#Mussolini alla conquista del potere
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Neanche un anno dopo la sanguinosa guerra di occupazione dell’Etiopia che Mussolini pomposamente definiva «conquista dell’Impero», gli invasori italiani erano ancora in pochi, e non dormivano bene. Militari e camicie nere, insieme alle «truppe indigene» arruolate in colonia, non avevano mai smesso di combattere e percorrevano in lungo e in largo il vasto entroterra alla caccia delle formazioni resistenti etiopiche ancora in armi. Gli altri, civili o in camicia nera, erano per lo più asserragliati nelle città, e ascoltavano con apprensione le notizie di «bande ribelli» pericolosamente vicine. La repressione della resistenza – eufemisticamente definita «grande polizia coloniale» ma in realtà fatta di uccisioni, villaggi bruciati e raccolti distrutti – dopo molti mesi pareva tuttavia aver dato i suoi frutti: molte formazioni erano state disarmate; i loro capi e componenti eliminati o deportati nel terribile campo di internamento di Danane, in Somalia.
Il neonato impero fascista pareva insomma sulla via di una lenta normalizzazione, quando gli occupanti ebbero un brusco risveglio. Il 19 febbraio 1937, Yekatit 12 secondo il calendario etiopico, Rodolfo Graziani, viceré d’Etiopia e governatore generale dell’Africa Orientale Italiana, era su un palco nella capitale Addis Abeba, nel pieno svolgimento di una cerimonia pubblica, quando due patrioti di origine eritrea, Mogus Asghedom e Abraham Debotch, lanciarono nella sua direzione alcune bombe a mano che uccisero sette persone e ne ferirono molte altre. Tra queste lo stesso Graziani, che venne portato via d’urgenza. Da parte italiana l’attentato produsse panico, vuoto di potere, confusione nella catena di comando, volontà di vendetta esemplare frammista alla necessità di riaffermare il prima possibile e senza dubbi l’autorità italiana. Conseguenza di tutto questo fu un massacro difficile da descrivere.
Nei momenti subito successivi al fatto, le truppe italiane presenti sul posto presero a sparare indiscriminatamente sulla folla. Fuori città, le truppe nei presidi ricevevano l’ordine di iniziare una marcia concentrica verso Addis Abeba sparando a vista a chiunque incontrassero e dando fuoco alle abitazioni etiopiche. Una camicia nera, in una lettera spedita il 30 aprile, raccontò così quella marcia:
Stupiti, partimmo anche noi dal nostro fortino, in pieno assetto di guerra, e seguiti da carri armati e motociclette con mitragliatrici: e percorremmo diecine [sic] di chilometri, sparando su qualunque individuo di colore che incontravamo, e massacrando, nelle stesse loro capanne, tutti gli indigeni che si trovavano sul nostro cammino.
Giunti alla periferia della città, di fronte agli agglomerati di tucul – piccoli edifici di abitazione – al cui interno si erano chiusi gli etiopici,
siccome non potevamo colpirli tutti a fucilate, i nostri ufficiali fecero mettere in azione i lancia-fiamme: così in dieci minuti facemmo divampare, come roghi, centinaia e centinaia di tuculs, nei quali c’erano donne, vecchi e bambini, che furono abbrustoliti…
Frattanto nella città, la massima autorità politica rimasta, il segretario federale del Partito nazionale fascista Guido Cortese, ordinò la rappresaglia sguinzagliando, letteralmente, la popolazione italiana. Operai, camionisti, civili e camicie nere, avuta carta bianca dal Partito, per tre giorni trasformarono la città in un girone infernale in un’orgia di brutalità che ha pochi paragoni nella storia del colonialismo europeo.
I diplomatici stranieri ce ne danno una testimonianza vivida nelle allucinate missive che spedivano nelle rispettive capitali. Il rappresentante statunitense Cornelius Engert il primo giorno della strage telegrafava a Washington:
I nativi sono stati picchiati e mitragliati indiscriminatamente e le loro capanne sono state bruciate. Bombe incendiarie sono state sganciate da aerei operanti nelle periferie della città, e attualmente si sente in tutta la città una buona dose di colpi di fucile e anche di cannone da campo. Le strade sono state ripulite dagli indigeni e tutti gli italiani, compresi gli operai civili, girano pesantemente armati.
E il giorno seguente aggiunse:
Dal momento dell’incidente, bande disordinate di lavoratori e camicie nere armati di asce, mazze o fucili hanno vagato per le strade e, con rivoltante ferocia, hanno ucciso tutti i nativi in vista, anche le donne.
Il diplomatico francese Albert Bodard lo definì un pogrom, riferendo che
I cadaveri sono così numerosi che non si possono eseguire degne sepolture; i corpi vengono ammucchiati e cremati sul posto dopo essere stati cosparsi di benzina. Interi quartieri di tucul abissini furono dati alle fiamme con lanciafiamme e bombe a mano. In vari casi gli occupanti indigeni, impossibilitati a fuggire, venivano bruciati vivi nelle loro abitazioni. Ogni notte, la città è circondata dalle fiamme. […] regna una grande confusione in cui camicie nere, truppe, e operai militarizzati sembrano lasciati liberi di agire a loro piacimento.
ancora:
Anche i camionisti inseguivano gli abissini con le loro vetture, o le lanciavano ferocemente contro i nativi per schiacciarli. Quando le vittime esitavano a morire, i manganelli aprivano i loro crani e riportavano alla ragione i recalcitranti.
Simile il racconto dei testimoni britannici:
Per due giorni e mezzo gli etiopi, ovunque si trovassero e qualsiasi cosa facessero, furono braccati, picchiati, fucilati, trafitti con le baionette o bastonati a morte. Le loro case sono state bruciate e in alcuni casi loro stessi sono stati respinti tra le fiamme per morire bruciati. Con questo massacro furono combinati bottino e saccheggio. I seguenti incidenti che sono riferiti da testimoni affidabili illustrano bene la condotta degli italiani. Una banda di otto camicie nere è stata vista picchiare con bastoni, apparentemente a morte, un etiope le cui mani erano state prima legate dietro la schiena. […] Un colonnello italiano ha fermato la sua macchina in una strada principale per buttare giù un gruppo di tre etiopi, un uomo e due donne. Dopo aver picchiato l’uomo si è scagliato contro la donna, ma notando l’auto di una Legazione straniera lì vicino ha desistito. […] Forse uno dei motivi principali dietro l’azione degli italiani era quello della paura, poiché in nessun momento dalla loro occupazione si sono sentiti sicuri.
Dopo tre giorni, quando giunse infine l’ordine di cessare le violenze, il bilancio delle vittime fu spaventoso: circa tremila morti, ma i calcoli più recenti effettuati da Ian Campbell hanno stimato un numero sei volte superiore, forse vicino alle ventimila persone.
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Conquista dell'Etiopia: l'espansione coloniale dell'Italia fascista
La conquista dell'Etiopia rappresenta il cuore della politica coloniale italiana in epoca fascista. Il desiderio di rivalsa dopo la sconfitta del 1896 e la volontà di affermare l'Italia come grande potenza coloniale al pari degli altri Stati europei, spinsero Mussolini a sbarcare sulle coste africane. Cosa fu la guerra d'Etiopia? Mussolini individuò gli interessi coloniali italiani nel Corno d'Africa e concentrò tutti i suoi sforzi per acquisire l'Etiopia come sua colonia. L'espansione in Africa rispondeva alla volontà non solo di restaurare l'antico Impero romano ma anche di ottenere risorse naturali, spazio vitale e prestigio internazionale. Nel 1934, le tensioni tra l'Italia e l'Etiopia aumentarono a causa di dispute territoriali al confine tra le due nazioni. Nel 1935, l'Italia invase l'Etiopia con un'enorme forza militare superiore, utilizzando l'aviazione, i carri armati e le armi chimiche. Nonostante la resistenza eroica da parte dell'esercito etiope, quest'ultimo non poteva competere con la superiorità militare italiana. La guerra d'Etiopia ebbe conseguenze devastanti per il Paese africano. Le forze italiane lo occuparono per intero e nel maggio 1936 l'imperatore etiope Hailé Selassié fu costretto all'esilio. L'Etiopia divenne ufficialmente una colonia italiana e fu inclusa nell'Impero coloniale italiano, con il nome di Africa Orientale Italiana. Il conflitto attirò l'attenzione della comunità internazionale e sollevò una forte condanna da parte della Società delle Nazioni (l'organizzazione predecessora delle Nazioni Unite). Tuttavia, le sanzioni economiche e diplomatiche contro l'Italia non ebbero un impatto significativo e la guerra si concluse con la vittoria italiana. La conquista dell'Etiopia ebbe un impatto duraturo sulla storia del singolo Paese e del continente africano. La resistenza etiope e la lotta per l'indipendenza ispirarono molti movimenti di liberazione in Africa. L'Etiopia riuscirà a riconquistare la sua indipendenza nel 1941, quando l'Italia fascista sarà sconfitta durante la Seconda Guerra Mondiale. Mussolini alla conquista dell'Etiopia, quali aspirazioni? Quali motivi portarono Mussolini a conquistare l'Etiopia? Il Duce cercava di ristabilire l'antico Impero romano e desiderava un vasto impero coloniale per l'Italia. L'Etiopia era uno dei pochi paesi africani rimasti indipendenti e conquistarla avrebbe portato prestigio internazionale e risorse economiche e naturali per l'Italia. L'Etiopia, infatti, era ricca di risorse naturali come il cotone, il caffè, le pietre preziose e il bestiame. L'Italia cercava di sfruttare queste risorse per il proprio beneficio economico. L'espansione nel Corno d'Africa era volta ad acquisire uno spazio vitale e raggiungere una posizione di predominio strategico nel Mar Mediterraneo orientale. Non va sottovalutata la vendetta per la sconfitta subita dall'Italia nella battaglia di Adua nel 1896 da parte delle forze etiopi che era stata un'umiliazione nazionale per l'Italia. Mussolini desiderava vendicare questa sconfitta e ristabilire l'orgoglio italiano conquistando l'Etiopia. Mussolini utilizzò la conquista dell'Etiopia per consolidare il suo potere in Italia e per propagandare l'immagine dell'Italia fascista come una grande potenza coloniale. Cosa fece Mussolini in Etiopia? Mussolini attuò una politica di italianizzazione forzata nell'Etiopia occupata. L'obiettivo era assimilare l'Etiopia nella cultura italiana, promuovendo l'uso della lingua italiana, l'educazione italiana, l'urbanizzazione e la trasformazione dell'economia secondo i modelli italiani. Durante l'occupazione, l'Italia confiscò le terre e le risorse dell'Etiopia. Le terre vennero assegnate a coloni italiani e l'agricoltura venne sfruttata per i benefici dell'Italia. Le risorse naturali, come il cotone, il caffè e i minerali, furono sfruttate per l'interesse economico italiano. L'occupazione italiana fu caratterizzata da una politica di repressione contro gli etiopi. Furono attuate misure punitive contro la resistenza etiope, incluso l'uso di esecuzioni, fucilazioni di massa, torture e rappresaglie contro i ribelli. Mussolini attuò anche una politica razziale che discriminava la popolazione etiope e promuoveva la supremazia italiana. Gli italiani erano considerati superiori ed erano favoriti in termini di occupazione, diritti civili e accesso alle risorse. In copertina foto di D Mz da Pixabay Read the full article
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“ Il 28 ottobre 1922 era arrivato alla stazione di Firenze il celebre scrittore inglese Israel Zangwill, che, essendosi rifiutato di consegnare il passaporto alle camicie nere, che avevan occupato la stazione, veniva fermato ed accompagnato alla sede del Fascio. Ivi il console Tamburini, che non conosceva l'inglese, e, d'altronde, non era in grado di conversare con un grande scrittore, non trovò di meglio che consegnarlo a Curzio Suckert, il quale riferisce il colloquio nella penultima parte del suo libro Technique du coup d'Etat. La tesi di Zangwill era quella di tutti gli italiani non fascisti: la marcia su Roma era conseguenza di un compromesso tra il re e Mussolini; l'insurrezione non era che una messa in iscena per nascondere il gioco della monarchia. Naturalmente la tesi di Suckert era diametralmente opposta, poiché tutto il libro è diretto a teorizzare la nuova tecnica del colpo di Stato, di cui quello fascista sarebbe stato una delle piú brillanti applicazioni. Ora a distanza di tanto tempo e specialmente dopo il nuovo colpo di Stato del 25 Luglio 1943, appare chiaro quanto fondamento avesse l'opinione di Israel Zangwill, nella quale le dissertazioni letterarie di Suckert, invece di dissuaderlo, avranno finito per confermarlo. Una rivoluzione che non abbatte e non distrugge il vecchio regime e si limita soltanto alla violazione di « vieti formalismi », non è certamente una rivoluzione, anche se formalmente si mostra ossequiente ai canoni della nuova « tecnique du coup d'Etat ». Per lo meno è un avvenimento « sui generis » che la scienza politica non ha ancora classificato, e per il quale bisognerà certamente trovare una nuova definizione. Per lo meno è una rivoluzione mancata, poiché il compromesso, intervenuto tempestivamente, ha impedito ad una delle parti di prevalere e tutto si è limitato a minacce di adoperare la violenza da una parte e dall'altra, eliminate per effetto della reciproca vigliaccheria. Ora, tutto ciò è tipicamente italiano, e Mussolini, nell'inscenare l'avvenimento, ha certamente seguito il genio della stirpe. Tutto il suo battagliare e il suo manovrare non era diretto a schiantare e distruggere la vecchia classe dirigente, ad innovare il costume politico, a sostituire alle vecchie nuove idee, ma era diretto a farsi chiamare dal re per formare un ministero di coalizione. Egli, dunque, si offriva come domatore di bestie feroci, e, come tale fu assunto al potere, poiché si ritenne un poco da tutti che potesse essere — proprio lui — l'affossatore del fascismo, il castigatore degli istinti bestiali ed anarchici dei fascisti. Che poi il suo pessimo temperamento di uomo e le sue profonde tare politiche abbiano in seguito messo in luce l'illusorietà del calcolo, non modifica il fatto che coloro i quali favorirono la marcia su Roma, ed in seguito si offrirono di fiancheggiarla, andavano in cerca di un nuovo Giolitti, di un Giolitti piú moderno, cioè di un dittatore legale, che avesse conservato il regime, togliendo alle masse ogni velleità di innovazione. “
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Brano tratto dal libro di Guido Dorso Mussolini alla conquista del potere (Einaudi, 1949).
