#Letteratura Israeliana
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Un intoppo ai limiti della Galassia di Etgar Keret
Il colore dominante della copertina è un arancione bello e denso. Afferro il libro, lo giro, e sul piatto posteriore leggo il commento che il New York Times ha fatto sulla raccolta di racconti di Etgar Keret “Un intoppo ai limiti della galassia” (Feltrinelli) che mi appresto a leggere: “come se Kafka fosse israeliano e scrivesse di pesci parlanti“. Mi sembra che questo commento sia esagerato.…
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Recensione: "Gatti. Una storia d'amore" di Shifra Horn
Buongiorno a tutti, sono Elena e grazie di essere su Life Is Like A Wave Who Rises and Falls. Oggi vi parlo di un bel libro che ho letto in un giorno soltanto: Gatti. Una storia d’amore di Shifra Horn Titolo originale: Hatulim, sippur‘ ahavah – Tradotto da: Elisa Carandina Fazi Editore, 2007 ISBN: 978-8881128518, 190 pag. Questo libro è la storia di una passione invincibile. Protagonisti…
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Ecc. ecc. di Dalia Ravikovitch
Dahlia Ravikovitch (1936 – 2005) è stata una poetessa e attivista israeliana. Nel 1998 vinse il Premio Israele per la letteratura, venendo definita dalla commissione “uno dei principali pilastri della poesia in ebraico”. Cos’è l’amore? ho chiesto a Idòe lui m’ha guardato brusco di traversoe mi ha detto con rabbia e compassione:se ancora non lo sainon lo saprai mai più.E allora io gli ho detto…
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Parigi 2024, Pancalli: “Minacce dell’Ucraina? Atleti russi hanno diritto di essere alle Olimpiadi”
Parigi 2024, Pancalli: “Minacce dell’Ucraina? Atleti russi hanno diritto di essere alle Olimpiadi” https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/02/02/parigi-2024-pancalli-minacce-dellucraina-atleti-russi-hanno-diritto-di-essere-alle-olimpiadi/6983597/
"Mi rifaccio sempre alle parole di Zelensky all’inizio dell’invasione, ovvero che bisogna distinguere le responsabilità dei governi da quelle del popolo“. Questo i commento del presidente del Comitato paralimpico italiano Luca Pancalli.
Per quel che mi riguarda, sono qui ad aspettare che qualche genio proponga di boicottare "Masha e Orso" in quanto propaganda filo-russa.
E no, non sto scherzando.
Il livello di delirio raggiunto è tale che propongono di togliere statue di intellettuali russi morti cent'anni fa, di non fare studiare la letteratura russa di autori defunti duecento anni fa, di non fare mettere in scena nei teatri opere di compositori russi sottoterra da più di un secolo, tutte persone che con questa guerra non c'entrano niente per ovvi motivi. Ingiusto come attribuire alle vittime della Shoah la responsabilità della politica israeliana anti- palestinese avvenuta decenni dopo la loro morte.
In questo clima, figuriamoci se prima o poi non si accaniranno persino contro un cartone.
E siccome più passano i mesi più le pretese del governo ucraino mi urtano i nervi, a quest'ennesima richiesta rispondo: volete boicottare le paralimpiadi per ripicca?
Bene, fatelo.
Ciao a voi e a tutte le nazioni-lacchè che seguiranno il vostro esempio (e figuriamoci se l'Italia non sarà nell'elenco 🙄).
Chi le seguirà non sentirà la vostra mancanza. E chi ospita i Giochi potrà risparmiare un bel po' di spese con tutte questi atleti in meno.
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Modena, la settimana de La Tenda tra musica e cinema
Modena, la settimana de La Tenda tra musica e cinema. Cinema, letteratura e musica alla Tenda di viale Monte Kosica nella settimana che entra nel mese di dicembre. Si parte martedì 29 novembre, con la proiezione del documentario "Sarura", nell’ambito della Giornata internazionale di solidarietà al popolo palestinese, e si prosegue mercoledì con l’ultimo appuntamento della rassegna "Dai margini. La letteratura di genere legge il mondo". Ad aprire il mese di dicembre, giovedì 1, il dialogo con lo scrittore Piergiorgio Pulixi, mentre venerdì 2 tocca alla musica con il concerto del trio RedEmma. La settimana si chiude domenica 4 dicembre con l’appuntamento pomeridiano con il laboratorio Urban Lab. Martedì 29 novembre, alle 21, in occasione della Giornata internazionale della solidarietà con il popolo palestinese, è in programma la proiezione del documentario "Sarura" con il quale l’autore Nicola Zambelli racconta la lotta non violenta di un gruppo di giovani palestinesi contro l’occupazione israeliana in un villaggio alle porte del deserto del Neghev. Dieci anni dopo il primo documentario sul tema, il regista è tornato nel villaggio di At-Tuwani per raccontare come siano cresciuti i bambini ritratti nel primo film. La serata è a cura del comitato Modena incontra Jenin. Mercoledì 30 novembre, alle 21, nell’ambito del ciclo "Dai Margini", si svolge l’incontro tra Natalia Guerrieri, autrice di "Sono fame" e Nicoletta Vallorani, autrice di "Noi siamo campo di battaglia". Nel dialogo, moderato da Anna Maniscalco e intitolato "Generazioni diverse: due sguardi sulla nostra realtà", le due scrittrici si confrontano sui possibili spazi di incontro partendo dai loro romanzi, portatori di diverse visioni del presente e dei problemi che riguardano il futuro. L’appuntamento è a cura di Natalia Guerrieri e Giorgio Raffaelli. Per il ciclo Dialogo con l’autore, curato dall’associazione L’asino che vola, giovedì 1 dicembre, il giallista Piergiorgio Pulixi presenta il suo ultimo romanzo "La settima luna" (Rizzoli, 2022) che vede protagonista il vice questore Vito Strega, costretto a fare i conti con il proprio passato in una storia che si addentra nei meandri oscuri dell’animo umano. L’autore dialoga con Stefano Ascari. Venerdì 2 dicembre, alle 21, concerto del trio RedEmma nato nel 2019 dalla lunga collaborazione tra il chitarrista Michele Paccagnella e il trombettista Matteo Pontegavelli ai quali si aggiunge il batterista Giacomo Ganzerli. Il gruppo fa riferimento al jazz tradizionale e non, ma non si pone limiti di repertorio accogliendo, in modo inedito, contaminazioni rock, soul e funk. Il concerto è a cura dell’associazione Intendiamoci in collaborazione con il Centro Musica di Modena. Domenica 4 dicembre, alle 15, appuntamento con Urban Lab, il laboratorio di ricerca di movimento e contaminazioni con musica dal vivo curato come sempre dall’associazione Ore d’aria. Tra i docenti, oltre a Elisa Balugani, ideatrice del progetto, Daniela Paci, Gaia Davolio, Enrico Pasini, Anna Palumbo. Il calendario completo di tutte le iniziative della Tenda, la struttura che fa capo alle Politiche giovanili del Comune di Modena, e le modalità di prenotazione sono sui canali social e sul sito web de La Tenda . Per informazioni: mail [email protected], telefono 059 203 4808.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Alcuni tardigradi, minuscoli animali super resistenti, hanno raggiunto la Luna e potrebbero sopravvivere alle condizioni estreme del nostro satellite naturale per decenni, diventando in un certo senso i primi veri abitanti lunari. I tardigradi sono stati portati sulla Luna da Israel Aerospace Industries, l’azienda spaziale israeliana che lo scorso aprile aveva inviato sul satellite il lander Beresheet. Il veicolo avrebbe dovuto compiere un atterraggio controllato, ma a causa di un problema tecnico si è schiantato sul suolo lunare rompendosi in diversi pezzi. Secondo chi li aveva messi a bordo di Beresheet, i tardigradi dovrebbero essere sopravvissuti all’impatto: un giorno potrebbero essere recuperati per poi studiarli sulla Terra, scoprendo nuove cose sulla loro incredibile resistenza e sulla vita nel Sistema Solare.
