#convenzione di Ginevra
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manifesto dei docenti per gaza
MANIFESTO DEI DOCENTI PER GAZA Condanniamo fermamente le violazioni del Diritto Umanitario Internazionale e della Convenzione di Ginevra, sottolineando la chiara violazione di diritti fondamentali nei confronti dei bambini di Gaza. Chiediamo un immediato cessate il fuoco per porre fine al massacro in corso e garantire la sicurezza e la protezione dei bambini e delle popolazioni…
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#accoglienza scolastica#appello#cease fire now#ceasefire#ceasefire now#cessate il fuoco#cessate il fuoco ora#cessate il fuoco permanente#children#Convenzione di Ginevra#diritti dei bambini#diritti fondamentali#diritti umani#Diritto Umanitario Internazionale#Gaza#Geneva Convention#genocidio#genocidio in Palestina#human rights#Palestina#Palestine#palestinesi#permanent ceasefire#scuola#scuole#stop al genocidio#stop al genocidio del popolo palestinese
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Mediterranea
Morto Bija. Trafficante di esseri umani. Collaborava con il Governo italiano
Ieri sera tutte le agenzie hanno battuto la notizia dell'uccisione avvenuta a Tripoli di "Bija", il trafficante di esseri umani e alto ufficiale della cosiddetta guardia costiera libica.
Bija, ricercato internazionale per crimini contro l'umanità, era la prova vivente delle collusioni tra il governo italiano, quello attuale e i precedenti, e i grandi trafficanti di persone, armi, droga, petrolio. Il fatto che Bija fosse un alto ufficiale di quella che viene definita "Guardia costiera" ma in realtà è una copertura anche per far viaggiare milioni di euro dall'#Italia alla #Libia, necessari per pagare il lavoro sporco di cattura in mare, deportazione e detenzione di migliaia di donne, uomini e bambinǝ migranti, non figura nemmeno come interrogativo nei lanci di agenzia. Si descrive questo esponente della milizia di #Zawhya per come risulta dalle numerose inchieste, anche della Corte dell'#Aja, ma poi non una parola sul fatto che fosse uno dei destinatari di soldi e mezzi forniti dall'Italia. Le sue foto a bordo delle motovedette italiane spiccano.
E dunque per noi, che Bija l'abbiamo conosciuto grazie ai racconti di persone migranti che abbiamo avuto a bordo, che ci hanno raccontato le torture, gli stupri, le sofferenze che era capace di infliggere ad altri esseri umani, non è la sua morte violenta il tema. I gangster, i capimafia, di solito vengono eliminati in questo modo. E qualcuno ora prenderà il suo posto, e non sarà migliore di lui. Il tema per noi è come sia possibile che questo paese, il nostro, non si fermi subito e chieda conto alla presidente del consiglio, al ministro Piantedosi, di questi rapporti con le mafie dei trafficanti e dei torturatori. Come è possibile che un parlamento come quello italiano, non batta ciglio vedendo queste cose. Anzi. Piantedosi, uno che "lavora sistematicamente" ai respingimenti di esseri umani, vietati dalla Convenzione di #Ginevra, rivendica i suoi "successi". Ecco, ora che è morto Bija, dovranno certamente sostituirlo. Ma questo mondo abbonda di macellai, purtroppo.
Ma non chiedano a noi di "collaborare" con questi loro amici. Noi non collaboriamo con chi tortura, uccide, stupra e ottiene milioni di euro attraverso il business del respingimento. Quando Piantedosi ci punisce perché non abbiamo collaborato con i banditi, per noi è una medaglia al valore.
