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Antonio Marino: una vittima del terrorismo politico nell’Italia degli anni ‘70Il carabiniere ucciso a Milano da una bomba a mano nell’aprile 1973
Il 12 aprile 1973, a Milano, il giovane carabiniere Antonio Marino, originario di Vico Equense (Napoli), perse la vita in un tragico episodio di violenza politica.
Il 12 aprile 1973, a Milano, il giovane carabiniere Antonio Marino, originario di Vico Equense (Napoli), perse la vita in un tragico episodio di violenza politica. Marino fu colpito mortalmente durante una manifestazione del Movimento Sociale Italiano (MSI), quando una bomba a mano lanciata contro le forze dell’ordine causò la sua morte. L’attacco fu compiuto da Claudio Loi, figlio del noto…
#Alessandria today#anni ‘70#Anni di Piombo#Antonio Marino#Arma dei Carabinieri#Arma dei Carabinieri vittime#Carabiniere ucciso#carabinieri e ordine pubblico#Claudio Loi#conflitti sociali Italia#Duilio Loi#estremismo politico Italia#giovani carabinieri#Google News#Italia violenze politiche.#italianewsmedia.com#manifestazioni MSI#memoria carabinieri#memoria di Marino#Milano 1973#Milano aprile 1973#MSI#ordine pubblico#Pier Carlo Lava#radicalizzazione ideologica#radicalizzazione politica#sacrificio civile#sacrificio forze dell’ordine#scontri politici Milano#Sicurezza Pubblica
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Paderno Dugnano, il 17enne racconta la notte della strage Emergono sempre più dettagli sulla strage di Paderno Dugnano, alle porte di Milano, dove un 17enne, nella notte tra il 31 agosto e il primo settembre, ha ucciso con 68 contellate il padre, la madre e il fratello di 12 anni. A raccontare quei terribili momenti è stato proprio il giovane, detenuto in carcere Emergono sempre più dettagli sulla strage di Paderno Dugnano, alle porte di Milano, dove un 17enne, nella notte tra il 31 agosto e il primo settembre, ha ucciso con 68 contellate il padre, la madre e il fratello di 12 anni. A raccontare quei terribili momenti è stato proprio il giovane, detenuto in carcere. Il compleanno del padre Gli omicidi sono avvenuti poche ore dopo i festeggiamenti per il 51esimo compleanno del papà. «È stata la sera della festa che ho pensato di farlo, non avevo ancora ideato questo piano, però avevo pensato di usare comunque il coltello perché era l'unica arma che avevo a disposizione in casa", ha messo a verbale l'adolescente. «Se ci avessi pensato di più non l'avrei mai fatto, perché è una cosa assurda», ha aggiunto. Ferocia e premeditazione Il racconto della strage è avvenuto durante l'interrogatorio di un'ora e mezza nel carcere minorile Beccaria di Milano, al termine del quale la gip Laura Margherita Pietrasanta ha convalidato l'arresto e disposto la custodia cautelare detentiva, con la possibilità di trasferimento anche in altro istituto penitenziario minorile. La giudice ha evidenziato la «singolare ferocia e l'accanimento nei confronti delle vittime», ma anche la «preordinazione dei mezzi» e la «propensione a cambiare e aggiustare la versione dei fatti». Oltre alla «pericolosità sociale» e alla sua «incapacità a controllare i propri impulsi». Da qui il pericolo di reiterazione del reato, ossia che possa ancora uccidere, e pure la conferma del quadro accusatorio, nell'inchiesta dei carabinieri e della procuratrice facente funzione Sabrina Ditaranto e della pm Elisa Salatino, e dell'imputazione di triplice omicidio pluriaggravato anche dalla premeditazione. L'enigma del movente Riguardo all'enigma sul movente, le parole del giovane girano ancora attorno a quel malessere per il quale lui voleva trovare una «soluzione». Ha raccontato che già da «qualche anno» aveva maturato «l'idea di vivere più a lungo delle persone normali, anche per conoscere il futuro dell'umanità» e aveva iniziato a «sentirsi un estraneo». Aveva pensato di scappare, di andare in Ucraina, ma non gli sembravano soluzioni utili per il suo «scopo». La strage causata dal «malessere» «Volevo proprio cancellare tutta la mia vita di prima", ha cercato di chiarire il ragazzo, dicendo, però, pure che non ce l'aveva con la famiglia nello specifico. «È da quest'estate che sto male, ma già negli anni scorsi mi sentivo distaccato dagli altri. Forse il debito in matematica può avere influito». Sentiva, comunque, la pressione della famiglia. E ancora: «Ogni tanto i miei genitori mi chiedevano se c'era qualcosa che non andava, perché mi vedevano silenzioso, ma io dicevo che andava tutto bene». Percepiva «gli altri come meno intelligenti e spesso non mi trovavo bene in certi ragionamenti o ritenevo che si occupassero e preoccupassero di cose inutili». Le ultime parole del padre Negli atti si legge tutta l'atroce ricostruzione della strage. «I miei genitori - ha affermato - sicuramente mi hanno parlato chiedendomi cosa fosse successo e perché avessi l'arma in mano. Io però non ricordo se li ho colpiti anche in camera loro». Sono stati «svegliati dalle urla di mio fratello». Nelle relazioni degli esperti il giovane ha detto che lui pensava «alle guerre e mi commuovevo pensando a queste situazioni», mentre «questo non lo vedevo in amici e familiari». La testimonianza del nonno materno Il nonno materno, che testimoniando ha parlato di una «famiglia perfetta» all'apparenza e che ora può incontrarlo con gli altri familiari, ha spiegato che il nipote gli ha detto che l'aveva fatto perché voleva «lasciare i beni materiali» e lui aveva inteso che voleva «staccarsi dai genitori». Gli ha chiesto pure perché se la fosse presa anche col fratello di 12 anni, fino ad ucciderlo, e il 17enne ha risposto: «Non sarei riuscito ad abbandonarlo».
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… venne aggredito fisicamente dai quattro poliziotti, i quali lo percossero ripetutamente con l’uso di manganelli e con calci. E, una volta schiacciato a terra il ragazzo, i quattro agenti continuarono a infierire su …, che si dibatteva: uno lo colpiva alle gambe con il manganello, altri due lo tenevano schiacciato, mentre un quattro lo continuava a percuotere; quindi i quattro poliziotti immobilizzarono il … tenendolo steso a terra supino, lo girarono quindi a forza in posizione prona e lo ammanettarono”.
La descrizione che abbiamo sopra riportato è contenuta nella sentenza della Cassazionesulla morte di Riccardo Magherini (IV sezione penale, sentenza 29 novembre 2018, n. 2189), ma non si riferisce a Riccardo. E’ relativo alla vicenda fotocopia di Federico Aldovrandi.
Il caso presenta similitudini con alcune differenze: la polizia al posto dei carabinieri, l’assenza di testimoni (per Federico), l’età delle vittime. Le somiglianze sono però impressionanti: ammanettamento da dietro, posizione prona, morte per “meccanismi asfittici”.
Queste vicende non sono assimilabili per la Cassazione. La vicenda che ha portato a morte Riccardo Magherini è nota. Riccardo aveva assunto cocaina ed era in preda a una crisi eccitativa, chiedeva aiuto e ha avuto la sfortuna di incontrare una pattuglia di carabinieri, i quali lo hanno immobilizzato, ammanettato, messo in posizione prona in modo prolungato, con una condotta che ha portato a morte Riccardo.
Questi fatti sono incontestati dalla stessa Corte di cassazione che ha annullato il processo “senza rinvio”.
Cerchiamo di capire meglio. La Corte di cassazione opera un grado di giudizio di “legittimità” e non di “merito”: entra cioè a sindacare non il “fatto”, ma l’applicazione del “diritto”. Secondo la Cassazione “i vizi motivazionali della sentenza” sono relativi all’elemento soggettivo del reato e in particolare quelli relativi alla prevedibilità in concreto dell’evento dannoso”.
Ripercorriamo allora alcuni passaggi. Nella vicenda si è affermata la legittimità dell’intervento da parte dei carabinieri che non avevano altra possibilità se non intervenire immobilizzando Magherini che “era pericoloso per sé e per altri”. La Cassazione utilizza una vecchia e pericolosa espressione contenuta nella legislazione manicomiale dello scorso secolo, proprio nel quarantesimo anniversario della legge “Basaglia” che ha decretato la chiusura dei manicomi. Non potevano quindi non contenerlo.
