#Guerra Jugoslav
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gregor-samsung · 5 months ago
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Lunedì 31 maggio 1993
Cara Mimmy,
sono terribilmente giù di morale. Sono annoiata e depressa. Motivo numero uno: non c'è scuola perché è la festa di Bairam. Numero due: è venuta a mancare anche quel poco di elettricità che riusciamo ad avere con un cavo, quindi addio musica, addio film, addio luce. Siamo nuovamente nelle tenebre, sprofondati nelle tenebre. Papà ascolta delle notizie deprimenti. Numero tre: a partire da giovedì, i bombardamenti sono ripresi in modo selvaggio. PUAH! Ieri i cannoneggiamenti sono continuati in modo incessante dalle quattro del mattino fino alle dieci di sera. Sono cadute dalle tre alle quattro bombe al minuto. Bentornati in cantina! Questa mattina abbiamo saputo che l'UNPROFOR ha contato millecento bombe, però secondo Nedo si tratta solo del 60%, perché l'UNPROFOR riesce a contare solo il 60% delle bombe lanciate. In tutto quindi erano duemila bombe. Cio�� tre, quattro al minuto. Ecco perché sono giù di morale. Che tutto stia per ricominciare un'altra volta? Scusami, sono nervosa. Non arrabbiarti con me, mi passerà.
Ti voglio bene, Zlata
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Zlata Filipović, Diario di Zlata. Una bambina racconta Sarajevo (traduzione di Raffaella Cardillo e Maria Teresa Cattaneo), Rizzoli, 1994¹; p. 119.
[Ed.ne or.le: Le journal de Zlata, Fixot et éditions Robert Laffont, S.A., Paris, 1993]
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magauda · 2 months ago
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L'esempio jugoslavo fu raccolto dagli antifascisti friulani
Barcis. Fonte: Wikipedia Sempre di Giampaolo Gallo è uno studio di carattere generale sulla Resistenza in Friuli pubblicato nel 1989 <64.Per G. Gallo la guerra di liberazione non è stata un fenomeno di élite, di una minoranza esigua, per lui è stata una guerra di popolo <65, in quanto fra coloro che hanno fatto parte della resistenza include chiunque abbia aiutato i partigiani fornendo loro…
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condamina · 2 months ago
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L'esempio jugoslavo fu raccolto dagli antifascisti friulani
Barcis. Fonte: Wikipedia Sempre di Giampaolo Gallo è uno studio di carattere generale sulla Resistenza in Friuli pubblicato nel 1989 <64.Per G. Gallo la guerra di liberazione non è stata un fenomeno di élite, di una minoranza esigua, per lui è stata una guerra di popolo <65, in quanto fra coloro che hanno fatto parte della resistenza include chiunque abbia aiutato i partigiani fornendo loro…
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collasgarba · 2 months ago
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L'esempio jugoslavo fu raccolto dagli antifascisti friulani
Barcis. Fonte: Wikipedia Sempre di Giampaolo Gallo è uno studio di carattere generale sulla Resistenza in Friuli pubblicato nel 1989 <64.Per G. Gallo la guerra di liberazione non è stata un fenomeno di élite, di una minoranza esigua, per lui è stata una guerra di popolo <65, in quanto fra coloro che hanno fatto parte della resistenza include chiunque abbia aiutato i partigiani fornendo loro…
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adrianomaini · 2 months ago
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L'esempio jugoslavo fu raccolto dagli antifascisti friulani
Barcis. Fonte: Wikipedia Sempre di Giampaolo Gallo è uno studio di carattere generale sulla Resistenza in Friuli pubblicato nel 1989 <64.Per G. Gallo la guerra di liberazione non è stata un fenomeno di élite, di una minoranza esigua, per lui è stata una guerra di popolo <65, in quanto fra coloro che hanno fatto parte della resistenza include chiunque abbia aiutato i partigiani fornendo loro…
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bagnabraghe · 2 months ago
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L'esempio jugoslavo fu raccolto dagli antifascisti friulani
Barcis. Fonte: Wikipedia Sempre di Giampaolo Gallo è uno studio di carattere generale sulla Resistenza in Friuli pubblicato nel 1989 <64.Per G. Gallo la guerra di liberazione non è stata un fenomeno di élite, di una minoranza esigua, per lui è stata una guerra di popolo <65, in quanto fra coloro che hanno fatto parte della resistenza include chiunque abbia aiutato i partigiani fornendo loro…
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colonna-durruti · 2 years ago
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Cronache ribelli, perfetti come sempre
Visto il governo in carica il giorno del ricordo se possibile verrà oggi celebrato, se possibile, con ancora maggior retorica nazionalista e minore aderenza ai fatti.
Nel tentativo ormai riuscito di piegare a squallidi interessi di partito la ricostruzione dei tragici eventi che coinvolsero il confine orientale prima, dopo e durante la Seconda guerra mondiale, non c’è più spazio per un confronto serio che parta dai numeri e dai fatti.
Questo sciatto revisionismo di stato prima di tutto è una violenza nei confronti delle cosiddette "vittime delle foibe”. Cioè di quella parte di innocenti che nell’ambito delle due ondate - a ridosso dell’armistizio del ‘43 e alla fine della guerra - furono infoibate nel corso di episodi di giustizia sommaria e rese dei conti. Come già stabilito in sede di ricerca da ogni storico di ogni orientamento politico, il fenomeno riguardò un numero di persone comprese tra le 3.000 alle 8.000; tra questi si annoveravano soldati, funzionari del regime, collaborazionisti e civili innocenti. Non si trattò di pulizia etnica, né tanto meno di genocidio ma, al limite, del tentativo delle nuove autorità jugoslave di rimuovere, anche con la violenza o con l’esodo, quei membri della burocrazia, dell’amministrazione e dell’intellighenzia imposta dall’Italia nelle terre di confine.
Lo stato italiano, nel suo tanto coerente quanto imbarazzante percorso di continuità, fino alla fine dell’ex Jugoslavia si è ben guardato dall’ “aprire” il cassetto del confine orientale. Dentro ci avrebbe trovato l’1,5 milioni di morti causati dall’occupazione nazifascista, le decine e decine di campi di concentramento costruiti dall’Italia, gli abominevoli crimini di guerra e soprattutto i criminali mai consegnati e completamente riabilitati dopo il conflitto.
Di questi se ne contano 729 solo tra gli ufficiali superiori, perlopiù di dichiarata fede fascista e in ogni caso monarchica, che l’Italia repubblicana ha difeso strenuamente. Come si poteva chiedere conto alla Jugoslavia, paese vincitore, di perseguire le violenze praticate verso gli italiani innocenti quando ci si rifiutava di consegnare assassini conclamati in sede internazionale?
Nella logica del “baratto delle colpe” non abbiamo chiesto conto nemmeno alla Germania dei crimini compiuti nella penisola, al fine di non concedere ai tribunali jugoslavi, sovietici ma anche etiopi, francesi, greci e albanesi i nostri criminali.
Insomma le vittime innocenti del confine orientale sono state rimosse come quelle di Marzabotto e di Sant’Anna per proteggere i fascisti, i cui eredi usano la retorica “delle foibe” per nascondere ancora oggi le responsabilità di chi ha condotto l’umanità nel più sanguinario conflitto di sempre.
Non possiamo quindi che inorridire dinanzi all’uso strumentale che si fa dei morti e al tentativo di rinfocolare l’odio tra i popoli che soggiace a certa becera retorica.
Per noi i carnefici, chi ha cercato di fermarli e le vittime del conflitto restano tali indipendentemente dai confini.
Cronache Ribelli
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curiositasmundi · 9 months ago
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Le foibe sono un crimine di guerra, su questo non ci possono essere dubbi. Uccidere nemici inermi, dopo la cattura, al di fuori del combattimento e senza un giusto processo (come è spesso avvenuto in quelle circostanze) è sempre un crimine. Specie se ciò avviene alla fine di una guerra, quando si suppone che ci sia il tempo per giudicare i responsabili di reati commessi in precedenza, come avvenuto infatti a Norimberga, ma non (vale la pena ricordarlo) per i criminali di guerra italiani. Tuttavia, come sanno tutti gli storici, le vittime delle foibe non state uccise «solo perché italiane», a differenza di ciò che viene ossessivamente ripetuto nella vulgata politico-mediatica. Decine di migliaia di italiani combattevano nelle file dell’esercito partigiano jugoslavo, ovvero dalla parte di chi ha commesso quei crimini, e non hanno subito, ovviamente, alcuna violenza. Inoltre fra le vittime della resa dei conti condotta dalle forze jugoslave a fine guerra, gli italiani rappresentano tra il 3 e il 5%; gli altri sono jugoslavi (serbi, croati, sloveni, ecc.): tutti uccisi perché ritenuti fascisti, nazisti, spie, collaborazionisti o contrari alla conquista del potere da parte delle forze partigiane. I liberatori jugoslavi dunque se la prendono contro specifici nemici identificati in base all’appartenenza politica e militare, non nazionale.
[...]
Da circa vent’anni sono state istituite due giornate commemorative, quella della Memoria dei crimini nazisti e quella del Ricordo delle foibe. Tali celebrazioni sono simili nella denominazione, vicine nel tempo (27 gennaio e 10 febbraio) e hanno lo stesso identico peso formale. Ripeto per essere più chiaro: i crimini contro l’umanità commessi dai nazisti nelle logiche che sono state ricordate, e che hanno ucciso 10 milioni di persone, sono commemorati alla stessa stregua delle violenze condotte dai partigiani jugoslavi contro 5.000 persone, molti dei quali condividevano il campo nazista. 