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Il 'Blackpass' e la dittatura sanitaria "quando c'era Lui..." Le cavie umane di Mussolini. "Nel 1925, con il pretesto delle ricorrenti epidemie, il Duce da tre anni al potere diede l’autorizzazione a due oscuri ricercatori iscritti al partito, Giacomo Peroni e Onofrio Cirillo, di condurre un esperimento su larga scala a spese di centinaia di persone povere e vulnerabili, in violazione di ogni norma di etica professionale. Un’impresa degna del dottor Mengele (ne parla lo storico di Yale Frank M. Snowden nel suo straordinario libro La conquista della malaria, Einaudi 2008). I due scelgono un gruppo di duemila lavoratori impiegati nella bonifica di aree malariche in Puglia e in Toscana, gli levano il chinino (un farmaco usato per decenni contro la malattia, e che si era dimostrato efficace nel ridurre la mortalità) e gli somministrano del mercurio, un rimedio già ampiamente bocciato dalla comunità scientifica e dal Consiglio Superiore di Sanità. Obiettivo dell’esperimento, in linea con le aspirazioni del regime, è dimostrare che l’Italia può curare la malaria senza dover dipendere dall’estero (all’epoca i Paesi Bassi hanno il monopolio della produzione di chinino). Una terapia alternativa, autarchica, per fare dispetto a Big Pharma. I prodi camerati dividono le loro cavie in due gruppi: il primo è abbandonato all’infezione, viene cioè mandato a lavorare all’aperto in un ambiente infestato da zanzare anofele senza protezione alcuna, per capire come la malattia si evolva naturalmente nel corpo umano. Al secondo vengono praticate delle iniezioni intramuscolari di mercurio. Quella che i malariologi del littorio chiamano «saturazione» va avanti per quattro anni, fino al 1929. Non si sa di preciso quante vittime e quante sofferenze abbia provocato l’ardito esperimento, anche se Peroni sostiene che i risultati sono stati «splendidi», tanto da proporre di «mercurializzare» l’intero esercito italiano. Di opposto parere il Consiglio Superiore di Sanità: i partecipanti all’esperimento si sono ammalati tutti e il mercurio iniettato si è dimostrato totalmente inefficace. Ma questi per il fascismo sono dettagli, quisquilie rispetto agli interessi superiori della nazione. Anche la bonifica integrale delle paludi pontine, orgoglio dell’impero, «tornante della storia», una delle «cose buone» fatte dal Duce secondo i nostalgici, ha avuto un costo elevatissimo in termini di vite umane. Masse di disperati, disoccupati ed ex combattenti da tutta Italia aderiscono alla chiamata del regime e si riversano in quel lembo di terra desolata, accampandosi in modo precario e in condizioni igieniche disastrose, e sottoponendosi a fatiche disumane in mezzo a nugoli di zanzare. Muoiono a migliaia per incidenti sul lavoro, tubercolosi e ovviamente malaria. Ma che importa: dice Mussolini che la bonifica è come una guerra, e i lavoratori sono soldati che hanno il dovere di morire in battaglia. Prima della marcia su Roma la lotta alla malaria era stata una delle bandiere del movimento socialista, oltre che dei liberali giolittiani al potere. Per promuovere il chinino di stato nelle campagne, vincendo resistenze e superstizioni, si mobilitavano medici, insegnanti, attivisti e dirigenti di partito, femministe come Anna Kuliscioff e sindacalisti come Argentina Altobelli, leader delle mondine di Federterra, una valorosa riformista che al famoso congresso di Livorno del 1921 si schiererà con Turati contro i comunisti. Nei primi anni del Novecento questione sociale, questione femminile e questione sanitaria sono strettamente intrecciate (come oggi, del resto). La campagna per il chinino trasforma i rapporti di potere, indebolendo i latifondisti e facendo crescere la coscienza di classe dei contadini, ma migliorando anche le loro condizioni di vita e di salute e la loro capacità di difendere i propri diritti. La dittatura fascista fa tabula rasa di tutto questo, ma costruisce i suoi successi su decenni di impegno militante e di faticose riforme delle odiate élite liberali e socialiste. Archiviata la stagione dei diritti e ridotte al silenzio le poche voci di dissenso, Mussolini era libero di intervenire arbitrariamente su tutto, anche in materia sanitaria, fregandosene della scienza e della competenza. Lo chiamavano il Grande Medico. E se dicevi che il Duce non capiva un cazzo non ti invitavano a Otto e mezzo, ma ti davano prontamente il green pass (anzi il black pass) per una indimenticabile vacanza a Ventotene. da Linkiesta. Riccardo Fortuna
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Il 27 aprile 1937 muore, nella clinica di Quisisana a Roma, Antonio Gramsci, dopo undici anni di detenzione nelle carceri fasciste. Da anni soffriva di diverse gravi malattie, ma le richieste per la sua liberazione vennero accolte da Mussolini soltanto sei giorni prima della sua morte, quando ormai non era più in grado di muoversi da mesi. Arrestato (nonostante fosse protetto dall'immunità parlamentare) l'8 novembre 1926 durante l'ondata repressiva che seguì un attentato a Bologna contro il duce, fu accusato di attività cospirativa, incitamento all'odio di classe, apologia di reato e istigazione alla guerra civile: tutte accuse piuttosto fondate, data la sua decennale militanza sul fronte internazionale del comunismo rivoluzionario, ma che soltanto nel mondo capovolto del dominio capitalistico possono essere fonte di persecuzione, anziché di credito e onore.
Il 27 aprile 1975, in un mondo radicalmente mutato in soli 37 anni, moriva invece Danilo Montaldi, anch'egli, come Gramsci, militante comunista, intellettuale e scrittore. Apparentemente una distanza abissale separa i due personaggi: autore di fama mondiale, inserito ufficialmente nel canone della letteratura e della storiografia italiane, il primo, sconosciuto ai più il secondo; protagonista della stagione classica del movimento comunista (dal 1917 agli anni precedenti la seconda guerra) l'uno, partecipe della crisi storica del progetto marxista-leninista tradizionale (dopo il 1945) l'altro. Gramsci visse la fase ascendente della dittatura del proletariato nell'URSS, sposando anche una rivoluzionaria bolscevica, Julia Schucht, da cui ebbe due figli; Montaldi maturò la scelta di abbandonare il PCI nel 1946, proprio a causa della consapevolezza della degenerazione burocratica che aveva interessato successivamente il socialismo sovietico, nella sua fase discendente. Nonostante queste e altre differenze biografiche, culturali e politiche, molti aspetti permettono di accostare le due figure nel segno della caratteristica più importante e tipica dell'intellettuale militante/comunista tra primo e secondo novecento: il tentativo di precisare una strategia per la distruzione della società capitalista, regolarmente in contrasto con le stesse organizzazioni ufficiali della politica socialista e comunista.
Gramsci era nato nel 1891 ad Ales, in Sardegna, e si era trasferito a Torino per motivi di studio, in estrema povertà, nel 1911. Arrivò nella città sabauda con 45 lire in tasca, avendo speso 55 lire per il viaggio delle 100 dategli dalla famiglia; negli anni successivi sarebbe sopravvissuto grazie a una delle 19 borse di studio da 70 lire mensili messe a disposizione dall'università di Torino per gli studenti poveri del Regno. Negli anni dell'università supera le posizioni sardiste, immettendole nella più ampia e globale idea socialista; presso il numero 12 dell'odierno corso Galileo Ferraris frequenta la federazione giovanile socialista e la sede dell'Avanti, dove inizierà la sua carriera di scrittore grafomane, furioso e tenace, producendo in dieci anni migliaia di pagine di riflessione politica, filosofica e di costume. In quegli anni è anche molto impegnato come critico teatrale (anche se ignorato dal mondo ufficiale dell'arte), risultando il primo critico ad aver scoperto e valorizzato il teatro di Luigi Pirandello (ben prima del più noto critico Adriano Tilgher, come lo stesso Gramsci rivendicava con orgoglio).
Nel 1917 segue gli eventi russi e diviene fervente sostenitore della rivoluzione bolscevica; nel 1919 fonda il giornale Ordine Nuovo; tra il 1919 e il 1920 definisce la linea dei giovani militanti socialisti che, a differenza del ceto politico del partito, appoggiano e promuovono le lotte operaie del biennio rosso che, con particolare forza a Torino, Milano e Genova procedono all'occupazione armata delle fabbriche e in molti casi alla loro autogestione e direzione produttiva. Dopo che l'assalto operaio al potere di fabbrica fallisce a causa dell'immobilismo/tradimento della dirigenza socialista, nel 1921 è parte del gruppo di militanti che, a Livorno, accoglie le indicazioni dell'Internazionale Comunista, proclamando la necessità di formare un'organizzazione rivoluzionaria costituita da avanguardie dedite alla promozione del conflitto operaio, per una presa del potere di tipo sovietico, fondando il Partito Comunista d'Italia e, successivamente, il giornale l'Unità. Dopo aver compiuto diversi viaggi in Unione Sovietica come rappresentante della sezione italiana dell'Internazionale, e dopo aver trascorso periodi come esule, soprattutto a Vienna, a causa delle prime repressioni fasciste dopo il 1922, torna in Italia con l'immunità parlamentare, essendo stato eletto deputato il 6 aprile 1924.
Poche settimane dopo, il 10 giugno, una banda di fascisti uccide un deputato socialista, Giacomo Matteotti, e gran parte dell'opinione pubblica è turbata e scandalizzata dall'accaduto. Per protesta tutti i gruppi d'opposizione abbandonano i lavori parlamentari, ma tra essi è solo quello comunista, capitanato da Gramsci, che chiede di fare l'unica cosa sensata, ossia proclamare lo sciopero generale. I socialisti temono che il ricorso allo sciopero favorisca il desiderio diffuso di una rivoluzione di tipo bolscevico, i liberali e i cattolici temono socialisti e comunisti molto più dei fascisti, e si appellano sterilmente al Re come supposto garante di una legalità che il delitto Matteotti avrebbe infranto. Tutto questo produce uno stallo durante il quale aumenta la tensione reale nel paese, finché, il 12 settembre, il militante comunista Giovanni Corvi uccide in un tram, per vendicare Matteotti, il deputato fascista Armando Casalini, e si scatenano le ondate della repressione più dura, con lo scioglimento di tutti i partiti d'opposizione e l'arresto di militanti e dissidenti. Lo stesso Gramsci sarà arrestato dopo due anni di sforzi nell'opposizione politica al fascismo, e si dedicherà in prigione alla scrittura della sua opera più famosa e internazionalmente conosciuta, i Quaderni del carcere.
