malattia in forma grave. Nessuno è stato ricoverato in ospedale.
“Quel che emerge è che l’1% delle infezioni si verifica in soggetti completamente vaccinati e con dimostrata produzione di anticorpi che riguardano anche lo stesso tipo di virus contro cui ci si è vaccinati, e non solamente varianti verso le quali si può pensare di non essere protetti. Quindi, chi contrae l’infezione ed è contagioso, può infettare sia i non vaccinati che i vaccinati. Altri due studi americani confermano che i vaccinati che si ammalano contraggono sia le varianti che il virus originario”. Cliccate qui e qui.”
Perché non si parla delle infezioni che colpiscono i vaccinati ? Eppure sarebbe pertinente vista l’ipotesi di varare un Green Pass…
“La discussione emerge dalle riviste scientifiche. Le VBI sono dimostrate da dati provenienti da tutto il mondo, non solo negli USA, ma anche in Canada, Gran Bretagna e Israele, cliccate qui. Quest’altro lavoro ci dice che in una RSA canadese i vaccinati infettati sono stati di più dei non vaccinati infettati, cliccate qui. (Qui invece la situazione a bordo della HMS Queen Elisabeth, sono risultati infetti 100 membri del personale, vaccinati con doppia dose).
La novità tuttavia non consiste nel fatto che chi è vaccinato può ammalarsi di Covid-19, gli stessi trial clinici sui vaccini dimostrano che la protezione conferita dal vaccino non è mai sul 100% dei vaccinati, ma sul 60%, il 70% fino ad oltre il 90%. La novità sta nel fatto che fino ad oggi pensavamo che quella percentuale di persone vaccinate si sarebbe potuta infettare per due possibili motivi, o perché non produceva quantità adeguate di anticorpi nonostante la vaccinazione, oppure perché era entrata in contatto con una variante non coperta dal vaccino. La novità qui è che lo studio ha dimostrato che ci si può infettare sia avendo prodotto gli anticorpi in gran quantità, sia nei confronti del virus con cui è stato prodotto il vaccino”.
Se questo vaccino protegge solo dai sintomi gravi della malattia e non dall’infezione non si potrà mai arrivare all’immunità di gregge?
“Difficile che si arrivi all’immunità di gregge. Chi si vaccina rischia meno di ammalarsi ma non può proteggere gli altri. Riprendendo le parole di Nicky Phllips su Nature del febbraio scorso ‘l’eliminazione totale del virus dalla faccia della Terra è solo un sogno meraviglioso’. Già all’epoca l’89% degli scienziati riteneva improbabile che ciò si verificasse. Secondo il 71% la causa della mancata immunità di gregge non sarebbe potuta essere il rifiuto della vaccinazione ma, appunto, la mancata immunità”.
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Storia Di Musica #187 - The Wallflowers, Bringing Down The Horse, 1996
Lo spunto per scegliere il tema delle storie di musica di Settembre me l’ha data una notizia musicale britannica: a fine luglio al primo posto della classifica del dischi più venduti in Gran Bretagna c’è il disco di debutto di una band irlandese, gli Inhaler, che si intitola It Won’t Be Always Like This. Non mi ha colpito la notizia in sè, sebbene siano i ragazzi solo i terzi irlandesi negli ultimi 20 anni a debuttare in prima posizione, ma che il leader della band è il cantante e chitarrista Elijah Hewson, che è figlio di Paul Hewson, conosciuto nel mondo come Bono, leader degli U2. Prendo spunto da questo per raccontare a Settembre di bei dischi di illustri figli d’arte. Premetto subito che non ci sarà Grace di Jeff Buckley, apparso qualche mese fa nella serie dei dischi unici dei loro autori passati alla leggenda. Ma iniziamo con un altra storia niente male, che secondo me è paradigmatica di quello che un figlio di un grande musicista può fare nel mondo della musica. Perchè nel caso di oggi padre più illustre forse non c’è: Bob Dylan. L’ultimo figlio di Bob e Sara Lowds si chiama Jakob e a fine anni ‘80 si sente sufficientemente dotato di originalità e carisma per sfuggire ai paragoni, inevitabili con una leggenda così gigantesca come quella del papà, per fare musica. Mette su una band, che chiama The Wallflowers, dal nome comune in inglese di una pianta della famiglia delle crucifere, la violaciocca, che è usata frequentemente come bordura nei giardini. Eppure i più capziosi videro un riferimento ad un brano scritto dal padre, Wallflower, scritto per Doug Sahm nel 1972 e poi ripreso da molti artisti (tra cui una stupenda cover di Diana Krall). L’esordio discografico è con l’omonimo The Wallflowers, del 1992: è un buon esordio di roots rock di spiccata anima anni ‘70, con Jakob che scrive tutte le musiche (tranne una canzone accreditata alla band intera) e i testi, e alcune canzoni come Hollywood e Honeybee, che si allungano ben oltre la durata classica di un brano rock, sono molto interessanti, anche grazie al lavoro di un ottimo tastierista, Rami Jaffee. L’attesa, soprattutto per l’interessamento della stampa specializzata e dei media, è altissima ma il disco, sebbene più che dignitoso, vende poco. Questo porta a una sorta di pausa di riflessione e a continui cambi di formazione. Quando Dylan Jr. trova una certa stabilità con i musicisti (oltre a Jaffee, Greg Richling al basso, Tobi MIller e Michael Ward alla chitarra) manda demo di idee e qualche canzone a moltissimi produttori. Il fiuto di Jimmy Iovine, grande produttore e talent scout, li porta a firmare un contratto con la Interscope, e i ragazzi vengono messi sotto le cure produttive di T-Bone Burnett. Dylan Jr. gli presenta tutte le canzoni che ha scritto negli anni e Burnett ne è entusiasta, iniziando le registrazioni in alcuni dei più famosi studi di registrazioni di Los Angeles. La band non ha un batterista e la seconda chitarra, quella di Miller, abbandona per motivi personali. Avendo per una volta una produzione adeguata ed essendo pur sempre un Dylan, molti amici verranno ad aiutarli: Matt Chamberlain, che suonerà anche con il padre, alla batteria, e poi Mike Campbell alla chitarra dalla band di Tom Petty, Gary Louis dei Jayhawks, Fred Tackett, Sam Phillips (moglie di Burnett) e Adam Duritz, leader dei Counting Crows. IL suono è sempre quello del primo disco, ma stavolta curatissimo, rifinito e con un appeal straordinario. Ne escono fuori canzoni ottime, con i testi del giovane Dylan che parlano di difficoltà giovanili, di momenti di sconforto, di attese. Alcune diventano delle grandi hit: One Headlight (messa dalla rivista Rolling Stone nella lista delle 500 canzoni più belle di sempre), la meravigliosa 6th Aveanue Heartache (la prima canzone mai scritta da Jakob, su un senza tetto che viveva nei pressi della sua casa di New York, che quando scomparve fu saccheggiato dei suoi piccoli averi da altri), Bleeders, Three Marlenas (dal titolo meravigliosamente dylaniano). Tutto il disco è consistente, canzoni come The Difference e Laughing Out Loud o la ballatona Josephine sono perfette per l’airplay radiofonico. C’è pure un momento toccante nel ricordo del musicista ed ex membro del gruppo Leo LeBlanc, I WIsh I Felt Nothing, scritta mentre il musicista lottava contro il cancro. Questa volta il successo è davvero consistente: in classifica in mezzo mondo, vendite clamorose e addirittura 2 Grammy Awards nel 1997. Il giovane Dylan è consacrato ad essere una delle più promettenti e luminose stelle della nuova generazione rock. la band si prenderà altri 4 anni per realizzare il seguito, Breach (2000), che però si presenta al di sotto delle aspettative, smorzando un po’ la luce di un figlio illustre che ha tanto talento; nemmeno i successivi Red Letter Days e Rebel, Sweetheart (2002 e 2005) ripetono il successo e l’apprezzamento di Bringing Down The Horse, offuscando in parte il talento di un ragazzo che non ha avuto paura di sfidare sul campo il cognome più illustre della musica popolare del ‘900.
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vengo da pagine di carta. vengo da voci assonnate che sospendono le parole nell’aria, che le fanno danzare, dal braccio di una t che afferra il gomito di una a, dal morbido dondolare della loro romantica routine, dalle curve delle lettere premute assieme, che gradualmente mi piegano fra di loro. vengo da queste pagine, da così tanti anni passati a nascondermi fra di esse che io stessa sono diventata una frase, poi un capitolo, poi un romanzo, quasi come per magia. chi mi ha scritta amava i tramonti, l’arancione ed il rosa macchiano le mie pagine, dolci striature di luce dipingono il cielo come un finale, dipingono tutte le mie trame come un finale, i miei altri personaggi come finali, finché il colore non trasuda su di me e divento un finale anch’io. chi mi ha scritta amava le voci arrabbiate, nella letteratura ci sono sempre uomini fatti di pietra, con larghi sorrisi e dure parole che rimbombano nei loro petti come valanghe, chi mi ha scritta mi ha dato un uomo di pietra per padre. ma gli uomini di pietra dopo un po’ annoiano e chi mi ha scritta ha deciso che preferiva i ragazzi alti come grattacieli, ragazzi con occhi scuri come la pece in contrasto con la mia pelle di luna, buchi neri che potessero inghiottirmi tutta intera. chi mi ha scritta mi ha data a degli uomini che non sapevano cos’altro fare con le loro mani fredde, tranne che prendere. chi mi ha scritta ha perso l’ispirazione, mi ha lasciata a continuare da sola, le mie mani solitarie scrivono autonome la storia, mio è il comando mia la libertà mia la solitudine. vengo dalle mie stesse dita sporche d’inchiostro, dalla mia schiena dolorante curva sulla tastiera, dai miei polpastrelli sanguinanti sui tasti, dialoghi selvaggi e descrizioni senza speranze scorrono fuori da me come il diluvio universale, e sullo sfondo, il mio Noè si dimentica di scrivermi sull’arca. scrivo per necessità poiché non scrivo per piacere, scrivo per respirare, scrivo per non morire. la mia storia inizia con fianchi un po’ doloranti per i calci di un fantasma nel ventre, odore di limoni e sigarette, il calore del tocco, la sbucciatura dei marciapiedi sotto i miei piedi scalzi di bambina, vengo da un soffice tappeto del colore della foresta, ricordo la sensazione della trama morbida e il ticchettio dell’orologio anche quando sono da tanto lontana da casa.
da dove vengo, v.s.
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IL LIBRO LIBeRO — Irene Bendinelli
Salpammo all'alba.
Eravamo uno sparuto gruppo di curiosi spiriti all'avventura, fermamente intenti a emulare le leggendarie imprese del multiforme eroe Ulisse. Il cielo sopra di noi conservava ancora il respiro lento delle ultime luci stellate della notte, mentre stralci dorati di un nuovo giorno si preparavano a indicarci la rotta.
Eravamo privilegiati spettatori di uno scenario mai visto prima: maestoso, bellissimo, come tante rose tee da poco sbocciate in una meraviglia di colori! Il nostro giardino fiorito era lievitato, sollevato da schiumose onde del Mare-Oceano-Mari.
Cavalcammo, come intrepidi indiani nelle vaste praterie americane, verso spazi aperti, immensi, nell'infinità delle acque salate. Nessuno ci avrebbe potuti fermare! Eravamo più forti di mille eroi della mitologia greca, più coraggiosi di tutti i soldati del mondo riuniti in battaglia e più liberi di centomila palloncini sospesi nell'aere.
Il vento a favore ci guidava come un caro padre che prende il figlio per mano e lo conduce verso i sentieri della sua vita futura. Sostenuti dalla forza di Eolo, ci sentivamo padroni dell'universo, dei mari, delle terre, dell'aria e della miriade di stelle lassù.
Continuava a navigare fiera e sicura la nostra imbarcazione in legno, con tre gonfie vele bianche issate: erano tre morbide nuvole di ovatta, calate sulla linea dell'orizzonte. Intanto gli spruzzi d'acqua e sale ci rinfrescavano, permettevano di farci sentire sui volti tutta la carica esplosiva dell'estate e sancivano l'unione tra noi marinai e le creature marine. Ci sentivamo anche noi come dei pesciolini.
– Esploratori seguaci di Nemo, sgargiante bandiera a strisce bianche e arancioni, all'arrembaggio! Il tesoro dell'isola è già nostro!
Niccolò era completamente assorto in quell'avvincente lettura, che non si era distratto neanche da suoni e suonetti provenienti dal telefono mobile. A capofitto tra quelle pagine sfogliate con vivo interesse, aveva la possibilità di diventare un ottimo marinaio a bordo del vascello Poseidone.
– Agli ordini, capitano! - rispose la ciurma al completo, mentre il Mare-Oceano-Mari riempiva l'anima.