Nei discorsi istituzionali e nella propaganda mediatica sulle foibe si parla di «pulizia etnica», si afferma che le vittime sarebbero state uccise «solo perché italiane» e si ribadisce il paragone con la Shoah, ignorando al tempo stesso i crimini fascisti e nazisti commessi in precedenza in quello stesso territorio.  Come credo sia ormai chiaro, tutto ciò è assurdo, offensivo, umiliante, di fatto «negazionista» o almeno enormemente «riduzionista» nei confronti della Shoah e dei crimini nazisti e fascisti. Per di più negli ultimi anni il giorno del Ricordo ha acquisito un’importanza politica addirittura maggiore rispetto a quello della Memoria. La Rai ha prodotto due film sul tema, se ne interessano programmi televisivi di ogni genere, se ne parla addirittura a Sanremo durante il festival dei fiori; politici di tutti gli schieramenti ne strumentalizzano la vicenda, enti pubblici di ogni livello intitolano strade, piazze, parchi, monumenti a Norma Cossetto o ai «martiri delle foibe»; il Ministero dell’Istruzione dirama circolari-fiume sul tema («Linee guida» di ben 90 pagine), i prefetti di tutta Italia chiedono alle scuole di insegnare la falsa «pulizia etnica» ai loro studenti e il Parlamento ha da poco approvato lo stanziamento di milioni di euro per incentivare la propaganda antistorica delle associazioni nostalgiche, finanziando «viaggi del ricordo» scolastici al confine orientale. 
Non ci possono essere dubbi: nella nostra memoria pubblica le violenze dei partigiani a fine guerra hanno acquisito un peso molto maggiore dei crimini nazisti, e sono probabilmente oggi più conosciute e ritenute più rilevanti dall’opinione pubblica. Può sembrare assurdo e paradossale, ma è così. Eppure manca ancora un tassello, la beffa oltre al danno. 
Che fine hanno fatto i crimini fascisti? Su questo semplicemente non esiste una memoria pubblica. Chi davvero uccideva intere popolazioni solo per la propria appartenenza, chi ha davvero ucciso «etiopi solo perché etiopi» e «jugoslavi solo perché jugoslavi», non viene nemmeno menzionato sui libri di scuola, non merita film, vie, parchi, lapidi né uno straccio di dichiarazione pubblica di condanna. 
E dunque, in definitiva: si mente sulle reali motivazioni del crimine delle foibe per cercare di farlo passare come un crimine fascista; e intanto si ignorano i veri e propri crimini del fascismo, finendo per far passare i fascisti come innocenti e anzi vittime dei partigiani. Si dedicano energie politiche e risorse economiche straordinarie per diffondere tali falsità e si cerca in questo modo di fare percepire all’opinione pubblica le foibe come addirittura più gravi dei crimini nazisti e della Shoah. 
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lamilanomagazine · 1 year ago
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Trieste: Giornata della Liberazione dall'occupazione Jugoslava
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Trieste: Giornata della Liberazione dall'occupazione Jugoslava. Il 78° Anniversario della Giornata della Liberazione della Città di Trieste dall’occupazione jugoslava è stato ricordato ieri (lunedì 12 giugno) con una serie di cerimonie che si sono aperte con la solenne commemorazione, svoltasi nella sala del Consiglio comunale di Trieste, alla presenza di autorità civili e militari e, tra gli altri, il prefetto Pietro Signoriello, il presidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia Mauro Bordin e gli assessori comunali Elisa Lodi, Nicole Matteoni, Maurizio De Blasio e Massimo Tognolli. La commemorazione ha visto gli interventi del presidente del Consiglio comunale Francesco Di Paola Panteca e dell’assessore Everest Bertoli, che hanno ricordato il significato e il valore per Trieste di questa ricorrenza, istituita con delibera giuntale del 26 maggio del 2020, proprio per ricordare la fine dell’occupazione jugoslava della città, avvenuta il 12 giugno del 1945. Nel suo messaggio il presidente Panteca ha definito questa ricorrenza come quella della “liberazione di Trieste dal terrore comunista” e ha ricordato i fatti avvenuti a guerra finita. “ Il 12 giugno del 1945 - ha detto nel suo intervento l’assessore Everest Bertoli – vide l’uscita dalla nostra città dalle truppe jugoslave e le immagini che abbiamo ben presenti mostrano piazza Unità d’Italia piena di persone che salutano le truppe angloamericane sventolando tricolori e non più parate jugoslave". Trieste, Gorizia, Monfalcone e Muggia riconoscono il valore del 25 aprile come celebrazione nazionale della liberazione dal nazifascismo, ma hanno istituito inoltre la ricorrenza del 12 giugno, in aggiunta e non in contrapposizione. Per ricordare – ha ribadito l’assessore Everest Bertoli - che dopo la terribile presenza nazista ci sono stati 40 giorni di terrore comunista titino. Per ricordare il giorno in cui chi era italiano ha potuto manifestarlo senza temere per la propria vita, così come chi era sloveno era libero di esprimersi nella propria lingua. Per ricordare che una soluzione del Parlamento europeo ha equiparato i crimini del comunismo a quelli del nazismo e il nostro territorio li ha sperimentati entrambi. Per ricordare che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente della Repubblica di Slovenia Borut Pahor si sono tenuti per mano in silenzio davanti al monumento nazionale della Foiba di Basovizza, dove proprio in quei 40 giorni di occupazione si consumarono esecuzioni sommarie ed eccidi. Per ricordare che grazie a quella vera liberazione oggi possiamo dire viva la libertà, viva la democrazia, viva Trieste italiana”. Al temine della commemorazione nella sala del Consiglio comunale è seguita, in piazza Unità d’Italia, la cerimonia dell’alzabandiera, presenti sempre autorità civili e militari, rappresentanti della Associazioni combattentistiche e d’arma con i loro labari e i gonfalone della Città, decorato di medaglia d’oro al valor militare. Successivamente, a cura del Comune di Trieste, è stata deposta una corona d’alloro sulla lapide che nel Parco della Rimembranza ricorda i caduti, mentre nel tardo pomeriggio in piazza Unità d’Italia, si è tenuta l’ammainabandiera solenne.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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viendiletto · 10 months ago
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Dopo Roma, Trieste e Cuneo, la quarta città italiana per numero di deportati nei campi di concentramento e di sterminio nazisti fu la città quarnerina di Fiume.
Le leggi razziali colpirono particolarmente gli ebrei fiumani: esse decretavano infatti la revoca della cittadinanza italiana per tutti gli ebrei italiani che l’avessero ottenuta dopo il 1919, e Fiume era stata annessa all’Italia solamente nel 1924. Dopo la promulgazione delle leggi, circa 350 ebrei furono costretti ad abbandonare Fiume.
Tra questi Elisabetta Reich, che fuggirà a Firenze ma verrà denunciata e deportata ad Auschwitz nel 1944, dove perderà il marito e il padre.
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Elisabetta Reich ad Abbazia, in Istria
Dopo la resa incondizionata dell’8 settembre, Fiume verrà occupata dai nazisti.
La meravigliosa Sinagoga Grande di Fiume, opera dell’architetto ungherese Leopold Baumhorn, che durante la guerra era stata protetta dalle autorità italiane, verrà distrutta dai nazisti il 25 gennaio del 1944. La più piccola sinagoga ortodossa, costruita dall’architetto ungherese Győzo Angyal e dall’architetto italiano Pietro del Fabbro, verrà invece risparmiata.
Dei 243 ebrei rastrellati e deportati solo 19 sopravviveranno e faranno ritorno a Fiume.
Tra questi l’antifascista Angelo Adam, sopravvissuto agli orrori di Dachau. Tornato a Fiume, ormai occupata dai titini, verrà da questi ucciso insieme alla moglie Ernesta Stefancich e alla figlia diciassettenne Zulema, perché contrario alle mire espansionistiche jugoslave. Medesima sorte subirono tutti coloro che non supportarono il piano d’annessione della città alla Jugoslavia, fossero essi filo-italiani o autonomisti. Tra i fiumani filo-italiani assassinati dai titini a guerra finita vi furono anche il senatore Riccardo Gigante, sposato con l’ebrea Edit Therney, e Carlo Colussi, mentre tra gli autonomisti si ricordano Mario Blasich, Nevio Skull, Giovanni Rubini, Mario De Hajnal, Giuseppe Sincich, Gino Sirola e Radoslav Baucer.
Tra gli ebrei fiumani sopravvissuti alla Shoah ricordiamo le sorelle Tatiana (1937) e Andra Bucci (1939), deportate ad Auschwitz e scelte come cavie per Josef Mengele. Il cugino Sergio De Simone (1937), di sette anni, sarà invece assassinato a Neuengamme.
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Tatiana e Andra Bucci con Sergio De Simone
Arianna Szörényi (1933) fu deportata prima con la famiglia alla Risiera di San Sabba, poi ad Auschwitz-Birkenau, a Ravensbrück e infine a Bergen-Belsen. Tra i suoi familiari deportati, solo il fratello Alessandro tornerà vivo da Buchenwald.
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Arianna Szörényi all’età di tredici anni
Goti Bauer (1924), nata Berehove ma cresciuta a Fiume, fu deportata prima ad Auschwitz e infine a Theresienstadt. Sarà l’unica sopravvissuta della sua famiglia: perderà i genitori, la sorellastra e il fratello Tiberio.