Una delle tesi contenute nei Quaderni, quella della necessità di conquistare la direzione politica della società attraverso un'egemonia culturale antagonista, verrà riletta in modo moderato dal PCI del dopoguerra, passato nelle mani di Togliatti, interessato a bloccare, su ordine di Stalin, ogni prospettiva rivoluzionaria in Italia. Una tesi ben più complessa e articolata viene banalizzata come grimaldello ideologico volto all'annacquamento della pratica rivoluzionaria (occorre conquistare l'egemonia culturale in primo luogo, quindi la presa del potere politico è rimandata...) a tutto vantaggio della coesistenza pacifica tra due superpotenze capitaliste, l'URSS (capitalismo di stato) e gli USA (capitalismo di mercato). È in questi anni che Danilo Montaldi, nato nel 1929 a Cremona, esce dal PCI di cui era militante e si dedica ad un'attività organizzativa continua e inusuale, attraverso la frequentazione attiva di gruppi cui non aderisce formalmente (Partito Comunista Internazionalista, Gruppi Anarchici di Azione Proletaria) o la fondazione di gruppi che talvolta successivamente abbandona (Gruppo di Unità Proletaria, 1957, e Gruppo Karl Marx, 1966).
Se Gramsci concepì il suo compito come quello della fondazione del comunismo in Italia, inteso come prospettiva specifica nel panorama socialista (consistente, in base all'insegnamento di Lenin, nel rifiuto totale della guerra e nella direzione politica del conflitto sociale allo scopo di provocare una presa diretta del potere), Montaldi si mosse in un quadro dove la stessa soggettività comunista organizzata era divenuta compatibile con la società capitalista, trasformandosi in conservazione sociale burocratica dove era al potere e in involucro retorico di una sostanziale socialdemocrazia dove era all'opposizione. In particolare il compito del militante del dopoguerra è non solo costruire organizzazioni alternative (di qui le critiche di Montaldi ai trotzkisti, che a questo si limitavano), ma anzitutto indagare direttamente le condizioni di lavoro e di lotta della classe operaia. Negli anni della ricostruzione postbellica l'operaio è chiamato a vendere la sua forza lavoro al capitale in nome di uno sforzo presentato come trasversale alle classi, ma l'interesse alla ricostruzione è l'interesse del capitale, poiché l'operaio non può che trarre giovamento dalla distruzione del sistema esistente.
L'antagonismo operaio non va però, per Montaldi, imposto intellettualmente e astrattamente dall'avanguardia ai lavoratori; l'operaio non è oggetto di studio e di intervento dei comunisti, semmai soggetto, esattamente come loro. Egli si dedica quindi a una ricerca sul campo circa le reali condizioni e aspirazioni operaie e contadine, impegnandosi affinché fossero essi stessi a raccontarsi e ad esprimere la loro realtà, negli anni in cui la sinistra ufficiale maturava invece quel distacco reale dalla classe di cui ancora oggi si vedono le conseguenze. Ne saranno risultato opere come Milano Corea. Inchiesta sugli immigrati (1960, con Franco Alasia), Autobiografie alla leggera (1961) e Militanti politici di base (1971). Questo attivismo in cui l'agitazione politica e l'inchiesta diventano una cosa sola costituirà il nocciolo della pratica che verrà battezzata "con-ricerca" da Romano Alquati e, assieme alle analisi fortemente anticonformiste della soggettività operaia di Raniero Panzieri, apriranno la strada alla grande stagione dell'operaismo italiano che, mettendo al centro la classe e il suo conflitto reale contro l'accumulazione capitalistica (anche e soprattutto al di fuori dagli orizzonti del partito e del sindacato), imporrà all'attenzione delle nuove generazione il problema della conquista dell'autonomia operaia.
È qui, a ben vedere, che Gramsci e Montaldi si incontrano: entrambi hanno dovuto non soltanto vivere la contrapposizione del comunismo alle forze riformiste o democratiche – o fasciste – ma anche quella tra classe oppressa e organizzazioni esistenti della sinistra: in riferimento al tradimento del PSI durante il biennio rosso il primo, e in relazione al tradimento del PCI con la politica della coesistenza democratica il secondo. I germi dei loro scritti, come spesso accade, non hanno ancora prodotto tutta la potenza dei loro frutti (anche a causa di una loro banalizzazione scolastica, come nel caso di Gramsci, o della loro espulsione dai circuiti editoriali ed educativi, come nel caso di Montaldi) nonostante abbiano già influenzato molte generazioni; lette in prospettiva storica, restano un esempio irrinunciabile di abnegazione militante e di intelligenza rivoluzionaria. L'anticonformismo politico e l'autonomia di pensiero di entrambi è caratterizzata da ciò che il vero comunista sa di dover sempre far propria, ossia l'attitudine all'eresia, anche rispetto alla propria stessa tradizione di pensiero.
Per questo tra le righe più potenti di Gramsci resteranno sempre quelle, splendide, da lui dedicate all'Ottobre Rosso: "La rivoluzione dei bolscevichi è [...] la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico [...] se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono «marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili".
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“CHI È FASCISTA”. EMILIO GENTILE. “A promuoverne la diffusione contribuì l’Internazionale comunista, che adottò il termine “fascismo” e i suoi derivati per definire tutte le forze reazionarie della borghesia e del capitalismo. ovunque nel mondo. Fascismo divenne così sinonimo di reazione antiproletaria. Non solo: per oltre un decennio, fino al 1935, i comunisti considerarono fascisti anche i partiti socialisti e socialdemocratici. (...) L’invenzione del “fascismo generico” è un’altra caratteristica singolare delle continue ondate del ritorno del fascismo e della ricerca di chi è fascista, nelle diverse epoche e nei diversi paesi. Infatti, la genericità è un attributo esclusivo del fascismo (...) (...) Nel congresso che si svolse a Roma dal 7 all’11 novembre 1921, il nuovo fascismo di massa si organizzò in Partito nazionale fascista, con l’inedita forma del partito milizia, modellato sullo squadrismo. (...) Furono i capi della milizia fascista a imporre la svolta dittatoriale, annunciata da Mussolini alla Camera con il discorso del 3 gennaio 1925. E furono ancora i fascisti integralisti ad avere un ruolo decisivo nel gettare le fondamenta del nuovo regime a partito unico. (...) Come tale, il fascismo è stato il primo movimento nazionalista e rivoluzionario, antiliberale, antidemocratico e antimarxista, organizzato in un partito milizia, che ha conquistato il monopolio del potere politico e ha distrutto la democrazia parlamentare per costruire uno Stato nuovo e rigenerare la nazione. (...) Definisco totalitario l’esperimento di dominio politico messo in atto da un movimento rivoluzionario organizzato in un partito rigidamente disciplinato, con una concezione integralista della politica, che aspira al monopolio del potere e che, dopo averlo conquistato, per vie legali o extralegali, distrugge o trasforma il regime preesistente e costruisce uno Stato nuovo, fondato sul regime a partito unico. L’obiettivo principale del regime totalitario è la conquista della società, cioè la subordinazione, l’integrazione e l’omogeneizzazione dei governati, sulla base del principio della politicità integrale dell’esistenza, sia individuale che collettiva, interpretata secondo le categorie, i miti e i valori di una ideologia sacralizzata nella forma di una religione politica. Il regime totalitario si propone di plasmare l’individuo e le masse attraverso una rivoluzione antropologica, per rigenerare l’essere umano e creare un uomo nuovo, dedito anima e corpo alla realizzazione dei progetti rivoluzionari e imperialisti del partito totalitario, con lo scopo di creare una nuova civiltà a carattere soprannazionale. (...) E il pericolo reale, oggi, non è il fascismo, ma la scissione fra il metodo e l’ideale democratico, operata in una democrazia recitativa, conservando il metodo ma abbandonando l’ideale. Il pericolo reale non sono i fascisti, veri o presunti, ma i democratici senza ideale democratico”. Emilio Gentile, Chi è fascista, 2019.
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18 nov 2020 15:27
MA SÌ, RISCRIVIAMO LA STORIA PER NON URTARE LA SENSIBILITÀ DEI FREGNONI DI TWITTER - BRUNO VESPA CROCIFISSO PER AVER SCRITTO NEL SUO LIBRO CHE MUSSOLINI CREÒ I CONTRATTI NAZIONALI, L' INPS E LA SETTIMANA DI 40 ORE. TUTTE COSE RISAPUTE, OVVIE, CHE NON CANCELLANO GLI ORRORI DEL FASCISMO MA PROVANO A RACCONTARE LA STORIA D'ITALIA IN MODO COMPLETO. MA ORMAI NON SI PUÒ PIÙ...
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Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano”
Ormai non devi più dire cose estreme, provocatorie, controcorrente per essere giudicato un fascista. No, basta pronunciare cose ovvie, abbastanza risapute, frasi di buon senso. È così che funziona la Dittatura del Pensiero Unico: nega la veridicità di fatti conosciuti e modifica il passato in nome del politicamente corretto.
Ne sa qualcosa, suo malgrado, Bruno Vespa, ieri ospite della trasmissione Agorà su RaiTre, dove ha presentato il suo ultimo libro, Perché l' Italia amò Mussolini (Mondadori). In un passaggio del programma il celebre giornalista ha osato dire: «Nel libro racconto gli anni del consenso: Mussolini ha avuto un consenso enorme, all' estero e anche in Italia, per le sue opere sociali. Ha creato i contratti nazionali, l' Inps, la settimana di 40 ore».
Apriti cielo! Per queste affermazioni gli sono piovuti addosso sui social insulti e accuse di revisionismo e collaborazionismo tipo: «Vespa sta provando a riabilitare la figura di Mussolini», «Vespa è uno dei responsabili della grande opera di rimozione dei crimini fascisti», «È un nostalgico che fa apologia del fascismo».
Naturalmente non è stato bersagliato solo lui, ma anche Agorà e la sua conduttrice, Luisella Costamagna, "rea" di non aver contestato l' affermazione di Vespa e di aver consentito che venisse rilanciata sui social; e più in generale tutta la Rai, "colpevole" di aver permesso questa "marchetta" al libro "fascistissimo".
Tutti questi odiatori meriterebbero di essere snobbati o di ricevere una pernacchia. Ma noi ci sforzeremo di replicare nel merito. Costoro mettono in discussione il fatto che Mussolini godesse di un consenso enorme, all' estero e in Italia. Spiace deluderli, ma era proprio così. E a dirlo è un certo Renzo De Felice, che tutto era fuorché uno storico fascista: i dementi del web si leggano Mussolini il Duce: gli anni del consenso (1929-1936), sempre che siano in grado di farlo, per comprendere come il regime riuscì a costruire il consenso interno anche attraverso azioni di politica economico-sociale.
E, se proprio non gli basta, si guardino il recente M - Biografia non autorizzata di Benito Mussolini (Uno Editori) di Marco Pizzuti per ricordare come, prima della guerra di Etiopia del 1935-36, Mussolini godesse di una grande stima negli Usa, in Gran Bretagna e Francia, al punto che la stampa estera si sbilanciava definendo l' Italia fascista un paese modello.
Vespa dice anche che Mussolini creò i contratti nazionali, l' Inps e la settimana di 40 ore. Le iene del web e i siti smaschera-bufale obiettano che non furono conquiste del regime fascista. Spiace deluderli anche stavolta: è vero, già nel 1898 fu istituita una Cassa di previdenza che copriva però solo alcune categorie di lavoratori; ed è vero che questo sistema venne esteso a tutti i lavoratori già nel 1919, con un decreto del governo liberale di Orlando; ma ci si dimentica che questo decreto fu convertito in legge solo nel 1923, quando al potere c' era il fascismo (e che anche il nome INPS deriva dall' INFPS nato nel 1933). Per la settimana lavorativa di 40 ore i male informati si guardino il Regio Decreto 1768 del 1937, dedicato proprio alla faccenda.