Per la causa di morte di Riccardo Magherini è stata riconosciuta una “tripartizione causale”:
1- intossicazione acuta da cocaina;
2- immobilizzazione da parte delle forze dell’ordine nel tentativo di contenerlo;
3- la posizione prona in cui era stato tenuto da quando era ammanettato.
Non è stato riconosciuto invece alcun nesso causale tra i “due calci sferrati al Magherini da uno dei carabinieri imputato e l’evento morte”. Non c’è stata una “compressione toracica” bensì una “compressione di posizione”. E’ vero, si legge negli atti, che i testimoni hanno riferito della presenza di un carabiniere “a cavalcioni”, ma era posizionato nella zona lombosacrale e non in quella toracica. Le fratture costali e sternali riscontrate in autopsia sono state causate dalla rianimazione cardiopolmonare e non dai colpi inferti.
Il comportamento dei carabinieri
I carabinieri, lo abbiamo visto, lo hanno ammanettato “da dietro” e posto in posizione prona.
Era la prassi in uso all’Arma. A gennaio di quell’anno, però, erano state emanate, dalla stessa Arma dei Carabinieri, linee guida e istruzioni operative da applicarsi nei confronti di “soggetti in stato di agitazione psicofisica conseguente a patologie o causato dall’abuso di alcool e/o sostanze stupefacenti” dove si avvertiva del pericolo della compressione toracica in caso di immobilizzazione a terra.
La data di emanazione delle linee guida (30 gennaio 2014), pur precedente alla morte di Riccardo (3 marzo 2014), non era ancora “conosciuta” e non erano stati fatti i relativi corsi di formazione.
Né si poteva pretendere che i carabinieri “dovessero fare appello alla propria eventuale conoscenza personale, perché ciò avrebbe significato consentire che il personale militarmente organizzato potesse disattendere ordini superiori in applicazione di proprie conoscenze, con il conseguente rischio di condotte arbitrarie”.
L’affermazione lascia basiti: essendo il carabiniere un militare applica gli ordini, anche se il suo livello di cultura personale lo potrebbe portare a disattendere tali disposizioni, anche laddove i comportamenti ordinati siano tali da mettere in pericolo di vista le persone che sono sotto la loro “protezione” (tecnicamente obblighi di garanzia e protezione). La “condotta arbitraria”, in questo caso, sarebbe dunque la salvaguardia della vita della persona, da non preferirsi rispetto al rischio di “condotte arbitrarie” che rischiano di destabilizzare l’assetto di un’organizzazione militare. Per l’ordine costituito si può sacrificare una vita umana.
L’elemento psicologico del reato
Il reato contestato ai carabinieri era di omicidio colposo che si ha quando l’evento non è voluto (altrimenti è doloso) “e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.
In questi casi bisogna individuare, per affermare la colpevolezza, quale regola cautelare generica (negligenza, imperizia e imprudenza) o specifica (inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline) hanno in concreto violato i carabinieri.
Qui c’è il cuore di tutta la sentenza. Ai carabinieri non era stato contestato, nei precedenti gradi di giudizio, il comportamento iniziale (la contenzione a terra in posizione prona), ma di avere proseguito l’immobilizzazione in quella posizione anche dopo “il placarsi delle sue grida e l’affievolimento della voce e l’assenza dei movimenti che potevano significare una grave sofferenza asfittica e non giustificavano il permanere immobilizzato in posizione prona”.
I carabinieri escono fuori da questa vicenda in quanto non erano a conoscenza della nuova circolare (niente inosservanza di regole cautelari specifiche, quindi), né sono stati negligenti in quanto il grado della “prevedibilità dell’evento” deve essere rapportato al livello del “modello di agente” e quindi della cultura media di un carabiniere, il quale è privo di “competenze mediche”. Per la Corte di appello – che aveva confermato la condanna del Tribunale di Firenze – “non occorreva possedere cognizioni mediche per sapere che la posizione prona rende difficile la respirazione”. Ebbene questa affermazione per la Cassazione è “fuorviante” in quanto della gravità del fatto non si era accorta neanche la volontaria della Croce Rossa (attenzione: volontaria! non una operatrice sanitaria) e quindi a maggior ragione non se ne potevano accorgere i carabinieri.
Assolti, dunque, per ignoranza “perché il fatto non costituisce reato”. Fosse accaduto qualche mese dopo – o accadesse oggi- i carabinieri sarebbero condannati in quanto a conoscenza della nuova circolare che avvertiva della pericolosità dell’immobilizzazione in posizione prona. Ecco allora forse la colpa maggiore di Riccardo Magherini: non l’assunzione di cocaina, ma essere morto nel mese sbagliato.
Conclusioni
Le motivazioni della Cassazione lasciano senza parole in una Paese, come il nostro, dove il favor verso le forze dell’ordine che commettono reati – un esempio per tutti il G8 di Genova – è profondamente radicato.
Sui calci in faccia a Riccardo Magherini, immobilizzato e ammanettato a terra in posizione prona, si parla solo per escluderne il nesso di causa con la morte. Su certa cultura che genera i comportamenti violenti si sorvola: ricordiamo che uno degli imputati, nei Social si presentava e si presenta con il soprannome di “pistolero”.
E’ necessario manifestare una non rituale, solidarietà alla famiglia di Riccardo, sostenendo anche la raccolta fondi creata da Giulia Innocenzi (https://www.gofundme.com/magherini)per il ricorso alla CEDU (Corte europea dei diritti dell’uomo).
*Luca Benci
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Congo. La Pietra (FdI): cordoglio a famiglie vittime. Pensiero ad Arma Carabinieri registra vittima servitore dello Stato
Congo. La Pietra (FdI): cordoglio a famiglie vittime. Pensiero ad Arma Carabinieri registra vittima servitore dello Stato
“Oggi nel corso di un attacco a un convoglio umanitario Onu in Congo ha perso la vita l’ambasciatore italiano e un carabiniere della scorta. In attesa di avere maggiori elementi che consentano di chiarire la dinamica dell’attacco, esprimo il mio cordoglio alle famiglie delle vittime. E rivolgo il mio pensiero all’Arma dei Carabinieri che oggi purtroppo è costretta a registrare l’ennesima vittima,…
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LIBERO GRASSI - ucciso a Palermo dalla Mafia il 29 Agosto 1991.
Inizia tutto con un piccolo problema: il catenaccio del portone della fabbrica che non si apre perché qualcuno vi ha messo della colla, il furto di una macchina che viene ritrovata poco dopo, un piccolo incendio subito domato. Poi una telefonata al vostro numero privato in cui vi si dice che dovete stare attento, ma che avete degli amici che pensano a voi. Infine qualcuno vi si presenta davanti e vi dice che per stare tranquilli occorre un piccolo versamento, in contanti. Voi lo mandate via ma poi iniziano le telefonate di notte che vi dicono di stare attento. All’uscita di scuola, mentre prende i bambini vostra moglie viene avvicinata da qualcuno che le fa i complimenti per i piccoli e le dice che suo marito deve stare attento perché succedono tante cose fuori dalla scuola. A questo punto vi preoccupate e si presenta un vostro vecchio amico a cui confidate quello che vi sta succedendo e lui vi consiglia di pagare, che tutti pagano, anzi più sono quelli che pagano e meno si paga perché loro chiedono il “giusto” e pretendono poco. Vi telefonano di nuovo e voi dite che non volete pagare. A questo punto si brucia una macchina, o al mattino appena arrivate in azienda vi trovate delle pallottole sulla scrivania, oppure vi sparano contro una finestra e gli amici, mandati da qualcuno, vi implorano di pagare. Se pagate tutto si aggiusta. Anzi forse vi fanno vincere anche qualche appalto e quando l’azienda va bene vi dicono che dovete assumere qualcuno. E’ un favore. Non darà fastidio. Se accettate questa persona che viene in azienda, impara, conosce e quindi o vi fanno pagare di più, o ad un certo punto, vi dicono che dovete vendere, o vi trovate ad essere la marionetta di grandi giochi: appalti, rifiuti…..