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Goti Bauer
La memoria degli ebrei fiumani e istro-quarnerini in Italia sembra essere legata quasi esclusivamente al mondo ebraico e giuliano-dalmata, quasi come vi fosse stata, immediatamente dopo il 1947, una damnatio memoriae nei confronti della storia di quelle terre perdute. Terre che, anche se molti italiani lo hanno dimenticato, erano italiane non solo per motivi legali, ma anche per motivi storico-culturali e demografici, e nelle quali l’italianità sopravvive ancora grazie alle Comunità degli Italiani ivi rimasti.
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Pietre d’inciampo bilingui a Fiume
Fonti
Gli ebrei a Fiume dal ’600 al ’900
Ebrei di Fiume in transito a Udine per Auschwitz 1944-1945. Riflessioni
Elisabetta Reich, ebrea di Fiume, sopravvissuta ad Auschwitz
Sopravvissuto a Dachau e ucciso nelle foibe, l’incredibile storia di Angelo Adam
Alice Salvatore: «Vi racconto chi era Nevio Skull»
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Fiume. Tempio Israelitico
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corallorosso · 4 years ago
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Un grumo purulento: lo storico Eric Gobetti riflette sulle foibe e sugli usi pubblici della storia Il 10 febbraio del 2007, in occasione della ricorrenza del Giorno del Ricordo, nel corso della consegna di onorificenze ai parenti degli infoibati al Quirinale, il presidente Napolitano conferisce la medaglia d’oro al merito civile ai familiari di Vincenzo Serrentino. Questi fu tenente colonnello dell’esercito italiano, dirigente dei Fasci di combattimento di Zara sin dagli albori degli anni Venti, dal 1940 primo Seniore della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, membro del Tribunale Straordinario della Dalmazia (istituito nel 1941 per debellare la Resistenza jugoslava durante l’occupazione militare italiana), prefetto di Zara e capo della provincia durante l’occupazione militare tedesca dal novembre 1943 all’ottobre 1944, quando la città fu liberata. Nel 1946 il suo nome compare nella lista stilata dall’apposita Commissione ministeriale d’inchiesta di civili e militari italiani passibili di accusa presso la giustizia penale militare, coloro nella cui condotta erano “venuti meno ai principi del diritto internazionale di guerra e ai doveri dell’umanità”: con lui, tutti i membri del Tribunale Speciale (tra cui il più celebre Pietro Caruso), che aveva celebrato processi “senza il rispetto delle più elementari norme procedurali”, condannando a morte “anche persone minorenni”. Il suo nome figura nell’elenco CROWCASS (Central Registry of War Criminals and Security Suspects, 1947), compilato dagli Alleati anglo-americani, delle persone ricercate dalla Jugoslavia per crimini di guerra. Catturato a Trieste nel maggio 1945, venne processato dalle autorità jugoslave, riconosciuto come criminale di guerra e fucilato nel maggio del 1947. Nel 1987, il comune di Rosolini (Siracusa), suo paese natale, gli ha dedicato una strada. Nel febbraio del 2012, durante il programma televisivo di Rai 1 Porta a Porta, che affronta lo spinoso argomento della vicenda delle foibe, viene mostrata una fotografia che ritrae un plotone di esecuzione nell’atto di fucilare alla schiena cinque uomini allineati: ai telespettatori viene detto che si tratta di partigiani comunisti jugoslavi che sparano a degli italiani. In realtà, come gli studiosi sanno bene e come si evince chiaramente dagli elmetti dei soldati del plotone di esecuzione, la foto, scattata il 31 luglio 1942, mostra la fucilazione di cinque partigiani sloveni (di cui sono noti i nomi) ad opera di militari italiani durante il periodo dell’occupazione dei territori jugoslavi. La sera del 10 febbraio 2019 la Rai manda in onda un film di cui è co-produttrice, Rosso d’Istria. La pellicola, tanto inverosimile quanto brutale, è un autentico prodotto propagandistico: diffonde paura e odio attraverso un immaginario razzista e un racconto ben poco attinente alla realtà, raffigurando i partigiani comunisti jugoslavi come bestie assetate di sangue e animate da un sadismo innato che aggrediscono vittime innocenti: degli italiani, fascisti dichiarati. Gli eroi del film sono mostrati in camicia nera, invocano apertamente il Duce e aspettano come manna dal cielo un esercito di “liberazione”, quello nazista, bei giovanottoni che danno l’idea di riportare la pace, laddove gli efferati partigiani slavi avevano scatenato guerra, odi e vendette: con una netta scelta ideologica, lo spettatore è portato a schierarsi con le “vittime” fasciste di un crimine commesso dai comunisti. Questi tre macroscopici esempi, scelti da una folta schiera di eventi altrettanto gravi, indicano in modo lampante una cosa: nel nostro Paese la complessa vicenda delle foibe e delle violenze nei territori del confine orientale è da anni oggetto di una gravissima distorsione fattuale e di un accentuato uso propagandistico della storia, operati a più livelli: storiografico, istituzionale, dell’immaginario collettivo. Nel primo caso si intralcia e si destabilizza il lavoro di ricerca e d’una corretta divulgazione degli avvenimenti occorsi sul confine orientale da parte di studiosi seri, che intendono ricostruire accuratamente i fatti e i contesti in cui questi presero forma, il modo in cui vengono narrati. A livello istituzionale, si accreditano versioni false e distorte degli eventi con ambigue dichiarazioni delle più alte cariche dello Stato e paradossali riconoscimenti (uno Stato nato dalla liberazione dal fascismo che conferisce medaglie a fascisti conclamati e criminali di guerra?), sospensioni di contributi finanziari alla ricerca ad associazioni o individui che non si attengono alla comune vulgata diffusa sulla vicenda delle foibe (come nel caso del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia). A livello di immaginario collettivo, con la martellante diffusione di mistificatori luoghi comuni operata dai media, la creazione di fiction non solo televisive che incidono a fuoco nelle menti di spettatori ignari delle patenti falsità storiche, capovolgendo di segno la realtà e il suo significato morale. Questo atteggiamento largamente condiviso produce un clima culturale favorevole a intimidazioni, minacce, insulti mediatici e infamanti accuse di “negazionismo” e “riduzionismo”, animato dalle forze della destra nazionalista e neofascista e volto a screditare il lavoro degli storici, impedire loro di affrontare un tema delicato, di ricostruire e contestualizzare il fenomeno, di raccontarlo in maniera corretta. Di questa pericolosa temperie, che fa vacillare la civiltà di un Paese evocando foschi scenari, porta testimonianza diretta lo storico Eric Gobetti, con il libro E allora le foibe? (pp. 116, € 13), pubblicato dall’editore Laterza nella collana “Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti”. Gobetti rilegge la vicenda delle foibe e dell’esodo partendo da alcune domande: Di cosa parliamo quando parliamo di foibe? Cosa è accaduto realmente? In che modo e da chi vengono narrati quegli eventi? Con un argomentare stringente, storicamente probante, il libro getta ampia luce sugli eventi occorsi sul confine orientale a partire dal 1943, ricostruendo il contesto in cui essi presero forma e si manifestarono, la storia che li ha determinati, le cause sociali e politiche per cui essi furono in un primo tempo rimossi, quindi, a partire dagli anni Novanta, la falsificazione cui furono soggetti e la narrazione distorta che se n’è fatta, sino ad approdare all’attuale cancerosa situazione, che ha avuto l’ennesima conferma dal modo in cui è stato vissuto e celebrato il 10 febbraio scorso, Giorno del Ricordo. (...) Anche lo stereotipo dell’espulsione forzata “corrisponde ben poco alla complessità dei fatti”; quella dei profughi istriano-dalmati è una tragedia umana legata al mutamento dei confini e degli assetti internazionali conseguenti alla sconfitta militare dell’Italia. Soprattutto, “è il risultato estremo di un circolo vizioso innescato dall’imperialismo italiano e poi dal fascismo. Gli esuli sono le vittime ultime della politica aggressiva del regime, dei crimini di guerra commessi dall’esercito italiano e della sconfitta militare in una guerra che Mussolini aveva ottusamente contribuito a scatenare”. Gobetti affronta anche il problema dei numeri relativi alla vicenda delle foibe: si ripetono infatti, anche da parte di alti esponenti politici e della divulgazione storica, cifre smisuratamente gonfiate (un ministro della Repubblica parlò di “un milione di morti”), che non trovano alcun riscontro fattuale, e che contribuiscono a diffondere falsi miti e una perniciosa disinformazione, cosa, tra l’altro, che non favorisce la memoria e non denota rispetto per le vittime, usate per squallidi fini ideologici e politici. (...) La conclusione di questo studio è adamantina: invece che rischiare di essere “una commemorazione fascista”, il Giorno del Ricordo “dovrebbe essere una data per ricordare i drammi prodotti dal nazionalismo, dal fascismo, dalla violenza ideologica, dalla guerra e dalla sconfitta militare di un paese mandato al macello in maniera criminale non solo da Mussolini ma da tutta un’élite politica, militare ed economica che non ha mai pagato per le sue colpe”. Già, ma se così fosse l’Italia sarebbe un Paese civile. Giuseppe Costigliola
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gregor-samsung · 5 years ago
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(Sabato 17 aprile 1993)  
Cara Mimmy, 
Seka è fuori di sé. Sembra che sia costretta ad andarsene dall'appartamento di Bokica. Ci sono moltissimi profughi, Mimmy, persone che sono diventate dei «senzatetto» per colpa della guerra. La guerra li ha mandati via, ha distrutto e incendiato le loro case. Sono costretti a cercare un alloggio, e non sono molti gli alloggi disponibili. Ce ne sono alcuni che appartengono alle persone che hanno lasciato Sarajevo. I «senzatetto» hanno trovato rifugio in quelle case, ma sembra che la situazione si stia complicando. Alcuni tornano, altri se ne vanno. A una tragedia ne fa seguito un'altra. È mostruoso. Non riesco a capirci niente. In realtà è tutta la guerra a risultarmi incomprensibile. So solo che è stupida, e che tutto è frutto della sua stupidità. Ma so anche che non renderà felice nessuno. La situazione politica è un'idiozia. Una grande, INCREDIBILE, idiozia. Non so che fare, se continuare a vivere e a soffrire, continuare a sperare, oppure prendere una corda e semplicemente… farla finita. Se le cose continuano così, fra poco tempo avrò vent'anni, e se questo sarà un altro «Libano», come continuano a ripetere, avrò 30 anni e ci sarà ancora la guerra. La mia infanzia, la mia giovinezza, la mia vita saranno state inghiottite dalla guerra. Morirò, e questa guerra non sarà ancora finita. E quando la mamma e questa  a mi dice: «Ce ne andremo via, Zlata», il desiderio di farla finita si fa ancora più forte. Là fuori stanno solo aspettando che escano un'Alica, un Malik o una Zlata…  
La tua Zlata
Zlata Filipović, Diario di Zlata. Una bambina racconta Sarajevo (traduzione di Raffaella Cardillo e Maria Teresa Cattaneo), Rizzoli, 1994¹; p. 119.
