#30 giugno 1941
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Pillole di Seconda Guerra Mondiale: 30 giugno
1940 – Gran Bretagna. Truppe tedesche occupano le isole del Canale, due dipendenze della corona britannica nel Canale della Manica al largo della Normandia. Il Baliato di Jersey e il Baliato di Guernsey furono l’unica zona delle isole britanniche occupata dalla Wehrmacht durante la seconda guerra mondiale e rimarranno in mano tedesca fino alla resa del 9 maggio 1945. 1941 – La Francia di Vichy…
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14.08.42. Una lettera mai inviata trovata presso il soldato tedesco Iosef. La lettera era destinata alla sua sorella Sabina: “ Oggi ci siamo organizzati con 20 polli e 10 mucche. Stiamo portando via dai paesi tutti- sia adulti che bambini. Non li aiutano le loro preghiere. Sappiamo essere spietati. Se qualcuno rifiuta di venire, viene ammazzato. Poco fa in un paesino un gruppetto di abitanti si sono intestarditi e non volevano venire. Siamo andati su tutte le furie e li abbiamo fucilati sul colpo tutti quanti. Poi è successa una cosa terribile: due donne russe pugnalarono col tridente due soldati tedeschi… Ci odiano qui. Nessuno a casa riesce immaginare la collera che hanno i russi nei nostri riguardi”.
Un appuntato Felix Kendels scrive all’amico: “Abbiamo frugato nei bauli, poi abbiamo organizzato una buona cena e abbiamo deciso di divertirci un po’. La bimba è capitata cattivella, ma l’abbiamo sistemata pure lei. Ce la siamo spassata tutti quanti…Fa niente…Non preoccuparti. Mi ricordo bene il consiglio del tenente- la bambina è muta come una tomba…”
24.07.42. Mateas Zimlih scrive al fratello, un’appuntato Henrih Zimlih: “A Laiden c’è un campo per i russi, li si possono contemplare. Non hanno paura delle armi, infatti usiamo la frusta quando parliamo con loro…”
Il soldato Ximan della SS scriveva alla sua moglie in Munhen il 3 dicembre 1941: “Adesso siamo a 30 km da Mosca. Quando esci di casa puoi vedere alcune torri di Mosca. Fra poco il cerchio si chiude e ci prenderemo i lussuosi appartamenti moscoviti, ti manderò i regali talmente belli da Mosca che Minna morirà di invidia”.
29.10.41. La lettera trovata presso il tenente Gafn: “Era molto più facile a Parigi. Ti ricordi quei giorni di miele? Le russe sono le diavole, bisogna legarle. Prima mi piaceva pure, ma oramai sono pieno di graffi e lividi, di morsi, quindi la risolvo mettendole la pistola alla tempia. Vedi che si raffreddano subito. Poi è successo un fatto eclatante qui, mai successo niente di simile: una ragazza russa si è fatta esplodere insieme al tenente maggiore Gross. Adesso prima di…le spogliamo e controlliamo tutto. Dopo le buttiamo nei campi”.
La lettera del soldato Gainz Muller: “Gerta, mia dolce cara, ti scrivo la mia ultima lettera. Non riceverai più nulla da me. Maledico il giorno in cui sono nato tedesco. Sono sconvolto da quello che fa il nostro esercito in Russia. Perdizione, sciacallaggio, violenza, omicidi su omicidi. Tutti vengono massacrati: vecchi, donne, bambini. Uccidono per il gusto di uccidere. Ecco perché i russi si difendono cosi’ all’impazzata e cosi’ da coraggiosi”.
Tenente maggiore Langhe (il trasferimento postale 325324) scriveva a Ghedi Beisler: “A Lvov c’è stato un vero spargimento di sangue…La stessa cosa fu a Tarnopol. Nessuno fra gli ebrei è rimasto in vita. Come puoi ben immaginare, noi non avevamo nessuna pietà. Cos’altro poi è successo non te lo posso scrivere”.
La fidanzata del maresciallo Zigfrid Kruger, Lenhen Shtenger gli scrive il 13 giugno dal Dattingen:
“Il pellicciotto è meraviglioso, era un po’ sporco ma la mamma l’ha pulito bene e ora è bellissimo…Le scarpe vanno bene alla mamma, giuste- giuste. Anche il tessuto per il vestito è bellissimo. Sono contenta anche di calze e delle altre cose”.
La lettera dell’appuntato Mang alla moglie Frida: “Se tu pensi che mi trovo tuttora in Francia, sbagli. Sono già sul fronte orientale…Mangiamo le patate e le altre cose che portiamo via ai russi. I polli non ce ne sono più…Abbiamo scoperto una cosa: i russi mettono tutto quello che hanno sotto la neve. Poco fa abbiamo trovato nella neve un boccione di carne di maiale salata e lardo. Abbiamo trovato anche il miele, i vestiti pesanti e il tessuto per il vestito. Di giorno e di notte siamo alla ricerca delle cose nascoste…Qui ci sono tutti nemici, ogni russo, indipendentemente da quanti anni abbia, 10, 20 o 80. Quando li distruggeranno tutti si starà meglio. I russi devono essere ammazzati tutti. Bisogna ucciderli tutti, fino all’ultimo”.
Un appuntato Zimmah: “Oggi noi con tutta la divisione abbiamo “organizzato la maialata”,- scrive all’inizio della guerra alla sua amata uno dei rappresentanti della “razza superiore”,- io ho bevuto come non mai. Ho mangiato tutta la testa del maiale per intero. Ma non ce l’ho fatta a finire un’orecchio e l’ho buttato al mujik bielorusso. Ma il nostro pastore Nettuno lo afferrò per primo. C’era da morire dal ridere”.
Ecco la lettera della moglie Lota al marito-tenente Gotfrid Verner, inviata al fronte:
“Non potresti togliere da qualche lurido ebreo un cappotto col pelo? Tanto non ne risentono, loro. Dicono che in Russia ce ne sono tanti di cappotti cosi’. E non ti dimenticare del tessuto per il vestito. Pensaci cos’altro c’è da portare, non aver pietà di quei bastardi. Almeno compensiamo un po’ questi tempi duri. Io qui proprio non ci riesco trovare un buon tessuto per il vestito”.
09.08.41. Dal diario del tenente maggiore Krauze, ucciso a seguito in Ucraina. Krauze passò per Polonia, Francia, Ugoslavia, Grecia, alla fine arrivò in Ucraina. Le pagine del suo diario condotto in tutti questi paesi si assomigliano parecchio: è un resoconto delle violenze, sciacallaggi e teppismo:
“Fra poco divento un’amante a livello internazionale! Ho sedotto le contadine in Francia, le polacche, le olandesi….” Poi seguono i dettagli dei suoi “atti eroici” a dir poco improponibili. Segue: “Oggi finalmente ce l’ho fatta a rilassarmi. La bambina aveva 15 anni ed era molto impaurita, mi mordeva le braccia. Poverina, ho dovuto legarla…Il tenente mi disse: per questi atti epici meriti una croce di ferro”.
Un carrista Karl Fux:
“Qui è impossibile vedere il viso gradevole e intelligente. Tutti selvaggi, impauriti, deficienti a tutti gli effetti. Pensa che questa feccia guidata dai giudei e galeotti aveva in mente di sottomettere l’Europa e il resto del mondo. Grazie a dio il nostro fuhrer Adolf Hitler non lo ha permesso”.
La lettera al soldato tedesco Gainz da parte di Ioganna Rohe di Vaissenfels: “Da noi adesso lavorano molti russi, uomini, donne e bambini. Ci odiano a morte e colgono ogni occasione per scappare. Due settimane fa signor Kushtbah ha fermato due russi in Vinberger. Un boscaiolo vicino al Fraiburg tentò di fermare alcuni russi scappati dal campo, ma gli fecero resistenza. In settimana il nostro maresciallo di cavalleria ha fermato in paese due ragazze russe che scapparono dal casale. Le han frustate con i bastoni di gomma”.
Hamurg, 12 agosto 41.
“Mio caro Gans, oggi ho ricevuto ancora la tua lettera ed ero felice (…). Nei settimanali ci fanno vedere bene come sono terribili lassù, si fa fatica a guardare. È una vergogna che questa feccia vive su questa terra, persino quando vedi le facce terribili dei prigionieri viene lo schifo. Ma basta parlare di questo (…). Sono molto raffreddata e visto il tempo, non c’è da stupirsi. Fa freddo come in autunno e voi che dovete sudare lassù. Tua Gisel”.
La cittadina Anna Geller scrive al marito dal Naikirhen (Sassonia): “Quando bisognava raccogliere il pane, la russa s’impiccò. Questa gente fa veramente schifo. Le davo da mangiare e le ho dato persino il grembiule. Prima urlava che non vuole stare nel seminterrato assieme al Karl. Io penso che questa feccia dovrebbe essere onorata dal fatto che un tedesco non abbia schifo di lei. Poi rubò i crackers della zia Mina. Quando io la puni’ s’impiccò nel seminterrato. Ho già i nervi sottosopra, immagina vedere uno spettacolo del genere. Dovresti dispiacerti per me”.
Come fonti di informazione sono stati usati i libri: N.I.Buslenko- “ Sui rubiconi di Rostov- le lettere tedesche del 41”, “ Sconfitta dei tedeschi vicino a Mosca. Dichiarazioni del nemico”, Robert Kershow- “Lettere tedesche del 41. Croci di betulla invece delle croci di ferro.”
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IL 18 MAGGIO 1920: NASCEVA PAPA GIOVANNI PAOLO II. IN QUESTO GIORNO INVOCHIAMOLO PER OTTENERE GRAZIE
🤦🙏📖🙏🕊️📿💖
Sua Santità Giovanni Paolo II (16 ottobre 1978 – 2 aprile 2005) è stato il primo slavo e il primo Papa non italiano dai tempi di Adriano VI. Karol Wojtyla nacque il 18 maggio 1920 a Wadowice, una città industriale a sud-ovest di Cracovia, in Polonia. Suo padre era sottufficiale dell’esercito in pensione, al quale il giovane Karol si legò molto, particolarmente dopo la morte della madre avvenuta quando era ancora un bambino. Nel 1938 si trasferì a Cracovia con il padre, dove si iscrisse alla Facoltà di Lingua e Letteratura Polacca presso l’Università Jagellónica; da studente era conosciuto come attore dilettante e ammirato per le sue poesie. Quando i Tedeschi occuparono la Polonia nel settembre del 1939, l’università fu costretta a chiudere, ma fu comunque mantenuta una rete clandestina di studi. Nell’inverno del 1940 trovò impiego come operaio in una cava di calcare presso Zakrówek, alla periferia di Cracovia e, nel 1941, venne trasferito al dipartimento di purificazione delle acque presso la fabbrica Solvay a Borek Falecki. Queste esperienze furono in seguito fonte di ispirazione per alcune tra le sue poesie più memorabili. Nel 1942, dopo la morte di suo padre e dopo essersi ripreso da due incidenti quasi mortali, avvertì la chiamata al sacerdozio, intraprese clandestinamente gli studi di teologia e, dopo la liberazione della Polonia ad opera delle forze russe nel gennaio 1945, fu in grado di frequentare, di nuovo apertamente, l’Università Jagellónica. Laureatosi con lode in teologia nell’agosto del 1946, venne ordinato sacerdote dal Cardinale Adam Sapieha, Arcivescovo di Cracovia, il primo novembre dello stesso anno.