Se rifiutate dall’inizio di pagare, si forma il vuoto attorno a voi. Tutti i vostri conoscenti vi evitano. Le telefonate si fanno più pressanti, qualcuno segue vostra moglie, qualcuno prende vostro figlio a scuola e ve lo fanno ritrovare dopo qualche ora. Non servono americanate o altre cose di Holywood come teste di cavallo nel letto. Basta circondarvi, assediarvi, basta ogni giorno esercitare su voi e la vostra famiglia un piccolo sopruso, ogni giorno sempre più grande. Se andate dai carabinieri, allora succede qualcosa a voi o a qualcuno dei vostri. Se fate casino e vi lamentate con i giornali o la televisione, una qualsiasi sera per strada, o in una qualsiasi mattina di una giornata d’agosto vi vengono dietro e alle spalle e vi sparano. Non ci vuole niente, non costa nulla, si da un esempio a tutte le altre pecore che vorrebbero alzare la testa. È la regola. Gli amici diranno che avete sbagliato. L’associazione commercianti o industriali dirà che avete sbagliato, che avete esagerato, che avevate mania di protagonismo. La polizia incomincerà ad indagare, come sempre.
Questo è successo a Libero Grassi, morto in silenzio, in un mattino d’agosto, perché non voleva pagare per non cedere ad altri il senso della sua vita, perché non credeva in poteri diversi da quelli dello stato, perché non poteva accettare i soprusi e le coercizioni imposti da leggi nascoste a cui nessuno ha il coraggio di ribellarsi pagando in silenzio, diventando complici paganti, vittime eterne del male. Lui affrontò questo male dicendo di no, e questo no era la sola arma che aveva, la sola difesa che poteva usare per la sua famiglia, per gli altri imprenditori come lui, per una società malata di cui era uno dei pochi anticorpi sani.
It all starts with a small problem: the lock of the factory door that does not open because someone has put some glue inside; the theft of a car that is found shortly after; a small fire just tamed. Then a phone call to your private number telling you that you have to be careful, but that you have friends who think of you. Finally, someone comes up to you and tells you that you need to pay a small cash in order to stay calm. You send it away but then start the phone calls at night telling you again to be careful. At school, while taking to the children your wife is approached by someone who compliments her for the little ones and tells her that her husband must be careful because so many things happen outside the school. At this point, you are worried and your old friend shows up to listen what is happening and he advises you to pay, that everyone is paying, indeed the more people are paying and the less they pay because “the hidden people” ask the “right”, they claim only a little. They call you back and you tell them that you do not want to pay. At this point you car burn, or in the morning you come to the farm and find some bullets on the desk, or somebody shoot at a window; a friend, sent by someone, beg you to pay. If you pay everything will be adjusted. Indeed, perhaps you also win some contracts, and when the company will make money, “they” will tell you have to hire someone. It’s a favor. It will not bother you. If you accept this person who comes to the farm, learns, knows and than you will be request to pay more, or at some point “they” tell you that you have to sell the company, or you became the puppet of great games: building, waste …
If you refuse to pay, around you every one disappears. All your acquaintances will avoid you. Phone calls become more pressing, someone follows your wife, someone takes your child to school and makes it back in a few hours. We aren’t in Americans or in Holywood things like horse heads in bed are only for the movie. It is enough to surround yourself, besieging you every day keep your family a little overwhelmed, every day, as much as possible. If you go to the police, then something happens to you or to some of yours. If you make noise and complain to newspapers or television, in the evening, one day, on the street, or in the morning of a new August day, they come and behind you “they” shoot. It does not taketoo much time, it costs nothing, is an example to all the other sheep that would want to raise their heads. It’s the rule. Your friends will say that you were wrong. The Merchants Union or Industrial Association will say that you were wrong, that you have exaggerated, that you have been proud of your self. The police will start investigating, as always.
This happened to Libero Grassi, he dead in silence on a August morning, because he did not want to pay for not giving way to others the sense of his life, because he did not believe in a different power than those of the State, because he could not accept the abuses and the coercion imposed by hidden laws to which no one has the courage to rebel by paying in silence, becoming paying accomplices, eternal victims of evil. He faced this evil by saying no, and this was not the only weapon he had, the only defense he could use for his family, for other entrepreneurs like him, for a sick society he was one of the few healthy antibodies.
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30 set 2020 15:30 "C'HANNO UN'ORGANIZZAZIONE SPAVENTOSA! STANNO NEI TRIBUNALI! I RISTORANTI DI ROMA SONO TUTTI LORO! TUTTI!" - LE MANI DELLA CAMORRA SUI RISTORANTI DI ROMA, I SODALI AL TELEFONO SUL CAPOCLAN ANGELO MOCCIA: “IL BOSS COMANDA UN ESERCITO, HA 110 OMICIDI SULLE SPALLE, PIÙ PROCESSI DI RIINA”. L’OSSESSIONE SFRENATA PER IL LUSSO E LE 33 FERRARI A MONTECARLO - IL BLITZ CONTRO IL CLAN MOCCIA, 13 ARRESTI. SOTTO USURA ALMENO 3 PERSONE TRA CUI IL FIGLIO DI GIGI D'ALESSIO...
Emilio Orlando per leggo.it
I tentacoli della camorra si espandono sempre più e non mollano quella presa che sta stritolando l’economia nella Capitale. La criminalità organizzata, quella del potente clan campano dei Moccia partito da Afragola, nel Napoletano, infatti ha cambiato pelle e acquistato aziende che erano già state poste sotto sequestro.
I colletti bianchi del clan si sono mossi esattamente come i personaggi di Gomorra, chi non voleva cedere era “avvertito” con colpi di arma da fuoco contro i segnali stradali della zona. Come dire: i prossimi proiettili non saranno puntati qui ma su altri bersagli.
Ieri però l’ennesimo blitz anticrimine che ha portato in manette 13 persone accusate di estorsione, intestazione fittizia di beni, aggravati dal metodo mafioso ed usura. L’applicazione del nuovo codice antimafia e delle misure di prevenzione ha permesso il sequestro di 14 ristoranti del centro storico e della zona intorno a San Pietro e di un appartamento ai Parioli. “Bombolone”, “Varsi Bistrot”, “Panico”, “La scuderia” e “Da Giovanni” alcuni dei locali finiti sotto amministrazione giudiziaria.
Nell’ordinanza di custodia cautelare che ha accompagnato in carcere otto degli indagati e cinque ai domiciliari, il giudice per le indagini preliminari Rosalba Liso ha evidenziato come in clan Moccia garantiva prestiti a Claudio D’Alessio, figlio del cantante Gigi.
Nell’informativa dove il pubblico ministero Ilaria Calò ed i detective del nucleo investigativo del comando provinciale dei carabinieri hanno ricostruito anche l’avanzata criminale del sanguinoso clan originario di Afragola, emerge come i Moccia tenevano sotto strozzo almeno 3 persone, fra cui D’Alessio jr. Lo spessore criminale della famiglia campana legata al clan Senese, che nei primi anni ‘70 si stabilì tra Tor Bella Monaca ed il Tuscolano, era rafforzato dai rapporti che avevano con Domenico Pagnozzi (detto il “professore”) e Salvatore Zaza.
In manette sono finiti: Luigi, Angelo, Eleonora e Gennaro Moccia, Carminantonio Capasso, Francesco e Andrea Varsi, Mauro Esposito, Guido Gargiulo, Antonio Cosmini, Eugenio Cappellaro e Carmela De Luca.
MARCO CARTA per il Messaggero
«Ti dico solo una cosa, tu lo sai che Angelo c'ha un esercito a disposizione? Questi ci ammazzano se qualcosa non va bene». Violenza, paura. E un'ossessione sfrenata per il lusso: «Questo c'ha 33 Ferrari a Montecarlo!»». È soprattutto dalle intercettazioni fra i sodali che emerge il potere intimidatorio del clan Moccia, capace di esercitare il terrore su chiunque intralciasse il loro business o non rispettasse i patti. «Pensa di giocà, ma questi, questi ti ammazzano! Ti ammazzano».
Al centro della piramide di paura c'è il boss Angelo Moccia, uno da cui stare alla larga, al cui confronto anche i clan corleonesi devono impallidire: «Hanno migliaia di persone affiliate. Angelo c'ha centodieci omicidi sul groppone, c'ha avuto seicento magistrati che l'hanno giudicato, Totò Riina ne ha avuti quattrocento... che questi ci ammazzano se qualcosa non va bene, cioè non sto a scherza!».
A parlare è uno dei sodali, l'imprenditore Guido Gargiulo, che teme possano sorgere dei problemi proprio con Moccia nella gestione di una delle società al centro dell'inchiesta, la Cooperativa Serena.
Ed è sempre Gargiulo, in un'altra intercettazione del febbraio 2018, a raccontare come il clan grazie a una rete di prestanome avesse ripreso il controllo di 5 ristoranti finiti sotto sequestro nei mesi precedenti. «C'hanno un'organizzazione spaventosa! Spaventosa! Stanno nei Tribunali! I ristoranti di Roma sono tutti loro! Tutti!».