Quanto al contratto, fa fede la Carta del Lavoro del 1927, straordinaria conquista dal punto di vista dei diritti dei lavoratori che assicurò, tra le altre cose, l' indennità di licenziamento, le ferie pagate, la conservazione del posto in caso di malattia e varie forme di assicurazioni sociali poi travasate nell' Italia repubblicana, come ben ricorda ora il libro Civiltà del lavoro edito da Altaforte. Non stiamo qui a ricordare le altre conquiste sociali del regime.
Queste cose sono fatti. Così come lo sono tutti gli orrori del fascismo, a partire dal primo: la privazione della libertà personale, la pretesa che l' individuo si adeguasse alle volontà dello Stato e alle prepotenze del governo. Anche in questo caso stiamo ribadendo l' ovvio. Ma ci tocca farlo perché in Italia non abbiamo ancora maturato nei confronti del fascismo la serenità di considerarlo un periodo da studiare e archiviare, consegnandolo alla storia. Da noi c' è ancora chi parla di incombente minaccia nera...
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La libertà non consiste tanto nel fare la propria volontà quanto nel non essere sottomessi a quella altrui. Jean-Jacques Rousseau
Chiudete tutte le librerie, se volete; ma non c’è nessun cancello, nessuna serratura, nessun bullone che potete regolare sulla libertà della mia mente. Virginia Woolf
Il “Colle” nel dato contesto è espressione sineddica per definire la nostra Presidenza della Repubblica. Eh già!, perché nella moderna dittatura italiana di matrice sinistrica, la conquista del “Colle” è necessaria per continuare a fare ciò che hanno sempre fatto fino a questo momento, specie negli ultimi trenta anni: organizzare golpi e golpetti politici di varia natura, determinare il percorso amministrativo di un popolo anche contro il suo volere, conservare il potere e soprattutto attingere alla mammella dello Stato in forma di contributi editoriali o di donazioni ai partiti!
Il governo delle poltrone viventi è nato vecchio, persino già pronto a tirare le cuoia.
Ci sono tutti: Renzi, Boschi, Del Rio, il Zinga, i leader Leu, la Bonino di quel partito e Radio Radicale che si è appena pappato 12 milioni di denaro pubblico, ma che nonostante ciò trova la forza di criticare le spese folli del precedente esecutivo… E poi ci sono segretari, protosegretari, vicesegretari, semisegretari, portaborse, fattori, facchini, camionisti… L’unico che non fanno vedere è l’indagato Luca Lotti: manco loro ne hanno la forza e il coraggio!
Viviamo un’epoca in cui il signor Rossi, cittadino modello e probo, non ha referenti politici a cui guardare; viviamo l’epoca del profondo vuoto impossibile da colmare per mancanza di coglioni (i coglioni che si vedono in giro infatti sono altra cosa!).
Viviamo un’epoca in cui anche il signor Alessandro Di Battista, ambasciatore del grillismo più traguardante, da tigre ringhiante appostata dietro i cancelli di Arcore si è trasformato in gattino miagolante, assopito, tenuto al guinzaglio dai compari interessati alla poltrona.
La rivoluzione di velluto digitale italiana, immaginata dal guru Giuseppe Grillo da Genova[1], non ha prodotto alcun Robespierre (sin dai tempi di Benito Mussolini, noi non riusciamo a eccellere neppure con il peggio!), ma in compenso ha partorito la figura incravattata di Luigi Di Maio[2]. Costui, un ex “bibitaro”, come lo hanno chiamato per anni i giornali referenti del Partito Democratico con cui poi ha dovuto affratellare il Movimento, tosto trasformato in “capo politico” del M5S per decreto inappellabile del garante Grillo, nonché costretto tra l’incudine che è lo stesso Grillo[3] e il martello mediatico Travaglio[4], non ha saputo fare altro che ciò che sembra portato a fare: obbedire e tacer, e tacendo occupare poltrona. Più di una, in verità.
I coglioni, si diceva un tempo: ah, averli!
Del resto, lo sappiamo bene: un diamante è per sempre, ma in Italia lo è anche una poltrona parlamentare.
….proprio come gli zombie, a volte ritornano. Anzi, sono già tornati e non se ne andranno mai più: cadrega attaccata al deretano, panza riempita fino alla gola, l’unica speranza per il signor Rossi qualunque è che in tanto magnare alla fine si strozzino…
[1] Cfr. Capo 3
[2] Attuale ministro degli Esteri del Conte II e uno dei due vice-premier del governo Conte I. Vedi anche la fotografia di inizio paragrafo.
[3] Fonte screenshot a sinistra: dagospia.com del 29 ottobre 2019.
[4] Fonte screenshot alla pagina seguente: dagospia.com del 29 ottobre 2019.
Tratto da BRUNDU R., Quando eravamo grillini. Il grande bluff a Cinque Stelle, Ipazia Books, 2019.
SINOSSI EDITORIALE
“Vi parlo senza rimpianti – tuonava Beppe Grillo, moderno guru politico italiano, dalla sua catacomba-rifugio nella notte tra il 31 dicembre 2014 e il primo dell’anno 2015 – del resto cosa rimpiangeremo di questo 2014 che se ne va? Le balle di Renzi? Le balle del PD meno L? Di due partiti che si sono uniti per disfare la Costituzione e i cui padri costituenti sono in galera? La verità è che forse il 2014 ce lo ricorderemo solo perché sarà leggermente meglio del 2015. Tuttavia, non possiamo neppure negare che ormai ci stiamo abituando a questo marcio, alla sua percezione, ecco perché bisogna parlare sottovoce… Chissà? Forse l’ebetino si toglierà di torno, magari allo scopo di prepararsi per le Olimpiadi, allenandosi sui cento metri a ostacoli, nell’attesa del momento in cui verrà rincorso dalla popolazione…”.
Così tanto deve essersi abituato al “marcio” prodotto, che alla fine Beppe Grillo – smettendo di sussurrare e muovendo dall’umile catacomba alla villa di Bibbona – avrebbe deciso di prenderle per buone le “balle” del “PD meno L”, nonché di fare da padrino alla nascita, il 5 settembre 2019, di uno dei governi meno amati dal popolo italiano, il Conte Bis.
Questo libretto vuole essere una attiva e personale testimonianza di uno dei periodi più cupi di emergenza mediatica e democratica vissuti dall’Italia in epoche recenti; un periodo in cui anche lo stesso concetto di onestà intellettuale ha semplicemente smesso di essere, ma che, contestualmente, ha riaffermato, con la potenza di un assioma, il principio in virtù del quale quando si tratta di comprendere e spiegare la natura umana Niccolò Machiavelli “ha SEMPRE ragione!”.
Contenuti
Perché questo libretto? 1 Gennaio 2015 – Il discorso dalla catacomba Altro che catacombe: ladri di democrazia!
Capo 1 Sulla natura della nostra “democrazia” 1.1 Di una epifania ontologico-politica 1.2 Il caso Italia: cronica emergenza mediatica 1.3 Il caso Italia: emergenza democratica?
Capo 2 Sui fatti dell’agosto 2019 2.1 In morte del Salvimaio… 2.2 Follia balneare di Matteo Salvini e nascita del “governo delle poltrone viventi”. 2.3 L’era del grillorenzismo e la restaurazione dell’ancien-regime 2.4 Notte della Repubblica: a volte ritornano… 2.5 Il PD scopre l’antirenzismo (5 anni dopo!) 2.6 Intanto Salvini gode, l’Italia diventa leghista…
Capo 3 Moderne distopie e velleità dei guru dei tempi 3.1 Il caso Beppe Grillo in Rai (1986) e la nascita del M5S 3.2 Scritti di governo 3.3 Dal grillismo all’era del grillorenzismo!
Capo 4 Autoritarismo delle moderne distopie: il Caso del Blog delle Stelle 4.1 Sul senso per la “democrazia” nelle caste populiste 4.2 La censura usata come arma nella “lotta politica” 4.3 Della casta grillina, o di quando la serva diventa regina
Capo 5 Machiavelli ha SEMPRE ragione! 5.1 Il potere logora chi non ce l’ha! 5.2 Sul tradimento del mandato popolare del 4 marzo 2018 5.3 Munificenza del Conte Bis e il Caso Segre 5.4 Artisti dei tempi e l’odio viscerale verso l’avversario politico: momenti censurabili dall’era del grillorenzismo 5.5 Sull’illusione, la disillusione e l’impegno in politica 5.6 Machiavelli ha SEMPRE ragione! 5.7 Niccolò Machiavelli: liberiamo l’Italia dai barbari, profittatori e scialacquatori!
Appendici Notte della Repubblica (1) Notte della Repubblica (3) Notte della Repubblica (5) Notte della Repubblica (7) Notte della Repubblica (10) Notte della Repubblica (12) Della lotta democratica al tempo del grillorenzismo… Umbria 2019: cronaca di una sconfitta annunciata! Sui morti politici che parlano e sul capolavoro politico di Salvini: il machiavellismo imperat! Casi politici e plastici dei tempi…
Perché il dicembre 2019? Biografia Libri di Rina Brundu
Fonte: www.ipaziabooks.com
Rina Brundu Scrittrice italiana, vive in Irlanda. Ha pubblicato i primi racconti nel periodo universitario. Il romanzo d’esordio, un giallo classico, è stato inserito nella lista dei 100 libri gialli italiani da leggere. Le sue regole per il giallo sono apparse in numerosi giornali, riviste, siti, e sono state tradotte in diverse lingue, così come i suoi saggi e gli articoli. In qualità di editrice ha coordinato convegni, organizzato premi letterari, ha pubblicato studi universitari, raccolte poetiche e l’opera omnia del linguista e glottologo Massimo Pittau (1921-2019), con cui ha stabilito un lungo sodalizio lavorativo e umano. Negli ultimi anni ha scritto saggi critici, ha sviluppato un forte interesse per le tematiche e le investigazioni filosofiche, e si è impegnata sul fronte politico soprattutto attraverso una forte attività di blogging. Anima il magazine multilingue www.rinabrundu.com.
Rina Brundu is an Italian writer and publisher who lives in Ireland. Author of several books and hundreds of articles and literary reviews, she has a keen interest in literary criticism, philosophy, e-writing and journalism.Website www.rinabrundu.com.
QUANDO ERAVAMO GRILLINI – Citazioni sparse
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Francesco Hayez - Milano - Brera - Verdi - 1841
Ecco la cronologia dei fatti che, soprattutto in Francia e in Italia, hanno condotto dalla Rivoluzione francese alla Prima guerra mondiale.
1774: Luigi XVI re di Francia; 1786: insolvenza delle casse statali in Francia; 1789: convocazione degli Stati Generali e presa della Bastiglia; 1791: la famiglia reale arrestata a Varennes; 1792: proclamazione della Repubblica; 1793: Luigi XVI ghigliottinato. Terrore. Decapitazione di Maria Antonietta; 1794: Robespierre ghigliottinato.
1796 - 1797: Prima campagna d’Italia sotto la guida di Napoleone (Lodi, Arcole, Rivoli e Trattato di Campoformio con la conquista del Piemonte e della Lombardia); 1799: Napoleone Primo Console; 1800: Seconda campagna d’Italia (Marengo, Trattato di Luneville con la conferma dei territori italiani); 1804: Napoleone imperatore; 1805: Battaglie di Ulm, Trafalgar, Austerlitz e Trattato di Pressburg con la conquista del Veneto; 1806: Battaglie di Jena e Auerstadt con la presa di Berlino e della Prussia; 1806: Battaglie di Eylau, Heilsberg, Friedland e Trattato di Tilsit fra Napoleone e Alessandro I; 1809: Vittoria di La Coruna e ristabilimento dell’ordine in Spagna; 1809: Wagram e pace di Schonbrunn con pesanti concessioni austriache; 1812: Campagna di Russia (Smolensk, Borodino e ritirata dopo la conquista di Mosca); 1813: Battaglie di Lutzen, Bautzen, Dresda e sconfitta di Lipsia; 1814: esilio dell’Elba; 1815: sconfitta di Waterloo; 1820: arresto di Silvio Pellico a Milano; 1821: morte di Napoleone in esilio a Sant’Elena. Moto carbonaro a Torino di Santorre di Santarosa.