Il 4 luglio 1958, mentre si trovava in gita con i suoi studenti, venne nominato da Pio XII Vescovo titolare di Ombi e Ausiliare di Cracovia. Il 30 dicembre 1963 Paolo VI lo nominò Arcivescovo di Cracovia, un ruolo che lo rivelò avversario, politicamente saggio e deciso, del repressivo governo comunista, e il 26 giugno 1967 fu nominato Cardinale. Tra il 1960 e il 1970 iniziò a essere una figura familiare sulla scena mondiale, graz
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Posted @withregram • @fotografie_della_storia Una sera di inverno del 1941, Carlo Soriani, operaio di Borgo San Lorenzo, trovò in un fosso un cucciolo di cane ferito. Ignorando a chi potesse appartenere, Soriani lo portò a casa e decise di adottarlo, attribuendogli il nome di Fido. Una volta ristabilitosi, il cane si affezionò talmente al suo padrone che ogni mattina lo accompagnava da casa alla piazza dove Soriani avrebbe preso la corriera per Borgo San Lorenzo. Fido tornava quindi a casa, ma alla sera era di nuovo alla fermata della corriera, attendendo l'arrivo del padrone, che poi riaccompagnava a casa. Il 30 dicembre 1943, in piena guerra, Borgo San Lorenzo fu oggetto di un violento bombardamento alleato, durante il quale Carlo Soriani purtroppo perì. La sera stessa, Fido si presentò come al solito alla fermata della corriera, ma ovviamente non vide scendere il proprio amato padrone. Il fedelissimo animale non si perse d'animo e per i quattordici anni successivi, fino al giorno della sua morte, si recò quotidianamente alla fermata, nella speranza, purtroppo vana, di veder scendere Soriani. Colpito dalla straordinaria fedeltà di Fido, il sindaco di Borgo San Lorenzo gli permise di circolare senza museruola (l'animale, essendo inoffensivo, era già da anni "tollerato" dalle autorità locali) e gli conferì una medaglia d'oro, alla presenza di molti concittadini e della commossa vedova di Soriani. Nel medesimo anno, il Comune di Borgo San Lorenzo decise di omaggiare Fido con un monumento, collocato nella centrale Piazza Dante, ove si trova tutt'oggi. Il monumento venne inaugurato alla presenza dello stesso Fido e della vedova di Carlo Soriani. Fido morì il 9 giugno 1958. Il 22 giugno, La Domenica del Corriere commemorò Fido con una commovente copertina firmata da Walter Molino, che ritrasse il cane in punto di morte sul ciglio della strada, con la corriera che ogni giorno attendeva sullo sfondo. Per permettergli di ricongiungersi finalmente con il padrone, Fido fu sepolto all'esterno del cimitero comunale di Luco, ove riposavano le spoglie di Carlo Soriani. #lefotografiechehannofattolastoria #fido #cane #dog #amiciziaprofonda https://www.instagram.com/p/CQnTzc7LqQc/?utm_medium=tumblr
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La data del 30 agosto 1941 segna l'effettivo inizio dell'assedio della città di Leningrado; giorno in cui si ebbe l'ultimo collegamento ferroviario con la città e in cui i soldati tedeschi raggiunsero il fiume Neva. Ancora prima dell’invasione della Russia da parte delle forze naziste, il 22 giugno del 1941, furono messi a punto con l'Operazione Barbarossa i piani che portarono verso Leningrado forze consistenti in più di un milione di uomini, 600 carri armati e 1000 aerei. L’armata nazista prese il controllo di Leningrado nell’arco di quattro settimane, già dal 21 luglio del 1941: Hitler sembrava infatti ben deciso ad una rapida presa della città per utilizzare le stesse forze militari in vista di un attacco a Mosca. All’inizio dell’azione tutte le previsioni e le tappe vennero rispettate e mano a mano che i nazisti conquistavano territori, le truppe russe venivano messe in fuga. Al comando dell’operazione c’era il feldmaresciallo Von Leeb al quale Hitler aveva ordinato di provocare all’esercito russo perdite assai più devastanti di quelle causate all’esercito francese; Leningrado era infatti destinata a diventare la prima grande città russa conquistata dai tedeschi. In tutta la sua lunga storia Leningrado non era mai stata attaccata e ora i suoi abitanti si preparavano a difenderla. Sin dai primi giorni della guerra centinaia di migliaia di leningradesi si arruolarono nell’esercito formando intere divisioni militari. La prima linea di difesa passava sulla Lugà, a un centinaio di miglia a ovest della città: questa linea fermò i tedeschi per qualche settimana. La seconda linea di difesa era collocata presso l’istmo di Karelia a circa 25 miglia da Leningrado, mentre il sistema di difesa estremo era collocato a circa 22 miglia dalla città per tutto il suo circondario. I primi attacchi aerei sulla città cominciarono nella giornata del 6 di settembre e proseguirono per tutto il giorno. I russi attaccavano decisamente sulla linea della Lugà e i tedeschi ripiegavano verso nord, dove il cerchio si stringeva sempre di più attorno alla città. Nei primi di settembre i fascisti penetrarono nelle linee di difesa e, nonostante la resistenza, riuscirono comunque a giungere fino al lago Ladoga. Leningrado fu accerchiata. Von Leeb cominciò l’attacco a Leningrado in condizioni di netta superiorità numerica di carri armati e aerei senza però riuscire a conquistarla per 900 giorni. Il maresciallo russo Žukov chiese l’invio di nuove riserve e riuscì a mettere insieme una notevole forza di 50.000 uomini cominciando il contrattacco. Egli ordinò: “Resistere o morire”. L’inverno del 1941 arrivò presto e fu particolarmente rigido. Tutto ciò peggiorò in maniera significativa le condizioni degli abitanti di Leningrado, già svantaggiati dai blocchi delle vie di rifornimento. A novembre, la gente cominciò a morire di fame. Ma l’inverno, inaspettatamente, aprì la via della salvezza: il lago Ladoga a nord di Leningrado aveva una parte completamente congelata e da quel corridoio, denominato ''la strada della vita'' i convogli facevano arrivare prodotti e portavano via persone. La primavera del 1942 portò nuova speranza, ma non cancellò il ricordo: la città si ravvivò, benché non fosse una resurrezione quanto piuttosto una nuova fiducia nella vita. Molti cattivi profeti già prevedevano una repentina caduta dell'impero sovietico, invece i semplici cittadini, anche solo continuando le loro solite occupazioni diedero un grande impulso morale alla resistenza. Era passato quasi un anno e Leningrado, nonostante tutto, viveva. L’armata tedesca si preparava ad affrontare il suo secondo inverno nei boschi intorno alla città e non sarebbe stato neanche l’ultimo. Il primo grande attacco dell’esercito sovietico fu posto in essere da circa 200.000 soldati da nord su due fronti nel gennaio del 1944. La linea difensiva tedesca fu distrutta e furono portati attacchi da tre direzioni. Quando le truppe russe si ricongiunsero, fu ricostituito un golfo e Leningrado terminò di essere un’isola. L'assedio era finalmente terminato. Dalla nera polvere, dal posto Della morte e delle ceneri, risorgerà il giardino come prima. Così sarà. Credo fermamente nei miracoli. Sei tu che mi hai dato questa fede, mia Leningrado. Olga Bergol'c
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Il “misterioso liquido” era l'iprite o, per essere piú esatti, il diclorodietilsolfuro S(ClCH₂CH₂)₂. Fin dai primi mesi dell'estate [1935] ne erano state inviate a Massaua alcune centinaia di tonnellate, insieme ad altri gas soffocanti, lacrimogeni e starnutatori. Dell'invio erano al corrente solo poche persone, poiché l'impiego dei gas era proibito dal protocollo di Ginevra del 17 giugno 1926, che l'Italia aveva solennemente sottoscritto. A sentire il generale Faldella, che in quell'epoca dirigeva la sezione etiopica del SIM [Servizio Informazioni Militare], tanto lui che il suo diretto superiore Roatta, appresero per caso, frugando nel sacco postale di un aereo, che in Etiopia erano stati usati i gas. «Approfittando del breve scalo che il postale Cairo-Londra faceva a Centocelle,» ci ha dichiarato il generale Faldella, «i nostri agenti esaminavano i sacchi della corrispondenza. Un giorno scoprono nel plico che un giornalista inglese invia ad un'agenzia di Londra alcune foto sospette, che riproducono alcuni abissini coperti di piaghe. Qualche minuto dopo le foto sono sul mio tavolo e poco dopo su quello del professor Castellano, a quel tempo il miglior specialista di malattie tropicali. Castellano osserva le foto e risponde che non vi possono essere dubbi: gli etiopici riprodotti sono stati colpiti da liquidi vescicanti. Ci guardiamo con reciproco imbarazzo. Poi il professore soggiunge che, tuttavia, anche i lebbrosi presentano lo stesso quadro, e mi mostra a riprova alcune fotografie. Davanti a questa rassomiglianza, prendo un'improvvisa decisione. Le foto saranno recapitate a Londra, ma non quelle autentiche, le altre che riproducono i lebbrosi. E quando, qualche giorno dopo, i giornali inglesi pubblicano le “tragiche immagini”, il nostro ambasciatore a Londra, Dino Grandi, avrà buon gioco nel dimostrare che si è trattato soltanto di “un ignobile trucco” ordito dalla propaganda antifascista». Il 30 dicembre, tuttavia, con un telegramma alla SDN [Società delle Nazioni], Hailé Selassié confermava il gravissimo episodio: «Il 23 dicembre, [gli italiani] hanno fatto uso contro le nostre truppe, nella regione del Takazzè, di gas asfissianti e tossici, ciò che costituisce una nuova aggiunta alla lista già lunga delle violazioni fatte dall'Italia ai suoi impegni internazionali». Dinanzi all'ondata di indignazione suscitata nel mondo, il regime cercò dapprima di negare, poi parlò di “legittima ritorsione” contro l'impiego fatto dagli etiopici di pallottole esplosive (dum-dum), ed infine fece una parziale ammissione precisando che non si trattava di gas tossici ma di gas paralizzanti il cui effetto durava soltanto poche ore. Ma il fatto più grave è che, mentre a Roma si negavano gli addebiti, in Etiopia si continuava sistematicamente a fare uso dei gas. E ci sorprende che l'ex ministro fascista alle Colonie, Alessandro Lessona, abbia potuto scrivere nelle sue recenti memorie che i gas furono usati una sola volta, per “vendicare” il pilota Minniti: «Il generale Graziani, informato con assoluta certezza dell'accaduto, decise di far sganciare, per intimidazione e per diritto di rappresaglia, ‘tre’ dico 'tre’ piccole bombe a gas sul campo nemico teatro di tanta ferocia. Queste e nessun'altra furono le bombe a gas lanciate sugli abissini.» […] Subito dopo la fine del conflitto, a Ginevra, l'Imperatore confidò all'antifascista Mario Rietti, che di lí a due mesi sarebbe caduto sul fronte d'Aragona in difesa della Spagna repubblicana, che egli non conservava alcun rancore per il popolo italiano e che anzi lo commiserava perché, aggiunse: «Il fascismo ha impiegato per distruggere l'indipendenza dell'Etiopia gli stessi violenti metodi che ha usato e usa ancora per distruggere le libertà in Italia.»