Quando un imprenditore del settore auto, Angiolo Crivellari, ha la necessità recuperare alcune macchine di grande valore, tra cui una Bentley e una Ferrari, Gargiulo si offre di fare da intermediario con Moccia, ma subito lo mette in guardia: «Allora, prima di mettersi in mano loro... è gente molto seria. È gente che tu sarai un uomo ricchissimo, ma questi c'hanno più soldi di tutta Italia messi insieme, quindi... però è una mentalità, sono proprio così... prima di affidargli una cosa, io vorrei che tu fossi sicuro». Gargiulo, poi cerca di dare una definizione del potere del clan: «non economico, né mafiosi ... né cani... proprio un potere ... pesan te».
Angelo Moccia viene informato della vicenda. Ma invece di cercare soluzioni inizia a fare sfoggio del suo parco auto, che comprende diverse Ferrari: «Se vuole una F40 io ce l'ho! Però, meno di un milione e tre non le vendo!», dice Moccia che poi aggiunge. «C'ho una RS3 Porsche del 90.. . trecentomila euro gliela dò. C'ho un F12, targato F12 e immatricolato il 12, 12, 2012.
Cioè per chi è collezionista è». Ci sono poi le vittime, come l'imprenditore Marco De Sanctis, ex presidente del Mantova Football Club, che non riesce a restituire a Gennaro Moccia un prestito di 20mila euro. De Sanctis è stufo di pagare: «gli ho dato centoventi su cento, praticamente vuole sempre di più». E in una conversazione con Claudio d'Alessio del novembre 2017 spiega di aver consegnato già 18mila e 700 euro, oltre al capitale già restituito.
Ma Moccia non gli da «respiro». Tanto che De Sanctis, nel dicembre 2017, inizia a temere per la sua incolumità: «Non l'incontro più, perché questo poi alla fine, prima o poi, me tira un'imboscata. Ma come ce devo veni all'appuntamento armato?».
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Un fuciliere dell' Aeronautica Militare Italiana (F.C. di anni 36), in servizio presso il Comando di Martina Franca (Taranto), si toglie la vita in circostanze ancora da chiarire. Le indagini condotte dai carabinieri della locale stazione conducono ad un vicolo cieco, nessuna dichiarazione ancora rilasciata dall' Arma Azzurra, nessun commento da parte dei colleghi del militare. Una STRAGE SILENZIOSA che miete vittime ogni giorno, una strage che ad oggi conta un centinaio di suicidi tra le schiere delle forze armate e di polizia italiane, un dato unico in Europa. In quanto sindacalista e giornalista militare, in difesa dei diritti del personale in divisa, non ho mai smesso di sperare che gli organi di vertice trovassero il coraggio di aprire un tavolo tecnico, finalizzato allo studio e alla risoluzione di tale fenomeno. Da legale militare non posso non evidenziare come il Ministero della Difesa, oggi presieduto dell' On. Guerini, si opponga fermamente nel trovare un punto di incontro con le esigenze e/o problematiche familiari e personali dei militari, altresì come lo stesso Ministero rifiuti il confronto con le Associazioni e Sindacati Militari. Tante le istanze di conferimento gerarchico, rigettate dopo <<centottanta giorni>> senza motivo alcuno, centinaia le domande di trasferimento per gravi motivi familiari non trasmesse o non accolte: "...UN NESSO CON I SUICIDI MILITARI!?" Maresciallo Avv.P Guido Mazzarella Sindacalista Militare TUTELA FORZE ARMATE https://www.instagram.com/p/CBzhWf3FGyu/?igshid=1a6bbgwzrz6ma
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CUNEO. POLIZIA DI STATO. 7 ARRESTI NEL CUNEESE PER I FURTI IN ABITAZIONE.
CUNEO. POLIZIA DI STATO. 7 ARRESTI NEL CUNEESE PER I FURTI IN ABITAZIONE.
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Usavano pettorine, cappelli e tesserini di riconoscimento falsi delle Forze dell’ordine per ottenere la fiducia delle vittime e, successivamente, poter compiere il colpo.
Per questo motivo 7 uomini sono stati arrestati nei comuni di Magliano Alpi (Cuneo), di Trinità (Cuneo) frazione San Giovanni Perucca e di Modena durante un’operazione congiunta tra Polizia di Stato e Arma dei carabinieri.
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una morte dignitosa loro non l hanno avuta
Anni 1990 Vincenzo Miceli (23 gennaio 1990), geometra e imprenditore di Monreale, ucciso per non aver voluto pagare il pizzo. Giovanni Trecroci (7 febbraio 1990), vicesindaco di Villa San Giovanni. Emanuele Piazza (16 marzo 1990), agente di polizia strangolato e sciolto nell'acido. Giuseppe Miano (18 marzo 1990), mafioso pentito. Nicola Gioitta (21 marzo 1990), gioielliere. Gaetano Genova (30 marzo 1990), vigile del fuoco sequestrato e ucciso perché ritenuto un confidente della polizia. Il suo corpo verrà ritrovato 8 anni dopo in seguito alle dichiarazioni del pentito Enzo Salvatore Brusca. Giovanni Bonsignore, (9 maggio 1990), funzionario della Regione Siciliana. Rosario Livatino (21 settembre 1990), giudice di Canicattì (AG). Giovanni Salamone (12 gennaio 1991), geometra, imprenditore edile e consigliere comunale di Barcellona Pozzo di Gotto. Nicolò Di Marco (21 febbraio 1991), geometra del comune di Misterbianco (CT). Sergio Compagnini (5 marzo 1991), imprenditore. Antonino Scopelliti (9 agosto 1991), giudice. Libero Grassi (29 agosto 1991), imprenditore attivo nella lotta contro le tangenti alle cosche e il racket. Serafino Ogliastro (12 ottobre 1991), ex agente della polizia di Stato. Ucciso a Palermo da Salvatore Grigoli con il metodo della lupara bianca perché i mafiosi di Brancaccio sospettavano fosse a conoscenza degli autori dell'omicidio di un mafioso, Filippo Quartararo. Al processo, Grigoli si autoaccusava dell'omicidio indicando altri 7 complici. Salvo Lima (12 marzo 1992), uomo politico democristiano, eurodeputato ed ex sindaco di Palermo strettamente legato alla mafia, sebbene non direttamente affiliato a nessuna famiglia, costituisce il trait-d-union tra Cosa Nostra e i livelli alti dello Stato, quali, tra gli altri, Giulio Andreotti. Salvatore Colletta e Mariano Farina (31 marzo 1992), due ragazzi di 15 e 12 anni scomparsi che si ritiene siano stati vittime di "lupara bianca"[senza fonte]. Giuliano Guazzelli (4 aprile 1992), maresciallo dei carabinieri. Paolo Borsellino (21 aprile 1992), imprenditore ed omonimo del giudice Paolo Borsellino. Strage di Capaci (23 maggio 1992): Giovanni Falcone, magistrato; Francesca Morvillo, magistrato, moglie di Giovanni Falcone; Antonio Montinaro, agente di polizia facente parte della scorta di Giovanni Falcone; Rocco Dicillo, agente di polizia facente parte della scorta di Giovanni Falcone; Vito Schifani, agente di polizia facente parte della scorta di Giovanni