I tardigradi
Complice il loro aspetto puccioso e alcuni documentari e meme su Internet, negli ultimi anni i tardigradi sono diventati piuttosto famosi. Sono lunghi poco più di mezzo millimetro ed è quindi necessario un microscopio per poterli osservare. Esteticamente ricordano una via di mezzo tra un bruco e un orsacchiotto, e sono in grado di sopravvivere a condizioni estreme di temperatura e pressione, rimanendo senza acqua e cibo per anni.
Sappiamo dell’esistenza dei tardigradi dalla fine del Diciottesimo secolo, ma solo negli ultimi anni i ricercatori hanno capito meglio come funzionano. Alcuni esemplari sono sopravvissuti dopo essere stati tenuti a -200 °C per un anno e mezzo, e altri dopo essere stati portati a una temperatura di 150 °C per qualche minuto.
Un archivio del mondo
L’idea di spedire qualche tardigrado sulla Luna è venuta a Nova Spivack, un imprenditore statunitense che ha contributo a fondare l’Arch Mission Foundation (AMF), un’organizzazione che ha come scopo la creazione di archivi sull’umanità, da disseminare sulla Terra e nello Spazio in modo da preservarli per le generazioni future ed eventualmente per farci conoscere a specie aliene.
Di Spivack e della sua fondazione si era parlato nel 2018 in occasione del primo volo sperimentale del Falcon Heavy, il razzo più potente mai costruito dall’azienda spaziale privata statunitense SpaceX. All’epoca, l’AMF aveva inserito uno dei propri archivi nella Tesla che Elon Musk aveva deciso di spedire in orbita come carico del razzo. L’automobile si era poi inserita in un’orbita intorno al Sole nella quale si stima resterà per almeno 30 milioni di anni.
Gli archivi realizzati da AMF ricordano per forma e dimensioni un comune DVD, ma sono tecnologicamente molto più avanzati e non richiedono un lettore digitale per essere letti perché sono analogici. Un laser ad altissima precisione incide testi e immagini a livello microscopico su uno strato di vetro, che viene poi ricoperto con un sottilissimo strato metallico di nickel. Le immagini e i testi stampati sul disco possono essere visualizzati e letti con un normale microscopio da mille ingrandimenti. La tecnologia di lettura, il microscopio, è piuttosto accessibile e secondo Spivack potrà essere impiegata dalle generazioni future o dagli alieni per accedere facilmente alle informazioni conservate nell’archivio.
OK, ma i tardigradi lunari?
Mentre stavano lavorando alla loro missione spaziale, Spivack ha proposto agli israeliani di inserire su Beresheet uno dei suoi archivi. Il disco, formato da 25 strati sottilissimi, conteneva circa 60mila immagini ad alta risoluzione di pagine di libri, buona parte del sito di Wikipedia in inglese, migliaia di classici della letteratura da tutto il mondo e altri test di grammatica e lingue per comprenderli. L’idea di trasportare sulla Luna un bel pezzo del sapere prodotto dall’umanità piacque ai responsabili della missione, che acconsentirono all’iniziativa.
Poche settimane prima di spedire agli israeliani l’archivio, Spivack pensò che fosse una buona idea aggiungere qualcos’altro al piccolo carico verso la Luna. Fece aggiungere uno strato di resina sintetica (epossidica) nel quale furono inseriti campioni di sangue e di follicoli di capelli, quindi contenenti DNA, e alcuni esemplari di tardigradi disidratati. Alcune migliaia di altri tardigradi furono inseriti su un nastro adesivo, utilizzato per imballare l’archivio e proteggerlo meglio.
Un allunaggio traumatico
Mentre l’11 aprile scorso i tecnici di Israel Aerospace Industries assistevano alla fine di Beresheet causata da un problema tecnico, Spivack iniziò a chiedersi se il suo archivio fosse sopravvissuto o meno all’impatto. Insieme ai suoi collaboratori, Spivack simulò le condizioni dello schianto del lander israeliano, arrivando alla conclusione che il disco fosse probabilmente rimasto intatto, o che si fosse comunque spezzato in pezzi sufficientemente grandi per essere ancora leggibile. Il nastro e lo strato di resina sintetica popolati dai tardigradi probabilmente hanno contribuito a salvarlo, rendendolo più resistente agli urti.
Non c’è modo di sapere per certo quali siano le condizioni dell’archivio. La sonda LRO della NASA, che orbita intorno alla Luna, è riuscita a fotografare il punto dell’impatto di Beresheet, ma la definizione delle immagini consente appena di distinguere il piccolo cratere creato dall’impatto, e non i frammenti del lander. Considerate le loro grandi capacità di sopravvivenza e di resistenza, è probabile che i tardigradi siano sani e salvi sulla Luna.
Letargo lunare
Quando sono in presenza di condizioni di temperatura e pressione estreme, i tardigradi entrano in una sorta di letargo, che può durare decenni. Riducono al minimo i loro processi metabolici, espellono quasi completamente l’acqua dalle loro cellule e la sostituiscono con una proteina, una sorta di sostanza vetrosa, che permette loro di rimanere cristallizzati per decenni. Quando le condizioni tornano a essere favorevoli, si reidratano e tornano a essere vitali.