La direzione era quella giusta, puntando ancora per diverse miglia a Nord. La freschezza di quell'acqua salata, sempre più chiara e limpida, ci rinfrescava anche i pensieri, che viaggiavano leggeri leggeri, sorretti da quelle tre gonfie vele bianche.
Da marinaio semplice avevo ancora tanto da imparare, ma la passione e la curiosità non mi mancavano certamente, così controllare la nave, svolgere la regolare manutenzione e talvolta provvedere alla distribuzione del cibo nella cambusa erano attività che non mi spaventavano minimamente. In tutto questo, non perdevo mai di vista il nostro saggio ed esperto capitano Hogart, pronto a guidarci nell'impresa e a risolvere qualsiasi genere di situazione: gli imprevisti, per lui, erano semplicemente nodi di velluto da sciogliere grazie a piccole mani dalle dita elastiche.
Niccolò interruppe la lettura e si osservò le mani. Anche le sue, come quelle descritte nel romanzo, erano mani piccole, con dita peraltro elastiche, proprio perché lui era ancora un bambino. Sarebbe voluto entrare in quella storia, Niccolò, far parte di quella ciurma, aiutare il capitano Hogart a sciogliere i nodi degli imprevisti e dimostrare agli altri marinai, a se stesso, ma soprattutto ad alcuni suoi compagni di classe che aveva coraggio da vendere, anche se a scuola appariva spesso introverso. Le sue, erano ancora mani misurate per impugnare le penne e le matite, morbide per proteggere un cucciolo di gatto e delicate per assemblare in mille diverse costruzioni i mattoncini Lego. Sarebbero diventate capaci, però, non troppo tardi, di ammainare le vele, manovrare il timone, sfidare la forza dei venti e utilizzare tutti gli attrezzi del mestiere marinaresco.
Il sole, intanto, si preparava a troneggiare nel centro della volta celeste. Splendido splendente si sarebbe fatto alto, una palla infuocata, luccicando ininterrottamente sulle creste lievi di quella meraviglia che era il Mare-Oceano-Mari. E l'acqua si sarebbe ancor di più riscaldata e la vita a bordo del vascello Poseidone si sarebbe illusa di stare pigramente in vacanza.
Uno stormo di gabbiani, saziato dall'abbondanza di pesci, decollò veloce dalla superficie azzurra screziata di bianco ai chiari riflessi sconfinati del cielo, diretto verso una mèta ben precisa, per vivere una nuova stagione in un'altra terra.
Un'isola accogliente stava aspettando anche i nostri marinai.
Si delineò di lato alla loro vista un curvilineo profilo di un timido scoglio, col capo di poco alzato e ricoperto da una rigogliosa vegetazione. Mentre la distanza dal veliero all'isola si riduceva, mentre si annullava la presenza di uomini e animali nei paraggi, ardeva il desiderio di approdarvi, la frenesia di corrervi a piedi nudi e di scoprirne il fatidico tesoro. Pirati e galeotti si erano sfidati, su altri mari e in altre epoche, per appropriarsi di gemme e monete in quantità; temerari cercatori d'oro si erano spinti per secoli oltre quelle acque, per nobilitare ogni volta di più le loro imprese; sognatori di altri tempi – e forse anche di questi – erano cresciuti con il sale della fantasia e la speranzosa convinzione di far rotta all'isola di Utopia.
Poche erano le carte nautiche che segnalavano la presenza di quell'isola, a differenza di molte che la ignoravano completamente, indicando al suo posto una qualsiasi corrente acquatica. Ma poiché il mistero si infittisce se un'antica pergamena polverosa viene scovata per caso in una rimessa, trovano invece il loro senso la curiosa esplorazione, l'audace avventura e l'entusiasmo della partenza.
Il capitano Hogart, da vero capitano, fu il primo a scendere dall'imbarcazione, per assicurarsi che su quella terra, emersa dai fondali marini, non si nascondessero insidie. Soltanto pappagalli dai grandi becchi gialli e dalle ampie piume variopinte, appesi sulle legnose fronde di contorte mangrovie, intonarono un acuto saluto di benvenuto.
“Ci siamo!” pens�� Niccolò. “Vediamo ora cosa succede.”
I marinai, con la gioia che sarebbe esplosa nei loro petti se non fosse stata contenuta dalle divise a righe bianche e blu, seguirono fedelmente il loro capitano. Parevano una fila ordinata di formiche in processione, caute e silenziose, ma ancor più attente e curiose, alla ricerca di cibo, di briciole di pane. L'ultimo della ciurma, col viso florido e raggiante per la fierezza del compito assegnatogli, issò sulla sponda orientale della riva l'alta bandiera del Poseidone: un tridente grigio rivolto in su, sostenuto dalla possente mano destra del dio Nettuno, protettore di tutti i mari e della loro piccola compagnia.
– Ricordate il richiamo dell'eroe Ulisse ai suoi compagni di viaggio! Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza! – rimbombò così potentemente la voce di Hogart, da far volare via in un istante tutti i pappagalli che li avevano accolti.
“La conoscenza, la conoscenza!” pensai.
Da tre mesi della mia vita mi trovavo a bordo di una nave, che già consideravo come una seconda casa, io che da piccolo non volevo più uscire dalla vasca durante il bagnetto e che giocavo a ore sulle pozzanghere come fossero laghi da attraversare. Avevo imparato tanto finora: ogni uscita in mare aperto era una sfida con me stesso e con la natura, ogni gesto da compiere un esempio di solidarietà verso gli altri, ogni nubifragio una prova da superare per crescere, ogni porto raggiunto una sicurezza da custodire con affetto.
Mentre tali pensieri mi rimbalzavano nella mente, i miei piedi marciavano allineati a quelli degli altri marinai alla scoperta di quell'isola. L'aria era talmente intrisa di un silenzio paradisiaco, che si riuscivano a percepire i respiri affannati e i battiti accelerati dei nostri cuori.
Li avvertiva anche Niccolò quei respiri e quei battiti, che filtravano da quei luoghi fantastici alla cameretta reale del bambino, grazie alle pagine ingiallite di quel romanzo, appartenuto da generazioni alla sua famiglia.
L'isola, con una superficie grande quanto mille uomini in cerchio, odorava di essenze rare, di dolci profumi fruttati e di fresche fragranze floreali. Il lungo viaggio assolato sul Mare-Oceano-Mari trovava il suo meritato riposo all'ombra di nodose mangrovie, di maestose palme verdeggianti e di piante dai fiori tropicali mai visti prima, che infondevano pace e serenità.
Quell'isola era tutta per loro, per quei prodi marinai!
La costa orientale era contornata da un'innumerevole varietà di conchiglie, alghe, ricci e legnetti, adagiati su basse dune sabbiose, mentre la zona a Ovest era battuta da forti venti impetuosi, che si infrangevano su dure e ripide falesie, come se due stagioni naturali si contendessero il controllo di quella dispersa roccaforte.
Nel mezzo stavano loro, i coraggiosi marinai, in equilibrio tra estate e inverno, tra caldo e freddo, nel protetto spazio centrale dove terra, roccia, fiori e frutti convivevano in armonia. Non c'erano tracce di tesori, di bauli, di gemme e di ori, ai quali la ciurma non pensava già più, felice com'era di starsene lì tranquilla e beata. Nel cuore di quell'isola svanivano i rancori e le paure, le ansie e i problemi, sostituiti dalla calma quiete delle anime, dalle perfette solitudini ritrovate e dall' intramontabile desiderio di libertà mai sopito. Altre isole avrebbero raggiunto, altre avventure avrebbero vissuto, altre storie avrebbero raccontato, ma quella era l'isola alla quale non avrebbero più rinunciato, l'isola del Poseidone, dove ognuno si sentiva libero. Come vento libero.
Niccolò sentì entrare, dalla finestra aperta della camera, un soffio d'aria fresca. Era l'imbrunire di una sera alla fine di aprile, era la briosa brezza di quell'isola, sostenuta e tramandata dall'eco esplosivo della letteratura che aveva trasformato le pagine del libro in onde di libertà, amata libertà.
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Odio gli indifferenti (Il testo integrale di Antonio Gramsci)
Nel 1917 Antonio Gramsci pubblicava una rivista cui diede un titolo
evocativo, civile e poetico: “La città futura”. In quella rivista era
contenuto, fra gli altri, uno scritto che giunge fino a noi con i toni
laicamente epici di un grande manifesto politico e morale:
“Contro gli indifferenti.”
“Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che “vivere vuol dire
essere partigiani”. Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei
alla città.
Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza
è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli
indifferenti.
L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il
novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più
splendenti, E’ la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio
delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché
inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e
qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica.
L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera.
E’ la fatalità; e ciò su cui non si può contare; e ciò che sconvolge i
programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si
ribella all’intelligenza» e la strozza. Ciò che succede, il male che si
abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale)
può generare, non e tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto
all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene
tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini
abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la
spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà
abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento
potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non e altro
appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo.
Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo,
tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne
preoccupa. I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni
ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di
piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne
preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela
tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a
travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno
naturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha
voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e
chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle
conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non é
responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente,
ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se
avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe
successo ciò che e successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro
indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro
attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male,
combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano. I più di costoro,
invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di
programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano
cosi la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro
nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime
soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia
preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni
rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva
non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale,
non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi
nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.
Odio gli indifferenti anche per ciò che mi da noia il loro piagnisteo di
eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito
che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e
specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di
non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie
lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte
già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E
in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non
è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non
c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si
sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in
agguato, voglia usufruire del poco bene che l’attività di pochi procura e
sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è
riuscito nel suo intento.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli
indifferenti.”
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HUN-GURRR ( Voyager ) Power of the Primes
HUN-GURRR... Hun-Garr... Hun-grr ... Bifronbot, insomma, è il capo dei Terrorcon, mio ultimo tassello per comporre la versione moderna di Abominus e, manco a dirlo, ottima versione moderna dell'originale versione G1 del 1987.
Il ROBOT si presente essenzialmente fedele nel design iconico, ma con una serie di accomodamenti per qualche cambiamento che vedremo poi meglio nella sua forma di torso di gestalt, ma che devo comunque già anticipare, poichè la coda della sua modalità di drago bicefalo è rivolta in avanti piuttosto che dietro la schiena. Questo perchè dietro il robot si trova la pettorina accartocciata di Abominus, che come tradizione dei Combiner Voyager Generations, è appunto integrata nel robot e non un pezzo a parte.
E' quasi un peccato, per una volta, dato che la pettorina del Thundertron G1 diventava un'arma effettiva del capo combiner di turno, ovvero un ampio scudo, ma anche qui è apprezzabile l'integrazione così come la trasformazione stessa di questa porzione del giocattolo.
Tornando a Hun-Gurrr, come aspetto è più armonioso ed equilibrato nelle forme, che il G1 aveva il torso massiccio e due spallone pure troppo ben piazzate, così come la coda in mezzo al corpo non da fastidio, anzi, è un pezzo di "kibble" del suo alt mode che appunto è solo valore aggiunto per il robot, con tanto di placche viola sporgenti mantenute, sempre come l'originale.
Il G1 era comunque un bel giocattolo per i suoi tempi, assai snodato con ginocchia e gomiti che si potevano piegare così come la testa che ruotava e le gambe che si allargavano lateralmente: ovviamente il Generations qui non è da meno, con il resto delle articolazioni medie di questo periodo, senza rotazione di bacino e pugni ma con le caviglie mobilissime, cosa che però inficia un po' la stabilità del robot, se non ben posizionato.
Se testa e faccia sono sputati al G1, altri cambiamenti rispetto all'originale sono le teste del drago / piedi ora con le fauci spalancate e quindi con le mandibole a far da talloni, così come le ginocchiere più pronunciate, sempre per il discorso della trasformazione in torso di Abominus.
Come già visto per Grimlock, anche il nostro Hun-gurrr non ha le armi storiche, ma se il fucilone grigio è irrimediabilmente perduto, almeno lo scudo fucsia / pettorina rivive in parte nelle due Prime Armor / piedi, anche se magari era interessante se queste si potevano unire in un modulo unico, simulando appunto uno scudo.
Infine, lo zaino della pettorina ripiegata non da affatto fastidio dietro la schiena, laddove nel G1 le zampe anteriori e la coda della bestia erano abbastanza sporgente, mentre nel Voyager anche le prime sono ripiegate bene sempre nello zaino.
La TRASFORMAZIONE in drago è identica al G1, tranne per la testa che ora si ritrare dentro al petto e la coda che si solleva da questo, gli artigli delle zampe posteriori che coprono i pugni, le fauci che si chiudono, mentre per il resto il robot si sdraia all'indietro, con le braccia che diventano le zampe posteriori, quelle anteriori che si posizionano dalla schiena e le gambe che diventano le teste della bestia mitologica.