Angelo Del Boca, La guerra d'Abissinia 1935-1941, Feltrinelli, Milano, 1965; pp. 74-77.
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39 di 366 A partire dal secondo anno di guerra gli S.M.84 cominciarono ad affiancare nei reparti da bombardamento della Regia Aeronautica il CANT Z.1007bis, il Fiat B.R.20 ed anche l'S.M.79 che nel contempo passava ai reparti siluranti. Il 41º Gruppo Bombardamento Terrestre fu il primo reparto a ricevere gli S.M.84 nel febbraio del 1941 ed il 28 giugno successivo nasce la 282ª Squadriglia con 4 esemplari aerosiluranti. Il principale teatro operativo dell'S.M.84 fu il Mar Mediterraneo. L'unico successo come aerosilurante sembra essere quello vantato dagli aerei del 36º Stormo aerosiluranti che il 27 settembre 1941 riuscirono a silurare la corazzata HMS Nelson, danneggiandola gravemente e mettendola fuori combattimento per parecchi mesi. Nel corso dell'azione lo stormo subì gravi perdite, con sei degli undici velivoli impiegati risultati abbattuti. Tra essi anche quello del comandante di stormo, colonnello Riccardo Hellmuth Seidl, probabilmente abbattuto dal fuoco contraereo della corazzata Prince of Wales e dell'incrociatore Sheffield . #storie #storieefoto #regiamarina #regiaaeronautica #aeronautica #airforce #italia #anr #savoia #marchetti #sm84 #bomber #history #ww2 #worldwar #worldwar2 #warthunder #fligh #flightsimulator #hunter #aviation #84 #40s #30s #siluro #torpedo https://www.instagram.com/p/B8UdAtcnyQd/?igshid=1w9re86scd416
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Nel 1937, un pezzo di lastra di molibdeno arrivò all'Università di Palermo. Era stato spedito dall'Università della California a Berkeley, dove era stato parte dell'atom smasher di Ernest Lawrence - uno dei primi acceleratori di particelle, noto come ciclotrone da 37 pollici. La piastra conteneva il pezzo mancante più importante del mondo chimico.
La tavola periodica degli elementi quale appariva nella sua prima pubblicazione, nel 1869 (© Science Photo Library / AGF)
L'elemento 43 - provvisoriamente indicato come 'eka-manganese' prima della sua scoperta - era un buco nella tavola periodica definita da Dmitri Mendeleev nel 1869. Anche se c’erano stati tentativi precedenti di ordinare gli elementi chimici, Mendeleev dispose la sua tavola secondo la massa atomica e le proprietà degli elementi, e lasciò spazi vuoti dove sentiva che mancava un elemento. La maggior parte degli spazi fu gradualmente riempita, confermando le idee di Mendeleev.
Negli anni trenta, la lacuna più rilevante riguadava l'eka-manganese. I ricercatori avevano cercato a lungo questo elemento sfuggente, ma ogni pretesa scoperta era stata dimostrata errata. Ora, a Palermo, era il turno del fisico italiano Emilio Segrè.
A soli 32 anni, Segrè era già noto per la scoperta di elementi. Ebreo sefardita e figlio del proprietario di una cartiera a Tivoli, Segrè si era formato come fisico sotto la guida di Enrico Fermi prima di partire come ufficiale antiaereo dell'esercito italiano. Nel 1929 era tornato da Fermi come uno dei 'ragazzi di Via Panisperna', un gruppo di scienziati con un budget limitato e senza attrezzature moderne: i fratelli minori degli scienziati venivano reclutati per sollevare gli apparecchi le attrezzature fatte a mano e i ricercatori dovettero nascondersi in fondo al corridoio per proteggersi dalle radiazioni.
Eppure, nonostante le difficoltà, nel 1934, il team di Fermi aveva esteso i limiti della tavola di Mendeleev.
In Francia, Frédéric e Irène Joliot-Curie avevano dimostrato che un elemento poteva essere trasformato in un altro usando radiazioni indotte artificialmente. Fermi, Segrè e gli altri "ragazzi" fecero un ulteriore passo avanti bombardando un campione di uranio - l'elemento 92, il più pesante conosciuto all'epoca - con un fascio di neutroni improvvisato. Così facendo, sembrava che Fermi avesse sintetizzato gli elementi 93 e 94.
Segrè sperava che Lawrence avesse inconsapevolmente creato un altro elemento come risultato dell'uso di molibdeno nel suo ciclotrone. Il molibdeno è l'elemento 42; se gli isotopi pesanti dell'idrogeno (deuterio) avessero accelerato attraverso il ciclotrone di Lawrence e irradiato una piastra di molibdeno, questa avrebbe potuto contenere alcune tracce di eka-manganese. Segrè chiese a Lawrence di inviargli i pezzi che erano diventati radioattivi. Lawrence, non avendo alcun intressw per il metallo scartato, fu felice di farlo.
Con l'aiuto del collega Carlo Perrier, Segrè effettuò un'analisi chimica della piastra, estraendo un elemento sconosciuto facendo bollire un campione con idrossido di sodio e perossido di idrogeno.
Fu il primo avvistamento dell'elemento 43. Così fu risolto il mistero del perché questo elemento non fosse stato trovato: l'eka-manganese era instabile, con un tempo di dimezzamento radioattivo di qualche milione di anni. Qualsiasi campione presente in natura quando si è formata la Terra sarebbe decaduto eoni fa.
La storia del nuovo elemento era solo all'inizio. Nel giugno 1938, Segrè si recò a Berkeley per continuare la sua ricerca. Mentre era in viaggio, il governo fascista di Mussolini approvò leggi che impedivano agli ebrei di occupare posizioni universitarie in Italia. Segrè, intrappolato in California, mandò a chiamare la sua famiglia e prese la residenza permanente. Qui lavorò con un giovane chimico, Glenn Seaborg, per isolare un insolito isotopo metastabile del nuovo elemento.
Poco dopo arrivarono due notizie. A novembre Fermi aveva vinto il premio Nobel per la scoperta di elementi al di là dell'uranio. Fermi, la cui moglie era ebrea, usò il premio come pretesto per fuggire dall'Italia. Poi, due mesi dopo, dalla Germania giunse la notizia che gli "elementi" di Fermi erano un errore: un gruppo guidato da Otto Hahn e Lise Meitner aveva dimostrato che le scoperte di Fermi erano il risultato della rottura di un atomo, e probabilmente erano bario, krypton e frammenti di altri elementi.
Questa rivelazione avrebbe portato, alla fine, allo sviluppo di armi nucleari - e fece sì che l'eka-manganese di Segrè e Perrier fosse il primo vero elemento sintetico. Nel 1947, dieci anni dopo la sua scoperta, lo chiamarono tecnezio, da technetos, la parola greca che significa "artificiale" . A quel punto, tutti gli altri spazi vuoti della tavola periodica di Mendeleev erano stati riempiti, e Segrè contribuì anche alla creazione dell'elemento 85, l'astato.
Gli elementi creati in laboratorio aprirono la ricerca di elementi più pesanti dell'uranio (elementi transuranici). Nel 1939, il ricercatore di Berkeley Edwin McMillan si rivolse a Segrè per un atomo insolito che aveva scoperto nel ciclotrone, che riteneva essere un nuovo elemento. Segrè respinse il ritrovamento, arrivando persino a scrivere un articolo: "Una ricerca infruttuosa di elementi transuranici".
In effetti, McMillan aveva scoperto l'elemento 93, che chiamò nettunio. Poi, nel febbraio 1941, riprendendo l'opera di McMillan, Seaborg scoprì l'elemento 94. Con l'aiuto di Segrè, Seaborg dimostrò ben presto che la sua creazione – il plutonio - poteva essere usata in una bomba atomica. Fu il primo di dieci elementi sintetici che avrebbe poi scoperto; a un altro, il Seaborgium (elemento 106), fu dato in suo onore il suo nome.
Il tecnezio dimostrò che l'esplorazione della tavola periodica non si limitava agli elementi trovati sulla Terra. Oggi abbiamo esteso la tavola fino all'elemento superpesante 118, oganesson.
Con i nuovi elementi sono arrivate applicazioni che pochi avrebbero potuto immaginare: rivelatori di fumo, energa per le sonde spaziali e le armi più devastanti che si conoscano. Ma probabilmente la scoperta più grande rimane il tecnezio, e l'isotopo metastabile dell'elemento scoperto da Segrè con Seaborg.
Con il suo breve tempo di dimezzamento di sei ore, è un tracciante radioattivo ideale. Oggi, il tecnezio è il radioisotopo medico più usato al mondo, in circa l'80 per cento delle procedure di medicina nucleare, e contribuisce a salvare milioni di vite umane ogni anno. Non male per qualcosa visto per la prima volta in un pezzo di lamiera di metallo scartato.