I tardigradi sono stati spediti sulla Luna dopo essere andati in letargo. Se fossero osservati ora al microscopio, apparirebbero come piccole palline rinsecchite, niente di molto entusiasmante rispetto a come appaiono quando sono idratati e attivi. Spivack e colleghi ritengono che in quello stato siano riusciti a sopravvivere all’impatto e che si trovino su alcuni frammenti dell’archivio, rimasti all’interno di Beresheet oppure sbalzati al suo esterno mentre il lander si è rotto in diversi pezzi.
Contaminazione
Nello stato in cui si trovano, i tardigradi non costituiscono comunque un particolare rischio per la preservazione dell’ambiente lunare, per quanto ne sappiamo sostanzialmente sterile. In assenza di acqua, questi animali non potranno riprendere a muoversi né a riprodursi, quindi la possibilità che la Luna sia colonizzata dai tardigradi nei prossimi decenni è da escludere. Non è nemmeno detto che questi animali riescano a sopravvivere a lungo alle condizioni estreme lunari, dove le temperature oscillano tra i -230 °C e i 123 °C e c’è una forte esposizione alle radiazioni solari dovuta alla mancanza di un’atmosfera.
Per scoprirlo, una futura missione lunare dovrebbe andare alla ricerca dei rottami di Beresheet, trovare qualche pezzo dell’archivio di Spivack e riportarlo sulla Terra. A quel punto in laboratorio si potrebbe provare a reidratare i tardigradi per scoprire se siano riusciti o meno a sopravvivere al loro soggiorno lunare.
Abbiamo comunque già qualche indizio sulla resistenza all’ambiente spaziale di questi animali. Nel 2007, per esempio, l’Agenzia Spaziale Europea (ESA) portò in orbita alcuni tardigradi, esponendoli direttamente all’ambiente spaziale. Una decina di giorni dopo, gli esemplari tornarono sulla Terra e furono nuovamente idratati. Con loro sorpresa, i ricercatori notarono che alcuni di loro erano sopravvissuti sia alle radiazioni sia al vuoto spaziale, facendo di loro i primi animali conosciuti ad avere vissuto completamente esposti allo Spazio.
I ricercatori e le agenzie spaziali non sono molto contenti quando i privati organizzano missioni spaziali che potrebbero contaminare altri corpi celesti. Per motivi di ricerca, si cerca infatti di preservare il più possibile i pianeti e i loro satelliti naturali, in modo da poterli analizzare e andare alla ricerca di forme di vita avendo la certezza di non averle portate con i veicoli spaziali. Spivack e i suoi non hanno comunque violato le regole stabilite dalla NASA per impedire le contaminazioni, perché la Luna non è considerata a rischio. Prima dei tardigradi, del resto, sul suolo lunare erano già arrivati gli esseri umani che lasciarono diverse cose da quelle parti, comprese sacche contenenti la loro cacca.
Sopravvivenza lunare
Portare i tardigradi sulla Luna può sembrare un’iniziativa fine a sé stessa e il modo in cui è stata organizzata da Spivack non è molto scientifico, ma la loro presenza sul suolo lunare potrebbe aiutarci a comprendere qualcosa di più su come si sia formata la vita sulla Terra. Un’ipotesi piuttosto condivisa è che i primi esseri viventi furono trasportati sul nostro pianeta da un corpo celeste, forse una cometa, e che poi trovarono le condizioni ideali per prosperare, evolversi e differenziarsi.
A oggi non sono mai state trovate altre forme di vita, per come le conosciamo, in posti diversi dalla Terra, ma le missioni spaziali più recenti stanno fornendo numerosi indizi per ipotizzare che a certe condizioni gli esseri viventi possano popolare mondi diversi dal nostro. I tardigradi, così come alcune specie di batteri, sono ottimi candidati per sperimentare e verificare queste teorie.
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Pensa agli altri
Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,
non dimenticare il cibo delle colombe.
Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,
non dimenticare coloro che chiedono la pace.
Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri,
coloro che mungono le nuvole.
Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri,
non dimenticare i popoli delle tende.
Mentre dormi contando i pianeti, pensa agli altri,
coloro che non trovano un posto dove dormire.
Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.
Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e dì: “Magari fossi una candela in mezzo al buio.”
Sono versi di “Pensa agli altri” di Mahmoud Darwish, poeta “nazionale” palestinese e tra i massimi rappresentanti della poesia araba degli ultimi decenni. Per il ministro della difesa e figura di primo piano dell’ultradestra israeliana, Avigdor Lieberman, le poesie di Darwish sono paragonabili al “Mein Kampf” di Adolf Hitler. Pertanto gli autori del programma “Università nell’etere”, trasmesso da Galei Tzahal, la radio delle Forze Armate israeliane, seguitissima nel Paese, qualche giorno fa hanno commesso, a suo dire, un grave crimine mandando in onda un approfondimento sulla vita e l’opera di Darwish e leggendo in diretta una delle sue poesie più famose “Carta d’identità”. Dalla parte di Lieberman si è subito schierata la ministra della cultura, Miri Regev, che ha parlato di «pazzia» ed esortato la radio dell’esercito a dare spazio a poeti ebrei nazionalisti. La radio delle Forze Armate, ha proclamato Regev, «non può permettersi di glorificare Mahmoud Darwish che non era un israeliano, le sue poesie non sono israeliane e vanno contro i valori fondanti della società israeliana».
[...]
Scomparso nel 2008 per complicazioni seguite a un intervento chirurgico negli Stati Uniti, Darwish resta uno dei simboli più forti della Palestina. Le sue poesie raccontano la guerra, la perdita della patria, l’oppressione del suo popolo, l’esilio a causa della Nakba nel 1948, quando era un bambino. Darwish rientrò dopo qualche tempo nella sua terra ma si considerava un “alieno” tra gli israeliani, tanto da decidere di andare via, in un lungo esilio tra Urss, Egitto, Cipro, Giordania, Libano e infine Francia. Membro del Consiglio Nazionale dell’Olp ebbe modo di tornare in Palestina dopo 26 anni in seguito agli Accordi di Oslo. Stimato in molti Paesi, Darwish ha visto solo una parte della sua produzione tradotta in italiano e sempre da piccole case editrici, in particolare da Epochè Edizioni. Soltanto nel 2014 è scesa in campo la Feltrinelli, non per pubblicare le sue poesie bensì tre suoi testi in prosa. Poesie di Darwish sono state pubblicate dalla Manifesto Libri nell’antologia “La terra più amata. Voci della letteratura palestinese”.