[Ed.ne or.le: Le journal de Zlata, Fixot et éditions Robert Laffont, S.A., Paris, 1993]
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pangeanews · 7 years ago
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Faruk Sehić: “Lo scrittore deve sputare in faccia alla Storia. Dopo aver narrato la guerra, ora racconto l’amore post-apocalittico”
Faccia dura, occhi liquidi, che purificano il dolore. Quanta morte hai visto, amico mio?, viene da chiedergli. La storia della letteratura occidentale comincia con la parola menin, che significa ira, con l’assedio alla città di Troia, con la guerra e con la morte. Proprio così, con impeto omerico, con sguardo epico e psichedelico (“La sera, quando cadono le Leonidi, nella pioggia di meteore si nascondono i profughi di ritorno alle loro case terrestri. La vita si ripete nella sua semplicità, piena di piccole abitudini e rituali umani”), Faruk Sehić (nella foto di Srdan Veljović) ha raccontato la Guerra in Bosnia. Lui c’era. C’era, il poeta, nell’impeto della battaglia. Classe 1970, a 22 anni Faruk studia veterinaria a Zagabria. La guerra scoppia. Lui interrompe gli studi. Si arma, lotta nell’esercito della Bosnia ed Erzegovina. Comanda una unità di 130 uomini. Vede la morte. Uccide. Forse. “La guerra non è un balletto”, ripete, incessantemente, da Sarajevo, “l’unica città dove posso vivere”, ad ammirare quotidianamente la disgregazione della fu Jugoslavia. Knjiga o Uni, pubblicato nel 2011, viene onorato con l’European Union Prize for Literature e viene tradotto nel resto dell’Occidente. In Italia arriva quest’anno, come Il mio fiume (pp.206, euro 16,00), per l’editore Mimesis. Il libro è mirabile, riduce gli esercizi romanzeschi italiani odierni, quasi tutti, a sociologia applicata al precariato, li retrodata, cioè, al nulla. Alla ferocia, esasperata (“Ho trasformato corpi vivi in ombre, anzi in ombre di farfalle notturne, cioè nulla. Io sono un poeta e un combattente e nell’anima un monaco sufi”), si assemblano passi lirici (che riguardano la Jugoslavia pre-bellica, con l’idillio della vita intorno al fiume Una, che scorre tra Croazia e Bosnia) e micidiali bordate all’ideologia capitalista (“Avviliti, camminerete per i centri commerciali con le spalle curve e i culi unti, bramando i corpi delle sirene affissi sui cartelloni olografici. Vogliono indurvi all’oblio. Vi devitalizzano… Ho detto addio alla depressione neoliberista. I miei demoni non abitano il mondo di oggi. Vi offriranno come modelli il progresso e il benessere di nazioni rigorosamente controllate e voi pagherete con l’oblio”). Insomma. Lo scrittore ha fegato, è bravo, intriso di poesia che fa male, fa quello che la letteratura ha sempre fatto. Dire la guerra, ragionare sulla morte, regnare sulla morte fino a quell’osso estremo, simile a un’alba, che ci fa invocare gli immortali.
Il titolo del suo romanzo ricorda la poesia più nota di Giuseppe Ungaretti, I fiumi. Lei, d’altronde, si poeta. Ungaretti ha scritto poesie in trincea, è un poeta soldato: ha avuto una qualche influenza sulla sua opera?
“Il titolo è stato scelto dal mio editore. Non è possible tradurre il titolo del mio romanzo dal bosniaco all’italiano. Tuttavia, ho letto Ungaretti e Quasimodo, adoro la poesia di Ungaretti, I fiumi: l’ultimo libro che ho scritto si intitola I miei fiumi e cita alcuni brani della poesia di Ungaretti. Riconosco me stesso in quel poema: sono stato un soldato anche io, come lui è stato un soldato durante la Prima Guerra mondiale. Non c’è nulla di più potente nella letteratura come quando capisci che qualcuno, prima di te, ha provato le tue stesse sensazioni. Ungaretti mi ha aiutato a dare forma al mio mondo letterario, come Apollinaire, e altri”.
Lei ha scritto un romanzo lirico e psichedelico, feroce ed efficace. Non ha scritto una ‘testimonianza’, ma una specie di delirio verbale. Quali scrittori legge? Da quail scritture è stato influenzato?
“Tanti scrittori – e non solo scrittori – hanno avuto un forte impatto sul mio lavoro. Amo T. S. Eliot, Apollinaire, Gabriel Garcia Marquez, Seamus Heaney, Zbigniew Herbert, Czeslaw Milosz, Jorge Luis Borges, Bruno Schulz, David Bowie, Lou Reed, e tanti altri. Mentre scrivevo il romanzo, leggevo Gaston Bachelard, Bruno Schulz, Ralph Waldo Emerson, Borges. Il mio libro ‘sacro’ è una raccolte di poesie di Borges. Ho trovato quel libro nell’estate del 1992, in un appartamento vuoto nella mia città, durante i primi giorni di guerra. Quello era un vecchio edificio austroungarico, che ha preso fuoco pochi giorni dopo che ho trovato il libro di Borges. Conservo quel libro. Mi ricorda quanto è fragile la materia, la materia umana, vivente, e la materia non vivente. Il mio libro può essere una testimonianza, perché no? È una finzione, ma molti lettori pensano che il mio libro sia più autobiografico che una fiction, la verità sta fuori, come una serie tivù di X-Files”.
In un passo del libro scrive, “ho ucciso solo perché volevo sopravvivere al Caos”. Lei ha partecipato alla guerra nella ex Jugoslavia. Cos’è la guerra? Ha ucciso qualcuno?
“Sì, ho partecipato alla ‘nostra’ guerra. Non avevo altra scelta. Immagina la situazione in cui uno con gli occhi azzurri viene nel tuo appartamento e ti dice: ‘tu sei un cittadino dagli occhi verdi, devi lasciare questa parte della città perché questa parte della città appartiene ai cittadini dagli occhi azzurri’. Se non obbedisci, ti uccidono o ti portano in un campo di concentramento. Così, mi sono armato per difendere me stesso, la mia strada, la mia città, il mio diritto a essere uguale ai cittadini con gli occhi azzurri. Nessuno vuole essere un cittadino di secondo piano. Loro, i membri del partito democratico serbo di Radovan Karadzic, avevano tutte le armi del mondo, e loro, non tutta la popolazione serba, volevano prendere parte del mio paese e portarlo nella Grande Serbia. Ma questo è stato impossibile perché noi abbiamo combattuto, pur non avendo nulla di comparabile al loro potere militare. Ma noi abbiamo combattuto per quasi 4 anni. E fu una guerra eroica, per diverse ragioni più eroica dell’OLP che ha combattuto contro le forze israeliane nel XX secolo. Ma noi non ci siamo fatti vanto della nostra guerra come fanno molte altre nazioni. Ho combattuto corpo a corpo (in quel tipo di battaglia tutto accade in pochissimi secondi, non hai tempo di pensare, devi solo reagire istintivamente), forse ho ucciso qualche soldato nemico, la guerra non è un balletto”.
Con la recente condanna di Ratko Mladic lei ritiene che l’agonia dell’ex Jugoslavia sia davvero finita? Dove vive oggi? Come vive?
“Vivo a Sarajevo, la sola città della Bosnia dove posso vivere. Eppure Sarajevo è solo l’ombra del suo passato. Faccio il giornalista e lo scrittore. Lotto per vivere ogni giorno come la maggior parte della nostra gente. L’agonia non è finita, noi continuiamo a disgregarci, la Jugoslavia continua a decomporsi”.
Nel suo libro scrive: “Quello che so per certo è che tutto si ripete: la storia si ripete, le nazioni-mattatoio si ripetono”. Questa è la sua idea di Storia? Cosa può fare un poeta al cospetto della Storia?