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. Xª FLOTTIGLIA MAS 29 settembre del 1943 il Battaglione, chiamato "Valanga", come la gloriosa 9° Compagnia del cap. Morelli, che già aveva indossato il cappello con la piuma essendo un reparto alpino a tutti gli effetti, era inquadrato su comando di battaglione e tre compagnie. Successivamente venne aggregata una 4° compagnia, chiamata "Sereneissima", proveniente dal Battaglione N.P. e quindi reparto di Marina. Nell'aprile del 1944 entrò a far parte della Decima MAS assumendo il nome di "Luca Tarigo", una unità della classe "esploratori" affondata nel Mediterraneo nel 1941, come tradizione per i reparti della X MAS e cambiando il copricapo dal cappello alpino al basco con il giro di bitta della Marina. Queste varianti durarono però pochissimo e, probabilmente, non furono mai adottate dalla maggioranza dei Guastatori. Un'episodio accelerò infatti l'abolizione di queste varianti: una compagnia al comando del Cap. Satta venne inviata ad espugnare il rifugio alpino "Gastaldi", situato a 3200 metri d'altezza sul ghiacciao della Ciamarella in Piemonte, nel quale erano asseragliati 200 partigiani. Sebbene questi fossero molti di più dei Guastatori, meglio armati ed in una posizione più favorevole, i Guastatori alpini ebbero velocemente la meglio. Borghese si volle complimentare con Morelli e, giunto al reparto, lo trovò schierato senza alcun copricapo. Meravigliato chiese conto a Morelli di questo fatto e, il Comandante del Valanga, falsamente sorpreso (aveva organizzato tutto), disse ai Guastatori di andarsi a mettere il cappello. Tutti tornarono con il cappello alpino! Borghese capì ed in perfetto dialetto romano disse: "Va bè, Morelli ho capito, fai come ti pare!" E così il Valanga rimase Valanga e portò il cappello alpino! Solo la compagnia "Serenissima" continuò ad indossare il basco che già portava. Durante il periodo della R.S.I. il reparto operò dal fronte occidentale a quello orientale, soprattutto contro le infiltrazioni degli slavi del IX e X Corpus titino. E' anche grazie al "Valanga" che a Selva di Tarnova vennero salvati i 150 Bersaglieri del "Fulmine" sopravvissuti a tre giorni di combattimenti. Questi accerchiati da oltre 2500 slavi, furono liberati dai Guastatori che riuscirono ad avere la meglio sebbene in netta inferiorità numerica. Verso la fine del 1944 il "Valanga" raggiunse Jesolo dove si acquartierò nella colonia estiva "Dux", in riva al mare. Venne subito iniziato l'addestramento nella vicina Asiago al termine del quale fu conseguito il brevetto di specialità da tutti gli effettivi. A Jesolo i guastatori provvidero al minamento della spiaggai ed ebbero la responsabilità della difesa costiera. Alla fine di luglio il comando della divisione "Decima" decise di scardinare lo schieramento partigiano nelle Alte Valli piemontesi e il battaglione fu trasferito ad Ivrea da dove iniziò la marcia di avvicinamento che portò, tra le altre azioni, alla presa del rifugio Gastaldi. Nella prima decade di ottobre il battaglione lasciò il Piemonte e si trasferì a Vittorio Veneto, accantonandosi nelle scuole "Francesco Crispi". Quando in dicembre la divisione iniziò le operazioni contro il IX Corpus jugoslavo, al battaglione "Valanga" venne assegnato il compito di fermare il nemico nel settore settentrionale dello schieramento. Dopo un violento scontro a fuoco il battaglione, guidato dal Cap. Morelli, occupò stabilmente Tramonti di Sotto dove vennero rinvenute ingenti quantità di materiali, importanti documenti e catturati numerosi prigionieri, tra cui un maggiore britannico in uniforme. Sulla base dei documenti rinvenuti si decise di annientare il comando partigiano situato in una baita di Palcoda e il compito venne affidato a un plotone mitraglieri della 3° compagnia e a venti uomini della 2° compagnia "Uragano", della quale facevano parte i sergenti Grillo e Janiello. L'attacco si concluse con la cattura di circa cinquanta partigiani che vennero interrogati singolarmente il giorno dopo per giungere alle precise responsabilità dei singoli sulle efferate uccisioni avvenute nella zona. I colpevoli, in numero di dieci, vennero fucilati sul posto mentre gli altri furono avviati al comando della "Decima". Debellato il comando del X Corpus e liberata la val Meduna il battaglione "Valanga" rientrò a Vittorio Veneto per celebrare il Natale del 1944 ma il 26 dicembre vennero uccisi due guastatori in un agguato teso in città da alcuni guerriglieri della banda "Castelli". Dopo l'assassinio dei due guastatori, il battaglione riprese le azioni contro la banda "Castelli" nell'intento di catturarne il capo. Durante una di queste azioni cadde eroicamente il Sergente Maggiore Renato Grillo, il proprietario del distintivo. Il sottufficiale, indossato sull'uniforme un impermeabile inglese di quelli in uso presso le bande, si era introdotto da solo in una casa dove aveva luogo una riunione di partigiani, intimando loro la resa. Ma una raffica, sparatagli alle spalle lo uccise prima che tutta la pattuglia potesse intervenire. In questa occasione il suo amico e commilitone Janiello deve aver recuperato il distintivo che poi ha donato a Paolo Caccia Dominioni dopo la fine della guerra. Dopo la battaglia della Selva di Tarnova, le due compagnie rimaste a vittorio Veneto riuscirono a debellare la banda "Castelli", catturandone il capo. Il Castelli, che risultò responsabile anche del tragico agguato del 26 dicembre, venne fucilato. Nella prima decade di marzo il "Valanga si trasferì a Bassano del Grappa; in aprile riprese l'addestramento sulle falde del Monte Grappa. Il giorno 26 aprile rientrò dal campo ed al suo passaggio per le vie di Bassano la popolazione si radunò applaudendo i guastatori. Il giorno dopo giunse al battaglione l'ordine di abbandonare Bassano e raggiungere Thiene. Alle 19 il "Valanga" si mosse verso Thiene ma restò bloccato a Marostica perch�� le colonne germaniche in ripiegamento occupavano la strada. Il 28 aprile il CLN di Marostica iniziò le trattative con il Capiano Morelli e venne convenuto che il battaglione avrebbe raggiunto nuovamente Bassano per sciogliersi: gli uomini sarebbero stati muniti di un lasciapassare e messi in libertà. Il 30 aprile il battaglione "Valanga" venne dichiarato disciolto. Agli ufficiali vennero lasciate le armi e a tutti i guastatori venne distribuito il brevetto in bronzo della specialità. La 2° compagnia che non si era ancora arresa raggiunse Trento, con un convoglio di Brigate Nere e, dopo accordi presi con il Vescovado si presentò ai carabinieri che, ricevute le armi, lasciarono liberi gli uomini. Era il 2 maggio 1945. A Morelli, che era stato decorato con due argenti al V.M. uno preso nel giugno 1940, in Francia (fu una delle prime decorazioni conferite) ed uno il 17 gennaio 1943 a Rossosch, furono revocate entrambe le medaglie insieme al grado, perché condannato, grazie ad una falsa testimonianza, per il periodo quando aveva comandato il Valanga. Non potendolo giudicare per un fucilazione di partigiani, eseguita secondo le regole del Diritto Penale Militare, si inventarono che aveva fatto la borsa nera! Benché ci fosse statal'amnistia, si rifiutò, sempre, di richiederla. Ma ebbe la sua rivincita. Senza aiuti, dimenticato dall'Esercito, degradato a geniere (soldato semplice), divenne uno dei più famosi direttori di produzione del cinema. Tra l'altro fu il direttore di produzione del film "La dolce vita". ( Notizie storiche tratte dal volume "Gli Ultimi in Grigioverde" di Giorgio Pisanò, dall'articolo di Sergio Coccia pubblicato sul numero 22 della Rivista "Uniformi & Armi" del febbraio 1991, dagli articoli pubblicati sui numeri 85 e 106 della stessa rivista e sul numero 16 del mensile "Militaria" del dicembre 1994 )
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Medaglie d'Oro della 2ª Guerra Mondiale - Capomanipolo GIULIOTUCI - Himara (Albania) 14 aprile 1941
Nome e CognomeGiulio TuciLuogo e data di nascitaPistoia, 29 giugno 1908Forza ArmataRegio EsercitoArmaMilizia Volontaria per la Sicurezza NazionaleCorpo o specialitàCamicie NereReparto24ª Legione CC.NN. d’assaltoUnità24ª Compagnia mitraglieriGradoCenturione (Tenente)Anni di servizio1929 – 30 e 1938 – 41Guerre o campagneSeconda Guerra Mondiale (Invasione della Grecia)Luogo e data dell’eventoQuota…
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#24ª Legione CC.NN. d&039;assalto#Camicie Nere#Fronte greco-albanese#Medaglie d&039;Oro#Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale
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Drue Leyton
Nata Dorothy Elizabeth Blackman il 12 giugno 1903 a Somers nel Wisconsin, attrice di teatro e di cinema. Divenne attrice dopo aver sposato un architetto di Los Angeles, apparve negli anni ’30 in alcuni film di Charlie Chan, complessivamente tra il 1934 e il 1939 girò dieci film. Nel 1938 si sposò con Jacques Tartière, attore francese che morì durante la II guerra mondiale, nel 1941. Le sue vere…
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SPERANZA E ISS IN TRIBUNALE
Inattendibili i test per tracciare il virus
Dopo la Svezia i legali italiani: test PCR inattendibili. La prova. Sani fatti passare per malati. Dovevano evitare le morti di chi era in pericolo ma...
Per trovare il virus Sars-Cov-2 si usano i test PCR, adottati a livello mondiale da ogni Paese. Ma ricordate di quando a maggio la Svezia ha abolito i test PCR perché li ha considerati inattendibili?
Ogni tampone, il test più affidabile è quello molecolare, viene fatto grazie ai PCR: il campione prelevato viene analizzato attraverso metodi molecolari per l’amplificazione dei geni virali maggiormente espressi durante l’infezione. L’analisi può essere effettuata solo in laboratori altamente specializzati. Ma l'Agenzia nazionale svedese per la Sanità Pubblica ne ha ufficializzato l'abbandono perché il PCR “non è in grado di distinguere tra virus in grado di infettare cellule e virus che sono stati neutralizzati dal sistema immunitario” di ognuno. Quindi lockdown e restrizioni che si decidono sulla base dei numeri dei contagi espressi dai PCR sono totalmente inattendibili, per gli svedesi.
Da diverso tempo l’avvocato italiano Mauro Sandri, insieme ad altri 3 legali, Nino Filippo Moriggia, Maurizio Giordano e Marco Picenni, sta conducendo una battaglia legale sullo stesso tema. Ha presentato un ricorso d’urgenza al Tribunale Civile di Roma contro il Ministero della Salute e l’Istituto Superiore di Sanità in cui chiede di inibire a tutte e due le istituzioni italiane l’uso di questo strumento per confermare i casi di contagiati e di conseguenza tutte le misure improprie utilizzate per contrastare la pandemia.