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La letteratura circa la storia d’Israele, sovente, dà per assodato che il cammino del Popolo Eletto coincida con le sofferenze patite dai suoi membri a causa dalla Galut, la condizione diasporica. Non stupisce infatti che, contestualmente ad un’analisi che non vuole essere solo storiografica, bensì anche filosofica, emerga l’impressione che lo Stato d’Israele abbia raccolto da questa fenomenologica esperienza di dolore i propri strumenti politici. Non ci si stupisce nemmeno che, rivestendo il corso degli eventi un ruolo primario nel costituirsi delle identità nazionali, su questa esperienza di dolore Israele abbia costruito agenda diplomatica e politica estera. Per dare prova della fondatezza di questa convinzione, si deve guardare alla gestione israeliana della politica interna in funzione di quella estera e, ancor più sovente, della politica estera in funzione di quella interna. Lampanti espressioni di questo fenomeno, che sembra destinato a ripresentarsi nella dialettica istituzionale israeliana, sono due eventi temporalmente distanti ma politicamente molto prossimi l’un l’altro: la Guerra dei sei giorni nel 1967 e le elezioni politiche israeliane nel 2015. I due fatti storici sopracitati, distinti per natura e lontani nel tempo, hanno tuttavia un minimo comun denominatore fondamentale: il complesso di sopravvivenza. È utile ricordare che, al termine del primo conflitto arabo-israeliano, con la Dichiarazione d’Indipendenza pronunciata da David Ben Gurion la sera del 14 maggio 1948, seguirono l’Armistizio di Rodi (1949) e la fine delle ostilità. Continua a leggere l'articolo su 👉 www.lintellettualedissidente.it (link diretto all'articolo sulle instastory) #9maggio #lintellettualedissidente #news #notizia #notizie #informazione #quotidiano #giornale #societa #israele #palestina #guerradeiseigiorni #medioriente #esteri https://www.instagram.com/p/B_9oVJ0qDUu/?igshid=1c98ocyelu67z
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Middle East Journal - مجلة الشرق الأوسط
Middle East Journal – مجلة الشرق الأوسط
Middle East Journal – مجلة الشرق الأوسط
S01- Lingue e Culture comparate – Unior
S02- Lingue e letterature del Vicino Oriente antico – Languages and Literatures of the Ancient Near East
S03- Lingua ebraica -Jewish Language
S04- Il pensiero ebraico – Jewish Thought
S05- Letteratura ebraico-israeliana – Jewish-Israeli Literature
S06- Lingue arabe e semitiche – Arabic Language
S07- Letteratura…
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Resta ancora tanto da dire di Amos Oz
Ci sono scrittori che non smettono mai di stupire anche quando vengono ospitati in un’università a tenere una lezione su questioni politiche. Un fulgido esempio è un volumetto pubblicato recentemente da Feltrinelli dal titolo, molto poetico ed evocativo, Resta ancora tanto da dire che racchiude una conferenza dello scrittore israeliano Amos Oz che ha tenuto nel 2018 sul palco del Cymbalista…
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Poco tempo fa la scrittrice palestinese Ahlam Bsharat ha fatto un tour letterario in Inghilterra per promuovere il suo libro tradotto in lingua inglese da Nancy Roberts e pubblicato nel 2016 dalla casa editrice Neem Tree con il titolo Code Name: Butterfly. Accolto positivamente dalla critica, il libro si è classificato fra i finalisti del Palestine Book Award 2017. Al momento non è disponibile una traduzione in italiano di questo libro, ma ho deciso di includerlo fra le mie letture commentate, sia perché per tradizione questo blog si muove –seppure ad intermittenza e con vari inceppi– attraverso gli spazi della letteratura internazionale e la sfera del multilingua, sia perché penso valga davvero la pena dare un contributo (in questo caso minimo) alla diffusione di parole ricche di significato.
Presentazione del libro presso RISC (Reading, UK), foto dal web.
Ho pensato di cominciare con una piccola introduzione dedicata all’autrice, per presentarla così come l’ho conosciuta io, ovvero attraverso i social media e gli appunti presi durante uno di quei meravigliosi incontri fra autore e lettori che capitano raramente e che sono occasioni speciali. In secondo luogo, ho deciso di scrivere qualche commento sul libro, perché benché sia etichettato nella categoria della letteratura per ragazzi, credo possa raggiungere un pubblico ben più ampio; ne tradurrò liberamente qualche paragrafo dalla versione inglese per portare qui le parole dell’autrice.
***
Ahlam Bsharat è una scrittrice di lingua araba, nasce nel 1975 e cresce piccolo villaggio di Tamoon, situato in una valle circondata dalle montagne del nord della Palestina. La sua è una numerosa famiglia di lavoratori in cui la vita è scandita dai faticosi ritmi della coltivazione, del raccolto e dall’alternarsi delle stagioni. Persino i bambini alternano le attività scolastiche con il lavoro fisico e amano addormentarsi cullati dalle favole che spesso devono inventarsi loro stessi per il proprio diletto, poiché i libri non sono di facile reperibilità e capita che gli adulti siano troppo stanchi o indaffarati per dispensare attenzioni.
Forse proprio questo particolare contesto, di certo non fatto di opulenza e di tranquillità, spinge Ahlam a maturare ben presto una decisione importante, quella che un giorno avrebbe fatto della propria immaginazione lo strumento di un lavoro vero e proprio e che sarebbe diventata una scrittrice. Oppure, chissà che non sia stata neppure una decisione vera e propria, è probabile che sia andata semplicemente così, secondo un naturale processo delle cose. Qualcuno deve averla pure ammonita – evidentemente senza successo–, consigliandole di concentrarsi piuttosto su mestieri considerati tradizionalmente più adatti alle donne, ma lei va dritta per la sua strada e insegue il sogno della bambina che custodirà per sempre dentro di sé.