“No, quella non è la mia idea di Storia; sfortunatamente è la nostra Storia. Io non sono uno storico. I miei libri possono dare un piccolo conforto, ma non salvano nessuno. Il poeta, l’artista, può sputare in faccia alla Storia, può creare un mondo parallelo, una ‘storia’ parallela senza guerre, distruzioni di massa, uccisioni di gente innocente etc. L’umanesimo è molto importante per me, non m’interessa la letteratura come intrattenimento, non compro la merda americana”.
Che idea ha del mondo comunista? E del capitalismo? Nel suo libro esprime critiche verso entrambe le ideologie.
“La Jugolsavia di Tito è stata l’età d’oro delle nazioni slave del sud. Non abbiamo mai abuto uno stato così grande: questi piccoli paesi creati dopo la distruzione della Jugoslavia non sono reali, non sono neanche una ‘repubblica delle banane’. Bosnia, Croazia, Serbia, Montenegro… io non credo in questi stati. Metaforicamente parlando, questa mi pare una soluzione provvisoria creata per poche persone che vogliono fare un mucchio di miliardi in una sola notte. Rispetto le idee del comunismo: il comunismo jugoslavo, intendo, odio e disprezzo lo stalinismo, il nostro comunismo non ha nulla del comunismo russo. Il capitalismo, come ha detto Marx, è l’oppio per le masse.
E ora? Cosa sta scrivendo?
“A un romanzo che si intitola Cinnamon Letters, parla dell’amore in un tempo post-apocalittico”.
*
Per gentile concessione pubblichiamo un brandello da Il mio fiume (Mimesis, 2017)
I giornalisti saccenti, gli esperti che sanno tutto, dicono: è questione di forza maggiore, degli indubbi squilibri tettonici della Storia, dei buchi bianchi presenti nella nebbiolina di Asterion, il dio dei fiumi, del traballante sottospazio presente nella nostra materia grigia, del collasso dell’ultima utopia del Ventesimo secolo, eccetera. Il muro di Berlino ci era crollato addosso, perciò era il caso che del sangue venisse versato da qualche parte. Solo che io non ero una monetina nel regolamento dei conti delle forze cosmiche. In quanto uomo reale, una personalità formata, avevo un compito privato: la sopravvivenza fisica. Perché dovrei credere a chi non ha mai sentito sulla pelle il puzzo della polvere da sparo che nessun detergente può eliminare, se è lui stesso a non credermi? Se dovevo fare qualcosa, l’ho fatto: ho preso il mio destino in mano e non ho aspettato che qualcuno mi bussasse alla porta e mi portasse, stordito dal sonno, davanti a una fossa umida per essere fucilato. La passività si è sempre pagata con la vita e io avevo voglia di vivere. A quel tempo non mi ricordavo dell’anziana padrona di casa di Sveta Klara nella periferia di Zagabria, Katica Cvetko, un donnone originario di Zagorje che nel 1990 aveva detto a me e al mio coinquilino: «In Bosnia i serbi vi sgozzeranno tutti». Cosa potevamo capire allora noi lavoratori dalle mani delicate, innamorati del cinema e della letteratura?
Post scriptum: gli analisti difficilmente comprendono la lotta per la sopravvivenza, perché amano occuparsi di metafore illeggibili e interpretare il destino attraverso i processi globali, eventi di cruciale importanza ma fasulli che mai potranno spiegare la sostanza delle cose: i massacri, la crudeltà, lo stridore dei cingoli del T-55 che anche se lontano due chilometri in linea d’aria vi raggela il sangue. Non ho intenzione di snocciolarvi le affascinanti immagini dell’orrore di cui sono stato testimone: richiederebbero un libro grosso almeno il doppio di questo e il risultato sarebbe lo stesso: chi non capisce che se ne stia nel beato buio dell’ignoranza. La mia biografia è una sequenza di casualità: molte le ho scelte io, mentre altre hanno scelto me. Alla fine, se potessi spiegare tutto a me stesso, scaverei una fossa e mi ci sdraierei vivo, perché la vita non ha senso. La mia biografia è sangue e carne, non entertainment. Io sono da qualche parte nel mezzo. Io sono uno, ma siamo migliaia. Indistruttibili e spezzati.
Faruk Sehić
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paoloxl · 6 years ago
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Si annidano tra gli spalti e portano avanti indisturbati retaggi del ventennio: cori, striscioni con insulti razzisti e alleanze con le tifoserie neonazi. Mappa dei gruppi di estrema destra della penisola, per capire dove si alimenta l’odio xenofobo costato la vita a Emmanuel Chidi Namdi 11 luglio 2016 Alcuni riecheggiano il fascismo con i modi di dire dell’epoca. Quell’espressione romana "me ne frego", che durante il ventennio ebbe tanto successo, è un motto della Nord laziale: "Me ne frego, di morire, me ne frego di Togliatti e del sol dell'avvenire. [...] Ce ne freghiamo della galera, camicia nera trionferà". Altri portano la bandiera dei "fratelli" di Budapest, quelli che si rivoltarono contro il regime comunista nell’ottobre del 1956: "I ragazzi di Buda". E poi gli striscioni, le croci celtiche e le svastiche, i cori razzisti, lo schieramento a falange quando si scende dal pullman. E’ la tifoseria nera italiana, quella da cui proviene anche Amedeo Mancini accusato dell'omicidio di Emmanuel Chidi Namdi, il nigeriano massacrato di botte per aver difeso la moglie dagli insulti razzisti. Amedeo, travestito da ultras, è cresciuto a ideologia fascista, violento e per questo allontanato dagli stadi. Nell’ambiente, molti tifosi hanno invitato a distinguere tra un "fascista" e un "ultras". "Emmanuel è morto per un odio xenofobo, il calcio non c’entra". Vero, ed è certo che molti non vogliono essere associati a episodi di questo tipo. Ma non è sempre così. Esistono delle frange neofasciste e neonaziste tra gli spalti. Alimentate dalla cosiddetta "differenza fra "noi" e "loro", fra ciò che è umano, e umano non è, fra il bene e il male", come ha scritto Ivan Colovic nel 1999 in "Campo di calcio. Campo di battaglia", per spiegare le dispute tra tifoserie jugoslave. I capi ultras spesso hanno bisogno di questi estremismi per tenere la curva unita e giustificano loro stessi grazie al colore di una maglia. Le multe della Commissione Disciplinare della Figc alle società per i cori razzisti, i Daspo e i divieti di esporre striscioni, non sono bastati a fermare il fenomeno. Sono molte le tifoserie che si dichiarano apertamente fasciste, non solo nella prima serie, ma anche e soprattutto in quelle minori, serie B e lega Pro: ambienti piccoli, ma proprio per questo i valori si insinuano meglio. Come per la tifoseria di Mancini, sostenitrice della Fermana che milita in serie D. Generalmente di destra, la "Curva Duomo" dopo quando accaduto ha definito Mancini "uno di loro" e si è detta addolorata, ma apolitica, rigettando ogni tipo di accusa. Dall’ultimo censimento delle tifoserie delle serie professionistiche, presente nel rapporto dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive del ministero dell’Interno, emerge che per la stagione 2014-2015 sono attivi 382 gruppi, composti da circa 39.600 supporter. Circa 151 hanno manifestato un orientamento politico: 45 hanno una connotazione generica di destra, mentre 40 di estrema destra: si parla di circa 8.000 tifosi. I restanti viaggiano tra idee di sinistra (33) o sinistra più radicale (21). Persino la Nazionale è stata sostenuta per qualche anno dagli "Ultras Italia", nati nei primi duemila volevano essere l’unione dei gruppi locali di estrema destra detti "Viking". Il fascismo nelle curve si infiltra durante il Ventennio: lo sport fa presa sulla gente e l’interesse popolare verso il calcio aumenta alimentato dai successi della nazionale con le due vittorie ai mondiali nel ‘34 e ‘38, e la medaglia d’oro alle Olimpiadi nel ‘36. Tutto ad aumentare il senso d’identità nazionale. "Ogni domenica gli stadi sono pieni di potenziali fascisti, tanto lo spettacolo si basa sull’odio verso l’altro. Assistere a una grande partita significa offrirsi due ore di fascismo ordinario e legale", ha scritto ancora Colovic. Fascismo inteso come spazio libero in cui manifestare contro l’autorità, "per i piccoli nazisti che sognano spazi più ampi". Quelli di destra sono gruppi attivi, almeno politicamente, più delle tifoserie di sinistra: fanno comunicazione online, puntano sull’immagine, gli slogan, organizzano incontri su temi di attualità e si considerano impegnati. Per politicizzati però s’intende non solo l’esposizione di uno striscione o il canto di qualche coro. In alcune terre calcio e politica si intrecciano, capi curva e membri importanti della tifoseria hanno stretti legami o fanno parte delle file di partiti e movimenti. A destra i gruppi sono noti: Forza Nuova, Casa Pound, Skinheads, ma anche la Lega Nord. Posizioni che oggi sembrano trovare nuova linfa nella crisi, mai risolta, dei migranti: la difesa del territorio anche e soprattutto nei piccoli centri dove la presenza dello straniero fa più rumore. Il punto caldo del tifo nero è il nord-est italiano trainato dai supporter dell'Hellas Verona, storica tifoseria di destra