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CIOÈ i bambini li fanno pure cantare per ultimi questo va contro la convenzione di Ginevra
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[...] Come giornaliste, giornalisti, video e fotoreporter siamo sconvolti dal massacro dei nostri colleghi, delle nostre colleghe e delle loro famiglie da parte dell'esercito israeliano. Siamo al fianco dei nostri colleghi e delle nostre colleghe di Gaza. Senza di loro, molti degli orrori sul campo rimarrebbero invisibili. Ci uniamo alle nostre colleghe e ai nostri colleghi statunitensi e francesi nel sollecitare la fine delle violenze contro i e le professioniste dell’informazione a Gaza e in Cisgiordania, e per invitare i responsabili delle redazioni italiane ad avere un occhio di riguardo per le ripetute atrocità di Israele contro i palestinesi. Le nostre redazioni, senza il lavoro di chi ora è sul campo, non sarebbero in grado di informare il pubblico italiano rispetto a ciò che sta accadendo nella Striscia. Eppure, la narrazione quasi totalitaria della nostra stampa sembra essere poco oggettiva nel riportare le notizie. Molteplici redazioni italiane e occidentali stanno continuando a disumanizzare la popolazione palestinese e questa retorica giustifica la pulizia etnica in corso. Negli anni sono state diverse le accuse di doppio standard. Tra le più eclatanti il caso della BBC, analizzato dalla Syracuse University nel 2011 e lo studio di come, negli ultimi 50 anni, la stampa statunitense ha coperto le notizie relative alla questione palestinese con una predilezione per il punto di vista israeliano. Nel 2021 più di 500 giornalisti hanno firmato una lettera aperta in cui esprimevano preoccupazione per la narrazione dei fatti di Sheikh Jarrah. Nelle stesse settimane, diversi accademici italiani hanno inviato una lettera aperta alla Rai in merito alla copertura delle stesse notizie. Le nostre redazioni hanno in troppi casi annullato le prospettive palestinesi e arabe, definendole spesso inaffidabili e invocando troppo spesso un linguaggio genocida che rafforza gli stereotipi razzisti. Sulla carta stampata e nei programmi di informazione, la voce palestinese è troppo spesso silenziata. Non è stato dato abbastanza spazio a giornalisti e giornaliste arabofone esperti ed esperte sul tema, che sarebbero in grado di dare anche il punto di vista dei Paesi della regione. La copertura giornalistica ha posizionato il deprecabile attacco del 7 ottobre come il punto di partenza del conflitto senza offrire il necessario contesto storico - che Gaza è una prigione de facto di rifugiati dalla Palestina storica, che l'occupazione di Israele dei territori della Cisgiordania è illegale secondo il diritto internazionale, che i palestinesi sono bombardati e attaccati regolarmente dal governo israeliano, che i palestinesi vivono in un sistema coloniale che usa l’apartheid e che in Cisgiordania continuano i pogrom dei coloni israeliani contro la popolazione indigena palestinese. Gli esperti delle Nazioni Unite hanno dichiarato di essere "convinti che il popolo palestinese sia a grave rischio di genocidio", eppure diversi organi di informazione non solo esitano a citare gli esperti, ma hanno iniziato una campagna denigratoria contro esperti indipendenti delle Nazioni Unite, come Francesca Albanese, Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati. Il nostro compito, però, è fare informazione, fare domande scomode e riportare i fatti. L’omissione delle informazioni e il linguaggio che incita alla violenza, come la richiesta della bomba atomica su Gaza, sono comportamenti che rischiano di diventare complicità di genocidio, ai sensi dell’art. II.c della Convenzione di Ginevra del 1948 sul genocidio. [...]
Via - Lettera aperta: Condanna della strage di giornalisti a Gaza e richiesta di una corretta copertura mediatica della pulizia etnica e del rischio genocidio in corso.
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Adriano Sofri
Sugli scudi umani.