Nel ricorso l’avvocato Sandri e gli altri legali, per pervenire ad un calcolo corretto dei casi di persone contagiate, citano uno studio pubblicato su PubMed e sulla rivista Clinical Infectious Diseases della Oxford Academic, “Correlation Between 3790 Quantitative Polymerase Chain Reaction–Positives Samples and Positive Cell Cultures, Including 1941 Severe Acute Respiratory Syndrome Coronavirus 2 Isolates", dove si spiega come l’amplificazione attendibile per trovare il virus Sars-Cov-2 sia quella che si posiziona tra le 20 e le 30 replicazioni, cioè 20/30 cicli.
“Il virus non viene rilevato in coltura al di sopra di questo valore (25)”, scrive lo studio al centro del dibattito anche in Francia. Anche perché ad ogni ciclo si raddoppia la quantità di Dna. Quindi più cicli si effettuano minore è l'affidabilità della PCR ovvero la probabilità che quanto rilevato dalla macchina sia effettivamente il virus ricercato.
“Tutti i test scelti dall’ISS con l’uso della PCR ai fini della determinazione di ‘caso confermato’ sono tarati ed effettuati da un minimo di 35 ad ancora più cicli, 41, come provato dall’elenco dei tamponi utilizzati dall’ISS e sono totalmente inattendibili”, racconta l’avvocato Sandri ad Affaritaliani.it
Ah… l’attendibilità scientifica quindi è?
Nessuna. I laboratori autorizzati sviluppano cicli da 35 e 41. Con questo metodo il virus lo troviamo ovunque
Vediamo se ho capito. Le faccio un esempio per capire. Più amplifico e più trovo, ma non vuol dire che la parte infinitesima che trovo crei un problema di qualche tipo. Bevo dell’acqua da un pozzo o da un rubinetto. L’acqua è limpida. Amplifico la ricerca nell’acqua in modo esasperato. Potrei trovare tracce di cocaina o di arsenico perché ho esagerato tantissimo l’amplificazione, l’ingrandimento di ciò che cerco, perché queste sostanze sono ovunque. Mi viene in mente questo esempio a fronte di quando si leggono quegli studi che raccontano l’aumento della cocaina nei fiumi delle grandi città. Ho capito bene?
Si, proprio così. Esempio azzeccato
Ma le persone dicono “però ci sono i morti…”. Come la mettiamo con i morti da Covid 19?
I morti da attribuire al Covid sono tutti da vedere e verificare. Nessuno dal punto di vista scientifico attribuisce a loro il titolo di morti solo di Covid. Nel momento in cui vediamo la mortalità da virus dobbiamo capire se il nesso di causalità esiste. È il virus che determina la morte o sono altri fattori? Perché per i vaccini viene utilizzato un altro criterio. Per le persone che sono morte dopo essersi vaccinate si sostiene che la colpa non sia del vaccino ma delle altre patologie. Com'è che questo criterio non vale per chi è stato colpito dal virus?
Giusta considerazione. Quindi è tutto sballato e ci stiamo muovendo in un sistema inattendibile?
Si e l’OMS ha dettato un protocollo specifico per gli asintomatici, dicendo che non è possibile considerare positivo al Covid chi ha solo fatto la PCR. L’OMS dice, a tutti gli Stati che devono rispettare il suo protocollo, ‘non potete considerare positivo chi ha fatto solo la PCR se non in presenza di due ulteriori elementi: l'evidenza clinica e quindi deve esserci un medico che visita il paziente con esami strumentale e qualora questi sia positivo al primo tampone PCR deve essere ripetuto l'esame con altra PCR, per potersi ritenere che sia contagiato. Ma sono dei protocolli che i nostri governanti non rispettano
E per i deceduti come la mettiamo?
Il governo doveva fare una task force per capire come evitare le morti che si collocano sostanzialmente in una fascia d’età superiore ai 75 anni. Invece ha fatto tutt’altro e le persone sono morte lo stesso
Cosa accade il 21 giugno al Tribunale di Roma?
Ci sarà la causa. Io ho prodotto in causa i documenti di riferimento non contestati dall’avvocatura di Stato. Nell’atto giudiziario ho prodotto l'elenco delle case produttrici di tamponi da cui emerge appunto che il Ministero della Sanità sviluppa da 35 a 41 cicli per dimostrare che è fuori legge. L' ECDC (European Center for Disease Control), cioè la massima autorità europea in materia sanitaria mi ha risposto confermando quanto dice la ricerca che cito nel ricorso è corretto. I cicli non devono superiori ai 24 o 25.
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fonte:
https://www.affaritaliani.it/coronavirus/min-sanita-iss-portati-in-tribunale-inattendibili-test-per-tracciare-virus-745710.html
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Il dramma della steppa. Alpini toscani in Russia 1942-43
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Il dramma della steppa. Alpini toscani in Russia 1942-43
“I russi erano dalla parte della ragione, e combattevano convinti di difendere la loro terra, la loro casa, le loro famiglie. I tedeschi d’altra parte erano convinti di combattere per il grande Reich. Noi non si combatteva nè per Mussolini, nè per il Re, si cercava di salvare la nostra vita“. Mario Rigoni Stern con questa frase inquadrò perfettamente lo spirito dei soldati italiani, quando in quel lontano 1942 furono inviati sul fronte russo in sostegno alle forze germaniche per l’occupazione dell’Unione Sovietica, in quella che l’alto comando del Reich definì con il nome di: “Operazione Barbarossa“, d’altronde chi mal comincia… La logistica funzionò malissimo: indumenti inadatti, mezzi ed armi inefficienti fecero capire subito a Mario Rigoni Stern e ai soldati italiani (e anche a quelli garfagnini) che l’obiettivo principale sarebbe stato quello di ritornare a casa sani e salvi.
Un numero mostruoso di esseri umani non riuscirono però nell’intento, nella sua totalità si parla di un numero imprecisato di morti fra militari e civili nell’ordine di alcuni milioni. L’Italia ebbe un bilancio spaventoso e pagò un prezzo altissimo con la sua scellerata decisione di immischiarsi in quello che ancora oggi rimane il più grande scontro militare della storia. Trentamila soldati rimasero feriti, ottantamila furono uccisi, rimasero dispersi o furono presi prigionieri. Con il tempo l’Unione Sovietica restituì diecimila prigionieri italiani e di altri settantacinquemila non si seppe più niente. Fra tutti questi grandi numeri rimane però da analizzarne uno, il più piccolo, quasi insignificante di fronte a queste grosse ed incredibili cifre, ci furono quattrocento-cinquecento giovani che non fecero più ritorno a casa, erano gli alpini garfagnini. Può sembrare un inezia, ma questa perdita per una valle di trentamila persone fu una delle più grosse tragedie della sua storia.Tutto cominciò quel maledetto 22 giugno 1941, quando i tedeschi, un po’ a sorpresa oltrepassarono il confine russo. Con l’impiego delle grandi unità corazzate e dei micidiali Stukas travolsero tutto e tutti in modo da non dar respiro ai soldati russi. In poche settimane i nazisti annientarono intere armate, avanzando per centinaia e centinaia di chilometri, la loro marcia era inesorabile e il successo sembrava sicuro. Di fronte a tutto questo Benito Mussolini non voleva rimanerne fuori e il 26 giugno arrivò la prima richiesta del duce a Hitler per intervenire al fianco dell’alleato germanico: “Sono pronto a contribuire con forze terrestri ed aeree e voi sapete quanto lo desideri. Vi prego di darmi una risposta in modo che mi sia possibile passare all’attività operativa”, il Fuhrer era titubante: “Se tale è la vostra decisione, Duce, che io accolgo naturalmente con il cuore colmo di gratitudine, vi sarà abbastanza tempo per poterla realizzare, l’aiuto decisivo lo potrete dare col rafforzare le vostre forze nell’Africa settentrionale”, ma Mussolini era più che mai deciso: “In una guerra che assume questo carattere, l’Italia non può rimanere assente“. E così il 10 luglio 1941 partirono i primi soldati per la lontana Russia, si chiameranno C.S.R.I (corpo di spedizione italiano in Russia).
22 giugno 41 i tedeschi passano il confine russo
La speranza era quella di un’operazione facile e rapida, nessuno badò all’inadeguatezza con cui furono mandati allo sbaraglio i nostri soldati; alcuni reparti percorsero a piedi 1300 chilometri prima di raggiungere il fronte, non c’erano nè armi, nè mezzi, nè indumenti all’altezza dell evento. Il primo successo italiano si ebbe comunque nella battaglia di Kiev, sulla scia degli alleati tedeschi, ma con il tempo le difficoltà cominciarono a farsi avanti e peggiorarono con l’arrivo del più grande e temuto generale… “il generale inverno”. I tedeschi cominciarono a rendersi conto di aver sottovalutato la potenza russa e il termometro sceso a -40 gradi fece il resto: dei sessantamila uomini del CSRI, quattromila rimasero congelati. A questo punto il comando tedesco che dapprima aveva guardato con sufficienza l’aiuto italiano, adesso chiedeva al duce l’invio di ulteriori uomini, il fronte da difendere era diventato estremamente vasto, urgevano rinforzi. Mussolini era comunque raggiante e ancora pieno di fiducia:“Al tavolo della pace peseranno più i duecentomila dell’A.R.M.I.R che i sessantamila del CSIR” . L’8 agosto 1942 Hitler scrive nuovamente al duce per avere le divisione alpine, partirono così le tre divisioni: Julia, Tridentina e Cuneense. Inizia così l’epopea in Russia degli alpini garfagnini. Tutti questi reparti faranno parte dell’ A.R.M.I.R (armata italiana in Russia) con il CSRI raggiungeranno l’impressionante numero di duecentoventimila uomini.