Falcone. Il mafioso pentito Giovanni Brusca si autoaccusò di aver guidato il commando malavitoso che sistemò l'esplosivo in un tunnel scavato sotto un tratto dell'autostrada A29 all'altezza di Capaci e fu lui a premere il pulsante del radiocomando che causò l'esplosione, proprio nel momento in cui passavano le auto di scorta del giudice Falcone. Vincenzo Napolitano (23 maggio 1992), uomo politico democristiano, sindaco di Riesi. Strage di via d'Amelio (19 luglio 1992): Paolo Borsellino, magistrato; Emanuela Loi, agente di polizia facente parte della scorta di Paolo Borsellino (prima donna della Polizia di Stato a cadere in servizio[senza fonte]); Walter Cosina, agente di polizia facente parte della scorta di Paolo Borsellino; Vincenzo Li Muli, agente di polizia facente parte della scorta di Paolo Borsellino; Claudio Traina, agente di polizia facente parte della scorta di Paolo Borsellino; Agostino Catalano, agente di polizia facente parte della scorta di Paolo Borsellino. Dalle recenti indagini si è scoperto che i mandanti dell'attentato, messo in atto con un'autobomba parcheggiata sotto casa della madre del giudice Borsellino, vanno ricercati non solo all'interno di Cosa nostra ma anche negli ambienti della politica e dei servizi segreti deviati. Rita Atria (27 luglio 1992), figlia di un mafioso, muore suicida dopo la morte di Paolo Borsellino, con il quale aveva iniziato a collaborare. Giovanni Lizzio (27 luglio 1992), ispettore della squadra mobile. Ignazio Salvo (17 settembre 1992), esattore, condannato per associazione mafiosa e ucciso su ordine di Totò Riina per non aver saputo modificare in Cassazione la sentenza del maxiprocesso che condannò Riina all'ergastolo. Paolo Ficalora (28 settembre 1992), proprietario di un villaggio turistico. Gaetano Giordano (10 dicembre 1992), commerciante. Giuseppe Borsellino (17 dicembre 1992), imprenditore, padre dell'imprenditore Paolo Borsellino ucciso otto mesi prima, quest'ultimo omonimo del giudice Paolo Borsellino. Beppe Alfano (8 gennaio 1993), giornalista. Strage di via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993): Caterina Nencioni, bambina di 50 giorni; Nadia Nencioni, bambina di 9 anni; Angela Fiume, custode dell'Accademia dei Georgofili, 36 anni; Fabrizio Nencioni, 39 anni; Dario Capolicchio, studente di architettura, 22 anni. Strage di via Palestro a Milano (27 luglio 1993): Carlo La Catena, Sergio Pasotto, Stefano Picerno (vigili del fuoco); Alessandro Ferrari (agente di polizia municipale); Moussafir Driss (extracomunitario). Pino Puglisi (15 settembre 1993), sacerdote, impegnato nel recupero dei giovani reclutati da Cosa Nostra nel quartiere Brancaccio a Palermo, controllato dalla famiglia Graviano. Viene beatificato il 25 maggio 2013. Cosimo Fabio Mazzola (5 aprile 1994), ucciso perché ex fidanzato della moglie del mafioso Giuseppe Monticciolo; la donna figlia del capomafia Giuseppe Agrigento, accettò di non sposare Mazzola perché non appartenente al suo ambiente. Liliana Caruso (10 luglio 1994), moglie di Riccardo Messina, pentito. Agata Zucchero (10 luglio 1994), suocera di Riccardo Messina, pentito. Calogero Panepinto (19 settembre 1994), fratello di Ignazio Panepinto, assassinato il 30 maggio dello stesso anno. Pietro Sanua (Corsico, 4 Febbraio 1995) Domenico Buscetta (6 marzo 1995), nipote del pentito Tommaso Buscetta, ucciso da Leoluca Bagarella. Carmela Minniti (1º settembre 1995), moglie di Benedetto Santapaola, detto Nitto, boss catanese. Pierantonio Sandri (3 settembre 1995), giovane di Niscemi, sequestrato e ucciso perché testimone di atti intimidatori, il corpo occultato è stato recuperato 14 anni dopo, in seguito alle rivelazioni di un pentito. Paolo De Montis (21 settembre 1995), Finanziere Mare, originario di Santa Giusta (OR), venne ucciso e il suo corpo abbandonato presso la discarica di Bellolampo, poco fuori Palermo. Serafino Famà (9 novembre 1995), avvocato penalista catanese, ucciso a pochi passi dal suo studio perché era un esempio di onestà intellettuale e professionale. Giuseppe Montalto (23 dicembre 1995), agente di custodia dell'Ucciardone, ucciso per ordine del boss Vincenzo Virga. Giuseppe Di Matteo (11 gennaio 1996), figlio del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, ucciso e disciolto in una vasca di acido nitrico. Luigi Ilardo (10 maggio 1996), cugino del boss Giuseppe Madonia, ucciso poco prima di divenire un collaboratore di giustizia. Santa Puglisi (27 agosto 1996), giovane vedova ventiduenne di un affiliato a un clan mafioso, picchiata e uccisa nel cimitero di Catania insieme al nipote Salvatore Botta di 14 anni. Antonio Barbera (7 settembre 1996), giovane di Biancavilla (CT), massacrato a diciotto anni con una decina di colpi di pistola in testa, in un agguato in "contrada Sgarro" (Catania). Gli omicidi non hanno ricevuto alcuna condanna dal processo, celebrato nell'aula bunker del carcere "Bicocca" di Catania; il processo è stato celebrato anche in Corte d'appello e in Cassazione, senza che la famiglia del ragazzo venisse informata. Antonino Polifroni (30 settembre 1996), imprenditore di Varapodio (RC), assassinato perché non aveva ceduto ai ricatti e alle estorsioni mafiose. Giuseppe La Franca (4 gennaio 1997), avvocato, assassinato perché non voleva cedere le sue terre ai fratelli Vitale. Giulio Giuseppe Castellino (25 febbraio 1997), Ferito gravemente alla testa con colpi di arma da fuoco il dott. Giulio Giuseppe Castellino, dirigente del Servizio d'igiene pubblica presso la Usl di Agrigento. Castellino è stato per oltre un decennio ufficiale sanitario a Palma di Montechiaro (AG), dove abitava. Consigliere Comunale ed Assessore nel Comune di Palma di Montechiaro per diverse volte. Nel novembre 1997 furono sparati colpi di lupara contro il portone della sua abitazione. Castellino spirerà il 25 febbraio.[4] Gaspare Stellino (12 settembre 1997), commerciante, morto suicida per non deporre contro i suoi estorsori Giuseppe Lo Nigro[5] (1º dicembre 1997), imprenditore edile, scomparso da Altofonte, in provincia di Palermo ancor'oggi di lui nessuna traccia. Domenico Geraci (8 ottobre 1998), sindacalista di Caccamo, in provincia di Palermo, la cui morte è, ancor'oggi, ignota. Stefano Pompeo (22 aprile 1999), ragazzo ucciso per errore al posto di un potente boss locale. Filippo Basile (5 luglio 1999), funzionario della Regione Siciliana. Sultano Salvatore Antonio (21 luglio 1999), ragazzo ucciso per sbaglio dentro una sala da barba nel quartiere San Giacomo a Gela in provincia di Caltanissetta.