Per quanto il DRAGO A DUE TESTE G1 era goffo, obiettivamente anche la sua controparte moderna non è da meno, con le zampe posteriori parecchio grosse rispetto a quelle anteriori ancor più minute dell'originale, e sebbene sia abbastanza nascosta, anche la pettorina ripiegata ora sotto lo stomaco del drago è un po' d'impiccio.
Ma a parte queste doverose annotazioni sulle parti negative, abbiamo ovviamente anche lati positivi da elencare, ovvero l'ottima fattura delle teste del drago, assai mobili alle basi del cranio e con le fauci apribli, e dal design vicino al cartone con due occhi piuttosto che non al giocattolo che li vedeva con un visore unico.
Le creste sui colli e sulla coda sono colorati di fucsia come quelle sulla schiena, così come i pochi adesivi sono efficaci, essendo in pratica come quelli del G1, ovvero sulle fronti delle teste e ai lati dei colli / polpacci del robot, e pure quelle sulle spalle coi simboli di fazione, di cui quello a sinsitra simula il rub sign.
Peccato, inoltre, per le zampe posteriori davvero troppo grandi e rivolte all'indietro, piegate a 90°, coprendo così la coda, che però può sollevarsi e rendersi visibile almeno un po' alzata. Sempre le braccia / zampone, hanno solo due spine per le succitate Prime Armor ma oltre a queste non ci sono altre spine o fori per armi sul drago.
Ma ad alzare l'asticella di questo Transformers ci pensa la trasformazione in TORSO di ABOMINUS, che riprende quella innovativa usata da Silverbolt agli esordi di Combiner Wars, con il ribaltamento dello schema classico, usando le braccia del comandante del team come cosce e le gambe come spalle: la trasformazione in Hun-grrr qui è ulteriormente valorizzata, dato che le teste del drago spariscono dentro i colli, e questi, con i loro spuntoni, diventano direttamente gli spuntoni laterali di quello che era lo scudo pettorina del G1.
Da qui, mentre la testa del gestalt emerge dallo stomaco di Hun-Gurrr, anche la pettorina slitta in alto rivelando il bacino, e pure le zampine anteriori si aggangiano verso l'alto, divenendo parte della pettorina, con i piccoli simboli di fazione come si vedeva nel cartone!
La succitata trasformazione a testa in giù di Hun-grr è obiettivamente un colpo di genio, che rende in generale i torsi dei gestalt molto più equilibrati, e per questo Abominus il risultato è davvero eccellente, sempre per il discorso della pettorina ora integrata nella trasformazione e nel busto stesso. Giocoforza ci sono dei cambiamenti nell'estetica, come il fatto che solo la parte centrale sia effettivamente fucsia, ma gli adesivi rossi degli "spuntoni" / spalle richiamano comunque un po' quel colore.
Davvero encomiabile come la pettorina citi l'originale G1 anche negli adesivi, qui riprodotti tramite parti dipinte, mentre si apre il pannello centrale che può ospitare la Spark ""Enigma Terrorcon", e questa può rimanere lì dentro incastonata e nascosta, col pannello chiuso!
La testa, più equilibrata come misure rispetto al testone del giocattolo G1, si ispira a quest'ultimo come colorazione, ovvero casco bianco e faccia fucsia, piuttosto che non al cartone con i colori invertiti, e la cosa ha senso dato che già Hun-grrr ha quella colorazione e riproporla nel gestal sarebbe stato ridondante, per quanto fedele al settei. Il G1 aveva gli occhioni gialli, mentre nel cartone si vedeva col visore rosso: per accontentare tutti, l'Abominus Popt ha un visore giallo, ma la forma è quella triangolare che si vede nel design dell'episodio "Call of the Primitives", differenziandosi così anche dai visori rettangolari degli altri gestalt, dato che come forma la testa con le antenne è abbastanza abusata nei combiner G1.
Con la scusa dell'inversione di braccia e gambe, succede che ora le anche siano bianche e le cosce grigie e non il contrario, ma sopratutto che spariscono le teste di drago sulle ginocchia, ma che erano comunque ridondanti dato che c'erano già le teste ripiegate dei Terrorcon arti, sopratutto ora nel Generations che rivolgono i petti dei robot verso indietro, senza contare che l'aggangiamento dei Deluxe alle gambe si fa da davanti.
Unica pecca effettiva è la schiena relativamente vuota, che magari bastavano un paio di fori per porteci alloggiare i pugni / Prime Armor avanzati dei deluxe giusto per aggiungere un po' di massa.
Ma nonostante ciò e quei cambiamenti sopra elencati, questo Abominus è forse l'apice raggiunto da tutti i Combiner, penalizzato solo dalla mancanza almeno del suo storico fucilone, e dalla mancanza della rotazione del bacino, presente sì in altri suoi colleghi come Menasor e Volcanicus ma più goffi nell'apparenza.
Manca il fucilone, ok, ma la trasformazione della pettorina integrata appaga assai, e come già detto sarebbe stato interessante vedere i due piedi unirsi in un unico scudo grande, ma questo Hun-grr e in generale i Terrorcon sono davvero riusciti come versioni moderne dei loro omonimi originali.
#transformers#hun-gurrr#bifronbot#terrorcon#terrorbot#abominus#thundertron#prime wars#power of the primes#potp#voyager#combiner
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L’accanimento giudiziario contro Nunzio D’Erme, recentemente condannato in primo grado a tre anni e dieci mesi di reclusione, è indicativo di un clima che attraversa il paese e che influenza pesantemente anche gli ambienti giudiziari. Chiunque svolga un’attività sociale in difesa dei diritti e contro le ingiustizie è destinato ad incorrere in sanzioni amministrative e penali che in questi anni si sono andate sempre più inasprendo.
Anche il Decreto Salvini si muove nella stessa direzione, reintroducendo il reato di blocco stradale, aumentando le pene per le occupazioni ed allargando l’uso dei DASPO, introdotti dal precedente ministro degli interni Minniti. Ma in generale, sono anni che si assiste ad una crescente aggressione alla libertà di esprimere il dissenso ed organizzare la protesta sociale e sindacale, e le pene piovute addosso agli attivisti sono diventate sempre più pesanti.
Mentre le condizioni sociali nel paese non accennano a migliorare, la repressione nei confronti di chi anima le lotte diventa un’azione preventiva tesa a scoraggiare la diffusione massiccia di movimenti di protesta. E Nunzio rischia di pagare, con la sua ostinata coerenza a continuare a battersi contro ingiustizie e fascisti, la “colpa” di non essersi mai tirato indietro ed essere rimasto sempre in prima fila. Colpiscono Nunzio, insomma, anche per provare ad intimidire tanti altri.
Continuare a battersi con coraggio e determinazione nell’era dei decreti Minniti/Salvini comporta non solo una comprensione della gravità dei provvedimenti entrati in vigore ma anche una nuova capacità di saper costruire reti di resistenza e di difesa collettiva. Io sto con Nunzio e continuo a lottare.
Assemblea
Mercoledi 5 dicembre ore 18
Cinema Palazzo – Piazza dei Sanniti, 9 – Roma
Per aderire all’appello: [email protected]
#IoStoConNunzio #DirittoDiResistenza #LibertàDiMovimento
prime adesioni:
Haidi Gaggio Giuliani, Valerio Mastandrea, Zerocalcare, Eleonora Forenza, Amedeo Ciaccheri, Aboubakar Soumahoro, Italo Di Sabato, Guido Lutrario, Giovanni Russo Spena, Marco Lucentini, Nicoletta Dosio, Gianluca Peciola, Pierpaolo Leonardi, Viola Carofalo, Giorgio Cremaschi, Giuliano Santoro, Vincenzo Miliucci, Andrea Fumagalli, Claudio Marotta, Susi Fantino, Caterina Calia, Francesco Romeo, Roberto Lamacchia, Cesare Antetomaso, Fabio Grimaldi, Rita Martufi, Luciano Vasapollo, Patrizia Sentinelli, Anubi D’Avossa Lussurgiu, Giso Amendola, Francesco Raparelli, Alberto De Nicola,Emanuele De Luca, Marco Bersani,Stefania Zuccari, Claudio Dionesalvi,Angela Mauro, Fabio Palmieri,Gianfranco Tallarico, Domenico Niglio, Gianluca Schiavon, Claudio Goffi, Sergio Cararo, Federico Mariani, Riccardo Germani, Gualtiero Alunni, Daniela Cortese, Federica Stelli, Sonia Spila, Manolo Luppichini, Ruggero D’Alessandro, Alberto Di Vincenzo, Armando Tolu, Daniela Torro, Silvia Ianni, Pasquale Vilardo, Valter Lorenzi, Maria Angela Zerbinati, Donato Bisceglia, Giuseppe Pelli, Paolo De Marco, Gloria Salvatori, Rita Chiavoni, Massimo Quinzi, Fabiana Murgia, Giuseppe Carroccia, Rino Tarallo, Stefano Pennacchietti, Antonio Perilli, Fabrizio Soddu, Toni Germani, Irene Galuppo, Alessandra Benvenuti, Elisa Della Libera, Alessandra Landini, Stefano Zuppello, Paola Palmieri, Claudio Socci, Luisa Barba, Angelo Fascetti, Alfonso Perrotta, Giovanni Coretti, Riccardo Cretella, Giammaria Volpe, Annarita Di Credico, Chiara Santone, Laura Morettini, Carlo Cerciello, Nadia Daddi, Nico Campanelli, Fabrizio Di Bona, Roberto Evangelista, Massimo Di Marcello, Renato di Caccamo, Valerio Porcelli, Rosa Mordenti, Riadh Zaghdane, Roberto Cortese, Daniela Pitti, Candida De Carolis, Valeria Farina, Caterina Virtù, Sabrina Lignini, Stefano Iguana, Angelo Di Naro, Irene Martinengo, Raoudha Boughanmi, Giorgia Forgetta, Carmen Armaroli, Patricia Pernett, Marco Petti, Fabiola Bravi, Carla Dovini, Lionella Riccio, Claudio Desideri, Fabio Galati, Franco Cancelli, Sandra Berardi, Pasquale Abatangelo, Luigia De Biasi, Fabio Russo, Enrico Capone, Antonio Adornato, Andrea De Rossi, Sergio Scorsa, Stefano Quartero, Sergio Falcone, Francesca Trasatti, Joseph Alan Valia, Flavia Del Fattore, Agostino Zelli, Virginia Mascetta, Chiara Franceschini, Ilaria Diaco, Gaia Casagrande, Enrico Capozza, Veniero Rossi, Barbara Cacchione, Serena Zampardi, Ezio Villani, Fabrizio Picchetti, Massimo Amore, Selmi Simone, Marco D’Agostini, Simona Ammerata, Giorgio A. Pisano, Silvia Raponi
Militant A (Assalti Frontali), Banda Bassotti, Radici nel Cemento, Wu Ming – scrittori, AttriceContro, Fleurs du Mal, Collettivo Teatrale Macchia Rossa
Associazione Nazionale Giuristi Democratici, Unione Sindacale di Base, Csoa Corto Circuito, Esc Atelier autogestito, LOA Acrobax Project, Collettivo di Casetta Rossa, Csoa La Strada, Cpoa Rialzo Cosenza, Laboratorio Zero81 Napoli, Csoa ex Opg – Je sò Pazzo Napoli, Radio Onda Rossa, ACAD Associazione Contro gli Abusi in Divisa, Anpi sez. “Nido di Vespe” Quadraro/Cinecittà Roma, A.N.P.I. sez. “Walter Rossi – Università”, Potere al Popolo, redazione Contropiano, redazione di Comune, Laboratorio Comunista “Casamatta”, Associazione Culturale La Lotta Continua, Osservatorio sul fascismo Roma, Palestra Popolare “San Lorenzo” Roma, Comitato con la Palestina nel Cuore, I compagni di Walter, Red-lab Quarticciolo, All Reds Rugby Roma, Rete dei Comunisti, Collettivo Militant, Comitato Madri per Roma Città Aperta, Palestra popolare Quarticciolo, , Casa del Popolo Campobasso, Noi Restiamo, Circolo Prc Longo Cinecittà Quadraro, ASD Boxe Popolare Cosenza, Associazione Yairaiha Onlus, Casa editrice DeriveApprodi, Carovana Antifascista Roma, Asia-Usb Bologna, Usb Bologna, Usb Emilia-Romagna, Scuola popolare “Soumaila Sacko”, Associazione Vivere il Quartaccio, Casa del Popolo “Pio La Torre” Acilia, PrendoCasa Cosenza, Comitato Soccavo (Napoli), Lido Pola Napoli, Confederazione Regionale USB Campania
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Angelo Gorgoni (1639-1684) di Galatina e una stroncatura forse immeritata (1/2)
di Armando Polito
Dopo aver passato in rassegna i componimenti dedicati, a parte il primo, agli animali, in cui i riferimenti al mito trovavano diffuso albergo secondo il metaforico gusto dell’epoca, passo a quelli in cui il Gorgoni si misura con problemi esistenziali o fenomeni con cui l’umanità è destinata a confrontarsi fino, probabilmente, alla sua estinzione.