Ahlam è una testimone di pagine importanti della storia del suo paese: è giovanissima quando scoppia la prima Intifada – la rivolta organizzata contro Israele per la liberazione e il riconoscimento della Palestina–, vive da adulta la seconda Intifada, passando per le varie fasi di un conflitto geograficamente circoscritto ma di interesse mondiale. In verità, già la prima Intifada affonda le radici su un terreno pieno di conflitti e bisognerebbe andare indietro nel tempo per capire almeno almeno in parte cosa c’è dietro lo scontro fra Israele-Palestina e quanto sia stato impastato dalle mani degli stati stranieri. Fra i fatti più rilevanti c’è sicuramente la caduta dell’Impero Ottomano, l’inclusione della Palestina sotto il mandato britannico (1922-1948), la seconda Guerra Mondiale e la successiva spartizione del territorio ad opera dell’Onu; nel 1948 scoppia la strage della Nakba in cui oltre settecentomila palestinesi sono espulsi dai villaggi e lo stato di Israele dichiara l’indipendenza (inizio della guerra arabo-israeliana).
Ahlam vive oggi nel suo villaggio d’origine, lavora come insegnante e scrive libri per dialogare direttamente con un pubblico che ha ben individuato: si tratta di giovanissimi lettori, principalmente bambini e adolescenti che vivono in una terra lacerata da guerra, dal conflitto e dalle contraddizioni, che magari si immaginano di riuscire a scavare una galleria fra le montagne per riuscire ad arrivare altrove, di raggiungere altri posti, altre parole.
C’è un proverbio africano, che credo di aver letto per la prima volta quando ero adolescente – non ricordo più dove– e che mi si è immediatamente inciso nella mente, il quale dice che “Quando gli elefanti combattono è sempre l’erba a rimanere schiacciata”. Mi sembra sia un po’ questo il fulcro dei grandi conflitti mondiali e credo che i lettori di Ahlam siano proprio i fili più verdi e freschi di quest’erba.
La sua scrittura cerca di centrare e ribaltare alcuni punti, fra cui:
La speranza, un valore che i palestinesi hanno perso ormai da troppo tempo, anche se qualcuno cerca di affermare il contrario, ma che le nuove generazioni devono in qualche modo recuperare;
La normalizzazione della guerra, che costituisce un problema enorme, una trappola per chi non conosce altra realtà all’infuori di quella, in un luogo in cui la libertà è un sogno che si tramanda di generazione in generazione, dove in concetto di sicurezza sociale è appeso ad un filo sottile e spesso cade giù, facendosi pesantemente male, per poi ritornare a mettersi nuovamente in bilico.
Ahlam percepisce il suo status di scrittrice in uno spazio solitario, poiché non ha molti colleghi che si dedicano alle letteratura per ragazzi. All’interno di un panorama letterario nazionale già di per sé molto complesso, in cui si accavallano molteplici difficoltà legate alla mancanza di libertà di espressione e alla censura, la maggior parte degli artisti tende ad aggregarsi su un unico fronte. In effetti, sebbene oggi la letteratura palestinese abbia acquistato un profilo ben definito e attirato su di sé l’attenzione degli ambienti accademici, essa mantiene un carattere principalmente politico e sociale, gli scrittori raccontano la Storia, ne denunciano i soprusi, si schierano inevitabilmente dalla parte di qualcuno.
Al contrario, Ahlam ha deciso di rimanere quanto più possibile lontana da quest’area di conflitto letterario e di continuare a scavare fino in fondo per ritrovare un’umanità possibile e reale, nonché di colmare un vuoto educativo lasciato da un sistema estremamente tradizionalista che sembra essere rimasto pressoché invariato nel corso di decenni. Ciononostante, non è sempre facile seguire questa direzione poiché si finisce per andare verso una contraddizione: quanto può essere lasciata da parte quella situazione politica che sembra essere inestricabilmente legata alla vita degli esseri umani?
Per certi versi mi sembra che la scrittura di Ahlam sia anche un mezzo per perpetuare un dialogo interiore con sé stessa nella continua ricerca che ruota attorno ad uno dei temi principali su cui sta lavorando sin dall’inizio, forse fin dai tempi della sua infanzia: l’identità.
Code Name: Buttefly è interamente narrato in prima persona dalla giovanissima protagonista, di cui il nome proprio non viene neppure accennato ma che conosciamo attraverso il soprannome che lei stessa ha scelto: Butterfly ( فراشة, farfalla). Ho voluto leggere la mancanza del nome come un espediente utile affinché in Buttefly vi si riconosca una moltitudine di giovani che sono proprio come farfalle, crescono nei loro bozzoli nutrendosi di domande e un giorno si libereranno nell’aria spiegando delle bellissime ali colorate e andranno ovunque vorranno.
Esattamente come l’autrice, la protagonista è costantemente impegnata nella ricerca del perché di ogni cosa, predilige le domande rispetto alle risposte che nessuno sa o può dare, tanto che ad un certo punto decide di nasconderle tutte insieme in un piccolo scrigno segreto che custodisce in un posto non ben definito, forse un luogo immaginario dentro di sé.
Il libro è scritto con una comicità particolare, sottile, sdrammatizza in modo naturale dei fatti di una certa serietà, ma sono sicura che la percezione dipenda molto dal lettore e dal suo background culturale di partenza. Poiché il libro è indirizzato ad un pubblico giovane, la struttura narrativa gode di una certa leggerezza, sebbene sia inevitabilmente attraversata da un’ombra nera velata.
Nella mia testa pensavo che nessuna di loro sarebbe mai potuta diventare mia suocera. La suocera che immaginavo io non assomigliava a nessuna delle donne del villaggio, forse sarebbe venuta da altrove, da una terra diversa dalla nostra.
Un tempo sognavo di lasciare la Palestina, ma non l’ho mai detto ad alta voce. Sapevo che nessuno poteva comprendere cosa significasse per me avere un sogno! Sarei stata derisa. O almeno questo era quello che pensavo. Di sicuro non ne avrei parlato con mia sorella Tala, perché avrebbe spifferato tutto alla mamma e alle compagne di classe. Tala lo avrebbe detto l’indomani mattina a chiunque avesse incontrato per strada mentre andava a scuola.
Non volevo parlarne neppure con Mays, perché mi avrebbe fatto la ramanzina dicendo che era sbagliato pensare di abbandonare la Palestina, o “la terra del patto sacro” come la chiamava lei. Così decisi di non condividere il mio sogno con nessuno. Lo nascosi in un posto sicuro, un posto di cui presto ti parlerò.
La voce limpida della protagonista narra dei fatti di vita quotidiana, si formano attorno a lei una miriade di personaggi, familiari e amici, che popolano un micro-spazio regionale. Ci sono le risate incontrollate nei momenti meno opportuni, i battibecchi con gli adulti, le punzecchiate fra fratelli e sorelle, le discussioni con i coetanei e i primi complessi adolescenziali, le prime incomprensioni e l’attesa infinita di un corpo che non si sviluppa quanto si desidera.