1825: a Roma condanna a morte di Angelo Targhini e Leonida Montanari;
1831: a Modena moto di Ciro Menotti, Giuseppe Mazzini a Marsiglia fonda la Giovine Italia;
1832: pubblicata a Torino l'autobiografia di Silvio Pellico, Le mie prigioni; 1846: elezione di papa Pio IX; 1848: Cinque giornate di Milano. Vittorie di Pastrengo e Goito, sconfitte a Custoza e Novara di Carlo Alberto contro Radetsky (Prima Guerra d'Indipendenza): abdicazione del re e salita al trono di Vittorio Emanuele II in Piemonte e di Francesco Giuseppe in Austria; 1849: Repubblica Romana e Repubblica di San Marco. Ascesa in Francia di Napoleone III; 1852: Cavour Primo Ministro in Piemonte
1856: guerra di Crimea
1858 accordi di Plombières fra Cavour e Napoleone III; 1859 attentato di Felice Orsini contro Napoleone III. Seconda guerra d'indipendenza (Battaglie di Montebello, Palestro, Magenta, Solferino e San Martino) e pace di Villafranca. Dimissioni di Cavour, Lamarmora Primo Ministro. 1860 Cavour ritorna al potere. Spedizione “dei Mille”; 1861 Vittorio Emanuele II re d'Italia. Morte di Cavour. Ricasoli Primo Ministro
1862 Rattazzi Primo Ministro. Incidente dell’Aspromonte. Farini Primo Ministro
1863 - 1864 Marco Minghetti Primo Ministro. Questione Romana
1866 Guerra franco-prussiana fra Napoleone III e Bismark. Terza guerra d'indipendenza (Garibaldi vince a Bezzecca, sconfitte di Custoza e Lissa. Annessione del Veneto
1869 - 1873 Giovanni Lanza con Quintino Sella ministro delle Finanze riducono le spese militari e completano la conquista di Roma nel 1870
1877 Morte di Vittorio Emanuele II. Umberto I re
1876-1887 governi della Sinistra storica (Depretis);
1887 - 1893 Governo Crispi. Triplice Alleanza. Sconfitta di Dogali, conquista di Asmara e dell’Eritrea; 1892-1893 Governo Giolitti. Scandalo della Banca Romana
1893 - 1896 Francesco Crispi fallisce l’avventura coloniale con le sconfitte di Ambra Alagi e Adua 1900 Antonio Di Rudinì Primo Ministro. Bava Beccaris cannoneggia i rivoltosi a Milano. Umberto I assassinato a Monza. Vittorio Emanuele III re 1903 - 1914 Governi Giolitti. Terremoto di Messina. Conquista della Libia 1914-1917 Il liberale Giolitti soccombe all’avvento dei partiti di massa. Governo Salandra. Settimana rossa. Attentato di Sarajevo. Prima guerra mondiale. Paolo Boselli Primo Ministro 1917-1919 Ministero Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino Ministro degli Esteri negoziano malamente a Parigi ottenenendo Trieste, Trento, l’Alto Adige, ma non Fiume 1919-1920 Ministero Francesco Saverio Nitti. Ascesa dei partiti di massa, popolari e socialisti 1920-1921 Giovanni Giolitti non riesce a coinvolgere i socialisti di Turati e deve fronteggiare l’avventura di Fiume di Gabriele D’Annunzio. Ivanoe Bonomi non ferma lo squadrismo fascista 1922 Governo Facta. Marcia su Roma. Mussolini al governo.
1943 - 1944 Graziano Badoglio Primo Ministro. Umberto II re.
1944 - 1945 Ivanoe Bonomi
1945 Ferruccio Parri
1945 - 1953 Alcide De Gasperi
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Manifesto Fascista affisso a Dignano
Rab_campo di concentramento
Istria e Dalmazia, non sono regioni storicamente italiane, nelle ultime migliaia di anni, sono sempre state abitate da popolazioni di origine slava. Per molti secoli questi territori sono stati sotto il controllo del sacro romano impero prima, dell’impero Austriaco e poi dell’impero Austro Ungarico. Nella seconda metà del XIX secolo, quando in Italia si proclamava l’unità nazionale e si combattevano le guerre di indipendenza, gli allora abitanti dell’Istria, così come anche quelli della Dalmazia, non se ne preoccuparono più di tanto, non insorsero contro gli Asburgo per unirsi alla nuova nazione guidata dai Savoia e questo perché non si sentivano parte della tradizione e della cultura italica, un discorso a parte va fatto per la città di Trieste la cui popolazione era per lo più di origini “venete”, per non dire veneziani, ma un unica città in un’intera regione non è sufficiente a definire l’identità regionale.
Passano gli anni, passa più di mezzo secolo, inizia la prima guerra mondiale, l’Italia vuole entrare in guerra ed espandere i propri possedimenti e l’unico possibile avversario abbastanza vicino e debole contro cui scontrarsi è l’impero austro-ungarico e come sappiamo l’Italia riesce ad accordarsi con Francia e Regno Unito per poter conquistare territori Austriaci. Di fatto la guerra degli italiani ha come fine ultimo la conquista di nuovi territori, tra cui appunto, Istria e Dalmazia.
Agli inizi degli anni venti quindi, Istria e Dalmazia vengono occupate “illegalmente” da numerosi migranti italiani, tacitamente appoggiati dal governo, per lo più sono persone che conoscono quelle terre, la maggior parte erano migranti stagionali che già prima dell’unificazione si recavano periodicamente nei territori austro ungarici per lavorare soprattutto come operai, in miniere e nelle cave. Insomma, gli Italiani erano frequentatori/lavoratori abituali della regione da più di un secolo e tra la prima e la seconda guerra mondiale, molti migranti stagionali decisero di stabilirsi lì regolarmente, insomma, andarono lì e non tornarono più in Italia. Molti rimasero lì per varie ragioni, un po perché convinti che quelle terre fossero loro di diritto, un po perché quelle terre un tempo appartenevano alla corona asburgica, ma dopo la guerra la corona era caduta e fondamentalmente per il controllo delle terre vigeva la legge del più forte,“la terra è di chi se la piglia” e gli italiani se la presero senza troppi complimenti.
I problemi iniziano verso la metà degli anni venti, con la svolta fascista in Italia, e ancora di più con l’ascesa del Nazismo in Germania, negli anni trenta. Benito Mussolini in un discorso tenuto a Pola dice: “ … Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini Italiani devono essere il Brennero, il Nevoso e le Alpi Dinariche, si, le Dinariche della Dalmazia dimenticata!…”
L’avvento delle ideologie di razza si tradusse in una rivendicazione totale di quei territori, ormai l’occupazione delle terre è totale ma gli italiani continuano ad arrivare in Istria e il governo fascista assegna loro terre che fino a quel momento erano state occupate dai locali, insomma, il governo fascista decide che determinati terreni debbano appartenere agli italiani e quindi, i non italiani che vivevano lì, vengono cacciati dalle proprie case e terre fondamentalmente con la forza, e questo è il primo di una serie di passi che per oltre vent’anni avrebbe alimentato il rancore nei confronti degli italiani che sarebbe esploso nel secondo dopoguerra
Nel 1939, un anno prima che l’Italia fosse gettata nella seconda guerra mondiale, le autorità fasciste della Venezia Giulia attuarono in segreto un censimento della popolazione di quelle terre annesse venti anni prima, accertando che in esse vivevano 607.000 persone, delle quali 265.000 italiani e cioè il 44%, e 342.000 slavi, ovvero il 56%. Una cifra notevole nonostante l’esodo degli ottantamila, nonostante che agli slavi fossero stati italianizzati i cognomi, fosse stato vietato di parlare la loro lingua, fossero state tolte le scuole e qualsiasi diritto nazionale. Nell’aprile del 1941 infine, si arrivò all’aggressione alla Jugoslavia seguita dall’occupazione di larghe regioni della Slovenia e della Croazia, dall’intero Montenegro e del Kosovo. Così l’Italia incorporò nel proprio territorio nazionale regioni abitate al 99% da sloveni e croati con una popolazione di oltre mezzo milione di persone che si aggiungevano al 342.000 già assogettati all’Italia ed al fascismo italiano da due decenni, una vera e propria Apartheid creata dagli Italiani.
Alle popolazioni locali l’idea di essere dominati da una potenza straniera non piace granché e dopo quasi un anno di situazione relativamente tranquilla, comincia una furiosa guerriglia partigiana. La reazione italiana è durissima: rastrellamenti, fucilazioni, deportazione delle popolazioni civili dai villaggi delle zone dove sono attivi i partigiani. Viene creata una rete di campi di concentramento dove sistemare le popolazioni deportate. Uno di questi campi sorge sull’isola di Arbe, nel golfo del Quarnero (oggi Rab, Croazia). considerato il peggior campo di concentramento italiano, dove vennero internati decine di migliaia di cittadini jugoslavi, soprattutto civili, donne e bambini. Un crimine che non ha mai trovato giustizia, vista la mancanza di una «Norimberga italiana» alla fine del conflitto; una pagina nera della nostra storia, che non ha mai avuto spazio nei manuali scolastici e nelle celebrazioni ufficiali.
C’è un’anomalia storica nel nostro paese, che riguarda la memoria della Seconda guerra mondiale. Per una serie di ragioni storiche, politiche, psicologiche, abbiamo rimosso gran parte dell’esperienza di conflitto precedente all’Armistizio dell’8 settembre 1943 e tutto il Ventennio precedente viene riscattato dall’esperienza partigiana. Sarebbe interessante invece, conoscere meglio il periodo che va dalla marcia su Roma alla nascita della R.S.I.
La terra è di chi se la piglia! Istria e Dalmazia, non sono regioni storicamente italiane, nelle ultime migliaia di anni, sono sempre state abitate da popolazioni di origine slava.
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“Il deserto, il nostro deserto libico alle porte del Sahara, tremendo e appassionante, spaventoso e suggestivo, è lo sfondo e l’ambiente di poesia in cui brillano le passioni, cozzano le diverse mentalità e i diversi temperamenti, si sviluppano i drammi profondamente umani che fanno di “Squadrone bianco” il film avvincente dell’italianissimo tempo nuovo”.
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Lo Squadrone Bianco è un film italiano del 1936 a tema coloniale, ambientato e girato in Libia, diretto da Augusto Genina e interpretato da Fosco Giachetti. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia il 20 agosto di quell’anno, vinse la Coppa Mussolini come miglior film italiano.
Adattamento cinematografico del romanzo omonimo del 1931 di Joseph Peyré, L’escadron blanc è considerato uno dei migliori film del Ventennio, dedicato “ai valorosi gruppi sahariani che ricondussero la Libia sotto il segno di Roma” proprio nell’anno del 25° anniversario della conquista della Libia. Divenne in quel periodo uno dei film italiani più diffusi all’estero.
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GUARDA QUI IL DIETRO LE QUINTE DELLA PRODUZIONE DEL FILM “LO SQUADRONE BIANCO”
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RECENSIONI D’EPOCA
La Stampa: «Un film degno veramente di chiamarsi italiano un’opera salda e virile […] l’ambiente dei nostri meharisti, la vita di quello squadrone diventano i veri protagonisti là dove il deserto confonde i suoi barbagli con quelli del cielo; le pagine bellissime sono parecchie e sovente ci offrono del vero cinema nobilmente inteso».
Il Corriere della sera: «Questa volta ci siamo: prendere un soggetto che per tre quarti si svolge nel deserto, dove non si vedono che dune, senza scene d’amore, senza baci, a cavarne un film attraente, appassionante, popolare era l’impossibile compito che Genina si è assunto e che è riuscito vittoriosamente a realizzare».
Il Messaggero: «è di gran lunga il più schietto, umano, forte film fatto finora in Italia sul soldato italiano. Qui non c’è l’eroe tipico che i registi a corto d’ispirazione cucinano prendendo il più delle volte a prestito i lati caratteristici degli eroi del cinema americano».
Cinema: «Lo squadrone bianco, al di là degli stessi valori romanzeschi, è e rimarrà una splendida e poetica documentazione del valore guerriero e della bellezza dei nostri cavalieri del deserto».
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LA PRODUZIONE
Prodotto dalla “Roma Film”, fondata da Francesco Giunta, con i finanziamenti da parte dello stato che incentivavano le produzioni italiane ebbe un budget di 5 milioni di lire.
Le riprese iniziarono il 18 aprile 1936 nel deserto libico, presso il forte Sinauen e l’oasi di Gadames al confine con la Tunisia. La produzione fu seguita ed agevolata dal Governatore Italo Balbo, che fornì materiali e truppe.
Curiosità del film è che i meharisti italiani, a differenza di quelli francesi che avevano ispirato Peyré, indossavano un burnus nero, e non bianco, per cui diverse scene dovettero essere rigirate ed adattate per poter conservare il titolo il titolo originale.