(pag. 81)
La Morte
Senza penne son vento; à scherno hò l’ali,
e ‘l tutto in brieve punto lascio ucciso.
Le Bare elette ad egria funerali.
per carri eleggo dove trionfo à riso.
Pioggie di sangue, e grandini di strali
ovunque giungo, ovunque approdo avisob;
e degli spirti altrui spoglie fatali
empio l’Inferno, e colmo il Paradiso.
Mi porge il Tempo tributaria usura;
già potendo fermar l’Orbe retondo
come estinto l’inceptoc in sepoltura.
Ogni cosa creata in Lethed affondo;
sotto i miei colpi ha da spirar Natura,
Iddio produsse, ed io rovino il mondo.
________
a tristi
b annuncio
c ciò che si è iniziato
d Fiume dell’oblio nella mitologia greca e romana; da λανθάνω (leggi lanthano)=nascondere.
(p. 82)
La Politica
Se’ tutto il Mondo à gli miei gesti intento,
sovra tutti i Monarchi impero a pieno.
Chi de’ Statuti miei s’avanta alienoa
voli tra Selve à pasturar l’Armento.
Scovro grandezze, che non regna argento,
con astutie à gli Regni io reggo il freno.
Fingo, che sorda sono, ò cieca almeno,
s’à punire non vaglia un tradimento.
Più nelle Reggie, che ad altrove hò loco.
Dall’apparenze mie nasce il livore;
quando è tempo di pianto, io mostro il gioco.
É delle leggi mie queste il tenore:
d’ogni perdita vasta io narro il poco,
de’ trionfi minuti, il più maggiore.
_________
a Chi si vanta di essere estraneo alle mie direttive
(p. 98)
Per l’uso delle perucche, frequentato dal vano secolo
Da mentitea à Natura un lusso vano,
che l’huomo accusa effiminato, e molle.
Ebro sì secolo rio, pregiasi invano,
mentre ciocche insensate Aurab l’estollec.
Braccio, che non di spada arma la mano,
almad,che non guerreri ordigni volle:
per lascivetto crin, pensiero insano,
l’accende i fasti, e vanità già bolle.
Censurata livrea, vile ornamento,
hor i petti virili abbaglia a torto,
tesor, ch’odia fortuna, e furae il vento.
Ecco, chi non dirà con senso accorto,
che l’huomo forte, divenuto lento,
oggi per Nume adori il crin d’un morto?
__________
a cose finte
b il vento
c solleva
d anima
e ruba
(p. 131)
Forza dell’eloquenza
Tutto può, tutto fà, lingua loquace,
qualor con salia à lusingarti viene,
pretenda Ulisse, e benche erede è Aiace,
perche l’armi d’Achille, e Ulisse ottiene.b
Vinca Reina, in libertade, in pace
senza leggi tiranne, e senza pene:
e ‘l gran Periclec, nell’orar fugaced,
libera, indusse in servitude, Atene.
Eloquente spergiuro Acheo Sinone,
seppe sì dir, che la Troiana plebe
chiuse il greco destriero entro Ilione.e
Folef son poi, che le marmoree Glebe
con la lira tirò g, mentre Anfione
con l’eloquenza fè le mura a Tebeh.
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a arguzie
b Allusione alla contesa tra Aiace ed Ulisse per l’attribuzione delle armi di Achille, con il tragico epilogo celebrato da Sofocle nell’omonima tragedia. Dopo che Ulisse viene giudicato più degno di lui di prenderle in consegna, Aiace medita la vendetta ma la dea Atena gli toglie il senno, per cui egli compie azioni indegne di un guerriero. Ritornato in sé, per la vergogna si uccide.
c Politico, oratore e militare ateniese del V secolo a. C; la sua azione politica non ha mai trovato valutazione concorde tra gli studiosi, considerandolo alcuni un liberale, altri un semplice populista. Già lo storico Tucidide (V-IV secolo a. c.), che pure era un suo ammiratore, in Storie, II, 65 così si espresse: Ἐγίγνετότε λόγῳ μὲν δημοκρατία, ἔργῳ δὲ ὑπὸ τοῦ πρώτου ανδρὸς ἀρχή (Era a parole una democrazia, nei fatti il potere era sotto il primo uomo). Il Gorgone sembra aderire a questo giudizio.
d veloce, abile nell’arte oratoria
e Sinone si lasciò appositamente catturare dai Troiani e riuscì a convincerli ad introdurre dentro le mura di Troia (Ilio>Ilione) il famoso cavallo di legno.
f favole, qui, però, non in senso dispregiativo ma in quello di racconti mitici.
g Orfeo con la sua cetra faceva muovere alberi e pietre (marmoree glebe), fermava i fiumi e ammansiva le belve.
h Anfione per la costruzione delle mura di Tebe utilizzò le pietre del Citerone spostandole con il suono della lira donatagli da Ermes.
Il prossimo sonetto che leggeremo è un’insolita, per quei tempi, dichiarazione d’indipendenza. Malizia mi suggerisce di chiedermi quale sarebbe stata la dedica, vista quella che suo fratello indirizzò, quattro anni dopo la sua morte, a Francesco Maria Spinola (1659-1727), che tra i tanti titoli, riportati nel frontespizio, deteneva anche quello di duca di S. Pietro in Galatina. Scrive, fra l’altro, Giovanni Camillo trattarsi di un attestato di antica e cordiale osservanza, il che fa pensare ad un rapporto datato, cosa confermata quasi in conclusione, dove si legge: Felicissima dunque s’appelli S. Pietro Galatina mia Patria, di cui è meritevolissimo Duca. Per esserle toccato in sorte di havere sì Nobile, Valoroso, Virtuoso, e Benigno Padrone. E d’ogni invidia degna si stimi la mia casa, con occhio cortese sempre da sì sublimi Padroni, e rimirata, e protetta. Le raccordo per fine, e protesto, che nella Schiacchiera, glorioso Stemma del suo gran Casato, ove si mira, et ammira l’apparato di tanti varii Personaggi, saranno sempre i Gorgoni le pedine, e pedoni a piedi suoi posti, e prostrati. Sicurissimi di mai assaggiare Schiacco matto di sinistra Fortuna.
Nell’immagine che segue lo stemma della famiglia Spinola1 (d’oro, alla fascia scaccata di tre file d’argento e di rosso, sostenente una spina di botte di rosso, posta in palo) sul portale principale del palazzo ducale a Galatina, a riprova che quanto ad invenzione metaforica Giovanni Camillo non era da meno di Angelo.
foto di Alessandro Romano
Tenendo conto anche di quello intitolato La Politica, che abbiamo letto prima, mi chiedo se in fase di pubblicazione Angelo li avrebbe eliminati entrambi dalla raccolta autocensurandosi o li avrebbe mantenuti, a costo di urtare la suscettibilità dell’eventuale, quasi inevitabile per il costume dell’epoca, dedicatario.
(p. 179)
Non hà genioa di servire in corte
Nacqui à me stesso, e così far non voglio
me stesso d’altri, e suggettar mia sorte;
qualor bersaglio mi propongo à morte,
punto da i dardi suoi, vòb che mi doglio.
Essere ad onde di capriccio un scoglioc,
troppo duro è per me, troppo m’è forte.
Ha stravaganti idolatrie la Corte,
giacche al pari del Rè s’adora il sogliod .
Ivi potenza è podagrosa all’attoe,
prima, ch’un’alma poco onore avanze,
i crini d’oro inargentati ha fattof.
Han, politici i Rè, barbare usanze;
serbano i Corteggiani in sù l’estrattog,
ond’hanno metafisiche speranze.
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a voglia
b voglio
c Il potere è paragonato al capriccioso movimento delle onde.
d Il trono, simbolo del potere.
e lenta a muoversi, come chi è affetto da podagra
f prima che un’anima consegua un po’ di onore, ha reso i capelli color argento da biondi che erano (l’interessato è diventato vecchio)
g mantengono il favore dei cortigiani con promesse astratte
(p. 180)
Abbondanza di poeti
Mancano gl’Alessandri, e i Cherilia
in maggior copia in ogni parte io trova
de’ metri armoniosi al Mondo novo,
più, che frutto gl’Autunni han fior gli Aprili.b
Dell’acque Pegaseec sorsi sottili
non si bevon lassù, per quel che provo.
Nascono Cigni d’ogni specie d’ovod,
a cui, fonti fatali, or sono i Nilie.
Le lire degli Orfeif, mille Neantih
trattan con man superba; e ‘l canto foscoi
par, ch’à sdegno attizzasse anco i latrantil.
Più si canta, che parla. E sì conoscom,
che Parnaso incapace à Cigni tantin,
vanno i Poeti, come i branchi al boscoo.
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a Mancano i grandi condottieri ed i poeti epici; per i primi viene citato Alessandro Magno (IV secolo a. C:, per i secondi Cherilo di Samo, poeta epico del V-IV secolo a. C.
b in misura più appariscente dovunque io trovi al mondo poesie armoniose: come i fiori in primavera sbocciano ma non maturano mai in frutto. Probabilmente al Lezzi è sfuggito lo stile contorto di questi versi, altrimenti il suo giudizio sarebbe stato, se possibile, ancora più severo.
c Pegaso era un cavallo alato che per ordine di Posidone arrestò la crescita del monte Elicona verso il cielo, dovuta al piacere datogli dal canto delle Pieridi in gara con le Muse, con colpo di zoccolo che fece sgorgare la fonte Ippocrene.
d nascono poeti destinati geneticamente a non esserlo
e per le quali fonti d’ispirazione non sono quelle della poesia antica (tra cui la fonte Ippocrene appena citata) ma fiumi senza mitiche implicazioni poetiche, come il Nilo
f Vedi la nota g a p. 17.
h Neante di Cizico, storico greco del III secolo a. C., viene qui assunto come modello di chi dovrebbe dedicarsi solo a ciò per cui ha provato talento (il che, però, non esclude che uno storico possa essere, magari solo potenzialmente, un poeta e che un poeta non sia negato, quasi geneticamente, per la storia).
i oscuro
l i cani
m vedo
n essendo il Parnaso (monte della Grecia centrale nell’antichità sacro ad Apollo e Dioniso, nonché sede delle Muse e, dunque, simbiolo della poesia)atto ad ospitare tanti (sedicenti) poeti
o vagano nel bosco come gli animali in branco
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1 La famiglia Spinola, di origini genovesi, vantò ben undici dogi dal 1531 al 1773 e ben quindici cardinali dal XVI al XIX secolo.