L’ARMIR in marcia
Con l’aumento della richiesta di alpini, il reclutamento di forze fu esteso non solo agli abitanti di coloro che vivevano a ridosso delle Alpi ma anche a coloro che vivevano nelle zone più idonee dell’Appennino, così i montanari abruzzesi del Gran Sasso e quelli delle Alpi Apuane furono immediatamente richiamati. La maggior parte dei garfagnini fu in gran parte arruolata nella divisione Cuneense e in particolare nel battaglione Dronero, per molti di loro era la prima volta che uscivano dalla cerchia delle loro montagne, al massimo potevano essere andati alla fiera di Santa Croce a Lucca; per molti di loro la chiamata alle armi sarebbe stata la prima esperienza di vita, si sentivano orgogliosi e fieri di questa nuova avventura. Remo De Lucia di Sillicagnana cambiò presto idea quando arrivò a Dronero con un metro di neve, era partito da casa con i vestiti peggiori e con un paio di scarpacce, tanto l’avrebbe rivestito l’esercito, la divisa gli fu però data dopo otto giorni, racconta poi che già in quella caserma c’erano un migliaio d’alpini male alloggiati, con servizi igenici insufficienti e quello che era peggio l’atmosfera era già cupa, niente a che vedere con l’entusiasmo di qualche mese prima. Naturalmente non sarebbe andato tutto liscio nemmeno nel trasferimento dall’Italia in Russia, Luigi Grilli di Pieve Fosciana narra che il suo treno si ruppe, altri commilitoni proseguirono a piedi mentre lui ed altri alpini rimasero sul vagone che una volta riparato fu trascinato da treno in treno fino al quartier generale italiano, una volta giunti lì, la vista di un cimitero fece tornare in mente ai soldati e al Grilli le vecchie abitudini di casa, era il 31 ottobre, il giorno dopo in Garfagnana era tradizione andare al cimitero a pregare per i propri morti, qualcuno volle dire un rosario, qualcun’altro ancora esclamò :- Allora anche in Russia si muore!-. Si, purtroppo si moriva e la battaglia di Stalingrado sarebbe stata il trionfo della morte, oltre un milione di vittime e i tedeschi vollero le nostre truppe proprio li. I nazisti concentrarono su Staligrado le forze più potenti, lasciando la riva destra del Don sorvegliata da caposaldi distanziati fra di loro da larghi vuoti, nei quali si potevano infiltrare i Russi, c’era quindi l’urgenza di costituire un fronte continuo ed era qui che fu impiegata l’ARMIR. Ma quegli uomini che non uccise l’Armata Rossa, le uccise l’inverno. Nei ricordi degli alpini garfagnini rimase indimenticabile quella stagione e se per molti l’inferno è paragonato al fuoco, alle fiamme e al caldo, per quelle persone aveva un colore solo: bianco. Il termometro precipitava a -30 come se niente fosse, nella notte era poi anche peggio quando si alzava il vento della steppa, il conducente di un mulo vide le sue dita congelate nonostante avesse i guanti di pelliccia, poichè reggeva la catena metallica dell’animale. Le parti del corpo umano che erano a maggior rischio di congelamento erano la punta del naso e delle orecchie e l’estremità delle dita, l’alpino Bastiano Filippi di Pieve Fosciana uscì per fare pipì, ebbe la sventurata sorte di toccare con la pelle nuda della coscia una parete di metallo, vi rimase clamorosamente attaccato e fu liberato a stento dai compagni, riportò una bruttissima ferita. Ma la tragedia si completò con i viveri, il cibo diventava un blocco di ghiaccio: patate, formaggio erano duri come pietre, il vino ghiacciava, bisognava spaccarlo con l’accetta. Arrivò poi quel 16 dicembre 1942; un po’ tutti ormai sapevano che i russi si stavano riorganizzando ma mai nessuno avrebbe immaginato il livello di potenza numerica e qualitativa che avrebbero raggiunto, tutto era quindi pronto per una controffensiva senza precedenti, così i sovietici dettero avvio sul Don all’operazione denominata “Piccolo Saturno”. I russi sfondarono sul fronte della Cosseria e della Ravenna, travolgendo poi le divisioni Pasubio, della Torino, della Sforzesca, della Celere. Sul Don resistette ancora, perchè non attaccato direttamente il corpo d’armata alpino, che ricevette poi l’ordine di ripiegare a inizio ’43.
Quel 16 dicembre ’42, portò allo smembramento totale dell’intero ARMIR che si dissolse in una tragica ritirata. A questo punto lo scopo per gli alpini garfagnini e per tutto il resto degli italiani era uno solo: tornare a casa vivi. L’esperienza di Bastiano Filippi è emblematica; si radunarono sedici o diciassette garfagnini, tutti ragazzi poco più che ventenni, si organizzarono e decisero che l’Italia era a ovest e di li cominciarono una lunga marcia, camminavano con i piedi fasciati per evitare il congelamento, oramai erano senza armi , e niente dovevano temere gli italiani dalla popolazione locale. In un isba (tipica costruzione di legno russa), racconta Remo, che furono accolti da due donne che gli offrirono due tazze di latte ed un intero pane nero, però furono folgorati da un pensiero che la propaganda fascista aveva inculcato ai soldati… e se i cibi fossero stati avvelenati? Le due donne capirono e prima le assaggiarono loro, gli chiesero poi se parlavamo la loro lingua, volevano parlare di Verdi, di Michelangelo, dell’Italia…il soldato si mise a piangere. La grande ospitalità della popolazione russa salvò molte vite, testimonianze “garfagnine” raccontano ancora che una vecchia non avendo altro dette loro un cetriolo e dei semi di girasole, un’altra pregava la Madonna perchè potessero tornare a casa dai loro cari. Nelle retrovie intanto partivano treni per il centro Europa, alcuni garfagnini fecero in tempo a salirvi fu un lungo tragitto fino a Vienna. Luigi Grilli racconta ancora la sua disperata ritirata, l’esercito ormai era in rotta e lui non sapeva più quale direzione prendere, non rimaneva altro che seguire la fiumana di gente. I suoi ricordi vengono fuori a sprazzi, i giorni e le notti di lunghe marce nella steppa sono rifiutati dalla sua memoria.
La sciarpa che gli aveva inviato la mamma era ormai un blocco di ghiaccio , attorno a lui si muoveva tutto, la fame e la stanchezza diventarono sempre più pesanti, ormai sfinito stava per sedersi sul ciglio della strada, inerme senza forze, lo salvò un tenente che lo sgridò, lo maltrattò e infine gli regalò una scatoletta di carne e letteralmente lo spinse avanti, il male ai piedi era insopportabile e l’errore più grosso fu quello di togliersi gli scarponi, non si li rimise più. La fame intanto non passava e quello che sognava era una bella tazza di latte caldo delle sue vacche garfagnine, ma la salvezza ormai era vicina, arrivò un treno, quel treno portava a Varsavia. Ma c’era anche chi tornò a guerra finita, fu il caso (fra i tantissimi)di Giovanni Bertolini, aveva ventitre anni, mancò da casa per tre lunghi anni. Per tornare alla sua terra partì dalla Russia con il treno insieme ad altri reduci, il 2 novembre 1945 raggiunse la Polonia, ad attenderli c’era l’ambasciatore italiano, consigliò a loro di fermarsi qualche giorno per rifocillarsi e riposare, ma la voglia di tornare a casa era tanta, ripartirono così senza accettare l’invito. Altra sosta fu in Germania, qui vennero accolti dagli americani e da una delegazione italiana, finalmente ricominciarono anche a mangiare, la sosta durò quindici giorni. Arrivati poi al Brennero si cambiarono d’abiti, di li ci sarebbe stato un autocarro che li avrebbe portati fino a Bologna. A Bologna infine un’ ennesimo treno passeggeri li avrebbe attesi, il treno però era stracolmo, la guerra era finita tutti volevano raggiungere qualcuno, addirittura c’era chi non voleva far salire questi garfagnini, ma quando ai passeggeri fu detto che erano reduci dalla Russia molti si alzarono in piedi facendo posto agli ex soldati. Finalmente si arrivò a Lucca, da li con mezzi di fortuna il nostro Giovanni s’inoltrò per la Garfagnana dilaniata e sventrata dalla guerra appena conclusa, poi l’ultimo tratto di strada a piedi, la mulattiera che porta a Livignano (Piazza al Serchio); improvvisamente cominciarono a suonare le campane a festa, chissà perchè suonavano, a Natale mancavano ancora cinque giorni. Qualcuno dalle case del paese l’aveva visto, le campane suonavano per lui. Era il 20 dicembre 1945.
Non ci fu comune della Garfagnana risparmiato da questa voluta tragedia. Gallicano come numero di deceduti fu la comunità che più di tutti fu colpita dal lutto di questa scellerata campagna, ma quello che conta non sono i più e i meno, quello che conta sono quei 437 uomini che non fecero mai più ritorno.
Bibliografia: “Alpini di Garfagnana strage in Russia 1942-43” di Lorenzo Angelini. Banca dell’identità e della memoria. Unione dei Comuni della Garfagnana anno 2014
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“Joyce era un genio. Come Mussolini”. La verità sul caso Pound
I fatti sono semplici. Nel 1913 Ezra Pound diventa il segretario particolare di William Butler Yeats. In quel cottage immerso nel Sussex ‘Ez’ ispira l’ultima fase della lirica di Yeats: lo inoltra ai misteri del teatro giapponese Nō, gli spiega il ‘modernismo’, ne galvanizza la poesia austera, classica. Parlando di poesia – nel 1908, in una tipografia veneziana, Antonini, Pound si paga cento copie del suo primo libro di liriche, A Lume Spento, l’anno prima, nel 1912, pubblica Ripostes – “Yeats si ricordò di un giovane scrittore irlandese di nome James Joyce autore di alcune raffinate poesie liriche. A Yeats, una di queste era rimasta impressa. Joyce viveva a Trieste. Perché non scrivergli? Pound gli scrisse subito” (Forrest Read). Buon Natale James! Il 15 dicembre 1913 Pound scrive la prima di parecchie lettere a Joyce: “Gentile signore, Yeats mi ha parlato dei suoi scritti. Collaboro in maniera informale con un paio di riviste giovani e squattrinate…”. Due settimane dopo, il giorno di Santo Stefano, Pound si fa più esplicito: “Gentile Mr Joyce, Yeats ha appena trovato la sua «Odo un esercito» e siamo rimasti entrambi molto colpiti. Questa è una lettera d’affari da parte mia e di complimenti da parte sua. Le chiedo di autorizzarmi a usare la poesia nella mia antologia di imagisti…”. Da allora Pound diviene “l’infaticabile sostenitore” dell’opera di Joyce.
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Sostenitore nella visione letteraria di Pound – che si fa carico dell’intero ‘modernismo’, dell’intera letteratura anglofona del suo tempo – significa: trovare editori, scrivere saggi, difendere dai detrattori, procacciare denaro ai suoi. Nel 1916 a Harriet Monroe, fondatrice di “Poetry”, a cui ha spedito alcune poesie di Joyce: “Riesce a pagarlo subito?… Si tratta di uno scrittore da sostenere. E per via della guerra ha già perso il lavoro a Trieste (quest’ultima NON è una motivazione di carattere estetico)… È una vergogna che non abbia guadagnato nulla dai suoi libri fino ad ora”.
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Nel maggio 1918 su “The Future”: “A Portrait di Joyce è acquisito alla letteratura; per alcune persone è diventato quasi una Bibbia della prosa… Se per artisti come James Joyce il prezzo è troppo grave, è l’artista stesso che paga, e se veramente Armageddon ci ha insegnato qualcosa, dovrebbe averci insegnato a detestare le mezze verità, e coloro che le dicono in letteratura”. Proprio quell’anno, su ispirazione di Pound, “The Little Review” comincia a pubblicare, a puntate, l’Ulisse di Joyce. Si tratta di un evento. Il numero di marzo, vol. V, No. 11, firmato da Margaret Anderson e da Ezra Pound come Foreign Editor dedica l’apertura all’Episode I di Ulysses (“Stately, plump Buck Mulligan came from the stairhead, bearing a bowl of lather on wich a mirror and a razor lay crossed…”). In quel numero leggendario figurano anche le Imagery Letters di Wyndham Lewis, un saggio di Pound (The Classics “Escape”), un articolo di Ford Madox Ford. Si ha la percezione di ammirare l’antro vulcanico della letteratura ‘del futuro’.