Vincenzo Vaccaro Notte[9] (3 novembre 1999), imprenditore di Sant'Angelo Muxaro (AG), assassinato perché non accettava i condizionamenti mafiosi UNA MORTE DIGNITOSA LORO NON L'HANNO AVUTA
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Polizia di Stato, La Sapienza Università di Roma, ASL Roma 1 e Fondazione ANIA uniti per la sicurezza stradale
Centro di eccellenza per la Sicurezza Stradale: primo progetto pilota sul territorio nazionale, che mette a frutto competenze trasversali in materia di sicurezza stradale, grazie alla collaborazione tra la Polizia di Stato, La Sapienza Università di Roma, ASL Roma 1 e Fondazione ANIA. È stato presentato oggi presso il Palazzo del Commendatore, a Roma, il Centro di Eccellenza sulla Sicurezza Stradale, che rende operativo il protocollo sottoscritto dal Capo della Polizia Direttore Generale della Pubblica Sicurezza Prefetto Franco Gabrielli, dal Rettore dell´Università di Roma La Sapienza, Eugenio Gaudio, dal Direttore della ASL Roma 1 Angelo Tanese e dal Presidente della Fondazione ANIA Maria Bianca Farina. Operare sul tema della prevenzione per ridurre l'incidentalità e su quello della sensibilizzazione verso il rischio stradale: questo l'obiettivo su cui convergono i protagonisti con competenze diverse, uniti in una task force congiunta che metterà a sistema esperienze e dati per ricavare un modello predittivo dei comportamenti e dei profili di rischio, che possa abbattere il numero di incidenti stradali. Dopo un´incessante diminuzione delle vittime dal 2001 al 2014, nell´ultimo quinquennio l´andamento del fenomeno infortunistico è divenuto "altalenante" senza, purtroppo, riuscire mai a scendere sotto la soglia delle 3.000 vittime l´anno. Anche il dato parziale, così come risulta dalle statistiche dell´attività della Polizia di Stato e dell´Arma dei Carabinieri, relativo ai primi 11 mesi del 2019, mostra un andamento analogo a quello dell´anno precedente, con 1.492 deceduti (il 3% in meno del 2018 che aveva fatto registrare 1.538 vittime). La complessità del fenomeno infortunistico richiede oggi nuove e più incisive forme di partenariato che possano determinare un´effettiva cooperazione tra partner pubblici e i privati, in vista di sinergie che mettano a fattor comune competenze tecniche, ingegneristiche, di analisi statistiche e psicologiche, con l´obiettivo finale di costruire modelli preventivi del fenomeno dell´incidentalità su strada. In quest´ottica, il Centro di ricerca e formazione si pone l´obiettivo di elevare il livello di sicurezza sulle strade che si declina con una mirata e studiata attività di comunicazione, di comprensione del fenomeno infortunistico in relazione alle cause di inidoneità fisica dei conducenti e di elaborazione e produzione di dati scientifici sul fattore umano alla base degli incidenti stradali, nel solco degli indirizzi che la Commissione Europea ha tracciato in vista della riduzione della mortalità e della lesività sulle strade. I dati sugli incidenti stradali, frutto di un monitoraggio accurato, saranno incorporati in un database in forma anonima che potrà consentire un valido ausilio per la pianificazione di azioni di contrasto mirate. Ognuno dei partner del Centro è in possesso di specifiche competenze ed esperienze sui temi connessi alla sicurezza stradale, e da anni ha sviluppato sul tema progetti innovativi di carattere nazionale ed internazionale. Alcuni di questi vedono già sinergie consolidate tra la Polizia di Stato, la Sapienza Università di Roma e la Fondazione Ania, che insieme hanno curato i progetti "ICARO", la campagna di educazione stradale che dal suo avvio ha raggiunto oltre 600.000 studenti delle scuole di ogni ordine e grado di tutto il territorio italiano, "Chirone" ed "Ania Cares", dedicati all´assistenza psicologica alle vittime di incidenti stradali e ai loro familiari, mentre con l´Azienda Sanitaria Locale Roma 1 è stato attuato il protocollo operativo siglato con la Procura Generale di Roma e la Regione Lazio, in applicazione delle legge sull´omicidio stradale. Nell´ambito delle attività del Centro saranno pianificate anche iniziative di prevenzione rivolte ai cittadini o a specifici target, come scuole, centri anziani e luoghi di lavoro, alle quali sarà affiancata una capillare attività di formazione rivolta al personale sanitario e alle forze di polizia che sono chiamate a intervenire prestando il primo soccorso psicologico alle vittime dirette e indirette degli incidenti. Una forte sinergia, quindi, per il modello multifattoriale dedicato alla prevenzione degli incidenti stradali e alla promozione della salute legata ai comportamenti su strada. Read the full article
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L’Arma dei Carabinieri aderisce all’iniziativa “Orange the World”, la campagna di sensibilizzazione per dire NO alla violenza contro le donne, promossa dalle Nazioni Unite e sostenuta dal Soroptimist International
Alessandria – Il 25 novembre, in occasione della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 54/134 del 17 dicembre 1999, ha avuto inizio la campagna
Alessandria – Il 25 novembre, in occasione della “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite con la risoluzione 54/134 del 17 dicembre 1999, ha avuto inizio la campagna internazionale “Orange the World”, che prevede fino al 10 dicembre, “Giornata Internazionale dei Diritti Umani”, lo svolgimento di iniziative…
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S.S.106 CROPANI: L'ASSOCIAZIONE PRESENTA UN ESPOSTO
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S.S.106 CROPANI: L'ASSOCIAZIONE PRESENTA UN ESPOSTO
ESPOSTO E ISTANZA IN AUTOTUTELA PRESENTATO DALL’ASSOCIAZIONE CHE NON ESITERÀ AD INTRAPRENDERE AZIONI LEGALI NEI CONFRONTI DELLE ISTITUZIONI E DEGLI ENTI CHE HANNO RESPONSABILITÀ SULLA S.S.106 NEL COMUNE DI CROPANI
L’Associazione “Basta Vittime Sulla Strada Statale 106” rendo noto che nella giornata di oggi ha presentato formalmente un Esposto avverso al comune di Cropani (CZ), in merito alle competenze specifiche sul tratto di strada Statale 106 nel tratto compreso tra il km 206+00 ed il km 207+500 ed istanza in autotutela.
L’Esposto è stato presentato presso la competente Procura della Repubblica di Catanzaro ed è stato inviato per conoscenza anche al Prefetto di Catanzaro, al Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica, alla Segreteria del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, alla Direzione Generale per le Strade e le Autostrade e per la Vigilanza e la Sicurezza nelle Infrastrutture Stradali ed alla Direzione Generale per la Sicurezza Stradale del Ministero delle Infrastrutture, alla Direzione Generale ed al Compartimento di Catanzaro dell’Anas Gruppo FS Italiane, al Comune di Cropani ed alla Stazione della Benemerita Arma dei Carabinieri di Cropani.
Nell’esposto, l’Associazione, a seguito della morte del giovane diciottenne Raffaele Gnutti, esattamente dopo un anno in cui non ha ottenuto alcuna risposta, denuncia l’assenza di illuminazione presente a monte dello svincolo pericolosissimo per Viale delle Serre a causa del fatto che nessuno dei lampioni presenti sull’intera linea, di competenza esclusivamente comunale, è illuminato. Addirittura, in alcuni casi sono stati divelti i pali… Nonostante ciò, esiste ed è funzionante, il contatore Enel che versa in uno stato comatoso esattamente come la suddetta linea che non è, appunto, funzionante da anni.
L’Associazione ha rilevato che nessuno degli accessi lato mare e lato monte sono a norma. Nessuno di questi è autorizzato. L’anarchia, l’illegalità e l’irresponsabilità istituzionale ad ogni livello hanno, da decenni, compromesso una situazione esistente che negli anni ha determinato non poche vittime e feriti gravi nell’ambito dei tanti sinistri che nel tratto considerato hanno luogo regolarmente ed è per questo che è necessario intervenire con investimenti strutturali o dissuasori di velocità per regolamentare e mettere in sicurezza l’incolumità dei residenti e di tutti gli automobilisti che percorrono il tratto di S.S.106 in oggetto.
“Un esempio eclatante del decadimento delle Istituzioni e degli Enti responsabili – è scritto nell’esposto dell’Associazione – è quello che riguarda proprio il Km 206 dove è presente un ponte stradale che consente alle acque del Torrente Umbro che provengono da monte di arrivare fino al mare”. Qui, ogni qual volta si ha una piaggio particolarmente intensa, si ha l’esondazione del Torrente Umbro e le acque invadono regolarmente la carreggiata della strada Statale 106 provocando un serio e concreto pericolo ai cittadini automobilisti ed, inoltre, provocando danni, seppure lievi fino ad oggi e per fortuna, a cose e persone nell’area urbana di Cropani sottostante ed attigua al suddetto torrente.
L’Associazione, infine, ha denunciato anche l’assenza di un guardrail tra il Km 206+400 ed il Km 206+800, che separa la carreggiata stradale dall’uliveto esistente e l’illuminazione posta sulla S.S.106 ripristinata il 22 agosto 2019 ma già ieri, 25 agosto 2019, funzionante con solo 13 lampioni su 24 (ed i non funzionanti esattamente dove ha perso la vita il giovane Raffaele Gnutti).
Nell’esposto l’Associazione ha evidenziato che più volte è stato richiesto a Sua Eccellenza il Prefetto di Catanzaro (20 agosto 2018, 1, 4 e 11 ottobre 2018), sulle problematiche suddette, un tavolo in prefettura insieme agli Enti ed alle Istituzioni coinvolte atteso che, a Cropani, come è noto, non si ha una amministrazione democraticamente eletta ma un Commissario dedito alla ordinaria amministrazione. Tavolo che, purtroppo, non è mai stato istituito e nessuna risposta è stata ottenuta sui problemi sollevati dal Prefetto.
Pertanto, l’Associazione, dopo aver atteso un anno, attraverso il suo Presidente e responsabile legale ha inteso presentare un esposto affinché “laddove dovessero accadere danni a cose ed a persone, in riferimento alle criticità esistenti segnalate nel comune di Cropani sulla strada Statale 106 nel tratto di strada compreso tra i Km 206 e 208, l’Associazione, nei termini di legge, darà immediatamente inizio alle azioni legali presso tutte le opportune sedi al fine di ottenere giustizia e rintracciare le responsabilità del caso e per il risarcimento dei danni subiti e subendi a cose ed a persone”.