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TRAMA
Per soffocare una passione amorosa non corrisposta, un ufficiale di cavalleria si fa destinare ai meharisti di Tripolitania. Giunto al fortino, a cui è assegnato, si trova subito in contrasto con la mentalità rude e fiera del capitano comandante. A quel contatto e con quell’esempio il sodato comprende la futilità della vita trascorsa fino ad allora. In una lunga spedizione attraverso il deserto all’inseguimento di una banda di ribelli, ha modo di dimostrare tutta la propria fierezza. Durante il combattimento, dopo giorni di marcia, il capitano muore e l’uficiale riconduce lo squadrone al forte. Tra un gruppo di turisti lo attende anche la donna che lo aveva respinto. Ma il giovane le dichiara di non voler più abbandonare quella che sarà la sua vita.
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SCHEDA FILM
Regia: Augusto Genina
Attori: Fosco Giachetti – Capitano Santelia, Antonio Centa – Tenente Mario Ludovici, Fulvia Lanzi – Cristiana, Francesca Dalpe – Paola, Guido Celano – Tenente Fabrizi, Olinto Cristina – Capitano Donati, Cesare Polacco – El Fennek, Mohamed Ben Mabruk – Belkier, Nino Marchetti – Soldato segretario di Santelia, Olga Pescatori – Anna, Loris Gizzi – Turista, Giorgio Covi – Turista, Doris Duranti – Turista, Donatella Gemmò – Turista, Enrico Marroni – Turista, Jole Tinta – Turista, Bernardino Molinari – Direttore d’orchestra alla basilica Massenzio
Soggetto: Joseph Peyré – (romanzo)
Sceneggiatura: Joseph Peyré – (adattamento), Augusto Genina – (adattamento e scen.), Gino Valori
Fotografia: Anchise Brizzi, Massimo Terzano, Antonino Cufaro (Antonio Cufaro) – (operatore), Goffredo Bellisario – (assistente operatore), Ugo Lombardi – (assistente operatore)
Musiche: Antonio Veretti, dirette da Mario Rossi.
Montaggio: Fernando Tropea
Scenografia: Guido Fiorini
Costumi: Vittorio Accornero
Aiuto regista: Gino Valori, Mario Monicelli – (assistente), Sanino Nahum – (assistente)
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GUARDA QUI “LO SQUADRONE BIANCO” FILM INTERO
Il film verrà caricato a breve, entro giovedì 24 maggio 2018. Scusateci per il contrattempo
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GALLERIA FOTOGRAFICA DEL FILM “LO SQUADRONE BIANCO”
Lo squadrone bianco Genina 1936
Film coloniale “Lo Squadrone Bianco”. Il dietro le quinte del set in Libia e il film intero “Il deserto, il nostro deserto libico alle porte del Sahara, tremendo e appassionante, spaventoso e suggestivo, è lo sfondo e l’ambiente di poesia in cui brillano le passioni, cozzano le diverse mentalità e i diversi temperamenti, si sviluppano i drammi profondamente umani che fanno di “Squadrone bianco” il film avvincente dell’italianissimo tempo nuovo”.
#Augusto Genina#Coppa Mussolini#fascismo#film coloniale#film intero#Fosco Giachetti#L’escadron blanc#libia#Lo Squadrone Bianco
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di NICOLA R. PORRO ♦
Partiti vs populismi: una vecchia storia
Riprendo con un certo sollievo il mio girovagare attorno al tema controverso del populismo. Il sollievo discende dal fatto che il voto del 4 marzo ha se non altro liberato le mie riflessioni dal sospetto di analisi strumentali e di approcci contingenti. Mi propongo di tornare sull’analisi del voto più avanti, quando disporremo di una lettura più completa dei dati e degli effetti di ritorno indotti dall’esito – peraltro in buona parte previsto e prevedibile – della consultazione. Chi ha la pazienza di seguirmi avrà probabilmente intuito, infatti, che sto sviluppando una ricerca sul nesso fra insorgenze populistiche e crisi di legittimità del modello democratico come si era venuto configurando in Occidente a partire dal secondo dopoguerra. Lo scambio di idee con i lettori del blog costituisce perciò per me un’opportunità preziosa di confronto, verifica e chiarificazione e ho recepito con piacere i contributi dialettici pervenuti al mio ultimo articolo.
Uno di essi si concentra sul rapporto fra insorgenze populistiche – fenomeno a scala planetaria di cui l’Italia presenta tuttavia alcune varianti interessanti – ed effetti della globalizzazione. I vecchi populismi si formarono fra XIX e XX secolo nel contesto delle nazionalizzazioni incipienti e della nascente industrializzazione. I nuovi populismi interpretano, al contrario, le contraddizioni della globalizzazione e le incertezze dell’economia postindustriale. Di qui aspetti chiave del problema, che segnalano elementi di continuità ma anche nitide cesure fra le due stagioni e i due paradigmi politici. Intendo trattarne distesamente più avanti proprio per la rilevanza della questione.
L’altro contributo, segnalando il rischio di analisi influenzate da pregiudizio ideologico, sottolinea invece la relazione fra affermazione dei nuovi populismi e crisi dei vecchi partiti.
Senza saperlo, l’amico intervenuto ha anticipato una questione che avevo in animo di trattare a breve e che, incoraggiato dalla sollecitazione ricevuta, cercherò di sviluppare qui. Senza ovviamente pretendere di esaurire l’ampia problematica cui il tema rinvia.
Damiani pone la questione del rapporto fra insorgenze populiste, da un lato, e crisi di legittimità e/o di rappresentanza dei partiti tradizionali, dall’altro. Argomento di grande rilevanza, ma anche questione storicamente antica, risalendo ad almeno un secolo fa. Soprattutto in Europa, dove fra Ottocento e Novecento aveva preso forma il modello del partito di massa, la denuncia circa la degenerazione della democrazia rappresentativa venne condotta da un’agguerrita scuola di pensiero, denominata élitismo. Era composta in gran parte da intellettuali nostalgici del vecchio ordine politico-sociale, insofferenti delle pretese di emancipazione delle classi popolari, spaventati dal suffragio universale e dall’abolizione dei privilegi di censo. Ferocemente ostili allo sviluppo delle grandi organizzazioni di massa, interpretavano la formazione del professionismo politico come una perversione propria della nascente democrazia dei partiti. Pensatori come Vilfredo Pareto o Gaetano Mosca, di chiaro orientamento conservatore, erano coerenti con una visione aristocratica del potere e scettici rispetto alla capacità di esercizio della democrazia da parte delle vituperate “masse”. In quegli anni Gustave Le Bon aveva fornito una rappresentazione inquietante della “psicologia delle folle” che, facendo leva sulla loro presunta irrazionalità, sembrava confermare il pregiudizio antipopolare che ispirava quelle analisi. Roberto Michels proveniva invece dalle file del socialismo, da cui si era allontanato condannandone le derive oligarchiche. Pochi anni dopo, la sua abiura si sarebbe tradotta in aperta adesione al fascismo. Questi aristocratici del pensiero politico muovevano alla democrazia dei partiti e ai movimenti di massa critiche non molto diverse e non meno astiose di quelle che alimentano l’antipartitismo populistico dei nostri giorni. Pareto aveva parlato di circolazione delle élite, giustificando persino l’eversione mussoliniana in quanto risposta all’incapacità dei processi democratici di favorire il ricambio delle élite del potere. Mosca avrebbe costruito tutto il suo sistema di pensiero sull’analisi di una classe politica, quella postrisorgimentale, per definizione predatoria ed esclusivamente interessata alla difesa dei propri privilegi. Michels si sarebbe addirittura appellato alla “legge ferrea delle oligarchie” per giustificare la filosofia di una radicale disintermediazione: via sindacati e partiti e potere legittimato esclusivamente dal carisma di un capo. Faceva discendere da qui la necessità storica della rivoluzione fascista, sorvolando disinvoltamente sul suo carattere liberticida. La psicologia di Le Bon accreditava, da parte sua, una presunta irrazionalità dei comportamenti collettivi, giustificando implicitamente la legittimazione per via carismatica dell’autorità politica. Il connubio fra pensiero conservatore e argomenti che riaffiorano periodicamente nell’alveo culturale del populismo non costituisce insomma un inedito.
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È dunque singolare ma non sorprendente che, un secolo dopo, i paladini della ggente riproducano così dettagliatamente quella rappresentazione della politica. Comune al vecchio e al nuovo è l’antipolitica eretta a sistema di pensiero e a valore politico. Un sentimento e una visione non confinata nel recinto della scienza politica. L’insofferenza per la democrazia rappresentativa come si andava costruendo nel fuoco della Grande Trasformazione – avendo la nazionalizzazione e l’industrializzazione come i due processi sociali portanti del mutamento politico -, presenta un vasto repertorio. Comprende storici, sociologi e critici sociali come Thomas Carlyle e Hyppolite Taine. Ispira alcuni fra i maggiori scrittori del XIX secolo, come Dumas, Stendhal, Balzac, Eliot, Flaubert, Dickens, Daudet, Oscar Wilde, Maurice Barrès e persino Émile Zola. Fra gli italiani, basta leggere le pagine di Francesco Domenico Guerrazzi (Il secolo che muore), di Antonio Fogazzaro (Daniele Cortis), di Vittorio Bersezio (Corruttela) o di Matilde Serao (La conquista di Roma) per avere un’idea assai viva del risentimento diffuso contro il ceto politico del tempo, non ancora ribattezzato casta. Non ci sono quasi scrittori europei attivi nell’epoca della sorgente democrazia parlamentare che non abbiano intinto la penna nel veleno per descrivere parlamentari corrotti e spregevoli affaristi, sistematicamente in combutta con speculatori, giornalisti prezzolati e malavitosi politicamente protetti. Il brodo di coltura dei populismi si alimenta della mistica della plebe, ma è spesso nutrito di sensibilità letterarie, estetiche e intellettuali tutt’altro che dozzinali.
Questi umori, fatti circolare a piene mani in un’opinione pubblica non ancora dotata di robusti anticorpi culturali, insieme agli effetti traumatici della Prima guerra mondiale, contribuirono a fornire argomenti e slogan di pronto impiego ai fascismi europei sin dagli anni Venti del Novecento. Mostrando chiaramente come un’ispirazione genuinamente populista non fosse affatto in contraddizione con una visione del mondo gerarchica e persino totalitaria. Il populismo fascista soffiò abilmente sul fuoco delle tensioni sociali dilagate dopo la Grande Guerra. Di suo aggiunse la formidabile intuizione di rendere i sudditi complici plaudenti del proprio asservimento. Mussolini, come Hitler o Stalin o i peggiori satrapi del populismo, avevano ben chiaro come in un regime politico privo di anticorpi pedagogici le masse possano preferire il rassicurante ordine delle catene alle inquietudini e ai rischi della libertà. Forse, però, il giudizio più perspicace su queste vicende lontane e attuali al tempo stesso rimane quello di Antonio Gramsci.
Per il pensatore sardo, la causa principale della resa ingloriosa della democrazia parlamentare all’offensiva fascista stava nell’incapacità delle forze politiche liberali di affermare una egemonia culturale sulla società italiana. L’elaborazione di un progetto di Stato, nutrito di sentimenti (il patriottismo in un Paese pervenuto tardivamente all’unità politica), di valori condivisi (l’interesse generale), di un sistema di diritti e anche di esperienze diffuse (a cominciare dall’uso di una sola lingua nazionale), veniva prima della stessa capacità politica e organizzativa di contrastare la minaccia totalitaria. Gramsci intuiva insomma la natura del populismo come insidiosa alternativa alla formazione di un’egemonia civica e culturale che non fosse più prerogativa esclusiva delle vecchie élite. Un’egemonia non populista proprio perché si sarebbe fondata sull’emancipazione delle masse lavoratrici, sociologicamente partorite dall’industrializzazione e dalla democratizzazione, anziché sull’eccitazione demagogica delle loro paure. Da qui una condanna senza appello per quella parte maggioritaria della borghesia italiana che, incapace di realizzare una riforma “intellettuale e morale” delle forze politiche affermatesi con il Risorgimento e il suffragio universale, aveva consegnato il Paese al fascismo e alla sua rappresentazione rozzamente populistica delle relazioni sociali. Va anche ricordato come la critica gramsciana non si sottraesse a un giudizio preoccupato sulle incipienti trasformazioni dei partiti di massa, compresi quelli di ispirazione comunista. Negli anni Trenta la critica (implicita ed esplicita) mossa dall’intellettuale incarcerato al marxismo dogmatico e alle derive totalitarie dello stalinismo, discendeva in buona misura dalle sue riflessioni sull’egemonia. Nell’ottica gramsciana, insomma, il consenso al populismo, nelle forme proprie del primo Novecento, sembra rappresentare una sorta di limbo, di turbolento stato intermedio che si profila quando le vecchie idee non hanno più potere ordinativo e le nuove non si sono ancora configurate. Quando le tenebre della notte si diradano e la luce non illumina ancora il nuovo giorno la penombra si popola di mostri.