Tuttavia, i bambini palestinesi vivono un continuo conflitto fra una realtà troppo dura e l’immaginazione, si domandano perché alcuni dei loro genitori lavorano per i nemici, perché alcuni sono in carcere (e quale crimine hanno commesso?), entrano prematuramente in contatto con una morte innaturale, e chi sono i martiri della liberazione? A differenza di altri, i bambini palestinesi non aspettano necessariamente con ansia l’arrivo delle vacanze estive:
Quando mi resi conto che stavano per cominciare le vacanze estive mi assalì una strana malinconia. Sapevo che dopo la chiusura delle scuole non sarebbe stato facile uscire di casa, se non in qualche rara occasione e non senza aver ottenuto il permesso ufficiale di mio padre. In questo periodo dell’anno anche Zaynab diventava molto triste. Mi capitava di sentirla piangere di notte; a volte la sentivo singhiozzare da sotto le coperte, con dei suoni deboli e sommessi.
Mentre si scorrono le pagine del libro il tempo passa velocemente, l’estate giunge al termine e qualcosa muta; ci si accorge che la protagonista è cambiata, un po’ troppo rapidamente, così come d’altronde capita ai bambini della Palestina che si ritrovano adulti da un giorno all’altro.
Il cambiamento della narratrice lo si evince dal modo in cui riflette sui fatti, da come si auto-educa; ha ormai imparato a domare l’irrefrenabile risata di cui gli adulti non sono sempre capaci. Avviene un episodio tragico, nel contempo qualcosa di non troppo insolito per gli abitanti del villaggio, un altro nome si aggiunge alla lista dei martiri della libertà e questa volta si tratta di uno dei giovanissimi.
Leggendo il libro ci si rende realmente conto di come la scrittrice si rivolga direttamente al prescelto pubblico di lettori che conosce molto bene e da cui sa di essere compresa, non si preoccupa di universalizzare il proprio linguaggio né di raggiungere luoghi distanti. Un giovane lettore occidentale, ad esempio, avrebbe bisogno di spiegazioni in merito a certi termini e certi episodi narrati, in effetti la stessa edizione inglese include un piccolo dizionario in appendice. Eppure, proprio questa caratteristica fa emergere Ahlam Bsharat come una voce letteraria interessante, originale, locale e la si apprezza per questo.
Farfalla, vola sull’acqua come fanno i gabbiani. Anch’io vorrei tanto avere un mare su cui sorvolare. La Palestina un tempo ne aveva due – il Mar Mediterraneo e il Mar Morto – ma entrambi sono stati rubati. Aveva persino un lago chiamato Tiberiade, ma anch’esso è stato rubato.
Ecco, una lacrima.
Farfalla, vola in alto come un aeroplano. La mia terra non è come gli altri paesi del mondo, qui non ci sono aeroplani né aeroporti. La mia terra ha solo barriere, punti di controllo e deviazioni.
Un’altra lacrima…
[…]
Farfalla, dimmi quando io e te saremo unite in un unico corpo, quando andremo a spargere i sogni nell’aria e piantare le domande lassù in cima alla montagna, così vi potranno crescere anemoni rossi, papaveri e timo selvaggio?
Incertezza…
Farfalla, vieni ad addormentarti nel mio petto, così anche io potrò addormentarmi con te. Ti prometto che un giorno nasceremo insieme… ma adesso ho sonno.
La speranza esiste ancora!
Disegno dell’artista Alessia Pelonzi.
Questo libro un significato ancora più un grande letto alla fine di quest’anno, quando i territori occupati della Palestina ritornano sotto i riflettori dei media a seguito di pericolose affermazioni sulle decisioni future del Paese. Si sono riaperte delle proteste e abbiamo visto i giovani scendere giù per le strade, urlando, mentre venivano imprigionati e incatenati. Questo libro è per chi, come la protagonista, vuole cercare la forza nell’immaginazione e ha già creato un mondo in cui non si producono più armi e la pace è l’unica che regna sovrana.
Libri dalla terra straniera, “Code Name: Butterfly” di Ahlam Bsharat Poco tempo fa la scrittrice palestinese Ahlam Bsharat ha fatto un tour letterario in Inghilterra per promuovere il suo libro tradotto in lingua inglese da Nancy Roberts e pubblicato nel 2016 dalla casa editrice…
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I LIBRI nello STUDIO del GUFO: 1. letteratura francese, tedesca, svizzera, russa, israeliana, spagnola, scandinava; cinese, giapponese; 2. King e Tarocchi; 3. Lago di Como; 4. i fumetti di Dago e Julia – Tracce e Sentieri
I LIBRI nello STUDIO del GUFO: 1. letteratura francese, tedesca, svizzera, russa, israeliana, spagnola, scandinava; cinese, giapponese; 2. King e Tarocchi; 3. Lago di Como; 4. i fumetti di Dago e Julia – Tracce e Sentieri
Articolo Galleria da @PFerrario. Sorgente: I LIBRI nello STUDIO del GUFO: 1. letteratura francese, tedesca, svizzera, russa, israeliana, spagnola, scandinava; cinese, giapponese; 2. King e Tarocchi; 3. Lago di Como; 4. i fumetti di Dago e Julia – Tracce e Sentieri
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“Perché cos’eri se non nostalgia, Israele?”. L’incontro – e l’epistolario – tra Borges e David Ben-Gurion
Nato il 24 agosto del 1899 a Buenos Aires, Jorge Luis Borges è riconosciuto come una delle figure più importanti della letteratura universale. Inoltre, è considerato uno degli scrittori più grandi ignorato dal Nobel per la letteratura. “Non concedermi il Nobel è diventata una tradizione scandinava”, era solito dire lo scrittore, scherzando intorno a questa clamorosa dimenticanza. Su questo gigante molto è stato scritto, poco nota, piuttosto, è la sua ammirazione per l’ebraismo e la curiosità nei confronti dello Stato di Israele.
Nel 1969, in Israele, l’incontro tra Jorge Luis Borges e David Ben-Gurion
Questo sentimento riluce chiaramente nello scambio epistolare intrattenuto con David Ben-Gurion, fondatore e primo ministro di Israele. Già afflitto dalla cecità, il 16 ottobre del 1966 Borges dettò alcune righe da inviare al politico israeliano, rimarcando “la mia ammirazione verso il suo lavoro… Forse non è pienamente consapevole dell’affinità che ho sempre sentito verso il suo ammirevole popolo… Ho studiato a fondo l’opera di Spinoza, ho cercato di comprende l’intricato, intrigante universo della Kabbalah attraverso gli scritto di Martin Buber e di Gershom Scholem… Al di là del sangue, dato dal caso, siamo tutti greci ed ebrei”.