Per la prima parte: http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/27/angelo-gorgoni-1639-1684-di-galatina-e-una-stroncatura-forse-immeritata-1-2/
#Angelo Gorgoni#Armando Polito#duca di Galatina#Francesco Maria Spinola#Galatina#stemma Spinola#Libri Di Puglia#Spigolature Salentine
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“Tutte le mamme di Milano ieri hanno pianto”. Luglio 1947: 44 bambini muoiono in mare, ad Albenga. Gianni Rodari scrive il suo primo, straziante articolo per “l’Unità”. Eccolo
Tutte le mamme di Milano hanno pianto. È una tragedia feroce quella che abbraccia in una morsa il giovane Gianni Rodari, all’epoca ventisettenne, agli esordi della sua carriera giornalistica. La tragica morte di oltre quaranta bambini fu infatti la prima collaborazione di Gianni Rodari con l’edizione milanese dell’Unità; in quelle stesse concitate ore anche Dino Buzzati inaugurava la sua collaborazione con il Corriere della Sera (il 17 luglio 1947 usciva il suo pezzo: Tutto il dolore del mondo in quarantaquattro cuori di mamme). Doveva seguire il fatto terribile di cronaca nera: erano annegati quarantaquattro bambini milanesi della colonia marina di Loano. La motonave su cui viaggiavano colata a picco, dopo l’urto contro un palo, ad appena cento metri dalla spiaggia di Albenga, il maledetto 16 luglio. È quasi impressionante che lo scrittore più amato dai bambini, premio Andersen nel 1970, abbia scritto, per «L’Unità» quel 18 luglio 1947, a due giorni dalla disgrazia, un articolo così profondamente tragico e di una tale bellezza angosciosa. La delicatezza e la profondità della descrizione dell’animo umano con cui Rodari riporta alla luce il dolore disumano della madre orfana del piccolo Enzo e del papà che ricordava di aver riempito d’acqua una bottiglietta sono straordinarie. La vitalità dei bambini riflessa nel ricordo delle bucce d’arance disseminate sul marciapiede, le cartacce delle caramelle, la carta stagnola di qualche cioccolatino. Il chiacchiericcio dei bambini paragonato a uccellini svegliati dal sole fra i rami, le madri che vestono i bimbi, che sistemano i capelli con il pettine bagnato, allacciano i sandali. Solo uno scrittore di razza come Rodari può far piangere disperatamente con queste poche, familiari, nitide descrizioni. Leggendo questo pezzo sembra di comprendere, in un lampo, la sua vocazione di narratore di storie per bambini. Quei morticini bianchi, il dolore senza pace di genitori impotenti di fronte al destino crudele, quelle piccole mani che non saranno più sporche di vita e di fango pesano come una pietra sul cuore del sensibile Rodari, che ne rimane impressionato. Sgomento. Ferito di fronte alla vergogna di sapersi vivo. Infatti si piange per la “vergogna di sé, per l’oscuro agitarsi di antiche memorie, per aver amato troppo poco la propria madre”, ma soprattutto “per essere lì vivo e goffo mentre la morte si era posata sui visi dolci, sui visi troppo belli che ormai non avevano più nome”. E i nomi che Rodari inventerà nelle sue storie saranno moltissimi, lieti e leggeri: Alice Cascherina, Giovannino Perdigiorno, il signor Fallaninna… Penso, con mestizia, al bambino bianco di questo articolo contrapposto al suo famoso “bambino di gesso”. Ma soltanto nella sciagura più profonda nasce la letteratura più grande. La vocazione autentica è una cura contro il dolore, è il bel vestito che copre la ferita, la sua cicatrice. Era l’estate 1947, la guerra iniziava ad essere un ricordo, pochi mesi prima, Rodari aveva lasciato (l’8 marzo 1947) “L’Ordine Nuovo” ed era approdato all’edizione milanese dell’“Unità”. Il caporedattore di cronaca era allora Fidia Gambetti che ne tracciava il ritratto. «“Ultimamente sono arrivati in redazione colleghi giovani e meno giovani. Dalle province della Lombardia, dell’Emilia, del Veneto; da altri giornali; dall’attività politica”. Con Crosti, Panozzo, Montesi, Pancaldi, Signori, “un altro ‘personaggio’, fra i nuovi è Gianni Rodari. Lavora in cronaca, allegro, pronto alla battuta, con quel suo viso da ragazzo, un ciuffo di capelli renitenti al pettine, sempre sugli occhi pungenti e arguti. Quando lui è presente, in cronaca è spettacolo: fa discorsi o recita in vari dialetti, imita o fa il verso a questo o a quello; improvvisa originali e divertenti filastrocche che talvolta si ritrovano scritte qua e là sui tavoli e sui muri”». Quel pettine bagnato dalla mamma, forse lui cercava di sfuggire. Ma il giovane Gianni Rodari per dipingere così umanamente il dolore altrui, conosceva bene il proprio, vissuto precocemente, anzitempo.
Linda Terziroli
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Tutte le mamme di Milano hanno pianto
Fin dal mattino grigio la notizia ha pesato sul cuore di Milano, quasi incredibile, quasi assurda. Le voci degli strilloni erano quelle di tutti i giorni: gridavano alle fermate dei tram le cifre spaventose della tragedia con accento stanco, professionale. Dal balcone del Municipio penzolava inerte la bandiera listata a lutto. A quell’ora i milanesi si recavano al loro lavoro. La prima inesprimibile sensazione di sgomento, ognuno se la teneva in petto, la sentiva ingigantire d’ora in ora, mentre la cifra non si fermava e ognuno ripeteva meccanicamente i gesti di ogni giorno.
Ma in tutte le case di Milano, ieri, si è pianto. Le madri hanno vestito i loro bimbi, come ogni mattina hanno ravviato i cari capelli col pettine bagnato, hanno ascoltato il loro chiacchiericcio di uccellini che il sole sveglia tra i rami, hanno piegato il ginocchio ad allacciare le fibbiette ai sandali: i bimbi sono scesi nei cortili, le madri li hanno uditi giocare, si sono affacciate alle improvvise risse subito dimenticate, si sono sentite stringere indicibilmente il cuore.
Tutte le mamme di Milano ieri hanno pianto. Come non è vero che si può piangere solo per egoismo, per la gioia distorta di saper salvi i propri cari da una sciagura che è piombata invece terribile su altri! Le mamme di Milano hanno pianto per i quarantaquattro morticini di Albenga: ogni mamma si è sentita ieri madre di quarantaquattro piccoli annegati, ha sentito le invocazioni strozzate dalle onde, ha pianto le sue lacrime sui teneri petti dove il cuore ha taciuto per sempre.
E le altre mamme, quelle che nel cuore della notte furono destate dal colpo battuto alla porta da un vigile, o piuttosto da un crudo destino, le mamme che sono accorse al Castello coi visi stravolti, anche queste mamme non hanno pianto solo per il proprio piccolo, per quello che le ha chiamate morendo, senza che lo potessero udire. Nell’atrio della Torre del Filarete, senza conoscersi, si gettavano una nelle braccia dell’altra, mescolando le grida disperate e le lacrime, fatte sorelle dalla sventura, trasformate l’una nell’altra nello stordimento della sofferenza.
«Il mio Enzo» chiamava una donna con voce disumana. Nessuno conosceva il suo Enzo. Ognuna di quelle madri aveva un «suo» Enzo, o Pierluigi, o Carlo, che aveva portato nel grembo, sorridendogli ancora prima che egli ne uscisse per vivere. Un suo bimbo, di cui aveva sognato il nome molti mesi prima di poterglielo sussurrare.
Un brivido correva freddo nel sangue dei presenti. E forse invece ognuno ha pianto per vergogna: per vergogna di sé, per l’oscuro agitarsi di antiche memorie, per aver amato troppo poco la propria madre, per essere lì vivo e goffo mentre la morte si era posata sui visi dolci, sui visi troppo belli che ormai non avevano più nome. Dal finestrino d’uno degli autobus pronti a partire per Loano un uomo tese le braccia piangendo a qualcuno che giungeva sorretto dai parenti. «Signora», gridò: «eravamo alla stazione, assieme, si ricorda? Sono andato a prendere l’acqua per tutt’e due, si ricorda? Erano insieme, il suo bambino e il mio!».
Era andato a riempire d’acqua una bottiglietta, l’aveva porta ai ragazzi dal finestrino. Ed essi l’avevano posata sul sedile, erano tornati subito ad affacciarsi. I ragazzi sono imprevidenti. Dopo dieci minuti d’attesa in treno, ecco che essi avevano esaurito la piccola scorta di arance: vedevi le bucce disseminate lungo il marciapiede, e le carte delle caramelle, e la stagnola d’un cioccolatino. Poterle ridire adesso quelle affettuose parole di rimprovero e di raccomandazione: «Tieni da conto per il viaggio, e non stare in piedi sul sedile, non sporgere le mani!».
E quelle manine, adesso, doverle pensare bianche, rigide, dure. Che cosa non hanno toccato quelle mani, ottantasei mani di bimbi: la palla di gomma, le palline, i quaderni, e pezzetti di vetro, e chiodi, e giocattoli. Poterle baciare, adesso, sporche d’inchiostro, di fango, sporche di vita, d’allegria, di salute. Uno dopo l’altro gli autobus si sono allontanati col loro tragico carico umano. Mamme e papà non hanno visto sfilare al loro fianco le strade di Milano, le case, le piazze della loro città: essi non vedevano più ormai che un piccolo morto bianco, immobile e chiuso nel suo breve spazio, due labbra pallide su cui pesa il bacio silenzioso della morte.
Gianni Rodari
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Era nato a Omegna, sul lago d’Orta, il 23 ottobre 1920 (nel 2020 ricorrerà il centenario) e vissuto a Gavirate, nella provincia di Varese, all’età di 9 anni, era, infatti, rimasto orfano di padre. Parla di sé, in una preziosa “Autobiografia”, all’interno del volume biografico Storia del giovane Rodari a cura di Pietro Macchione, scritto in collaborazione con Chiara Zangarini e Ambrogio Vaghi (edito da Macchione). “A 11 anni entrai in Seminario e ne uscii a 13: non saprei ricostruire per quale processo vi sia entrato, ne sono uscito perché trovavo umiliante la disciplina”. Leggere era già la sua passione, una passione ben alimentata: “Dall’età di quattordici anni leggevo di tutto, soprattutto filosofia, letteratura, storia dell’arte e delle religioni”. La poesia fu il primo – e forse il suo più congeniale – strumento, della precoce vocazione letteraria: “Facevo la terza elementare a Omegna, quando scrissi su una carta assorbente i miei primi versi. Quell’anno scrissi moltissime poesie su un quadernetto da disegno, e un mio compagno di scuola le illustrava. La maestra le mostrò al direttore. Ne venne pubblicata una sul giornale dei commercianti”. Ad una fervida fantasia si aggiungeva la passione per la musica, ascoltata e riascoltata, come l’inno di Garibaldi e la Marsigliese, che il giovane poeta ascoltava dalla sveglia di zia Marietta, che contribuì alla sua “educazione musicale e civile”. Un estro che si declinava in giocose invenzioni, non solo in versi: “il primo strumento musicale, me lo feci di mia mano, a nove o dieci anni, servendomi di vecchie scatolette odorose del lucido da scarpe”. Oltre alla musica, la curiosa esperienza di burattinaio che si intravede nei simpatici personaggi delle sue filastrocche: “tre volte in vita mia sono stato burattinaio: da bambino, agendo in un sottoscala che aveva una finestrella fatta apposta per assumere il ruolo di boccascena; da maestro di scuola, per i miei scolari di un paesetto in riva al lago Maggiore, da uomo fatto per qualche settimana, con un pubblico di contadini che mi regalavano uova e salsicce. Burattinaio, il più bel mestiere del mondo”. La scrittura per ragazzi, favole, fiabe e filastrocche è senz’altro parte più rilevante e più famosa della sua produzione, di cui le Favole al telefono, un best seller ancora oggi e Filastrocche in cielo e in terra (Einaudi) sono due titoli estremamente conosciuti tra il pubblico più tenero. “Debbo aver già raccontato o confessato da qualche parte, non ricordo dove, che spesso, per esercizio, vado in cerca di personaggi, situazioni, storie da raccontare, negli orari ferroviari, nell’elenco telefonico, introducendo nelle aride colonne di nomi di persona, di città la semplice provocazione di una rima. Ottengo in pochi istanti la notizia, assolutamente inedita, che “una mucca di Vipiteno/aveva mangiato l’arcobaleno”. Lo scrittore di Omegna (e di Gavirate) ha affrancato il genere della letteratura per l’infanzia, grazie alla profonda ironia, a volte stravolgente e un po’ dissacrante, ma non troppo, con un gioco mai banale e sempre volto all’uscita dagli schemi e dal conformismo della realtà, da quei luoghi comuni che ci imprigionano, ieri come oggi. Per volgere lo sguardo alla libertà, con un sorriso giocoso e una lieta malinconia, per giocare con il nostro quotidiano, ripensando alle tradizioni che un po’ ci assomigliano. Quanto quei morticini della tragedia di Albenga sono all’origine dei suoi scritti più riusciti? I bambini che hanno letto le sue filastrocche sono ormai diventati grandi adulti, in corpi e anime ormai segnati dal tempo. I piccoli bambini di Loano saranno bambini per sempre. “Si può parlare degli uomini anche parlando di gatti e si può parlare di cose serie e importanti anche raccontando fiabe allegre” dichiarò quando ricevette il premio “Hans Christian Andersen per la fiaba inedita”, nell’ormai lontano 1970, quasi cinquant’anni fa. (L.T.)
L'articolo “Tutte le mamme di Milano ieri hanno pianto”. Luglio 1947: 44 bambini muoiono in mare, ad Albenga. Gianni Rodari scrive il suo primo, straziante articolo per “l’Unità”. Eccolo proviene da Pangea.