che si è fatta conoscere negli anni per episodi fascisti e apertamente xenofobi. Fa parte delle cosiddette tifoserie del Triveneto, da sempre tenute d’occhio dalla Digos: Treviso, Padova, Triestina e Vicenza. Quella del Verona è una delle tifoserie anticamente organizzate grazie alle "Brigate Gialloblu", fondate nel 1971 e che fanno il verso a quelle nere di Benito Mussolini. O la "Banda Loma" di Alberto Lomastro, indagato, e poi assolto, insieme a Yari Chiavenato (prima Forza Nuova, poi nelle liste di Lega Nord) per una storia datata 1996 quando dalla curva fu fatto pendere a mo’ di impiccagione un manichino nero come protesta nei confronti della società che voleva acquistare un giocatore africano. Nel 2015 i veronesi sono protagonisti di una sentenza che fa discutere. Quattro anni prima contro il Livorno i tifosi animano lo stadio con uno show tutto fascista: cori, striscioni, saluti romani e insulti di ogni tipo partono dal settore ospiti. L’accusa è di aver violato la legge Mancino sulla discriminazione e violenza razziale. Tutti assolti, il fatto non è reato. La motivazione fu che lo stadio non è luogo dove viene fatta propaganda politica. Eppure a seguire i veronesi non si direbbe. Lo stesso Flavio Tosi fu accusato dai collettivi antifascisti di cercare voti con la sua presenza in curva durante la campagna elettorale nel 2012 per la fascia di primo cittadino della città veneta. Non era andata invece meglio a due tifosi della Juventus condannati a due mesi di reclusione sempre nel 2015 per un saluto romano in occasione di una partita con il Bari giocata il 25 aprile, giornata della Liberazione dal nazifascismo. Ma non tutto è così netto come sembra. L’Hellas è legato alla tifoseria della Fiorentina, storicamente di sinistra anche se oggi meno politicizzata, e con quella sampdoriana dal 1973, dichiaratamente antifascista. Da tempo alcuni gruppi chiedono l’allontanamento dalla squadra veronese per le sue ideologie. I "Rude Boys" blucerchiati sono infatti vicini alla tifoseria tedesca del St. Pauli, attiva sul fronte antinazista. Per questo anche all’interno dei gruppi esistono posizioni che sconfinano. Nell’elenco stilato dal ministero dell’Interno si legge anche che 12 sodalizi hanno manifestato un’ideologia "mista" caratterizzata dalla presenza di esponenti sia di destra che di sinistra. Come per Cesena, Bologna, Milan tra gli altri. Accanto al Verona c’è la tifoseria della Lazio. Storicamente curva nera. Arrivata a farsi conoscere anche a livello europeo con un turno a porte chiuse nel 2013 per insulti razzisti contro il Tottenham. Nello specifico "cori scimmieschi" contro tre giocatori della squadra londinese. Pena poi sospesa. Ma la curva laziale è da sempre sotto la lente della Commissione Disciplinare. Fecero parlare gli striscioni contro il Livorno nel 2005, una tifoseria storicamente di sinistra: "Pentito e partigiano con i laziali sei sempre scappato". Ma anche "Foibe: Togliatti criminale di guerra". Dall’altra parte con falce e martello si cantava "Bandiera rossa". La Lazio è anche un delle tifoserie che mantiene legami oltre confine proprio per le sue idee politiche. Il filo nero lega da est ad ovest l’Europa, spalleggiano i laziali gli Ultras Sur un gruppo di tifosi del Real Madrid, i polacchi del Wisla Cracovia e gli ungheresi del Levski Sofia, con cui i romani sono gemellati. Il sostegno reciproco viaggia su internet, basta un invito e i tifosi vengono a tenere alto l’onore della squadra in partite delicate come il derby della Capitale. Storica alleanza in Italia invece con Inter e sintonia con i tifosi dell’Hellas, Ascoli e Chieti. E non è raro che anche i calciatori si rendano protagonisti di saluti romani, il più noto è certamente Paolo di Canio, ex bandiera della Lazio e orgoglio della curva.  "Sono un fascista, non un razzista" si era giustificato dopo la squalifica e la multa di 10.000 euro per il gesto durante Lazio-Juventus nel 2005. e accusato di aver violato la legge Scelba sull’apologia al fascismo. Parole poi smentite dal suo avvocato: "E’ un saluto alla curva, non ha valenza politica, ma sportiva". Insomma per condividere i valori dell’Urbe. Difficile però per Di Canio giustificare quel "DVX" tatuato sul braccio destro. Anche la tifoseria della Juventus ha alcuni scheletri nell’armadio. Come i gemelleggi con il Legia Varsavia, e il Den Haag, quest’ultima dichiaratamente antisemita: i suoi tifosi si contrappongono a quelli dell’Ajax, le cui file sono composte da un folto gruppo ebraico. Spesso l’ideologia supera anche le lontananze politiche come nel caso della Roma. Dove l’estrema destra legata a Casa Pound punta a conquistare la Sud, in testa ci sono i "Padroni di casa" di Gianluca Iannone spuntato nelle intercettazioni di Mafia Capitale. Alla corte di Massimo Carminati ci sarebbe anche il gruppo nazi "Opposta Fazione". E’ infatti di recente che alcuni gruppi si sono avvicinati a quelli laziali partendo dalle ideologie per creare sodalizi. Altri come il "Fedayn" hanno cercato di contrastare la deriva fascista. Queste alleanze possono anche sfociare nella politica: nel 2003 con l’uscita di Alessandra Mussolini da Alleanza Nazionale, Paolo Zappavigna, il capo dei "Boys" di Roma, le aveva annunciato sostegno promettendole 1.000 voti della curva se avesse fondato un nuovo partito. Da lì iniziarono gli attacchi contro Gianfranco Fini che aveva usato dure parole contro la Mussolini. Durante una partita contro il Lecce all’Olimpico era spuntato lo striscione: "Fini come Badoglio" per la sua visita in Israele da ministro degli Affari Esteri. A Torino dagli spalti bianconeri uscì un "Fini traditore d’Italia". E dalla lupa era nato anche Daniele De Santis, l’ultras che uccise a colpi di pistola Ciro Esposito tifoso del Napoli, poi condannato a 26 anni di carcere. I giornali pubblicarono una serie di foto del suo covo tappezzato di bandiere fasciste e murales a tema. "Lo sport è compenetrato di fascismo" ha scritto Michel Caillat, esperto di sociologia dello sport, in "L’ideologia dello sport in Francia". Un mix di eroismo, glorificazione, assetti simili a quelli militari e come apice la competizione fra uomini. Come se non ci fosse una via di scampo. http://m.espresso.repubblica.it/inchieste/2016/07/11/news/calcio-la-piaga-nera-del-tifo-fascista-1.276905?fbclid=IwAR000Jn-tOfDhYEO7oW1Z_Y8qwQFeDIMHRkWIJP9d43ynMnu95gHaKoZH8U
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magicnightfall · 6 years ago
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MARVELOUS, MYSTICAL, RATHER SOPHISTICAL (AND PRATICALLY PERFECT)
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Quando venne rilasciato il primo trailer per Mary Poppins Returns, un placido primo pomeriggio di metà settembre, io mi trovavo a bordo di un autobus in direzione stazione di Ancona. Girava da un po’ la voce che sarebbe stato reso pubblico proprio quel giorno, e io avevo in effetti trascorso le precedenti otto ore (il lunedì la mia sveglia suona così presto che è puntata direttamente a “mortaccivostri”) a refreshare tutti i social esistenti  chiedendomi dove diavolo fosse quel video.
All’improvviso, sbam! In un tripudio di cori angelici, di cherubini, serafini e spazzacamini, il trailer.
Ora, dovete sapere che in tutte le mila volte che ho preso quell’autobus, il controllore è passato in due sole occasioni. L’ultima di queste è stata proprio quel lunedì.
Io mi ero appena sparata i tanto agognati due minuti e ventisei secondi, e il mio equipaggiamento di personaggio base consisteva in: n. 2 occhi a cuoricino; n. 1 sorriso ebete; n. 1 saracinesca abbassata nel cervello con un cartello con su scritto “Torno subito”. Se qualcuno avesse sbirciato oltre detta saracinesca avrebbe visto i miei neuroni fare il trenino cantando e sculettando un medley composto da Brigitte Bardot, Bardot, Maracaibo e La Notte Vola.
Io non so, giuro (giuro: non lo dico per aumentare l’effetto drammatico) che non ho idea da quanto tempo il controllore stesse cercando di attirare la mia attenzione. Avete presente Paola Perego che chiama “Presidente? Presidente?” quando Andreotti.exe smise di funzionare? Ecco.
Oh, alla fine il biglietto gliel’ho fatto vedere, eh, non si vada a pensare che con artifizi e raggiri stessi cercando di frodare la Conerobus S.p.A. Gliel’ho fatto vedere, e lui l’ha squadrato, poi ha squadrato me, ha pensato “Questa qua è totalmente fulminata ma almeno il titolo di viaggio è in ordine” e cià.
Morale della favola: quando si tratta di Mary Poppins, o quando si tratta di Emily Blunt (o, a maggior ragione, quando si tratta di Mary Poppins interpretata da Emily Blunt), io perdo totalmente la capacità di intendere e di volere. E, forse, anche e soprattutto la dignità.
It’s a good thing you came along when you did, Mary Poppins
“Arrivederci, Mary Poppins. Non stare via molto” salutava Bert alla fine del primo film.
È stata via cinquantaquattro anni e centoventi giorni.