Non è detto che questa analisi, con le dovute variazioni, non conservi una qualche validità a un secolo di distanza. Spesso ondate elettorali populiste hanno rappresentato non tanto una scelta di campo alternativa quanto piuttosto una sorta di consenso-rifugio che sollecitava una più adeguata offerta politica. Il qualunquismo italiano dilagò nelle urne nell’immediato dopoguerra per svanire poi repentinamente non appena i grandi partiti di massa riuscirono a tessere una nuova e più efficiente rete di relazioni e di rappresentanza con le grandi masse popolari.
Secondo la visione gramsciana, Mussolini avrebbe intercettato una profonda crisi di legittimità sia delle vecchie forme partito sia dei ceti dominanti inserendosi in una crepa sociale e culturale che la codardia dei monarchici, la violenza squadrista e le divisioni delle forze democratiche avrebbero spinto nella voragine della dittatura. Un esempio da manuale di come i populismi (in questo caso nella loro versione nazionalistica e reazionaria, incarnata dalle figure eponime di Mussolini prima e di Hitler poi) proliferino sempre come risposta a una crisi di legittimità e a un’abdicazione di ruolo e funzioni da parte delle forze democratiche organizzate. Ciò non esime tuttavia dall’esigenza di operare distinzioni ulteriori entro la generica categoria di populismo.Ogni forma di populismo possiede una natura ambigua. L’arte della propaganda populista si riduce quasi sempre alla pars destruens promuovendo di sé l’immagine più accattivante, quella che veste i panni della protesta contro i soprusi della casta e gli abusi di oscuri poteri annidati in ogni ganglio della società. La pars construens, viceversa, si limita all’evocazione di una velleitaria democrazia diretta facilmente riducibile a una delega permanente a un nuovo ceto politico, composto nella realtà da ristrette conventicole di agitatori di professione. Anche questi aspetti accomunano vecchi e nuovi populismi, fatti ovviamente salvi i diversi contesti storici e profili politico-culturali. L’esito paradossale è stato spesso quello di sottrarre le classi dirigenti (non solo quelle propriamente politiche), le stesse organizzazioni di massa e le istituzioni rappresentative, a legittime ragioni di contestazione. La forza elettorale dei populismi è stata spesso alimentata dall’ambiguità ideologica che si traveste di nuovismo e offre ai disorientati uno sfogatoio senza prospettive o un’area di parcheggio in attesa di tempi migliori.
Negli anni Settanta-Ottanta, una figura leader del pensiero democratico europeo, il tedesco Jürgen Habermas, aveva spiegato anche il ciclo di protesta del decennio precedente come il prodotto di una diffusa crisi di legittimità. Essa avrebbe interessato, a suo parere, non solo le istituzioni parlamentari postbelliche ma anche le forze che si erano opposte ai totalitarismi, dal liberalismo alla socialdemocrazia alle forze di ispirazione cristiana. Nella loro diversità, tanto i movimenti di lotta più radicali, quasi sempre di ispirazione marxista o neomarxista, quanto le aggregazioni tematiche (single issue movement) di orientamento ambientalista, pacifista, femminista ecc. stavano esprimendo fratture culturali e domande politiche che avrebbero gemmato un nuovo paradigma. Vedremo più da vicino la prossima volta come i populismi (prendiamo ancora provvisoriamente per buona questa “definizione che non definisce”) si siano sviluppati come un torrente carsico nel secondo dopoguerra. Configurandosi come una sorta di reazione – il più delle volte effimera – a una più generale crisi di legittimità delle istituzioni democratiche classiche, ma anche come il prodotto di una contaminazione di esperienze, culture e sensibilità molto eterogenee e non sempre di facile classificazione. Di per sé, nessun movimento populista ha sinora generato un nuovo paradigma. La sfida populista potrebbe tuttavia stimolare la ricerca di nuovi paradigmi capaci di sottrarsi alla tenaglia fra vaniloquio di pura protesta e supina accettazione dell’esistente. Dovremo perciò concentrarci su una lettura meno generica del vagheggiato cambio di paradigma.
NICOLA R. PORRO
POPULISMO E POPULISTI (III) di NICOLA R. PORRO ♦ Partiti vs populismi: una vecchia storia Riprendo con un certo sollievo il mio girovagare attorno al tema controverso del populismo.
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Torniamo dunque al Duce. Le sue qualità principali sono quelle forme inferiori dell'intelligenza che si chiamano fiuto e furberia. Di solito, pertanto, se la situazione è confusa e la prospettiva incerta, prima di impegnarsi in una chiara direzione, egli preferisce praticare il doppio giuoco. (Quando ha creduto di fare di testa sua per coerenza con i suoi principi, gli è andata sempre male.) Nell'agosto del 1914, come direttore del giornale socialista Avanti!, egli sostenne la politica socialista di avversione alla guerra. Ma apparendogli già allora che l'Italia non avrebbe potuto alla lunga restare neutrale e ripugnando al suo spirito attivista la posizione passiva della pace, mentre sul giornale continuava a scrivere articoli contro la guerra, aveva cura di annodare approcci con elementi che lavoravano per far intervenire l'Italia accanto all'lntesa. Un giornale avversario denunciò quel doppio giuoco in un articolo intitolato "L'uomo dalla coda di paglia" e costrinse Mussolini a uscire dall'equivoco e a dichiararsi affrettatamente per la guerra. Nel dopoguerra, durante il periodo in cui tutti aspettavano in Italia una rivoluzione proletaria, egli speculò contemporaneamente, sulla sconfitta del socialismo e sulla sua vittoria. Quando nel settembre del 1920 gli operai metallurgici, seguiti dagli operai di altre categorie, occuparono le fabbriche e a molti sembrò che nulla potesse più arrestare il movimento rivoluzionario dei lavoratori, Mussolini, come ho già ricordato, non perdette tempo, chiese di poter conferire col comitato che dirigeva il movimento e ad esso dichiarò: "Seguo con simpatia l'occupazione delle fabbriche. Per me è indifferente se le fabbriche appartengono ai padroni o agli operai. L'importante è il rinnovamento morale della vita del paese". Quando però il movimento fallì e la paura delle classi possidenti si tramutò in arroganza, allora Mussolini insorse "contro il tentativo di precipitare l'Italia nel baratro del bolscevismo" e si offrì agli industriali come salvatore del paese "dalla minaccia asiatica del socialismo". Dopo la conquista del potere egli liquidò gradualmente tutti gli altri partiti, col doppio giuoco ch'egli stesso definì dell'ulivo e del manganello. Un esempio varrà per tutti. Cesare Rossi, capo dell'ufficio stampa del governo fascista, ha rivelata come nel luglio del 1923 Mussolini impartisse ordine ai fascisti di Firenze, Pisa, Milano, Monza e altre località minori di devastare durante la notte le sedi delle associazioni cattoliche. Nello stesso tempo, secondo un documento pubblicato dallo storico Salvemini, egli spedì un telegramma ai prefetti di quelle provincie perché esprimessero ai vescovi locali la più sincera deplorazione del governo fascista per le avvenute devastazioni. Quando Mussolini ha trasferito sul terreno internazionale questa tattica che gli aveva dato frutti copiosi in politica interna, è riuscito, facilmente a tenere in iscacco la Società delle Nazioni. Chiunque procede a un attento confronto tra la cronaca della guerra d'Abissinia, quale risulta dal libro del generale De Bono, e la politica temporeggiatrice del rappresentante fascista a Ginevra, si accorgerà che tutte le proposte avanzate a Ginevra, coincidevano sempre con l'adozione di nuove misure di guerra. Nessuno può negare che il giuoco non sia ben riuscito e, se non vi fossero andati di mezzo i poveri abissini, nulla m'impedirebbe di rallegrarmi che i governanti inglesi, così prodighi di aiuti ed elogi a Mussolini finché egli ha esercitato la sua arte di governo sui poveri democratici italiani, abbiano avuto occasione di sperimentarne a proprie spese la lealtà.
Ignazio Silone, La scuola dei dittatori, Oscar Mondadori, 1977; pp. 110-11.