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STGM III (Atto I)
Aisha era scomparsa. Quando l'aveva saputo le erano tremate le gambe e la terra, in cui la sua Essenza affondava solide radici, d'un tratto aveva cominciato a risucchiarla; la tenera Madre si era fatta Matrigna nel gorgo che sembrava trascinarla sempre più in basso - nelle viscere del proprio Dolore. Ma la verità era un'altra. La Terra e la Natura erano e resteranno madri amorevoli della loro Custode senza tuttavia poterla preservare dall'angoscia del turbamento che notizie come questa sanno infliggere. Flora non capiva: la principessa di Andros era la sua migliore amica dunque perché allontanarsi senza avvisarla? Era anche vero che da quando la sventura nella forma della carestia che aveva preceduto poi un misterioso morbo, si era abbattuta su Andros, la giovane Fata era diventata sempre più sfuggente fino a trincerarsi dietro una preoccupante <del>assenza</del> silenzio che nemmeno lei era riuscita a penetrare. Alla Corte erano tutti preoccupati per la sua sorte soprattutto a causa del NoMor; era così stata battezzata la malattia nel sangue delle sue vittime. A sentirlo sembrava il nome di un qualche demone ancestrale e in un certo senso lo era: chiunque ne fosse stato contaminato nel giro di una settimana avrebbe avuto le membra consumate dalle pustole e gradualmente avrebbe perso il raziocinio, ma non sarebbe morto - non ancora; ridotto a un ammasso di carne purulenta e sofferenza un'innaturale ferocia avrebbe esasperato i suoi istinti al punto da spingerlo a cibarsi di altri suoi simili nel tentativo di alleviare la fame e l'agonia nel modo più basilare. NoMor, non ancora morti e non più vivi. Zombies li avrebbero chiamati sulla Terra secondo Bloom. <i>Popolo</i> li chiamava Aisha: sudditi, amici, parenti. Che ora stavano lì a disperarsi. Ce l'aveva ancora negli occhi lo scintillio della chioma fulva di Tressa ardere nella luce d'un pallido sole con un sudario di lacrime a offuscarle il viso abbronzato - <i>quegli occhi contenevano l'oceano, erano Oceano e non avrebbe smesso di piangere mai, mai</i>. Era alta e così minuscola Flora ora che stava percorrendo quel sentiero con le sue amiche e quella giovane che nemica non è ma non è certo amica. Più che altro per come si comportava più che per innato pregiudizio. Oltre lei c'erano Bloom, Musa, Tecna e la strega di nome Elle; Stella si era rifiutata categoricamente di allontanarsi da Solaria e dal suo agonizzante padre. E forse era meglio così, meglio che si fosse risparmiata quest'altra preoccupazione a pesarle addosso, macigni sotto i quali l'animo leggero della principessa di Solaria rischiava di frantumarsi in infiniti e piccolissimi cristalli di luce malinconica. Stavano percorrendo un sentiero attraverso il bosco, una striscia di terra su cui i ciuffi d'erba stavano diventando sempre più numerosi e ampi a testimoniare la volatilità della presenza dell'Uomo e l'imponenza della forza dirompente con cui la Terra si stava riappropriando di ciò che era suo, con dita di legno d'alberi dai lunghi fusti che culminavano in rami contorti su cui le foglie lambite dal vento cantavano inni gioiosi a un cielo limpido che s'intravedeva appena da lì in basso. Eppure era bellissimo. Gli occhi di Flora non potevano incontrarlo ma poteva <i>sentirne</i> la bellezza nel calore con cui baciava le chiome rigogliose, nel tripudio della natura tutta che li circondava, fitta e selvaggia, traboccante di Vita che palpitava nella linfa degli alberi, tra i petali di esotici e colorati fiori, nel frullare delle ali degli uccelli i cui versi riecheggiavano nella tiepida penombra. Una grandezza terribile e stupenda. No, non avrebbe dovuto consentire alla lietezza di levigare i suoi crucci o si sarebbe sentita in colpa verso Aisha; eppure era proprio quella sintonia elettiva che aveva con la selva a far sì che il suo animo brillasse della luce riflessa di tutta la gloria della Natura, mentre nei suoi sensi spontaneamente protesi verso quel paesaggio affascinante vibravano energie in frenetici alleluia. Non riusciva a sottrarsi al benessere così razionalmente peccaminoso, così istintivamente giusto - <i>come puoi negare la Verità dei battiti del cuore?</i> Non poteva. E non appena si fossero allontanati da quello che era uno dei pochi boschi di Andros - pianeta perlopiù marino - allora avrebbe avuto modo di espiare nelle sferzate d'un inesorabile rimorso elevato a potenza. 《Stando a quanto ci è stato riferito da queste parti dovrebbe esserci un villaggio》 Bloom s'interruppe mordendosi il labbro inferiore e spostando gli occhi azzurri verso la cadaverica Strega 《Uno dei pochi ancora risparmiato da NoMor. Sei sicura che in tutto questo non c'entri...》 Si bloccò. No, non aveva il coraggio di pronunciare quel nome, non ancora non di nuovo. 《Valtor? Sinceramente non lo so, ma non mi stupirebbe》 Elle alzò le spalle senza nemmeno rivolgerle un'occhiata; Tecna le stava precedendo di qualche passo lasciandosi andare a qualche imprecazione ogni qualvolta il palmare s'inceppava, ma non perse tempo a rischiarare con la nettezza della logica la torbida nebbia paranoica che aveva preso ad addensarsi da quando avevano saputo chi era il nemico da dover combattere - un'altra volta 《Non ne abbiamo la prova. Non sappiamo nemmeno se quello che dici, Elle, è vero; non sto insinuando la tua malafede, però magari potrebbe non essere così. Insomma, ci vogliono elementi concreti》 Elle sbuffó e alzò gli occhi al cielo spazientita 《Ricordatemi di preciso perché ho scelto di seguirvi nel rintracciare la vostra amica》 ringhió tra sé e fortunatamente non si accorse di Musa che se la stava ridendo sotto i baffi nell'udirla borbottare. La luce che filtrava attraverso le foglie stava divenendo sempre più intensa allargandosi in pozzanghere che divenivano distesa lucente man mano che la vegetazione si diradava; 《Ecco, quello dovrebbe essere il villaggio》annunciò Tecna allungando il braccio a indicare un punto non troppo lontano della radura che si spalancava davanti a loro, lì dove brillavano i colori vivaci di basse e modeste costruzioni rurali, di contadini e artigiani.
Avanzarono in silenzio e sotto i loro passi il sentiero si faceva via e serpeggiava tra edifici in pietra e muratura dai tetti spioventi, un'unica linea che correva dritta e poi s'incurvava, si diramava nella geometria umile d'un paese che a stento raggiungeva il centinaio d'abitanti. E tuttavia c'era qualcosa di strano - una mancanza. Non c'erano suoni al di là dello scricchiolio delle loro scarpe e l'affanno dei respiri in petti accaldati sotto i raggi d'un sole cocente; un sole maligno nella cui luce quel luogo si era prosciugato. Flora strizzó gli occhi e li levò verso l'alto storcendo istintivamente il nasino nel materializzarsi d'un vago quanto sgradevole sentore. Si fermò subitaneamente mentre le altre continuavano a macinare metri e a guardarsi attorno spaesate - come se fossero loro a essersi perdute. 《Aspettate》 Quella della Fata dei Fiori sembrava più un'implorazione mentre si portava le mani ai lati della testa e abbassava le palpebre: cercò di richiamare a sé la concentrazione necessaria a entrare in contatto con la terra riarsa, lasciando che il proprio spirito scivolasse al di sotto dei propri piedi fino a infiltrarsi nel terreno, e poi ancora più giù nelle profondità fino a raggiungere l'inestricabile intreccio di radici e seguirle, inseguire quella traccia fetida, estremamente sgradevole che le sue narici avevano catturato. Non avrebbe voluto, si avvicinava molto alla violenza l''ostinazione con cui cercava di riempirsi l'olfatto di quella scia fino a poterne avvertire il retrogusto rancido sulla lingua, per scandagliarla e arrivare a conoscere cos'era quella sorta di marcescenza - <i>aveva quel sapore la mancanza di vita?</i> Così orrenda, così orrenda... Anche Tecna sembrò intuire qualcosa e prese a occhieggiare attorno furtiva frattanto le dita esperte si muovevano rapide sul palmare. 《Ma che sta succedendo?》 Intervenne Musa attirandosi l'ennesima occhiataccia di Elle 《Davvero ti sfugge, Fata della Musica?》 inarcó sarcastica un sopracciglio e con un cenno del mento indicó il paesaggio circostante 《Questo è praticamente un paese fantasma e l'aria puzza di morte》 Concisa e diretta, forse troppo. Bloom fu scossa da un brivido e Musa sussultó, lasciandosi andare a un rantolo turbato 《Questo silenzio...》Era innaturale. La faceva stare male. Non lo disse ma la sua espressione contratta lo palesava. Nulla di quel luogo apparteneva più alla Vita. Tranne loro. 《NoMor》Una sola parola scaturita dalle labbra di Tecna mosse appena nel modellare il sospetto impadronitosi della mente di tutte; e sulla sua bocca aveva il rintocco della sentenza. Dal piccolo drappello sembrò levarsi un unico sospiro preoccupato. Intanto Flora aveva riaperto gli occhi e guardava nella direzione d'uno spiazzo che probabilmente costituiva il cuore pulsante del piccolo centro abitato che era stato. Il disgustoso olezzo sembrava sprigionarsi da lì, emanarsi ed espandersi gradualmente soffondendo l'aere che diveniva più greve, un'intangibile cappa che lentamente le stava avvolgendo; forse era la patina di sudore della loro pelle ma la viscosità che le insozzava aveva qualcosa di malsano - avvelenava il respiro, ammorbava le carni. Anche Tecna smise di camminare e intimó 《Ragazze, ferme...》 Ma se avesse semplicemente lasciato cadere la frase o se avesse continuato, questo Flora non avrebbe potuto dirlo. Un colpo secco alla nuca talmente rapido e forte da essere indolore - oppure, molto semplicemente, la sofferenza era stata talmente fulminea e lancinante da annullare qualsiasi percezione. E poi sulla Fata dei Fiori calò il buio.
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E’ il frutto di una storia secolare di bontà E’ un capolavoro del gusto italiano che si affina per almeno 12 anni nelle botti di legno delle soffitte di Reggio Emilia. E’ l’Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia (ABT), un piacere da intenditori da assaporare goccia dopo goccia. Una vera dlizia per i cultori del gusto.
Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia (ABT)
La Denominazione di Origine Protetta Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia si riferisce al condimento ricavato da mosti d’uva provenienti da varie tipologie di vitigni del territorio reggiano. Si caratterizza per il colore bruno scuro, limpido, lucente; il sapore è dolce e agro, ben amalgamato, di apprezzabile acidità e aromaticità. E’ prodotto nelle tipologie Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia DOP Bollino Aragosta, Bollino Argento e Bollino Oro.
Zona di Produzione La zona di produzione dell'Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia DOP è localizzata nella provincia di Reggio Emilia, nelle regione Emilia Romagna.
Caratteristiche del Prodotto La Denominazione di Origine Protetta Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia è riservata al prodotto avente le seguenti caratteristiche:
colore bruno-scuro, limpido e lucente;
densità non inferiore a 1,200 g/l (misurata a una temperatura di 20°C);
sciropposità apprezzabile e scorrevole;
profumo penetrante e persistente, aromatico, con gradevole acidità e bouquet caratteristico dovuto anche alle tipologie di legno utilizzato per la fabbricazione delle botti;
sapore dolce e agro, ben amalgamato, di apprezzabile acidità e aromaticità, in accordo con quelli che sono i caratteri olfattivi che contraddistinguono il prodotto stesso;
acidità totale non inferiore a 5 gradi. Il valore è espresso in grammi di acido acetico per 100 g di prodotto.
Ciascuna tipologia, così come immessa in commercio, si differenzia per le seguenti caratteristiche:
Bollino Aragosta
periodo invecchiamento mai inferiore a 12 anni;
profumo delicato;
buona acidità, gradevolmente pronunciata.
Bollino Argento
periodo invecchiamento che oscilla tra i 12 e i 25 anni;
acidità attenuata;
sapore agrodolce;
profumo intenso e ricco.
Bollino Oro
invecchiamento di almeno 25 anni;
maggiore densità rispetto alle altre tipologie;
gusto persistente;
notevole ricchezza organolettica.
Cenni storici Le origini dell'Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia DOP sono ancora oggi sconosciute. Le prime fonti scritte circa la produzione di questo condimento risalgono infatti al 1046, quando l’Imperatore di Germania Enrico III, che viaggiava verso Roma, si fermò a Piacenza. Qui egli chiese a Bonifacio, marchese di Toscana e padre della contessa Matilde di Canossa, di essere omaggiato dello speciale aceto che “aveva udito farsi colà perfettissimo”. A tal proposito, nel poema Vita Mathildis, del monaco, Donizone, si narra che proprio nelle stanze del castello di Canossa, si produceva un aceto assai apprezzato da molti nobili. Sappiamo inoltre che nei secoli XII, XII e XIV esistevano a Reggio Emilia, a Scandiano e negli altri principali centri estensi, delle vere e proprie consorterie che riunivano i fabbricanti di aceto. Questi primi confederati avevano l’obbligo di tenere segreta la specifica metodologia produttiva del particolare condimento. Sono famose le citazioni di personaggi illustri sull'aceto balsamico, come il reggiano Ludovico Ariosto che, nella terza delle sue Satire dedicata al cugino Annibale Malaguzzi, scrive: “in casa mia mi fa meglio una rapa ch'io coc, e cotta s'uno stecco inforco e mondo e spargo poi d'aceto e sapa”. Nel 1863 in una pubblicazione del chimico agrario Fausto Sestini e possibile leggere: “nelle province di Modena e Reggio Emilia si prepara da tempo antichissimo una particolare qualità di aceto a cui le fisiche apparenze e la eccellenza dell'aroma fecero acquistare il nome di Aceto Balsamico”.