Ben-Gurion rispose senza indugi al grande scrittore. “La ringrazio profondamente per la lettera. Tramite l’ambasciata israeliana a Buenos Aires ho sentito parlare della sua personalità, della sua magnifica opera letteraria e del suo atteggiamento verso Israele e la sua eredità spirituale. Noto, nella sua lettera, che ci accomuna l’amore per la Grecia e per la sapienza ebraica. Sarei felicissimo se volesse visitare il nostro paese, ospite nella mia casa, nel deserto del Negev”.
Borges accettò l’invito: trascorse in Israele dieci giorni, all’inizio del 1969, e incontrò per la prima volta Ben-Gurion. Tornato in Argentina, Borges scrisse: “Ho visitato la più giovane e la più antica delle nazioni”.
Baruch Tenembaum
*Si riproduce in parte l’articolo “We are all Greek and Hebrew” pubblicato su “The Jerusalem Post”
***
Da “El Aleph”, che s’incardina sulla prima lettera dell’alfabeto ebraico, alle poesie – diverse – dedicate a Spinoza (“Intaglia un arduo vetro: l’infinito/ Ritratto di Chi è tutte le Sue stelle”), è arduo gioco enigmistico rintracciare fonti ebraiche nell’opera di Borges, che in diverse occasioni disse di sentirsi ebreo. L’adesione all’ebraismo era, nel suo caso, culturale: lo studio della Kabbalah e l’idea del Libro dei Libri, il libro che possiede tutti i significati, che presiede a tutte le opinioni e risolve tutte le interpretazioni, infuocarono la sua immaginazione narrativa. Come i poemi islandesi di Snorri, i paraventi giapponesi, i racconti di Erodoto. In una delle sue raccolte di poesia più note, “Elogio dell’ombra”, Borges mette in versi il suo viaggio in Terra Santa: la poesia s’intitola “Israele, 1969”, ed è posta tra una “Invocazione a Joyce”, i “Frammenti di un vangelo apocrifo”, una poesia dedicata a “Eraclito”.
Israele, 1969
Temetti che in Israele attendesse con dolcezza insidiosa la nostalgia che secoli d’esilio accumularono, triste tesoro, nelle città degli infedeli, nei ghetti, nei tramonti della steppa, nei sogni, la nostalgia di quelli che ti piansero, Gerusalemme, schiavi in babilonia. Perché cos’eri se non nostalgia, Israele, se non voler salvare tra le forme incostanti del tempo, la liturgia, il tuo vecchio libro magico, il tuo star solo con Dio? Invece, la più antica delle patrie è anche la più giovane. Non hai tentato con giardini gli uomini, né con l’oro e il suo tedio, bensì con il rigore, terra estrema. Israele senza parole ha detto: tu scorderai chi sei. Scorderai l’altro che lasciasti. Scorderai chi tu fosti nelle terre che ti dettero sere e mattini e cui tu non darai la nostalgia. Scorderai la tua lingua paterna, imparerai quella del Paradiso. Sarai un israelita, un soldato. Costruirai la patria con fangaie; l’innalzerai con deserti. Con te sarà al lavoro tuo fratello, di cui ignori il volto. Solo una cosa ti è promessa: il tuo posto nella battaglia.
Jorge Luis Borges
(la traduzione è di Francesco Tentori Montalto)
*In copertina: Borges e la madre, Leonor Acevedo Suarez
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Il poeta di Gaza, Yishai Sarid - Una recensione
L’anno scorso ho compiuto trent’anni: un traguardo importante e un po’ traumatico, che un conto è passare i diciotto, un conto è entrare negli enta con gli anta lì in agguato. Volevamo mica non festeggiarlo degnamente e renderlo memorabile? Certo che no! Per questo, oltre ad una bellissima e divertentissima festa con amici speciali e regali stupendi, Alberto mi ha regalato trenta libri, uno per…
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I LIBRI nello STUDIO del GUFO: 1. letteratura francese, tedesca, svizzera, russa, israeliana, spagnola, scandinava; cinese, giapponese; 2. King e Tarocchi; 3. Lago di Como
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Benjamin Tammuz compie 100 anni. Lui è il Minotauro, l’enigmatico Kurtz che si aggira nel labirinto della letteratura
Minotauro deve morire – e chi ha contratto affetto per lui muore in eccesso d’afflizione. Tra il Minotauro e l’agnello sacrificale non c’è larga distanza: Minotauro non è il mostro a cui vengono offerti giovani vergini per placare la fame inusuale – e la lussuria – piuttosto, è il condannato a morte. Il labirinto è il sicario, la ghigliottina.
*
Non è irrilevante la sottigliezza degli dèi nell’arte del vendicare. Minosse è figlio di Europa e di Zeus in forma di toro; Poseidone, per punire l’orgoglio di Minosse, fa innamorare sua moglie, Pasifae, del toro. Dalla loro unione nasce Minotauro: a conti fatti, immagine enigmatica e gemella di Minosse. Pur sempre una donna che si unisce alla bestia. Labirinto come si sa è ricalcato sul palazzo di Minosse, a Cnosso, fitto di corridoi dalle brusche curve, di spirali. La sfida di mostruosità tra Minotauro e Minosse non c’è; non sarà un caso che Minosse è posto come giudice delle anime – e che l’inferno dantesco abbia affinità logistiche con labirinto. Sa srotolare in prato il labirinto che è l’uomo.
*
Le cifre in cui si colloca la vita di Benjamin Tammuz reclamano un ordine. Nato 100 anni fa, l’11 luglio del 1919 in Unione Sovietica, muore trent’anni fa, a Gerusalemme, il 19 luglio del 1989. Un rigore cristallino spira nella data di nascita e di morte di Tammuz – sono certo che modellando la cabbala delle cifre di nascita e morte si possa dar ragione di una esistenza, ditemi superstizioso giocatore di dadi –, che contrasta con i dati assai scarsi intorno alla sua vita. Una nota – di pallida brevità – pubblicata sul New York Times avverte: “autore israeliano di origine russa, scultore e sostenitore della convivenza tra arabi ed ebrei, è morto di cancro, aveva 70 anni”. Ignoravo che fosse scultore. Negli anni Cinquanta Tammuz ha studiato alla Sorbona, a Parigi, “ha partecipato a molte mostre collettive, una sua opera, dedicata ai piloti israeliani, è visibile presso il parco dell’Indipendenza di Tel Aviv”. A leggere il ‘coccodrillo’ parrebbe un artista, mentre è uno degli scrittori più folgoranti del cinquantennio. Almeno. Per quel libro.