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Nel 1920 la rivista, come si sa, è costretta a bloccare le pubblicazioni dell’Ulisse, sotto processo per oscenità. L’episodio ‘incriminato’ è il tredicesimo, “Nausicaa”. Pound restò letteralmente stordito da “Ciclopi”. Così ne scrive a John Quinn: “L’ultimo capitolo ms. di Joyce forse la cosa migliore che ha fatto… Parodia degli stili, un espediente preso in prestito da Rabelais, ma mai fatto meglio… Il nostro James è un grrrand’uomo”. Nel giugno del 1922 Pound ‘lancia’ l’Ulisse con un lungo saggio su “The Dial”, dall’incipit roboante, “Tutti gli uomini dovrebbero ‘unirsi a lodare Ulysses’; coloro che non lo faranno, potranno accontentarsi di un posto negli ordini intellettuali inferiori”.
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Anche quando i grandi facevano fatica a scorgere la grandezza di Ulisse – a Virginia Woolf quelle sconcezze shakespeariane non garbavano, per fortuna T.S. Eliot, che s’apprestava a diventare il gran chierico della letteratura anglofona, benediva il ‘metodo mitico’ di JJ – Pound lavorava osannando Joyce. Questi sono i fatti. Nitidi, semplici, banali. Alla luce dei fatti, mi sembra, così, un poco fuorviante l’introduzione di Enrico Terrinoni – straordinario traduttore del Finnegans Wake per Mondadori, insieme a Fabio Pedone – alle Lettere a James Joyce di Pound, libro invero bellissimo, edito da il Saggiatore. Fin da subito, Terrinoni butta il sodalizio tra Pound-Joyce in politica, sbilanciando la natura del loro rapporto intellettuale (“Se un redivivo Joyce avesse fatto una passeggiata, di recente, per le vie di Bologna, avrebbe sorriso come ho sorriso io nel leggere una curiosa scritta su un muro, simile a quella del Libro di Daniele ma assai meno misterica: «+ CASE – POUND»”, proseguendo, “Joyce da tempo era scettico anche riguardo alle posizioni politiche di Pound, come a quelle di Wyndham Lewis d’altro canto, al punto che, sempre nelle lettere private, li accostò entrambi non soltanto a Mussolini, ma anche a Hitler”). Pur sottolineando che “Joyce stimava Pound, gli doveva molto, quasi tutto”, di fatto l’intro di Terrinoni fa l’effetto di una pernacchia a Pound – accusato di essere fascista e di non aver capito Finngans Wake – e di una medaglia a Joyce, più lungimirante in campo politico. Ciò che scrive Terrinoni è vero, buono, giusto: ma… perché tirare sempre in ballo i fervori politici di Pound? Perché l’ansia costante di stare dalla parte dei buoni, per non essere appestati dal virus poundiano?
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Agli esagitati non va giù il discorso di Pound In memoria di James Joyce pronunciato nel 1941 alla radio italiana. “Con Gente di Dublino e il Ritratto e Ulisse, la posizione di Joyce è sicura. E Ulisse primeggia tra i «grandi romanzi». Dall’Asino d’oro fino a Gargantua, Don Chisciotte, Bouvard e Pécuchet”, dice Pound. Poi, accennando al ‘genio’ di Joyce fa una sterzata micidiale: “Come scrittore mi sono dato a tutti e a nessuno. In quanto critico ho osservato per 30 anni uomini dotati d’insolito genio, senza limitare il mio campo d’osservazione solo agli scrittori. Il genio può esistere in ogni tipo di attività. Quanto al genio di Mussolini e di Hitler non sono io il solo a osservarlo”. Joyce un genio quanto Hitler e Mussolini: come è possibile? Cerchiamo di moderare l’estro ideologico. S’intende genio per carattere naturale, energia primigenia. Indubbiamente Mussolini e Hitler sono geniali (a differenza di Stalin, che si colloca all’interno di una sequela dell’idea). Allo stesso tempo, siamo certi che siano geni malvagi, ma cosa importa in questo contesto? Le stramberie di Pound sono usate per lapidarlo 47 anni dopo la sua morte. Piuttosto, immagino quelli che ascoltavano la radio, la voce terrosa del poeta che si dilunga in una disanima letteraria intorno a Joyce e all’Ulisse, con quell’augurio, memorabile, “In breve, questo romanzo non venne scritto per privare la gente della voglia di vivere. E Joyce non aveva tale abitudine nemmeno in privato, quando non aveva la chiesa tra i piedi. Possa il suo spirito incontrarsi con quello di Rabelais a Chinon e possano i bicchieri non essere mai vuoti. Era un grande scrittore, e aveva anche una bella voce da tenore, fatta per cantare Blarney Castle me darlint, o la Frau in Amsterdam, e fino a una certa età riusciva a far vibrare il lampadario come una ragazzina”.
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Secondo me, nessuno ha onorato il genio di Joyce con tale ardore e tale lungimiranza (per altro, salvando dall’incomprensione pure “Finnegans”, benché non lo capisse: “Un uomo che ha scritto tre capolavori ha diritto alla sperimentazione”). E poi, non bisogna dimenticare che per Pound l’opera è Storia e il poeta è uno che opera nella Storia – per questo genio può essere un poeta come un dittatore, conta l’individualità, cocktail tra Emerson e Carlyle. Cambierà opinione – o quasi – dopo i lustri in carcere, che lo raffinano nel silenzio.
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Va detta una cosa, visto che la buttiamo sempre in politica parlando di Pound. Nel 1941 “Pound si prepara a tornare in America. Il suo paese non è ancora in guerra, tuttavia al consolato americano a Roma gli viene limitata la validità del passaporto ed egli viene definito ‘uno pseudoamericano’. Interrompe i discorsi alla radio italiana quando l’America entra ufficialmente in guerra (Pearl Harbor, 7 dicembre 1941). Essendo stato ostacolato, a lui e alla sua famiglia, il rimpatrio sull’ultimo convoglio diplomatico, resta in Italia e riprende i suoi discorsi alla radio, stabilendo il principio che ‘libertà di parola, senza libertà di parola alla radio, equivale a zero’” (così la Cronologia nel ‘Meridiano’ Mondadori poundiano a cura di Mary de Rachewiltz). Nel 1941 Pound, che potrà essere un idiota politico, un lirico cretino, vuole tornare in patria – e la patria glielo impedisce. Il resto è noto. Se la testimonianza della figlia di Pound vi pare partigiana, ecco quanto scrive Piero Sanavio (quello che ha studiato i Cantos prima di tutti, che ha fatto visita a Pound al manicomio criminale di Washington e capì che il poeta “di politica non capiva nulla”) nell’introduzione ai Radiodiscorsi editi dalle Edizioni del Girasole (Ravenna, 1998). “La collaborazione di Pound con la radio fascista iniziò prima che gli Stati Uniti entrassero in guerra. Continuò dopo l’attacco di Pearl Harbour, a conseguenza del rifiuto, da parte di un’autorità consolare americana a Roma di concedergli il visto per ritornare in patria. Pound aveva già in tasca i biglietti per un passaggio nell’ultimo convoglio diplomatico che il governo americano aveva messo a disposizione dei cittadini che intendessero rimpatriare. Messo in condizioni, da un rappresentante del suo paese, di restare in territorio nemico per la durata della guerra, Pound dopo qualche esitazione riprese le trasmissioni da Radio Roma”.
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Il tassello centrale di questa storia bastarda è l’articolo, che fa storia, di Richard H. Rovere, The Question of Ezra Pound, pubblicato il primo settembre del 1957 su “Esquire”. “Il governo, se lo desiderasse, potrebbe agire non solo per ragioni di giustizia, ma di generosità. Invece, è restato a guardare mentre personaggi piuttosto laidi, inviati in Germania, Italia e Giappone, veri criminali di guerra, ora godono di grande rispetto. L’identità criminale di Pound è tanto irrisoria per la storia quanto è grande la sua poesia”. Lo zenit toccato da Rovere – “ancora nel 1942 il poeta tentò di imbarcarsi sull’ultimo treno diplomatico che avrebbe portato i cittadini americani da Roma verso Lisbona. Gli fu impedito. Non gli restò che restare a Rapallo” – porta alla fatale domande, che da Rovere passa a Sanavio, “Se Pound fu messo nelle condizioni di non poter rimpatriare dalle autorità del suo paese, l’arresto e l’accusa di tradimento erano costituzionali?”. Come si sa, il governo, di fronte all’inchiesta di Rovere, tirò fuori l’abito buono e rilasciò Pound, nell’aprile del 1958.
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Che palle, anche quando si parla di letteratura, con Pound, si finisce sempre a sprecarsi in vaniloqui politici. (d.b.)
*In copertina: James Joyce con il nipote, Stephen James, nel 1934
L'articolo “Joyce era un genio. Come Mussolini”. La verità sul caso Pound proviene da Pangea.
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La data del 30 agosto 1941 segna l'effettivo inizio dell'assedio della città di Leningrado; giorno in cui si ebbe l'ultimo collegamento ferroviario con la città e in cui i soldati tedeschi raggiunsero il fiume Neva.
Ancora prima dell’invasione della Russia da parte delle forze naziste, il 22 giugno del 1941, furono messi a punto con l'Operazione Barbarossa i piani che portarono verso Leningrado forze consistenti in più di un milione di uomini, 600 carri armati e 1000 aerei. L’armata nazista prese il controllo di Leningrado nell’arco di quattro settimane, già dal 21 luglio del 1941: Hitler sembrava infatti ben deciso ad una rapida presa della città per utilizzare le stesse forze militari in vista di un attacco a Mosca. All’inizio dell’azione tutte le previsioni e le tappe vennero rispettate e mano a mano che i nazisti conquistavano territori, le truppe russe venivano messe in fuga.
Al comando dell’operazione c’era il feldmaresciallo Von Leeb al quale Hitler aveva ordinato di provocare all’esercito russo perdite assai più devastanti di quelle causate all’esercito francese; Leningrado era infatti destinata a diventare la prima grande città russa conquistata dai tedeschi.
In tutta la sua lunga storia Leningrado non era mai stata attaccata e ora i suoi abitanti si preparavano a difenderla. Sin dai primi giorni della guerra centinaia di migliaia di leningradesi si arruolarono nell’esercito formando intere divisioni militari.