Caratteristiche del Territorio Il territorio di produzione dell'Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia DOP è caratterizzato da un suolo particolarmente adatto ad ospitare le colture della vite e da un clima specifico che funge da coprotagonista nella fase produttiva dell’aceto. Nella zona di produzione si registra infatti un’estate calda e secca che crea le condizioni ottimali per il processo di ossidazione acetica, per l'evaporazione e quindi per la concentrazione del prodotto. Il freddo dell'inverno, invece, favorisce i momenti di sedimentazione e decantazione che sono responsabili della limpidezza dell'Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia DOP. Lo stretto legame tra il prodotto e i fattori climatici e pedologici del territorio reggiano trova inoltre conferma e sostegno nel divieto di tecniche di invecchiamento accelerato e/o artificiale.
Metodo di Produzione L'Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia DOP è ottenuto dalle uve dei vigneti composti in tutto o in parte dai vitigni Lambrusco, Ancellotta, Trebbiano, dei quali si utilizzano tutte le varietà e i cloni e Sauvignon, Sgavetta, Berzemino e Occhio di Gatta. Per la produzione si possono inoltre impiegare uve provenienti dai vitigni iscritti alle DOC in provincia di Reggio Emilia. La produzione massima di uva per ettaro non deve superare i 160 quintali.
Il prodotto è ottenuto mediante le seguenti fasi:
Preparazione del mosto – la resa massima dell'uva in mosto destinato alla concentrazione non deve essere superiore al 70%, in modo da assicurare almeno 15 gradi saccarometrici. A seguito della pigiatura, i mosti freschi possono essere sottoposti a decantazione e refrigerazione purché non si verifichi il congelamento della parte acquosa. Per l'ottenimento del prodotto è vietato l'utilizzo di mosti muti, a cui è stata aggiunta anidride solforosa allo scopo di bloccarne la fermentazione, o di mosti addizionati.
Cottura – il mosto viene cotto in vasi aperti e a fuoco diretto, fino a che non si registra una riduzione in volume. Il contenuto in zucchero del mosto sottoposto a cottura deve essere compreso tra i 24 e 30 gradi saccarometrici.
Invecchiamento – il mosto cotto è sottoposto a fermentazione zuccherina e ossidazione acetica. L'operazione deve avvenire in locali tradizionali noti nelle zona di origine con il nome di acetaie. Questi luoghi devono essere rispondenti alle esigenze ambientali e termiche, tali da consentire una maturazione del prodotto secondo le tradizionali metodologie e da assicurare la necessaria ventilazione e l'esposizione alle naturali escursioni termiche. Il periodo durante il quale i mosti vengono lasciati a fermentare e a invecchiare non deve essere inferiore ai 12 anni; non è consentita l'aggiunta di sostanze addizionali non previste, fatta eccezione per eventuali colonie batteriche denominate madre. Le operazione di affinamento e invecchiamento avvengono per travaso successivo di mosto cotto in botticelle o vaselli di differenti dimensioni. Ogni botte, facente parte di un intero gruppo chiamato batteria, deve essere specificatamente numerata e contrassegnata al fine di una migliore e immediata individuazione da parte degli organi di controllo.
Confezionamento – avviene tramite imbottigliamento in specifiche ampolline, in presenza dell'Organismo di Certificazione, che assegna un numero progressivo ai fini della tracciabilità. La denominazione Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia DOP deve essere seguita dalla dicitura Denominazione di Origine Protetta scritta per esteso. E’ vietata l'aggiunta di qualsiasi qualificazione diversa da quelle espressamente previste, compresi gli aggettivi “extra”, “fine”, “scelto”, “selezionato”, “riserva”, “superiore”, “classico” e similari. E’ inoltre vietato indicare ogni riferimento all'annata di produzione. Il confezionamento avviene una volta superato uno specifico esame analitico e sensoriale eseguito da un panel di 5 maestri assaggiatori. La chiusura delle bottigliette è assicurata da un tappo in sughero legato con dello spago e sigillato con ceralacca rossa su cui è impresso il marchio della DOP. In base agli anni di invecchiamento sono utilizzati anche i bollini Aragosta, Argento e Oro. In etichetta è inoltre consentito riportare l'indicazione Extravecchio quando la durata dell'invecchiamento non è stata inferiore a 25 anni. Questi contenitori devono assicurare la conservazione della qualità del prodotto ed è necessario che rispondano a caratteristiche specifiche.
Gastronomia L'Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia DOP va conservato a temperatura ambiente, in un contenitore di vetro. Occorre, come unica accortezza, fare attenzione a non mettere il prodotto troppo vicino ad altri alimenti aventi una profumazione particolarmente intensa. Può adattarsi ai più svariati utilizzi:per condire insalate, per arricchire salse, per accompagnare tutte le carni rosse, la selvaggina, il pesce preferibilmente lessato. Sui cibi sottoposti a cottura va aggiunto solo verso la fine della preparazione, per non disperderne l'aroma; ne bastano poche gocce, dal momento che va impiegato per esaltare i sapore e non per coprirli. Nello specifico, l'Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia DOP con l'etichetta Aragosta, grazie al suo profumo tenue, delicato e dalla buona acidità può arricchire carpacci, pinzimoni, insalate. Può inoltre essere utilizzato per insaporire a fine cottura crostacei, costolette d’agnello, petti di pollo e carni rosse poco cotte. E' adatto per preparare fondi di cottura per selvaggina e animali da cortile. Il prodotto avente l'etichetta Argento si usa più a crudo, meno per cotture, poiché risulta più morbido e più dolce. E’ ottimo nella maionese e nelle salse per bolliti o pesci, nei risotti con verdure o con scampi, nei primi piatti ricchi e nobili, come il filetto di manzo o il fegato d’oca. Il prodotto con il bollino Oro non si impiega come condimento ma quasi esclusivamente a fine pasto, da sorbire in cucchiaio o bicchierino. E' adatto per formaggi importanti, saporiti e piccanti, per macedonie di frutti di bosco, per creme pasticcere o gelati, per il panettone o per lo strudel. Una tipica e gustosa ricetta da preparare con l'Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia DOP è l'abbinamento con il formaggio Parmigiano-Reggiano DOP.
Curiosità Perché il prodotto si avvalga della DOP, deve superare con esito positivo un esame fatto da maestri assaggiatori altamente specializzati. Se non viene valutato idoneo, viene rimesso nelle botti ad affinarsi ulteriormente per poi essere ripresentato ai maestri assaggiatori l’anno successivo.
Fonte: http://www.vinocibo.it/it/71-aceti/673-aceto-balsamico-tradizionale-di-reggio-emilia.html
Le ricette Sul Blog:
Battuta a coltello di fassona piemontese con germogli di crescione e Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia (ABT) invecchiato 25 anni
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Composta di mele con cannella e uvetta, gelato alla crema e Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia (ABT)
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Carpaccio di polpo con champignon, Parmigiano Reggiano, Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia (ABT) , pepe rosa e basilico
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Finger food di fichi e yogurt e Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia (ABT)
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Pasta con cipolla caramellata e Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia (ABT)
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Battuta al coltello di Chianina e Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia (ABT)
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Crespelle di cipolle rosse e mele renette con Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia (ABT)
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Puntine di maiale con cipolline borettane e Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia (ABT)
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Con i Polmoni Pieni d’Acqua
C’era una volta (e c’è ancora) una splendida città che si erge su di una laguna: era fatta di marmo e terra e legno e pietra e, pur ospitando molta gente, non aveva affatto l’aspetto di una comune metropoli moderna. Era una di quelle città che non aveva cambiato aspetto per secoli, al contrario delle sue sorelle metropoli che grazie a nuovi edifici e grattacieli che arrivavano fino al sole, mutavano costantemente come la pelle di un serpente.
Nell’aspetto di questa città non vi era gentilezza alcuna, eccetto forse per i colori dell’alba riflessi sull’ acqua dei suoi numerosi canali e per i panorami casuali che la combinazione di queste circostanze creavano involontariamente.
Niente di questa città era solito.Era inoltre un posto difficile; quando un temporale si scatenava le acque colorate diventavano girigiastre e plumbee, inondando l’intera città. E se ci capitavi in momenti come questi, per proteggerti c’erano le sale da te o i ristoranti o le biblioteche.
Eppure, anche se così minacciosa a volte, la protezione era la cosa più preziosa che questa città aveva da offrire; fu vero secoli prima quando etnie perseguitate vi trovarono rifugio in quanto la laguna era staccata dalla terra ferma, ed era vero ora,quando la Ragazza Triste aveva deciso di tuffare la sua mente nella conoscenza di culture e linguaggi così diversi dai suoi, per cercare rifugio nelle parole stampate in pagine vecchie odorose per scappare dalle tragedie quotidiane della realtà e dalla sua spietatezza.che immancabilmente venivano lasciate fuori dal portone principale della biblioteca.
Questa splendida città d’acqua era il suo paese delle meraviglie.
E in realtà nemmeno le importava dell’acqua alta che straripava, pensava semplicemente che la città quel giorno aveva le scatole girate, come poteva accadere a tutti. Si sarebbe messa il cappello su e sarebbe scappata in qualche sala da the, si sarebbe messa tranquilla al suo tavolo, avrebbe tirato fuori i libri e vi avrebbe immerso la mente ancora, fino a quando avrebbe voluto.
Adorava farlo e amava la città che riusciva ad essere così bella in primavera e minacciosa durante i temporali e il cattivo tempo. Le piaceva pensare che la città fosse una signora bellissima e gentile che ogni tanto perdeva le staffe per un qualche dispetto qualcuno doveva averle fatto.
La Ragazza Triste si sentiva così a suo agio, tant’è che aveva persino una buona amica lì con lei: la Ragazza Intelligente. Non era che la Ragazza Triste non fosse intelligente o che alla Ragazza Intelligente non capitasse di essere triste di tanto in tanto, ma se qualcuno di voi avesse potuto vederle o parlare con loro, diciamo, per una buona mezzoretta, avreste convenuto anche voi che la triste malinconia di una e l’intelligenza sveglia dell’altra erano le loro caratteristiche più pungenti e riconoscibili.
Le ragazze erano davvero ottime amiche; entrambe tuffavano le loro teste nelle stesse pagine, nutrivano le loro menti con le stesse parole , parlavano un sacco di sè e dei loro punti di vista, amando scambiarli per vederci meglio. Come quasi adulte, crebbero insieme in quel modo per anni e anni.
Erano anche molto diiverse , e ,se mi è concesso di esprimere un parere, quando due creature così differenti riescono a creare un legame così forte per così tanto tempo, quel legame non può che essere buono e puro e non potrà essere facilmente distrutto. La Ragazza Triste tuffava la sua testa nel mondo creato dalle parole più frequentemente , mentre la Ragazza Intelligente naturalmente, faceva lo stesso con un attaccamento più forte alla realtà; non di meno ammirava il modo in cui la Ragazza Triste riusciva a sparire fisicamente ed essere chissà dove con la sua mente. Quella era una cosa del tutto sua. Non aveva idea da dove provenisse tutta la sua tristezza, sapeva solo che aveva a che fare con roba molto dolorosa in cui era incappata (ancora non si sa se accidentalmente o di proposito) e che anche lei avrebbe voluto seguirla e, per la maggior parte delle volte, era quello che faceva e amava farlo perché i posti in cui la Ragazza Triste la portava erano incredibili, ricchi di bellissime città, piene di ragazzi ubriachi che volevano salvare bambini dal cadere da una qualche rupe, pieni di uomini che non riuscivano a guarire dalle bruciature d’amore o di guerra, e così andavano a fare campeggio o andavano a pescare per cercare di dimenticare gli orrori che avevano visto; donne russe che chiamavano da casa, provenienti da città dal nome più strano mai sentito, per giocare a qualche gioco televisivo a premi
La maggior parte delle volte adorava essere li con lei, tenerle la mano, era incantata dalla ricchezza di quei posti e non riuscivano a smettere di parlarne insieme: “Come può essere la vita vissuta così a pieno all’interno di noi stessi?” , si chiedeva spesso. Ma poi c’erano quegli altri posti, quelli così cupi, pieni di sputi di sangue sul pavimento . La Ragazza Intelligente pensava che tutto quel sangue era inutile, uno spreco, pensava che tutti quei posti bui fossero drammaticamente inutili. E sentiva il presagio che se avesse seguito la Ragazza Triste in quei posti , si sarebbe spinta troppo oltre, e si sarebbe sicuramente persa.
Al contrario infatti, la Ragazza Intelligente doveva tornare a casa , voleva tirare via la mente da quei luoghi ,da quelle pagine. Sapeva che c’era una partenza e anche un ritorno, e sentiva il bisogno di bilanciare le due cose, e proprio in questo stava la sua intelligenza che rappresentava probabilmente la differenza più grande tra le due. Alla Ragazza Triste non importava granché di trovare equilibrio. Quello che cercava era qualcosa che potesse calmare il suo dolore; voleva incredibili cose, voleva trovarsi in posti così diversi, camminare su parole che l’avrebbero portata lontano da dov’era ora. Voleva dimenticare, aveva bisogno di parole che fossero più grandi dei suoi sogni e davvero nulla nei suoi sogni aveva a che fare con l’equilibrio.