Si tratta di uno degli intervalli di tempo più lunghi mai registrati tra un film e il suo sequel: se vogliamo escludere Bambi II, che è uscito direttamente in home-video sessantatré anni e centosettantotto giorni dopo, a detenere il record è Fantasia 2000, con i suoi cinquantanove anni e quarantotto giorni.
È un ciclopico lasso temporale - tanto ampio da vedere l’emergere della contestazione giovanile, l’uomo sulla Luna, la fine della guerra del Vietnam, la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’URSS, le guerre jugoslave, l’abolizione dell’apartheid, la nascita di internet, l’11 settembre, la crisi economica più grave dopo quella degli anni ’30 e Leonardo DiCaprio vincere un Oscar - ma Mary non poteva tornare che ora: ora che i tempi sono più bui che mai, ora che c’è l’unica attrice in grado di darle la vita dopo dame Julie Andrews.
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Really? How incredibly rude. One never discusses a woman’s age, Micheal. Would’ve hoped I taught you better.
Non trattandosi di un remake ma di un sequel, questa Mary Poppins è la stessa Mary Poppins del 1964, ma ha caratteristiche peculiari tutte sue che di fatto la rendono una terza versione di se stessa. La pellicola, infatti, ci mostra dei lati della tata che la contraddistinguono tanto da quella del primo film tanto da quella dei libri, nel complesso creando un personaggio più sfumato e sfaccettato pur restando - e lo approfondiremo poi - sempre uguale a se stesso. E, ovviamente, praticamente perfetto.
Nei libri (*), viene descritta una Mary estremamente altera e vanitosa (“Ci teneva a mostrarsi nella sua veste migliore. In realtà, era sicura di mostrarsi sempre nella sua veste migliore”; “Sospirò di piacere quando vide tre se stesse [...] Le sembrava una vista così graziosa che avrebbe desiderato che di se stesse ce ne fossero una dozzina”; “Non guardava altro che se stessa riflessa nel vetro”; “Non aveva mai visto nessuno con una figura tanto elegante e distinta”), superba (“Poi, con un lungo poderoso sospiro, che sembrò significare che aveva formulato il suo giudizio, disse: «Accetto l’impiego.» E più tardi la signora Banks riferì al marito: «L’ha detto proprio come se ci facesse un grande onore.»; “Squadrò altezzosamente”, “Arricciò il naso con superiorità”; “Soggiunse con l’aria di compatirli”), brusca, sempre propensa a dire “no”, con una voce “fredda e chiara che suonava sempre come un ammonimento”, rigida in faccia e con “un terribile sguardo ammonitore” tanto che non la si poteva guardare e disobbedirle.
Gli unici momenti in cui la Mary del libro si mostra vagamente impacciata  sono quando è con Bert (“Mary Poppins abbassò lo sguardo, strisciando la punta di una scarpa sul pavimento, due o tre volte. Poi sorrise alla scarpa in un modo che la scarpa capì benissimo che quel sorriso non era per lei”) e i rari, rarissimi sprazzi di gentilezza riservati ai bambini mandano questi ultimi nel panico più totale, facendogli temere che stia per succedere qualcosa di brutto - nello specifico, che stia per lasciarli (“«Forse sarà soltanto per gentilezza» disse Giovanna per calmarlo, ma si sentì un tuffo al cuore come Michele. Sapeva benissimo che Mary Poppins non perdeva mai il tempo a essere gentile. Eppure, strano a dirsi, durante tutto il pomeriggio Mary Poppins non aveva detto neanche una parola sgarbata”; “Alla fine Michele non poté sopportarlo più a lungo: «Oh, sii sgarbata, Mary Poppins! Sii ancora sgarbata! Non è da te! Oh, mi sento tanto in ansia!»”).
Nel film del 1964 i tratti più spigolosi del personaggio appaiono decisamente smussati, vuoi direttamente dalla sceneggiatura, vuoi dalla grazia e dall’eleganza di cui era (è) infusa Julie Andrews. Tratti che, ad ogni modo, permangono: non a caso, la primissima volta che vediamo Mary la scopriamo intenta a sistemarsi il trucco e a contemplarsi allo specchio. Ancora, è lei stessa a descriversi come “gentile ma anche severissima”, e difatti non lesina sguardi di rimprovero ed espressioni sdegnate, sbuffi di esasperazione o un fermo tono di voce all’occorrenza.
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Dobbiamo aspettare fino alla fine del film per vederla “confusa dai sentimenti” (per quanto lei affermi vivamente di no), e cioè quando si appresta a lasciare i Banks consapevole che il suo compito è finito (almeno per i successivi vent’anni).
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La terza Mary è tutto questo (non sarebbe Mary Poppins, altrimenti), ma dietro ai modi spicci e alle espressioni scioccate e impermalite, specie quando viene fatto riferimento all’età 
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o, peggio ancora, al peso, 
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lascia intravedere anche una buona dose di empatia. La nuova generazione di Banks, infatti, colpita da un terribile lutto, sta cercando di riprendersi da una situazione ben più tragica rispetto a quella di Jane e Michael alla stessa età (cioè quella di avere un padre che, concentrato solo sul lavoro, materialmente presente ma emotivamente distante, non si rendeva conto che presto non avrebbe avuto “bimbi da poter viziar”). Così, quando John le fa notare che nell’ultimo anno, a seguito della morte della madre, sono cresciuti tanto, l’espressione di Mary è dolce e compassionevole, ma Emily è veloce a ricacciarla dentro, e a sostituirla con la pragmaticità che è solita contraddistinguere la tata. Ancora, dopo averli messi a letto, e cantata una dolcissima ninna nanna, al di là della porta chiusa indulge in un sorriso malinconico, di assoluta partecipazione al dolore di tre bambini rimasti orfani di madre.
Non solo, ma questa Mary, per quanto - come da tradizione - sia arrivata volando e abbia compiuto le magie più incredibili, appare anche più umana: di fronte alla porta della bottega della cugina Topsy (una certa Meryl Streep), quando questa le intima di andarsene perché è il secondo mercoledì del mese e il suo mondo si rovescia come una “tartaruga sdraiata su schiena”, la tata è genuinamente colta alla sprovvista. Si è totalmente dimenticata, come una persona normale. Viene mostrata una sorta di fallibilità che è difficile anche solo immaginare di associare alla Mary del libro o a quella del 1964. Badate, si tratta di una dimenticanza, questa, che è ben diversa da quella di cui alla prima metà del film, quando Mary conduce l’allegra brigata alla Royal Doulton Music Hall salvo poi scoprire che si è “dimenticata” di farla apparire: in questo caso, infatti, quando le viene fatto notare, è palese come quella sbadataggine altro non sia se non un calcolatissimo coup de théâtre.
A quella fallibilità fa peraltro eco la stessa Topsy, quando afferma che “Una volta tanto Mary Poppins ha ragione”.
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(Are you, though?)
Ciò non toglie che, per quanto più tenera o più “umana”, o caratterizzata così che emergano sfumature ulteriori rispetto alle descrizioni o interpretazioni precedenti, sempre di Mary Poppins stiamo parlando, cioè del più fulgido esempio - per dirla con Christopher Vogler (**) - di “Eroe catalizzatore”. Si tratta di “figure centrali [...] che non cambiano molto perché la loro funzione principale è provocare una trasformazione negli altri. Come i catalizzatori nella chimica, essi provocano un cambiamento nel sistema senza subire mutamenti. [...] questi Eroi subiscono pochi cambiamenti interiori e intervengono soprattutto per aiutare gli altri o guidarli nella crescita.”
Questo, ovviamente, vale soprattutto per le due Mary cinematografiche, in quanto quella cartacea ha ben poco ruolo nell’arco di trasformazione dei cinque piccoli Banks (o del Banks senior), limitandosi ad arrivare, far vivere loro le avventure più bizzarre e poi ripartire.
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La Mary del 1964, invece, nel rompere gli equilibri (de)cantati da George Banks, fa comprendere a quest’ultimo che il suo ruolo di padre non (deve) consistere soltanto nell’impartire una istruzione rigida, ma anche e soprattutto nell’essere presente in senso affettivo. E quella del 2018 è tornata per ricordare ai bambini di essere bambini, e agli adulti di esserlo stati. Tema, questo, recentemente affrontato dalla Disney anche nel bel Ritorno Al Bosco dei Cento Acri.
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In effetti, questa terza Mary ha anche un ruolo più attivo: è lei che mette (consapevolmente) in moto i meccanismi della trama, consegnando a Georgie lo scatolone che contiene - all’insaputa di tutti - il certificato azionario che stavano cercando, è lei che suggerisce al bambino di accomodare l’aquilone, è lei che evoca la folata di vento decisiva.
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Pratically perfect, in every way
Come Irene Adler è, per Sherlock Holmes, “La Donna” cioè il paradigma di tutto il genere femminile, così Emily Blunt è, per me, L’Attrice. Ha ragione Rob Marshall, il regista, a dire che nessun’altra persona al mondo, dell’uni o del multiverso, avrebbe potuto vestire i panni di Mary Poppins oltre lei.
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Per quel che mi riguarda, con questa interpretazione Emily è entrata nell’Olimpo dei grandi con la stessa prepotenza con cui Mary sfonda la porta della bottega di Topsy. Balla e canta come se lo facesse da sempre, e regala al personaggio guizzi che, vuoi per intuito, vuoi per preparazione o per talento innato, rappresentano la cifra dell’attrice che è. Per fare un esempio, in uno dei numeri musicali più riusciti, dal gusto vaudevilliano, affronta i ritornelli di A Cover Is Not A Book con la cadenza e il tono di voce di un vecchio ebbro (tant’è che, infatti, la canzone è una sorta di discorso diretto dello zio Gutenberg, “ubriaco un giorno sì e uno no”).