*
Non ho trovato interviste di Tammuz. Alcune note biografiche lo ricordano come giornalista – per il giornale Haaretz – altre ricordano il suo ufficio culturale presso l’ambasciata israeliana a Londra (è stato anche scrittore ‘residente’ a Oxford), altre ancora segnalano il suo impegno politico e artistico nel gruppo dei cosiddetti Cananei. Su Tammuz, insomma, ci sono poche notizie, per lo più difformi, eppure è uno degli scrittori israeliani contemporanei di maggior talento. In Italia, i suoi libri sono pubblicati dalle Edizioni E/O. Li ho letti. Il frutteto e Requiem per Naaman sono romanzi ben costruiti, delicati e arsi. Poco più che interessanti. Il minotauro è un romanzo perfetto.
*
Bejamin Tammuz sembra una sorta di Kurtz, è inafferrabile quanto l’Aleksandr Abramov del suo capolavoro. Il minotauro (tornato in edizione E/0 nella collana ‘Le Cicogne’), in effetti, è una sorta di Cuore di tenebra: entrambi i romanzi sono focalizzati su un ‘mostro’ – Kurtz nel caso di Conrad, l’ineffabile agente segreto innamorato arcangelicamente della ragazzina, Thea, nel libro di Tammuz – c’è un labirinto – l’Africa oscura, le oscurità occidentali; in entrambi: le sinuosità del cuore umano – e hanno una costruzione romanzesca impeccabile. Tutta la vicenda, letta attraverso un conturbante scambio di lettere, è narrata da Tammuz nelle prime trenta pagine del primo capitolo, L’agente segreto. La stessa vicenda, poi, è vista dagli occhi delle vittime e del mostro. Che dall’amore scaturisca la morte è un pensiero comune, ma che un amore mai consumato, neppure in favore d’occhi, chieda il sacrificio di innocenti è una tormentata mostruosità.
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Diverse sono le versioni moderne del mito di Minotauro: quasi tutte riabilitano la mostruosità in un difetto di sguardo umano, spesso il mostro si abbandona alla morte con carezzevole resa, di solito si mesce il mito greco a quello favoloso de “La Bella e la Bestia”, in ogni variante, anche cinematografica. Da Cesare Pavese a Borges – che capisce che il ‘mostro’ è “la casa”, cioè il labirinto – da Marguerite Yourcenar a Friedrich Dürrenmatt, il Novecento è costellato di Minotauri. Spesso ci si dimentica che la bellezza, alla greca, è unione tra armonia del corpo umano e bestialità, Dioniso che cavalca la tigre, le Baccanti che s’imbestiano, Eracle travestito da leone, gli dèi che prendono figura di belve seducenti. Tra uomo e bestia non c’è l’anatomica e automatica distinzione che assegniamo, cervellotici, ora. Minotauro è bello perché spaventoso, unione perfetta tra uomo e bestia – è bello perché è nascosto, come il dio nel tempio – le spire del labirinto come le volute del fumo d’incenso. Con efficacia narrativa Tammuz ha creato un romanzo dalla struttura labirintica, con uno straordinario Minotauro: dell’agente segreto non scopriamo il volto – che gli viene rifatto e contraffatto – ma la sconvolgente capacità seduttiva. Thea è innamorata di un enigma – non sa chi le scrive, chi è così ferocemente innamorato di lei, con una dedizione tanto accurata – e di una crudeltà.
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All’epoca – pubblicato in Israele nel 1980, tradotto in inglese l’anno dopo – Il minotauro colpisce l’attenzione di Graham Greene, che ne parla come del “miglior romanzo dell’anno”. Nitidezza formale, glaciale ferocia, la filiazione di Kafka – “avrei voluto Kafka per amico; e credo, nella mia grande stupidità, che avrebbe acconsentito. Aveva un’enorme clemenza; amava gli uomini e avvicinava anche i pazzi. Avrei avuto buone speranze” – sorprendono. Qualche anno fa, in virtù di riedizione, Maureen Corrigan lo elogia sul Washington Post. Cannando un po’ il tiro: sentendo odore di ‘ninfetta’ – l’agente segreto scopre Thea su un autobus, ha una moglie, due figlie, “E io ho quarantun anni, e lei all’incirca diciassette. Ventiquattro anni” – il recensore cita Nabokov. Il concetto è contrario, però: qui più si ama più ci si allontana. Minotauro è come dio: non consuma l’atto, protegge. Imprigiona. Non mi avrai, ma sei mia – non avrai altri che me, l’immagine che hai di me.
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Il cuore è qui: “In nessun modo potremo essere quello a cui eravamo destinati. Riunirci sarà impossibile. Il motivo è semplice, banale e umiliante, ma non voglio parlarne, perché se lo facessi, sapresti che ho paura e allora dubiteresti del mio amore. Ecco, ho già detto troppo. Ti amo, Thea. Se c’è un Dio ci farà incontrare lì dove ti ho sognata o immaginata per la prima volta, prima che tu nascessi. Se Lui non farà questo per noi, vuol dire che non è Dio, o che non esiste affatto, o che è solo un ufficio: efficiente ma indifferente”.
*
Il labirinto è la Storia, tesa a svelarsi fino alla scoperta di Dio, Minotauro infinito. Possiamo essere Arianna, e attendere che il mostro si faccia uomo – o rischiare in Teseo, perché di tutti è il sogno di decapitare il dio. In terra d’Israele labirintico è il libro.
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Che colpa ha avuto Minotauro, che cosa gli si imputa, perché non sfamarlo dandogli in sposa la sorella?
*
In una versione del mito, Minotauro è un bambino quando lo gettano nelle fauci di labirinto. Cresce e trova il modo di scrivere lettere in alfabeti mai visti ad Arianna, l’amata sorellastra di cui solo sa l’odore. Infine, lei sceglie le vie contorte di labirinto, si unisce a Minotauro, e mettono casa, dove i muri sanno di foresta. Sia onore a Tammuz, ha scritto uno dei libri segreti e magnetici – si può preferire il mistero alla stabilità, si può morire per un amare senza carne, perché letale è immaginare. (d.b.)
L'articolo Benjamin Tammuz compie 100 anni. Lui è il Minotauro, l’enigmatico Kurtz che si aggira nel labirinto della letteratura proviene da Pangea.
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