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Non è la prima volta che l’Arma dei Carabinieri è coinvolta in casi di stupro. Prima di Firenze ci fu l’abuso nella caserma del Quadraro,a Roma e in provincia di Padova L’ordinaria narrazione tossica, come in altre occasioni, questa volta si abbatte sulle due donne americane che hanno denunciato di essere state stuprate da due carabinieri, ora indagati, a Firenze. In fondo in fondo anche loro, come le tutte le altre, in qualche modo “se la sono cercata”. “Avevano bevuto”, “avevano fumato”, “non hanno urlato” addirittura il “Secolo XIX” ha riportato la bufala che “hanno inscenato il tutto per riscuotere i soldi dell’assicurazione”. Abbiamo così scoperto che comunque molte donne negli Stati Uniti si assicurano contro lo stupro, tant’è frequente. E’ vero, lo hanno ammesso, erano state in discoteca, avevano bevuto, fumato per questo il loro racconto potrà essere un po’ confuso. “Il giornale”, in uno strenuo tentativo di difendere l’Arma, ha addirittura insinuato che “Innanzitutto bisognerebbe capire se i carabinieri siano davvero tali; quanto le due avessero bevuto; se qualche millantatore non si sia presentato ai loro occhi ingannandole”. Ricordiamoci che abusare di una donna che “non è in sé” è un aggravante non un invito allo stupro. E se queste due giovani donne hanno avuto anche solo la percezione di essere stuprate quello è stupro. “Non hanno urlato”? Normalmente una donna che subisce violenza non riesce ad urlare, lo choc blocca le reazioni anche perché si teme per la propria vita. In questo caso poi abbiamo due uomini in divisa e armati, dei quali si fidavano e dai quali non si sarebbero mai aspettate un’aggressione. Ora si aspettato i referti sul Dna raccolto. Sicuramente dimostrerà che i due carabinieri sono responsabili. E allora comincerà il balzello sulla consenzienza. Infatti è di poche ore fa la notizie che uno dei due carabinieri indagati ha ammesso il rapporto sessuale con una delle due donne, ma “Non c’è stata violenza, è stato un rapporto consenziente”. Per fortuna l’avvocato di una delle due donne, Gabriele Zanobini, ricorda che la violenza sessuale “non si consuma solo con la violenza fisica o con la minaccia. Si consuma anche, e lo dice il codice penale, abusando delle condizioni di inferiorità psichica o fisica al momento del fatto. E le due ragazze erano in una situazione alterata, anche a causa dell’alcol. In questa fattispecie segnalata dal codice penale il non consenso è implicito”. L’Arma già coinvolta in casi di stupro Non è la prima volta che l’Arma passa alla cronaca per casi di stupri. Nel febbraio 2011, nella locale caserma dei carabinieri del Quadrato, a Roma, una donna di 32 anni denunciò di essere stata stuprata da 4 carabinieri e un vigile urbano mentre era in stato di fermo – rinchiusa in cella di sicurezza- con l’accusa di furto. Il vigile urbano Francesco Carrara e il carabiniere Vincenzo Cosimo Stano furono condannati con rito abbreviato a 4 anni, altri due carabinieri, Leonardo Pizzarelli e Alessio Lo Bartolo, rinviati a giudizio, e di loro si sono perse le tracce. Nell’aprile 2014 a Padova la squadra Mobile aveva bussato alla porta del suo appartamento all’Arcella, si pensava fosse un caso isolato. Nessuno poteva pensare che Dino Maglio, 38 anni ora, all’epoca carabiniere a Teolo, facesse rima con l’accusa di essere un violentatore seriale, nonostante la denuncia di una diciassettenne australiana che prima di tornare dall’altra parte del mondo aveva raccontato in questura di essere stata drogata e stuprata dall’uomo che ospitava lei e la madre a Padova. Da quel giorno, il diluvio. La denuncia della diciassettenne australiana che diventa una condanna a sei anni e mezzo e altre quattordici ragazze, tutte ospitate dal carabiniere che prendono coraggio e raccontano di essere state abusate da lui. Un’inchiesta arrivata al capolinea, con il pm Giorgio Falcone che nei giorni scorsi ha firmato la richiesta di rinvio a giudizio per Maglio, oggi ai domiciliari a Tricase, Lecce. Violenza sessuale aggravata, stato di incapacità procurato mediante violenza e concussione le accuse che potrebbero portare di nuovo a processo il militare dell’Arma, contro cui anche i vertici dei carabinieri hanno fatto causa per danno d’immagine davanti alla Corte dei Conti. Fatti, quelli racchiusi nella nuova richiesta di rinvio a giudizio, che vanno da marzo 2013 a marzo 2014, ben prima che il velo sulla doppia vita di Dino Maglio venisse squarciato dalla denuncia della diciassettenne australiana, il 17 marzo 2014. La nuova inchiesta racconta che nella rete del carabiniere – oltre alla studentessa australiana e a una ragazza americana che aveva denunciato le violenze alla polizia londinese di Scotland Yard – erano cadute giovani polacche, canadesi, portoghesi, ceche, tedesche, statunitensi e di Hong Kong che su Couchsourfing.com, la piattaforma web di affitto-camere, si erano fidate di «quel» Leonardo che offriva il suo appartamento all’Arcella a quante cercassero una stanza dove dormire durante il soggiorno a Padova e in Veneto. L’impressione all’inizio era buona e veniva rafforzata dal tesserino da carabiniere che Maglio mostrava alle sue ospiti per rassicurarle. Un clichè comune ad ogni denuncia, come comune era l’epilogo del loro soggiorno. Il carabiniere che preparava la cena e offriva alle ragazze il suo vino speciale (un mix di alcol e Tavor) per stordirle e abusare di loro. Accuse diventate il cardine dell’inchiesta bis e dei diciassette capi d’imputazione da cui il militare dovrà difendersi di fronte al giudice. Quattro gli stupri accertati dal racconto delle vittime mentre dieci ragazze non hanno saputo dire nulla di quanto successo dopo aver bevuto il vino offerto dal padrone di casa: una dimenticanza che comunque non ha giocato da salvacondotto per Maglio che per questi episodi è accusato di riduzione in stato di capacità delle dieci giovani. Su di lui anche l’accusa di concussione. In tre occasioni «in qualità di appartenente all’Arma dei carabinieri», scrive il pm Falcone nella richiesta di rinvio a giudizio, Maglio aveva ordinato alle sue ospiti di cancellare i commenti negativi su di lui postati su Couchsurfing. Se non lo avessero fatto lui, da carabiniere, le aveva minacciate che«avrebbe potuto raccogliere informazioni tramite i dati del passaporto e del cellulare, denunciando e creando problemi in tutta Europa, in caso di controlli di polizia». Accuse da cui Maglio si è sempre difeso raccontando agli agenti della Mobile e al magistrato che le ragazze erano sempre state consenzienti e lui non aveva mai violentato nessuna delle sue ospiti. A smentirlo però le indagini della procura, della polizia, il racconto di una giovane australiana e, prima di lei, quello di una studentessa americana. Dopo di loro, altre quattordici ragazze. Viene da chiedersi se e quanti altri casi di stupri in caserma o no si siano verificati. Di donne che, già normalmente temono di denunciare perché sanno che il rischio di passare da vittima a imputata è alto, figuriamoci quando lo stupratore è un uomo in divisa e armato. da popoff e Corriere del Veneto
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Sergio Berlato (FDI – ECR): nessuno si indigna quando le vittime sono i nostri agenti In Italia sono sempre di più gli agenti delle forze dell'ordine (Polizia di stato, Arma dei carabinieri, Guardia di Finanza, ...) che vengono uccisi per mano di criminali, ma nessuno si indigna per la loro morte.