[1ª ed. originale Die Schule der Diktatoren, Europa Verlag, Zurigo, 1937; 1ª pubblicazione in Italia a puntate su Il Mondo nel 1962]
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POPOLO La politica non è altro che un certo modo di agitare il Popolo prima dell’uso. Poi lo usi e te ne servi. Ma non bisogna mai dimenticare che il Popolo é questo enorme ammasso che, ridotto ai suoi elementi di base, sembra fatto di uomini e donne, apparentemente ragionevoli creature di Dio; ma invece, confusi, mescolati e messi insieme, formano la "Grande Bestia" una mostruosità più orrenda della mitologica Idra. Il Popolo, tra un ladro ed un giusto, scelse il ladro. Più facile seguire le orme di Barabba che quelle di Cristo. Non assolvetelo, il Popolo é colpevole. Da sempre. ... Non nascono per caso i dittatori, gli stupratori della Libertà, gli assassini dei Diritti, i ladri d'Umanità. Sono figli del Popolo e anche se vengono poi rifiutati, la paternità non si cancella. Non c'é mai stato e mai ci sarà un tiranno che conquista da solo il Potere. Ha sempre avuto il Popolo dalla sua parte ed é sempre stato il Popolo ad incatenarsi alla sua tirannia. Poi, forse, spezza le catene, ma solo per il tempo necessario d'incatenarsi nuovamente ad un nuovo tiranno. Il tiranno, é solo un secchio, il Popolo é l'acqua e l'acqua segue la sua natura prendendo la forma del secchio. Diventano un'unica cosa. Il nazismo, il fascismo e se vogliamo anche uno scellerato comunismo sono frutti del Popolo e della sua stupida ignoranza. Hitler, Mussolini, Pol Pot, e centinaia d'altri non sono nati sotto i cavoli. Li ha partoriti il Popolo, li ha innalzati al ruolo di tiranni. Poi li ha uccisi. Come un mostro che divora se stesso. E ne ha creati degli altri. Ma anche quando muore un tiranno, non scompare il padre della tirannia. Il Popolo costruisce gli altari ma non ci sale mai sopra, ci mette il "capo di turno" e lo incensa, lo prega, lo segue con stupida devozione. Poi un giorno lo abbatte. Ma non abbatte l'altare. Serve per il prossimo dio in terra. ... I padroni del Popolo saranno sempre quelli che potranno promettergli un paradiso. Magari artificiale, illusorio, con santi e santini di carta e qualche beato da pregare. Ma "paradiso" dev'essere anche se in realtà é solo l'immagine storpiata di un inferno. L'importante é capire che Il Popolo preferisce esser blandito che capito, ingannato più che responsabilizzato, istigato alla violenza più che pungolato nel rispetto, meglio corrotto che purificato. Il Popolo puo' essere tradito, ma mai deluso. Non ti perdona. Ti caccia dal paradiso e si tiene in grembo il serpente. Claudio Khaled Tunis
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Lo storico Emanuele Ertola si è cimentato in un compito difficile e delicato. Ha studiato la chiaroscurale realtà della dimensione coloniale italiana in Africa orientale. Nel suo bel libro, intitolato In terra d’Africa. Gli italiani che colonizzarono l’impero (Laterza, 2017), si è costretti a seguire un percorso sinuoso, poiché estraneo alla pista già battuta dei crimini di guerra e delle vicende militari. Ertola prova a indagare su un piano socio-culturale il rapporto tra Italiani e popolazioni locali, correndo su due binari intersecantisi: la vita quotidiana dei coloni, nella loro multiforme composizione, e le aspettative del regime fascista. Il principale ostacolo, in una ricerca storica di questo tipo, risiede naturalmente sulla questione delle fonti: poche, eterogenee e spesso parziali. Al di là della stampa nazionale e coloniale, che restituisce solo in modo obliquo alcune informazioni utili, l’autore è costretto a intercettare lettere sequestrate dalle autorità, pagine di diario o comunicazioni diplomatiche. Un libro quindi doppiamente interessante: per i contenuti e per metodi d’indagine storiografica Il primo elemento da provare a mettere a fuoco consiste nella finalità politica dell’intrapresa coloniale. Il regime fascista intendeva assegnare alla conquista dei nuovi territori un carattere peculiare, che la distinguesse dalle precedenti azioni espansionistiche promosse dall’Italia liberale. Ne derivò l’insistenza sulla definizione di Impero per l’occupazione dell’Africa orientale. Questo tratto lessicale avrebbe immediatamente prodotto una connessione con una congiunzione tra la grandezza d’epoca romana e la nuova Italia fascista. Tuttavia, essendo il sistema politico guidato da Mussolini una dittatura aspirante al totalitarismo, volle anche segnare una propria differenza dal colonialismo delle grandi potenze liberali, come Francia e Gran Bretagna. Pertanto, per l’Impero nostrano si mise mano a un progetto più politico che economico (i vantaggi, infatti, per l’Italia e per il capitalismo italiano, furono poco consistenti). L’idea era quella di trasformare il territorio etiopico in una traduzione perfetta del progetto di ingegneria sociale che faticosamente si andava elaborando in Italia. In terra d’Africa si ebbe la sensazione di poter cominciare da zero, come se quei luoghi fossero disabitati, o popolati da docili marionette da trasformare in Italiani di serie B. Le diplomazie delle altre potenze imperialiste infatti rimasero sorprese dall’ingente quantità di investimenti italiani per la costruzione di infrastrutture, strade, abitazioni e soprattutto la mastodontica macchina amministrativa insediata dal nostro Paese in quell’area. Si trattò di investimenti all’italiana, in realtà. Molto denaro speso, pochi i vantaggi reali. Era lo stesso Farinacci ad ammetterlo, scrivendo a Mussolini nel 1938, cioè soltanto dopo due anni la grande conquista: “le migliaia e migliaia di chilometri di strade asfaltate rappresentano una tremenda fregatura per l’erario […] Le strade permanenti fatte unicamente perché potessero presentarsi al Duce e far dire all’autore: ho fatto questo, ho fatto quest’altro, oggi, dopo due anni appena, sono in gran parte in pessime condizioni […] troppa gente, troppe ditte succhiano criminalmente alle mammelle della madre patria” (p. 36). In effetti in tal senso l’idea di ricostruire l’Italia in Africa riuscì abbastanza bene. Non a caso si produsse un grave indebitamento. Ma quale, dunque, la logica delle insistenti opere di “riqualificazione”? Il fatto è che il regime volle non solo dare un’impronta progettuale nel disegno di quel luogo del totalitarismo compiuto, ma per meglio compiere la missione, valutò di poter selezionare accuratamente i “tipi” sociali da trasferire in Africa, e quelli da rimpatriare in Italia. Lo spiega bene Ertola: “la nuova impostazione teorica faceva dell’impero la massima espressione del regime, in cui replicare il meglio della civiltà della madrepatria portando a compimento, su questo terreno di sperimentazione privo di condizionamenti, i progetti totalitari fascisti. In questo grande laboratorio biopolitico, l’ “uomo nuovo” avrebbe dovuto trasferirsi in via definitiva per costruire una società nata dall’emigrazione di massa, ma allo stesso tempo selezionata, priva di tutti gli elementi giudicati inadatti per motivi fisici, politici e morali” (pp. 22-23). Lunghi e complessi i processi di selezione. Non tutti potevano accedere all’avventura coloniale, in molti furono respinti, per difetti fisici che ne inibissero le capacità lavorative, oppure per indigenza, o precedenti penali. La situazione presenta elementi grotteschi, perché lo scarto tra le aspettative e la realtà mostra qui tutta la sua ampiezza. Infatti, spiega l’autore, “i coloni nell’impero volevano libero accesso alle risorse, libera iniziativa, poco o nessun controllo da parte dell’autorità” (p. 48). Gli Italiani erano andati in Africa per fare i padroni, essendosi nutriti per anni del mito della superiorità razziale dei bianchi sui neri. Altro scopo del regime fascista fu quello di risolvere almeno parzialmente i fenomeni della disoccupazione e dell’emigrazione attraverso l’espansione coloniale. Tuttavia, nonostante l’elevato numero di coloni, essi rappresentarono solo una piccola parte degli emigranti italiani, che continuarono a preferire altre destinazioni (dalle Americhe al Nord-Europa). Il tipo di stanziamento fu prevalentemente urbano, anche perché nelle zone periferiche e la resistenza dei locali appariva tutt’altro che sedata. Inoltre, i piani urbanistici realizzati dai tecnici del fascismo, prevedevano un processo di espulsione della popolazione indigena dai centri urbani, creando una drastica separazione tra coloni e colonizzati. Era infatti una preoccupazione, quasi un’ossessione, delle autorità italiane, che non si producesse una mescolanza tra le due differenti antropologie. Oltre alla fobia del meticciato, però, c’era l’idea della possibilità, da parte degli indigeni, di considerarsi alla stregua dei coloni, e pretendere prima o poi di assumere lo stesso stile di vita. Nei comportamenti e negli spazi, la differenza doveva essere invece segnata, e le differenze sempre evidenziate. Essendo tuttavia gli emigranti – specie all’inizio – di sesso maschile, poco ci volle che quel senso di superiorità razziale si trasformasse in attitudine all’abuso, allo sfruttamento della prostituzione o al concubinato, cui le donne colonizzate furono costrette a sottostare. Il regime cercò di limitare questo fenomeno incentivando la partenza di impiegate donne e ragazze da marito in Africa, dimostrando un grado di sensibilità nei confronti della dignità femminile assolutamente inafferrabile. Così Mussolini telegrafava a Badoglio e Graziani: “per parare sin dall’inizio i terribili et non lontani effetti del meticcismo disponga che nessun italiano – militare aut civile – può restare più di sei mesi nel vice-reame senza moglie” (p. 102) Il punto importante da capire è che la bianchezza non era una questione razziale, ma era subito diventata una questione di classe. I bianchi erano i padroni, i neri gli schiavi. Infatti, erano considerati “estranei” alla bianchezza, anche quegli operai e contadini italiani, che in Africa avevano trovato solo miseria e povertà, e si erano adattati a vivere nei tucul insieme agli etiopici, adottandone stile di vita e convivendo con essi. Diffidenza e odio non esprimevano, in Africa, una repulsione per il colore della pelle, ma prevalentemente una discriminazione classista. Ertola ci riporta le cronache che descrivevano rappresaglie e pogrom contro la gente di colore, secondo i racconti di osservatori stranieri: “per due giorni e mezzo gli etiopici, ovunque fossero e qualunque cosa facessero, sono stati cacciati, picchiati, presi a colpi di arma da fuoco o di baionetta, o manganellati a morte. Le loro case sono state incendiate ed in alcuni casi essi stessi sono stati spinti tra le fiamme a morire bruciati. A questa carneficina sono stati combinati razzia e saccheggio. Addis Abeba è stata la scena di un orrore tale, come raramente – se non mai – è stato commesso da rappresentanti di qualunque moderna nazione civilizzata” (p. 138). Le autorità italiane tentarono di limitare gli abusi, e di punire anche severamente le prepotenze. Ma non si trattava di rispetto delle usanze, dei costumi e della dignità dei sudditi, voleva dire invece assumere rigorosamente il contegno dei padroni, che non si mescolano ai sottoposti, neanche nella rissa, altrimenti elevano questi ultimi al proprio stesso rango sociale. Infatti, con la stessa durezza, erano sanzionati coloro i quali dimostravano eccessiva dimestichezza con gli etiopici. Carlo Scognamiglio da Popoff
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UN POST VECCHIO,LUNGO MA DA LEGGERE - I TRE TIRANNI: PERICLE, BENITO E MATTEO … L’Italia non è mai stata una democrazia. Il termine democrazia compare nelle leggi italiane con la Costituzione del 1 gennaio 1948, anzi, per l’esattezza neppure allora. Chi si prendesse la cura di leggere attentamente il testo base delle leggi dello Stato Italiano si accorgerebbe che il termine democrazia non compare MAI! Solo una volta compare l’aggettivo democratico (Art. 1; L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.). Alla base della nostra Costituzione non c’è la democrazia ma la Repubblica! Nella Costituzione Italiana compaiono i termini: Democrazia 0 volte Democratica 1 volta Repubblicana 1 volta Repubblica 80 volte Repubblica: a differenza dei termini politici precedenti che derivano dal greco repubblica deriva dal latino: res = cosa e pubblica = pubblica, di tutti, quindi repubblica significa cosa pubblica. Che differenza fa? Enorme. Prendiamo una situazione dove abbiamo un gruppo di 10 persone; di queste 8 vogliono andare al mare e 2 in montagna. Siccome abbiamo un unico mezzo di trasporto si dovrà decidere che scelta privilegiare. I casi sono due: o si va alle mani e ci si mena finché i vincitori scelgono ed impongono la propria volontà sui vinti, oppure si va a votazioni e la maggioranza sceglie dove andare. In entrambi i casi si ha la vittoria dei più forti, dei più numerosi. La democrazia è l’applicazione della legge del più forte, ovvero del più numeroso, senza spargimenti di sangue. La democrazia è la dittatura della maggioranza. Il grande vantaggio della democrazia rispetto allo scontro fisico tra le due o più fazioni è che, non essendoci l’eliminazione fisica dei perdenti, non cala la popolazione e, alla prossima scelta chi oggi ha perso può ripresentarsi e forse vincere. La Repubblica invece non presta attenzione alla forza, al numero, ma solo alla difesa della giustizia, alla salvaguardia della minoranza dalla dittatura della maggioranza. I padri fondatori della Costituzione italiana ben sapevano che la democrazia può portare allo strapotere della maggioranza sulla minoranza, perciò sostennero i diritti delle minoranze contro i soprusi della maggioranza, difesero le libertà dei più deboli contro la forza dei più forti. Alla base di tutto questo è la salvaguardia della libertà. Checché ne dicano i vari governanti, la libertà è sempre quella del più debole, della minoranza, mai quella del più forte. La maggioranza ha il potere della forza, la minoranza ha la garanzia della libertà. La base del diritto dei popoli civili è la libertà, non la democrazia! Da decenni la democrazia è diventata un bene d’esportazione e, come gli USA, anche noi italiani la esportiamo in Iraq, Afghanistan, ecc. Esportiamo la democrazia, ovvero l’istituzione della legge del più forte, non esportiamo la libertà, che è ben altra cosa, e che non si può esportare. La libertà si conquista, non si riceve in dono e tanto meno si porta con le armi Chi dice di portare la libertà con le armi non fa altro che imporre la propria volontà, politica ed economica, sui “liberati”. La democrazia, grazie al consenso popolare, poteva diventare una tirannia nella quale il demagogo al governo sfruttava la situazione a vantaggio di sé e di pochi altri “amici” e a totale svantaggio del popolo che lo aveva eletto. Secondo la tradizione occidentale la democrazia ad Atene ha origine ai tempi di Solone, circa 2600 anni fa. Dopo soli 60 anni ad Atene si era già insediato un tiranno, Pericle, che concentrò il potere nelle sue mani e con lui terminò la democrazia ateniese. La democrazia nata nel 1860 con l’unificazione d’Italia, dopo 60 anni si trasformò in tirannia, ovvero nel governo totalitario di Benito Mussolini. L’Italia repubblicana e democratica nata nel 1948 dopo 60 anni lasciava il posto ad una prima forma di tirannia berlusconiana per poi evolvere nella tirannia renziana-bancaria. A quanto pare raggiunti i 60 anni le democrazie hanno un sussulto, una crisi di maturazione che apre le porte alla dittatura del governante di turno. A quanto pare il dittatore va al potere a 39 anni, è un gran parlatore, racconta tante balle, non mantiene le promesse, non ha un progetto politico esplicito, parla per slogan, arriva al potere senza essere stato eletto, vuole distruggere il parlamento, vuole distruggere i diritti repubblicani, se ne frega delle elezioni e dei parlamentari: proprio come Benito e Matteo. Autore: Galileo Ferraresi La Commedia Umana
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