La prima linea di difesa passava sulla Lugà, a un centinaio di miglia a ovest della città: questa linea fermò i tedeschi per qualche settimana. La seconda linea di difesa era collocata presso l’istmo di Karelia a circa 25 miglia da Leningrado, mentre il sistema di difesa estremo era collocato a circa 22 miglia dalla città per tutto il suo circondario.
I primi attacchi aerei sulla città cominciarono nella giornata del 6 di settembre e proseguirono per tutto il giorno. I russi attaccavano decisamente sulla linea della Lugà e i tedeschi ripiegavano verso nord, dove il cerchio si stringeva sempre di più attorno alla città. Nei primi di settembre i fascisti penetrarono nelle linee di difesa e, nonostante la resistenza, riuscirono comunque a giungere fino al lago Ladoga. Leningrado fu accerchiata.
Von Leeb cominciò l’attacco a Leningrado in condizioni di netta superiorità numerica di carri armati e aerei senza però riuscire a conquistarla per 900 giorni. Il maresciallo russo Žukov chiese l’invio di nuove riserve e riuscì a mettere insieme una notevole forza di 50.000 uomini cominciando il contrattacco. Egli ordinò: “Resistere o morire”.
L’inverno del 1941 arrivò presto e fu particolarmente rigido. Tutto ciò peggiorò in maniera significativa le condizioni degli abitanti di Leningrado, già svantaggiati dai blocchi delle vie di rifornimento. A novembre, la gente cominciò a morire di fame. Ma l’inverno, inaspettatamente, aprì la via della salvezza: il lago Ladoga a nord di Leningrado aveva una parte completamente congelata e da quel corridoio, denominato ''la strada della vita'' i convogli facevano arrivare prodotti e portavano via persone.
La primavera del 1942 portò nuova speranza, ma non cancellò il ricordo: la città si ravvivò, benché non fosse una resurrezione quanto piuttosto una nuova fiducia nella vita. Molti cattivi profeti già prevedevano una repentina caduta dell'impero sovietico, invece i semplici cittadini, anche solo continuando le loro solite occupazioni diedero un grande impulso morale alla resistenza.
Era passato quasi un anno e Leningrado, nonostante tutto, viveva. L’armata tedesca si preparava ad affrontare il suo secondo inverno nei boschi intorno alla città e non sarebbe stato neanche l’ultimo.
Il primo grande attacco dell’esercito sovietico fu posto in essere da circa 200.000 soldati da nord su due fronti nel gennaio del 1944. La linea difensiva tedesca fu distrutta e furono portati attacchi da tre direzioni. Quando le truppe russe si ricongiunsero, fu ricostituito un golfo e Leningrado terminò di essere un’isola. L'assedio era finalmente terminato.
Dalla nera polvere, dal posto
Della morte e delle ceneri, risorgerà il giardino come prima.
Così sarà. Credo fermamente nei miracoli.
Sei tu che mi hai dato questa fede, mia Leningrado.
Olga Bergol'c
Infoaut
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A 107 anni ci lascia il generale dell’Aeronautica Oreste Genta. L’Aeronautica piange colui che ha scritto un importante pezzo di storia d’Italia
Il due novembre scorso il Generale dell’Aeronautica Militare Oreste Genta aveva compiuto 107 anni e oggi si è spento un grande uomo e un grande comandante che ha segnato con il suo coraggio e il suo servizio la storia dell’aviazione e dell’Aeronautica militare italiana. La Forza Armata ha sempre ricordato con orgoglio l’ufficiale pilota che nella sua carriera ha percorso la storia dell’Aeronautica Militare e che ancora nel 2016, con lucidità fuori dal comune, riusciva a percorrere i passaggi storici e decisivi dell’Arma Azzurra e dell’Italia, durante i periodi più bui della seconda guerra mondiale. https://www.youtube.com/watch?v=ThtKqZaIFKU Il Generale Oreste Genta nacque a Frasso Sabino, in provincia di Rieti, il 2 novembre del 1911. Nel 1931 entrò nella Regia Aeronautica come allievo presso la Regia Accademia Aeronautica di Caserta dove frequentò il Corso Leone. Venne promosso Sottotenente il 1 ottobre 1933, e conseguì il brevetto di pilota d’aeroplano il 3 giugno 1934 volando a bordo di un biplano da addestramento Breda Ba.25, ed in seguito quello di pilota militare il 19 febbraio 1935. Promosso Tenente pilota il 15 luglio 1935, conseguì il brevetto di Osservatore Marittimo il 5 gennaio 1936, prendendo servizio il 1 febbraio 1937 nell’Aviazione dell’Alto Tirreno volando su velivoli idrovolanti Savoia-Marchetti S.59. Dal febbraio 1937 si imbarcò sull’incrociatore leggero Armando Diaz volando a bordo dei ricognitori catapultabili IMAM Ro.43 Maggiolino. Il 16 giugno successivo passò sull’incrociatore pesante Trieste, per passare poi sul Duca degli Abruzzi e quindi sul Pola. Venne promosso Capitano in data 15 luglio 1938. Nell’aprile 1939 prese parte alle operazioni per l’occupazione dell’Albania e il 16 settembre dello stesso anno fu assegnato alla Scuola di Osservazione Marittima come comandante della 3ª Squadriglia dotata di idrovolanti Savoia-Marchetti S.62. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia, il 10 giugno 1940, nel mese di luglio assunse il comando della 141ª Squadriglia da Ricognizione Marittima Lontana, di base a Brindisi, ed equipaggiata con gli idrovolanti CANT Z.501 Gabbiano. Il 13 ottobre 1941 venne trasferito presso il Comando dell’Aviazione per la Marina in Libia, dove assunse il comando della 196ª Squadriglia R.L.M. di base a Bengasi. Il 18 aprile 1942, ai comandi di un idrovolante Z.501, mentre era di scorta ad un convoglio navale, aiutò a respingere un attacco portato da velivoli avversari, e per questo fu decorato con una prima Medaglia d’argento al valor militare. Nell’agosto 1942 prese servizio presso il Comando Aviazione per lo Jonio e Basso Adriatico come comandante della 142ª Squadriglia R.L.M., dotata sia dei CANT Z.501 che dei più potenti trimotori CANT Z.506 Alcione Promosso Maggiore il 20 ottobre successivo, a partire dal 26 aprile 1943 prese servizio presso lo Stato maggiore della Regia Aeronautica decentrato a Palestrina, Roma. Giudice presso il Tribunale militare di Taranto, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 rimase in servizio presso l’Italian Co-Belligerent Air Force, e il 27 settembre 1944 assunse il comando del 82º Gruppo Idrovolanti di stanza sull’idroporto Luigi Bologna di Taranto. Dopo la fine delle ostilità transitò in servizio nella neocostituita Aeronautica Militare, e passato alla Scuola addestramento idro venne promosso Tenente Colonnello il 1 dicembre 1948, imbarcandosi poi sulla nave da battaglia Caio Duilio come Ufficiale di collegamento. Dopo aver frequentato il Corso Superiore presso la Scuola di guerra aerea, nel 1951 venne destinato all’Istituto di Guerra Marittima come insegnante di Arte Militare Aerea. Promosso Colonnello il 1 febbraio 1952, dopo aver frequentato la Scuola di Volo Senza Visibilità di Latina assunse il Comando del Reparto Volo della 46ª Aerobrigata. Divenne Generale di Brigata Aerea il 12 marzo 1960, e il 15 settembre 1962 assume il comando della 36ª Aerobrigata Interdizione Strategica, equipaggiata con i missili balistici a testata nucleare PGM-19 Jupiter, avente Quartier generale a Gioia del Colle. Lasciò il prestigioso incarico il 1 luglio 1963, in seguito alla decisione di chiudere la Grande Unità dopo la crisi dei missili di Cuba, per assumere il comando del Settore Aereo della Sardegna. Il 20 novembre 1965 è promosso Generale di Divisione Aerea, e il 31 dicembre 1968 Generale di Squadra Aerea, assumendo il comando della III Regione Aerea di Bari il 18 ottobre 1969. Lasciò il comando della Regione Aerea al Generale Emanuele Annoni il 1 febbraio 1972 e venne posto in posizione ausiliaria, per passare in congedo assoluto il 3 novembre 1984. Dopo la fine della sua carriera militare fu per quattro anni presidente dell’opera Nazionale Figli degli Aviatori (ONFA). Nel corso della sua lunga e brillante carriera è stato insignito con una serie di importanti e prestigiose onorificenze. Medaglia d’argento al valor militare con la seguente motivazione “Comandante di una Squadriglia, primo pilota a bordo di un apparecchio da R.M. in missione di scorta a.s. ad un nostro importante convoglio, attaccato da tre apparecchi nemici accettava e sosteneva eroicamente l’impari lotta. Ferito insisteva nel combattimento e per tre volte riportava il suo apparecchio contro il nemico che intanto aveva colpito altri due membri dell’equipaggio e gravemente danneggiato i cavi di comando. Deciso a proteggere dal bombardamento il prezioso convoglio aveva finalmente ragione della superiorità numerica avversaria mettendo in fuga gli assalitori. Cielo del Mediterraneo centrale, 28 aprile 1942”. Medaglia d’argento al valor militare con la seguente motivazione: “Comandante di Squadriglia da Ricognizione Marittima, partecipava a numerose missioni di volo di scorta a.s. e di esplorazione su zone di mare particolarmente soggette all’insidia aerea e navale nemica, prodigandosi al buon esito delle missioni. Dava prova di senso del dovere e di sprezzo del pericolo. Cielo del Mediterraneo e dell’Africa Settentrionale Italiana, luglio 1940 – XVIII – giugno 1942 – XX”. Medaglia di bronzo al valor militare con la seguente motivazione: “Comandante di Squadriglia da ricognizione marittima, partecipava a numerose missioni di guerra. Capo Equipaggio nel corso di una missione di scorta ad un nostro convoglio, veniva attaccato da numerosi apparecchi nemici. Con l’apparecchio colpito in varie parti, riusciva a disimpegnarsi e concalma esemplare, si portava nuovamente sulla zona delle ricerche dando le relative segnalazioni sui naufraghi di un piroscafo colpito. Esempio di attaccamento al dovere e di elevate virtù militari. Cielo dello Jonio, 30 agosto 1942- 2 maggio 1943”. Croce di guerra al valor militare “Cielo dello Jonio, 30 agosto 1942- 2 maggio 1943”. Croce al merito di guerra Medaglia commemorativa della Campagna di Spagna (1936-1939) Medaglia commemorativa della spadella spedizione in Albania Medaglia commemorativa del periodo bellico 1940-1943 Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana (27 dicembre 1969) Medaglia Mauriziana al merito di 10 lustri di carriera militare Croce d’oro per anzianità di servizio Read the full article
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