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Rubavano i fucili ai cacciatori: sgominata organizzazione nel reggino
Sgominata organizzazione criminale che intendeva prendere il controllo mafioso del territorio di Seminara (RC). È in corso dalle prime ore di questa mattina un'operazione dei Carabinieri di Reggio Calabria, coordinata dalla Procura della Repubblica di Palmi, in esecuzione di un'ordinanza di custodia cautelare a carico di sette persone accusate a vario titolo di rapina, falsificazione di monete, furto, ricettazione, danneggiamento e delitti in materie di armi e di stupefacenti. Le indagini hanno accertato che l'organizzazione sgominata era dedita alle rapine ai danni di cacciatori ed aveva programmato di acquisire il controllo mafioso del territorio di Seminara attraverso condotte violente, soprattutto con l'utilizzo di armi. Almeno 10 le rapine denunciate da cacciatori, i responsabili delle quali, esplodendo colpi di arma da fuoco a scopo intimidatorio, hanno imposto alle vittime la consegna dei fucili. http://dlvr.it/QzhrFc
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siamo povera gente e non possiamo permetterci avvocati importanti
3 ago 2020 17:19
“PACCIANI ED I SUOI ‘COMPAGNI DI MERENDE’ NON SONO I COLPEVOLI MA, AL MASSIMO, DEI COMPRIMARI” - PARLA NATALINO MELE, CHE ERA SOLO UN BIMBO QUANDO NEL 1968 IL “MOSTRO DI FIRENZE” UCCISE SUA MADRE BARBARA LOCCI E IL SUO AMANTE, ANTONINO LO BIANCO: “CHI HA UCCISO ERA UNA PERSONA COLTA CHE CONOSCEVA L'ANATOMIA E CHE AVEVA UNA MIRA ED UNA FREDDEZZA INCREDIBILE. PENSI CHE SPARÒ AL BUIO A QUEL GIOVANE CHE CERCAVA DI SCAPPARE DALLA MACCHINA. HO SEMPRE PENSATO CHE CI FOSSE QUALCUNO MOLTO VICINO AGLI INQUIRENTI…”
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Giovanni Terzi per “Libero quotidiano”
Il primo omicidio del mostro di Firenze fu quello avvenuto a Castelletti di Signa il 21 agosto del 1968. La stessa arma, una Beretta calibro 22 con una "H" punzonata sul fondello, fu usata per tutti i sedici omicidi avvenuti nelle campagne fiorentine e attribuite al mostro di Firenze. Se sul "Mostro di Firenze" fiumi di inchiostro sono stati spesi, di quel primo omicidio del 1968, che vide vittime una donna Barbara Locci ed il suo amante, Antonino Lo Bianco, poco si conosce.
Ma ancor meno si è al corrente del figlio della Locci, Natalino Mele che all'epoca dei fatti aveva solo sei anni e che si trovava addormentato sul sedile posteriore della Giulietta su cui furono uccisi la madre ed il suo amante mentre stavano facendo l'amore. Natalino fu dunque l'unica persona ad aver visto davvero il Mostro di Firenze ma i suoi interrogatori furono sempre all'insegna di una superficialità stupefacente e spesso venne trattato più come colpevole che come vittima. Natalino, dopo il delitto della mamma, venne abbandonato a se stesso, senza genitori, e oggi a cinquantotto anni vive in una casa occupata al limite della indigenza e dimenticato da tutti.
L'ho cercato Natalino Mele e grazie a Paolo Cochi, documentarista e scrittore romano che della vicenda del mostro di Firenze è un profondo conoscitore, l'ho trovato. Paolo Cochi ha un rapporto sincero e vero con Natalino ed è una delle poche persone che, ancor oggi, lo aiutano e lo sostengono. «Di quella sera ricordo pochissimo, può ben immaginare che sono passati cinquantadue anni...».
Così esordisce Natalino Mele nell'intervista. Non vuole assolutamente essere reticente, anzi vorrebbe lui per primo sapere e conoscere la verità su quell'orribile delitto che lo ha praticamente reso orfano ed è stato il primo di altri quindici omicidi seriali. Si dice che lei fu portato sulle spalle dell'omicida fino ad una casa illuminata e che quest' ultimo cantasse la canzone "Tramontana" di un celebre cantante di quei tempi. «Mi creda, io di quella sera ricordo ben poco. Ricordo che furono gli spari a svegliarmi e che vidi mia mamma in un pozzo di sangue. Questa immagine fa parte degli incubi che ho ancora oggi».
E poi cosa ricorda?
«Una luce accesa in fondo ad una strada. La fissavo e cercavo di raggiungerla ma non so se questo avvenne sulle spalle dell'omicida o camminando da solo. Mi ricordo che poi furono gentili con me le persone che mi accolsero».
Di quell'omicidio fu accusato suo padre. Un delitto nato dalla gelosia. Quale è il suo pensiero a riguardo?
«Io papà nella mia vita lo vidi sì e no cinque volte in carcere. Era una persona buona, mite che sicuramente non ha ucciso la mia mamma e nemmeno fu parte degli omicidi del "mostro" perché era in carcere».
A questo proposito è importante pubblicare il colloquio tra Natalino ed il papà avvenuto in carcere. Un colloquio che fa capire l'atteggiamento degli inquirenti nei confronti del Mele.
Natalino Mele: «Babbo, non devi aver paura. Io quella notte non ti ho visto. Non ho visto nessuno. Se io avessi visto il mostro, da tempo mi avrebbe fatto fuori».
Stefano Mele: «Non potevi avermi visto, perché io non c'ero».
Natalino: «E perché hai confessato?».
Stefano: «Io ero il marito. I carabinieri, i tuoi zii, tutti in paese erano convinti che ero stato io a uccidere la mamma. Negli interrogatori mi hanno picchiato. Alla fine riescono sempre a farti dire quello che vogliono».
Natalino: «Ma perchè hai accusato i Vinci e gli altri amanti della mamma?».
Stefano: «Perché mi hanno fatto un grande male. Alla fine erano diventati prepotenti».
Natalino: «Ma tu non li hai visti ucciderla?»
Stefano: «No, non li ho visti».
Natalino: «Dunque non devi accusarli».
Stefano: «Ma sono convinto che siano stati loro ad ucciderla».
Natalino: «Basta babbo! Se non li hai visti, non puoi saperlo. Non devi continuare ad accusare gente perché a te hanno fatto del male. E poi, perché hai accusato gli zii Giovanni e Pietro».
Stefano: «È stato il giudice Rotella a farmelo dire. Mi ha fatto confondere. Anche quest' ultima volta che mi ha tenuto in galera, ha tentato di farmi dire altre cose. Per convincermi a parlare, mi ha detto che tu eri morto. Che il tuo cadavere era stato trovato nei boschi».
Natale come furono gli anni dopo l'omicidio di sua mamma?
«La mia è stata una vita durissima. Mi hanno sempre trattato come se la colpa degli omicidi del mostro fosse in parte anche mia. Mio babbo non c'entrava nulla e l'hanno trattato da criminale e, mi creda, la stessa cosa accadeva a me».
Cosa intende dire?
«Quando mi facevano gli interrogatori cercavano di intimorirmi anche attraverso piccole violenze».
Tipo?
«Cercavano di bruciarmi i polpastrelli delle dita con l'accendino».
Ma a che scopo?
«Farmi dire, credo, che mio babbo era l'omicida».
Lei venne messo in orfanotrofio?
«Sì, e le posso dire che sia l'orfanotrofio che il collegio dai Salesiani furono gli anni migliori. Mi fecero crescere con principi buoni, altrimenti sarei diventato un balordo al cento per cento».
E dopo?
«Diventato maggiorenne venni completamente abbandonato a me stesso. Non avevo più riferimenti e mai nessuno mi aiutò. La mia vita è stata segnata in modo indelebile dell'omicidio della mia mamma. Praticamente divenni orfano. Mio padre, che non era colpevole, morì senza ricevere alcun risarcimento».
Cosa vuol dire con questo?
«Che ci fu una ingiustizia e tutti ne pagammo le conseguenze; solo che siamo povera gente e non possiamo permetterci avvocati importanti».
Il suo pensiero sul mostro di Firenze quale è?
«Io credo che Pacciani ed i suoi "compagni di merende" non siano i colpevoli ma, al massimo, dei comprimari».
Perché dice questo?
«Chi ha ucciso era una persona colta che conosceva l'anatomia e che aveva una mira ed una freddezza incredibile. Pensi che sparò al buio a quel giovane che cercava di scappare dalla macchina».
Lei ha visto che tipi erano i "compagni di merende?"
«Certo che li ho visti... la legge però ha individuato in loro i colpevoli. Le dirò un'altra cosa: a lei sembra ragionevole che trovino i bossoli nel giardino di Pacciani? Può una persona, colpevole di terribili delitti, seppellire nel proprio giardino i bossoli dell'arma usata?».
E quale è la sua idea riguardo il colpevole?
«Io ho sempre pensato che ci fosse qualcuno molto vicino agli inquirenti. Qualcuno colto e capace di cambiare le carte in tavola».
In questi anni chi le è stato vicino?
«Nessuno a parte l'amico Paolo Cochi e pochi altri. Ho due figli grandi con cui non ho rapporti e per vivere ho dovuto occupare una casa perché la tenda dove vivevo è andata a fuoco. Chissà se non ci fosse stato il delitto di mia mamma come sarebbe andata la mia vita...».
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