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A post shared by Mary Poppins Returns (@marypoppinsreturns) on Dec 27, 2018 at 7:30am PST
La sua Mary è elegante ed eccentrica, dolce e lapidaria, straordinaria e umana, infallibile e fallibile. Mezzo secolo dopo Emily ha saputo riprendere in mano un personaggio ormai entrato nell’immaginario collettivo (e per il quale Julie Andrews ha vinto l’Oscar alla migliore attrice) e ha saputo infondervi nuova vita senza per questo venire meno agli elementi costitutivi del ruolo. Mi auguro che l’Academy ne tenga conto, o potrei non rispondere più delle mie azioni.
So when life is getting scary, be your own illuminary
La controparte di Mary non è più lo spazzacamino Bert ma il lampionaio Jack, apprendista del primo. Ad interpretarlo Lin-Manuel Miranda, che dimostra di essere a suo agio su un set cinematografico tanto quanto su un palco di Broadway. Ero a conoscenza dell’enorme successo di Hamilton, ma ignoravo che lui fosse un artista tanto talentuoso: ha guadagnato una nuova fan, senza dubbio.
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Once upon a time, there was a man with a wooden leg named Smith.
È stata una fortuna che, a suo tempo, abbia appreso la notizia del cameo di Dick Van Dyke nella privacy della mia camera: fosse accaduto su un autobus il controllore mi avrebbe fatta ricoverare direttamente, tanto mi sono fatta prendere dall’entusiasmo. Qui interpreta Mr Dawes jr, in uno splendido omaggio al suo secondo ruolo nel film del 1964, dove era, oltre a Bert, anche Dawes padre.
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Balloon, she wrote
Se la sala in cui ho assistito alla prima proiezione del film non ha battuto ciglio al palesarsi di Dick Van Dyke (segno che non vede più in là del proprio naso - va da sé che non si è nemmeno resa conto della presenza di Karen Dotrice, la Jane Banks originale), altra storia si è avuta quando è comparsa l’unica e sola Jessica Fletcher, accompagnata da un coro di “aaaaah, guarda chi c’è”. Angela Lansbury è una leggenda del grande e del piccolo schermo, e la sua presenza non è che un valore aggiunto in un film già bello di suo.
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Simply sensational, standing-ovational
P.L. Travers si starà rivoltando nella tomba: già non era entusiasta del fatto che i suoi libri divenissero un film, e non oso immaginare cosa avrebbe pensato se avesse saputo che mezzo secolo più tardi ne avrebbero girato addirittura un sequel (per tacere, poi, di Saving Mr Banks). Magra consolazione sarebbe stata per lei il fatto che Il ritorno di Mary Poppins è, secondo me, davvero un bel film.
Non nego che abbia dei difetti: ad esempio, non mi è piaciuto l’inserimento di un antagonista (un Colin Firth senza infamia e senza lode) perché cosa riuscitissima del primo film era che non vi fosse un vero e proprio cattivo se non le circostanze. Dopotutto, la (nuova) famiglia Banks andava benissimo a rotoli da sola senza la necessità dell’intervento del banchiere a rimarcarlo.
Riconosco altresì che quello che per me è un win per altri è un sin: per dire, ho apprezzato il fatto che i plot point dei due film siano praticamente paralleli, ma quello che per me è l’effetto rassicurante e familiare dell’aristotelica struttura in tre atti per altri può essere banale e “già visto”.
Ad ogni modo, parlando onestamente e con tutto l’amore che mi lega al film del 1964, questo secondo è tutto ciò che speravo sarebbe stato il sequel.
Poiché ho trascorso due ore con gli occhi a cuoricino, ritengo che abbiano saputo mantenere in vita quel senso di magia e meraviglia che è stato la fortuna di Mary Poppins. E non era scontato: il pubblico del 2018 non è lo stesso del 1964. Gli spettatori odierni hanno ormai il palato abituato alle trovate più fantasmagoriche, e se cinquanta anni fa vedere una tata discendere dal cielo o personaggi in carne ed ossa interagire con quelli disegnati sembrava (giustamente) un incredibile incanto, oggi siamo così assuefatti agli effetti speciali che non ci meravigliamo più di niente, e siamo così bombardati da storie di tutti i tipi (e da tutti i medium) che siamo alla costante ricerca di qualcosa che, vuoi per bizzarria, audacia o innovazione (penso a Black Mirror con l’episodio interattivo), riesca ad emergere dal mucchio di un’offerta vastissima. Dice bene Claire all’inizio di Jurassic World: “Siamo sinceri: nessuno si impressiona più con un dinosauro, ormai. Vent’anni fa la de-estinzione è arrivata come una magia. Oggi i bambini guardano uno stegosauro come un elefante al giardino zoologico. [...] I nostri ricercatori scoprono nuove specie ogni anno, ma i consumatori li vogliono sempre più grandi, più rumorosi... più denti.”
Il ritorno di Mary Poppins, invece, fa proprio questo: stupisce. E non tanto (o non solo) con le meraviglie dell’animazione 2D o degli effetti speciali ma con l’intimità di una piccola storia familiare.
Now my heart is so light that I think I just might start feeding the birds and then go fly a kite
Il film è sì un sequel che si regge perfettamente sulle sue gambe, ma è anche un omaggio lungo due ore: non si può fare a meno di notare come il numero dei lampionai richiami, tanto nell’ensamble quanto nelle atmosfere notturne, quello degli spazzacamini. E anche in questa seconda occasione Mary è vestita di rosso, a riprova di quanto nulla sia stato lasciato al caso.
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E la colonna sonora utilizza, in maniera nemmeno sottile, gli inconfondibili temi musicali di quella precedente, contribuendo a solleticare la nostalgia degli spettatori.
Ora, in sala, origliando i commenti, ho sentito che qualcuno si aspettava che Mary cantasse anche Supercalifragilistichespiralidoso: purtroppo non lo fa, ma se avessero prestato maggiore attenzione si sarebbero resi conto che l’adattamento italiano un piccolo easter egg ce l’ha messo: così, nel brano Royal Doulton Music Hall, il verso “At the highly acclaimable, nearly untamable / lavishing praisable, always roof-raisable” diventa “È la supercalibile fragilistibile chespiralibile edosolibile”. Una piccola cosa, ma apprezzalibile.
E sì, vero che le canzoni, per quanto sagaci ed orecchiabili, forse non sono memorabili quanto le altre, ma è altresì vero che mentirei se dicessi di essere uscita dal cinema senza canticchiare The Royal Doulton Music Hall o Trip A Little Light Fantastic.
(e comunque ciò non mi impedirà certo di ascoltare in loop, per il resto della mia esistenza terrena e anche ultraterrena, Emily Blunt cantare)
Dicevo che il film è un lungo omaggio: lo è non solo del suo diretto predecessore, ma anche della fonte originale. Per fare giusto un esempio, la sequenza vaudeville attinge a piene mani dall’universo creato da P.L. Travers: i capitoli 6 e 9 del secondo libro vivono all’interno di A Cover Is Not A Book.
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E il film, già che c’è, si prende la briga di citare anche un altro classico Disney, Pomi d’ottone e manici di scopa (che ha per protagonisti la già citata Angela Lansbury e David Tomlinson, cioè George Banks, e presenta canzoni scartate da Mary Poppins, a chiusura del cerchio): la sequenza subacquea è un diretto rimando a quella dell’altro film.
Entrambe le pellicole poi, con perfetta specularità, terminano con Mary che chiosa sulla sua perfezione, mentre da lontano osserva commossa i Banks che festeggiano la ritrovata serenità al parco, solo che in un caso la nuova leggerezza è data dagli aquiloni, nell’altro dai palloncini.
Now if your life is getting foggy that's no reason to complain, there's so much in store, inside the door of 17 Cherry Tree Lane
Il 2018 è stato l’anno di Emily e delle sue vasche da bagno (ma spero che a casa abbia la doccia, se non altro per motivi ecologici) e quello che mi auguro sia “in store” nel 2019 è una vagonata di premi, a cominciare dal Golden Globe, per il quale ha già beccato la nomination, passando per il SAG e per approdare all’Oscar. Altrimenti, lo ribadisco, potrei non rispondere più delle mie azioni.
E nessun controllore della Conerobus potrà far niente per fermarmi.
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* P.L. Travers, Mary Poppins, prima edizione digitale 2014 da III edizione Bur ragazzi, giugno 2010. Traduzione di Letizia Bompiani (1935)
** Christopher Vogler, Il viaggio dell’Eroe, Dino Audino Editore, 2010, p. 45
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downtobaker · 3 years ago
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La fragile frontiera tra noi e l'orrore
La fragile frontiera tra noi e l’orrore
di Paolo Rumiz Ucraina, Paolo Rumiz: “Cosa vedo dalla mia casa, sismografo della frontiera” – Metropolis/49 “Come soffia il vento sulla mia frontiera. Vento gelido di Nordest. Passa sulle trincee della Grande guerra, fischia nei rottami delle garitte jugoslave sull’ex cortina di ferro, si infila nelle fessure, toglie il sonno. Viene da lontano. Sa di steppe e di neve. Porta profughi a migliaia,…
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