Andò così. Ci fu una terribile, terribile caduta: la Ragazza Triste si era persa infatti in uno di quei posti bui , pieno di frecce che volano e perforano petti, pino di lame taglienti e sangue e teschi. Non riusciva a trovare la via d’uscita. La Ragazza Intelligente pensò che fosse ridicola e patetica: “Non puoi semplicemente tornare indietro, per favore?”
La Ragazza Triste non rispondeva, i suoi occhi erano svuotati , non c’era bisogno le rispondesse affinché la Ragazza Intelligente capisse.
“Perché cavolo gli hai lasciato portarti lì eh?”
“Non sono riuscita a resistere. Gli ho creduto. Mi ha fatto vedere certe cose..”
La Ragazza Intelligente era incazzata nera con la Ragazza Triste per la sua mancanza di intelligenza.
Come aveva fatto a perdersi per così poco?
Ma la ragazza stava svanendo sempre di più, si stava perdendo in tutta quell’oscurità, non sembrava di riuscire a riconoscere la via per il ritorno (l’aveva mai saputa?)
Così decise di salvarla. Seguì le sue tracce , attraversò quelle foreste ricche di frecce che avrebbero potuto sbucare fuori dal nulla. Per fortuna la Ragazza Intelligente aveva degli ottimi riflessi ed una vista acuta, così riuscì ad uscirne illesa. SI ricordò una volta , mentre erano di ritorno da uno dei loro viaggi, che la Ragazza Triste era piena di frecce che le perforavano la gola. Non potè parlare per settimane, dopo che la Ragazza Intelligente gliele aveva tirate fuori una ad una . Ma quando finalmente recuperò la voce, non diede alcuna spiegazione all’accaduto,non riusciva a dire nulla in merito tranne “Non ho potuto
evitarlo”. La Ragazza Intelligente pensò che tutto ciò fosse davvero triste.
Ma dov’era l’ altra?
Uscita dal bosco, sul terriccio, c’era un’enorme pozza di sangue e pezzi di carne. Ed una macchinetta per fare tatuaggi ovviamente.
“Qui è dove le hanno spezzato il cuore”
La Ragazza Intelligente prese tutti i pezzi con sé, e li raccolse e mise con delicatezza dentro la sua borsa, attenta a non schiacciarli .
“Questo sì che è un gran casino, come cavolo ha fatto a finire nei guai così?”
Più avanti c’era un’enorme distesa d’acqua che versava poi in una cascata . Ed eccola lì la Ragazza Triste, seduta su una di quelle rocce galleggianti sull’acqua, pronte a scendere giù dalla cascata. Farfalle multicolore le volavano attorno; la Ragazza Intelligente riusciva a vederle bene con i bellissimi colori delle loro ali; ogni qualvolta la Ragazza Triste le toccava, queste si tramutavano in cenere; la Ragazza Intelligente guardò più attentamente ancora: la Ragazza Triste era coperta di polvere e lacrime.
E poi arrivò la pioggia. Dio, quanta acqua per una giornata! La Ragazza Intelligente voleva la sua amica indietro, così afferrò un lato di una di quelle rocce galleggianti, ci saltò sopra e poi cercò di avvicinarsi all’amica il più possibile.
“Cerca di stare immobile!” Le gridò. La Ragazza Triste non sembrava averla sentita.
“Cerca di afferrare uno di quei rametti, cerca di rimanere bilanciata! Eddai Lisa!”
La Ragazza Triste, coperta di polvere, girò la testa.
“Oddio sei venuta fin qua su?”
“Ovvio, cosa cavolo credevi avrei fatto?? Non mi è piaciuto molto, ma eccomi qui!”
La Ragazza Triste prese a piangere più forte di prima.
“Penso sia troppo tardi Fede”
“Cazzate”
La Ragazza Triste si sentiva sull’orlo del precipizio e una parte di lei avrebbe tanto voluto lasciarsi andare: “ah, sarebbe così dolce cadere giù..”, ma l’altra parte di sé non voleva mollare e fece in modo che le sue chiappe rimasero ben incollate alla roccia.
La ragazza intelligente intanto, era riuscita ad avvicinarsi ancora di più all’amica, e stava ora con le braccia rivolte verso di lei, per afferrarla.
Non fecero nemmeno a tempo ad afferrarsi per le mani che la roccia ormai era arrivata all’orlo della cascata, e le due volarono giù verso la distesa d’acqua che stava in basso, pronta ad accoglierle.
Vi caddero assieme, e l’acqua le accolse, inghiottendole nel suo blu più profondo.
Non potevano respirare ovviamente, ma in qualche modo laggiù si sentivano forti, forse perché erano assieme.
La Ragazza Intelligente cessò di provare paura e risentimento per le debolezze della Ragazza Triste. Ancora una volta rimase meravigliata dal posto in cui la compagna di avventure l’aveva portata. Era oscuro, è ero, e non si riusciva a respirare forse, ma si sentiva così al sicuro, e tutto era così grande e bellissimo e lento, e tutto ciò la calmava profondamente. La Ragazza Triste era ripulita da tutta quella polvere, dalle lacrime e dal sangue. Teneva gli occhi aperti sgranati verso l’amica, entrambe si guardavano e la connessione che venne a crearsi in quel momento era tutto ciò di cui avevano bisogno.
Era come se fossero una ora. Era la forza più grande che avessero mai provato, erano perse sì, ma non esattamente;non c’era fretta, non vi era pericolo, le acque le stavano accogliendo come se effettivamente le due appartenessero a quel posto, come figlie del mare.
La Ragazza Intelligente si stava divertendo un casino mentre la Ragazza Triste stava avendo un dejà vu.
Aveva otto anni, quando la madre la portava a nuotare alle piscine comunali, regolarmente due volte a settimana, il mercoledì e il venerdì. All’ epoca ella odiava l’acqua e la piscina, ma la madre la forzava ad andarci perché nessuno voleva una figlia grassoccia, e una bella nuotatina non poteva che aiutare.
Non si era mai divertita a nuotare in quel posto, fatta eccezione per una volta. C’era in quel gruppetto con lei, una bambinetta piccola bionda, con gli occhi blu. Era timida, e non parlava molto, esattamente come lei. E forse fu proprio per questo che andarono d’accordo subito; forse era il fatto che silenziosamente e senza farsi notare dagli altri, prendevano in giro la noiosa insegnante di nuoto o forse fu il fatto che la bambina dagli occhi blu le insegnò il potere di diventare invisibile come faceva lei.
C’era stata quella volta in cui si erano divertite da morire. La ragazza dagli occhi blu sfidò la Bambina Triste: “Vuoi vedere come si fa a urlare a squarciagola senza che nessuno senta un suono?”
“Ovvio che mi piacerebbe!”
Così la Bambina dagli Occhi Blu la prese per mano e la trascinò giù fino al fondale della piscina. Entrambe prendendosi per mano.trattenendo il fiato, con le orecchiette che fischiavano, raggiunsero il fondale che stava a due metri dalla superficie.
Si guardarono negli occhi, la Bambina Triste felice di essere lì con la sua amica, nessuno avrebbe potuto far loro del male.
Poi urlarono.
Soffiarono fuori con violenza tutta l’aria che avevano nei polmoni,con tutta la forza che quei loro corpicini permettevano. La Bambina Triste la trovò l’esperienza più liberatoria mai avuta in quella sua breve vita. Era come se un enorme peso fosse stato triturato attraverso le sue narici , trasformato in un milione di bolle. E nessuno poteva vederla, nessuno poteva sgridarla. Poteva solo muoversi in assenza di gravità con la sua amica, non aveva paura se ora i suoi polmoni erano senza aria, non aveva paura di sentirsi soffocare, Si era già sentita così almeno un milione di volte lassù, fuori dall’acqua e sapeva benissimo come gestire la cosa. Nessun panico.
Poco dopo però, mani adulte le raggiunsero e le afferrarono entrambe con una fermezza di ferro, trascinandole fuori dall’acqua dopo qualche secondo.
“Cosa cavolo credevate di fare voi due laggiù eh? Non lo sapete che è vietato tuffarsi e immergersi fino al fondo della piscina?! State cercando di farmi licenziare?” urlò l’insegnante cooosì tanto noiosa. Le due bambine nemmeno risposero, anzi, ridevano così forte che furono espulse dalla classe per quel giorno. Non che gliene fregasse molto d’altronde.
E ora la Ragazza Triste era lì nella stessa situazione, quasi dieci anni dopo,ancora una volta apparteneva alle acque blu, senza aria nei polmoni e un buco che stava al posto del suo cuore. E tutta d’un tratto la Ragazza Intelligente smise di divertirsi e al contrario, iniziò a sentirsi soffocare.La Ragazza Triste sapeva cosa fare. Così l’afferrò, appoggiò con delicatezza la testa dell’amica in panico sul suo petto, di modo che potesse calmarsi un pochino, nuotando così verso la superficie. Quando furono uscite dall’acqua, pulite e tutto, con l’acqua che pesava dai loro capelli,la Ragazza Intelligente iniziò ad urlare.
“Sei una pazza, lo sai?? Avrei potuto morire! Avremmo potuto morire! Dio buono, perché non riesci mai a riconoscere la distinzione tra il piacere e il dolore? Ci arriverai mai?!”
“Dai calmati adesso, sei al sicuro”
“Sicuro un cavolo! Questa volta mi è andata bene e sono al sicuro, ma la prossima volta? Chissà cosa potrebbe succedere!” dopo un paio di minuti di silenzio l’amica riprese: “Ti voglio bene, ma non voglio seguirti qui mai più. Devi imparare a prenderti cura di te stessa. Ecco guarda, ti restituisco il tuo cuore”. E così, la Ragazza Intelligente aprì la borsa che si era tenuta stretta al corpo in modo da non perdere nemmeno un pezzettino.
Ne prese ciascun pezzo e li consegnò tutti alla Ragazza Triste che iniziava già a sentirsi un po’ più intera e a percepire il bisogno di andare via da lì-
Era commossa dal fatto che la sua amica era venuta fin laggiù per lei. Era decisamente inusuale per le creature del loro tipo.
“Quindi ti ho ridato il tuo cuore indietro.”, disse la Ragazza Intelligente, “ma una volta fuori da qui non ho più intenzione di vederti ancora”
“Cosa? Perché?”
“Mi trascini sempre più giù, ogni giorno che passa! Non ci riesco...ti voglio bene, e rifarei tutto quello che ho fatto oggi per te di nuovo. Sono felice di essere stata in grado di restituirti il tuo cuore, spero tu ne faccia buon uso stavolta, che non te lo rompa ancora per qualche artista del tatuaggio tra l’altro, ma questa era l’ultima volta. Non lo farò più. Non posso.”
La Ragazza Triste capì le sue ragioni, sapeva che non tutti erano in grado di sopportare o fare le cose che riusciva a fare lei per evitare il dolore; sapeva anche che non tutti provavano dolore nello stesso modo intenso in cui lei lo provava a volte. A tal proposito, non sapeva darsi una risposta sul perché lei doveva provare certe cose in un certo modo o perché le cose dovevano essere così diverse, però capì le ragioni dell’amica ad ogni modo.
Il suo universo era tutto suo e la Ragazza Intelligente non voleva esserne inghiottita. Aveva le sue ragioni, indubbiamente.
Sapeva che le persone pensavano lei fosse una specie di persona drammatica, o che termine usavano? ah si! Una vittima che spesso e volentieri preferiva avere a che fare con fantasmi.
Ma come vi ho detto all’inizio di questo racconto, in lei vi era anche dell’intelligenza, perciò non si arrabbiò affatto quando la Ragazza Intelligente espresse la sua opinione. Solo, iniziò a sentirsi un po’ più triste, ecco.
Tornate alla realtà, si dissero addio e la Ragazza Triste (ma forse anche quella Intelligente) sapeva che forse non si sarebbero mai più riviste, o almeno, non in quel modo così pulito e onesto. Forse si sarebbero incontrate decenni dopo, quando la Ragazza Intelligente sarebbe diventata una Moglie Intelligente, e la Ragazza Triste Dio solo sa cosa. Non le importava molto in realtà. Alle Ragazze Tristi non gliene frega molto del futuro.
Semplicemente si teneva stretta una mano sul cuore appena ricomposto e con l’altra mano diceva addio all’amica che si stava allontanando; si sentiva grata e un po’ meno fredda.
“Certi legami sono per sempre, qualsiasi cosa accada. Punto”.
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Antonio Gramsci - Odio gli indifferenti
Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che «vivere vuol dire essere partigiani». Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. È la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costrutti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.” Antonio Gramsci - Odio gli indifferenti
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