Caro Claudio Cerasa. Ci sono frasi piene di senso, che pronunciamo con convinzione, insieme. Poi viene voglia di pensarci su. Hamas, diciamo, abusa anche della gente di Gaza come di scudi umani, oltre che degli ostaggi rapiti. Ci fermiamo qua? Qual è la conseguenza? Tu hai intitolato: “I civili di Gaza sono tutti sulla coscienza di Hamas”. Ma non è così, non solo. Se fosse così, non esisterebbe la questione degli scudi umani. Hamas non ce l’ha la coscienza, e se ce l’ha è diversissima dalla nostra, oltre che dal famoso diritto internazionale. Ho scorso quello che se ne dice: nell’art.28 della Quarta Convenzione di Ginevra, nell’art.51 del Primo Protocollo Addizionale, nell’art.8 dello Statuto della Corte Penale Internazionale, o in documenti meno universali, come il Manuale sul diritto di guerra del Dipartimento di Stato USA (2015). Antico come il mondo, cioè come la guerra, l’impiego di scudi umani si è moltiplicato via via che cresceva la capacità di risonanza dei mezzi di informazione. Chi è abituato a trovarsi dalla parte “regolarmente” più forte tende a ridurre la proporzionalità necessaria ad agire contro chi faccia uso di scudi umani, all’opposto di chi conduca un’azione militare o di forza “irregolare” e tanto più se terrorista. L’impiego di scudi umani non può legare per intero e senza riserve le mani al nemico. Ma appunto chi si stia battendo contro un obiettivo militare deve osservare una proporzione fra il suo legittimo scopo e il danno “collaterale” che ne può derivare alle vite dei civili e delle persone protette: “L’uso di scudi umani da parte di una delle parti in conflitto non libera l’altra dalle obbligazioni del diritto internazionale umanitario...”. E’ abbastanza in voga oggi un’irrisione del “diritto umanitario”, come di un lusso superfluo e comunque di una irrilevante litania. Ma dietro – o davanti – al “diritto internazionale” sta una questione morale decisiva per la scelta di ciascun attore, singola persona o banda armata o Stato. L’infamia di chi si serve di scudi umani, per la sua rapina in banca o per la sua guerra mondiale, non toglie affatto a chi le si oppone una drammatica responsabilità. Dovrebbe essere ovvio, ma sembra esserlo sempre meno. Se non lo fosse più, il riferimento stesso agli “scudi umani” non avrebbe ragione di sussistere: “peggio per loro”. Sussiste, perché si riconosce una differenza fra coloro che vi fanno ricorso e coloro cui il sacrificio di innocenti ripugna. E non si può invocare, per accantonare il dilemma, la situazione di emergenza in cui si presenta: l’impiego di scudi umani è per definizione un’emergenza estrema - benché non faccia che diffondersi, e raggiunga dimensioni tremende come quella della popolazione civile di Gaza. Sebbene a denunciarla sia, fra tanti, la Cina degli Uiguri e del Tibet, la “sproporzione” di bombardamenti e coazione al trasferimento della popolazione civile non è meno vera. (Il diritto, se non sbaglio, non è stato abbastanza lugubremente fantasioso da immaginare che il crimine di guerra del trasferimento forzato della popolazione civile all’interno di uno stesso territorio non venga addebitato a chi lo “difende”, ma a chi attacca, com’è oggi a Gaza). L’assalto di Hamas del 7 ottobre ha una portata spaventosa di ferocia e abiezione, ma questo appunto stabilisce un termine alla proporzionalità della risposta, non la abolisce.
C’è bensì una “dottrina” favorevole a ridurre fino ad abolirla la responsabilità di chi si confronta con l’abuso di scudi umani, sostenendo che segnerebbe una disparità inaccettabile fra gli opposti belligeranti. E arrivando a prevedere che, se il ricatto degli scudi umani venisse bellamente ignorato – qualcuno è maestro, per esempio il Putin della scuola di Beslan e del teatro Dubrovka – si cesserebbe di ricorrervi. Pretesa che, nel suo esplicito cinismo “realista”, mette sullo stesso piano “belligeranti” come, oggi, Israele e Hamas, che è esattamente ciò che si vuole rifiutare. (Osservo che in parecchie circostanze Israele in passato seppe sfuggire a diatribe come la tipicamente nostra su fermezza e trattativa, mettendo al primo posto la salvezza degli ostaggi e rinviando puntualmente la punizione). Comunque, anche le posizioni più spinte in questa direzione, come quella dell’aeronautica militare degli USA, dichiarano la possibilità di “attaccare obiettivi legittimi protetti da civili e considerarli danni collaterali, purché non risultino eccessivi rispetto al vantaggio militare concreto e diretto che ci si aspetta di ottenere”.
In un’altra, più precoce puntata della guerra perenne, nel 2009, Stefano Levi della Torre, chiarendo che “l’ostilità che circonda Israele non è solo rivolta alla sua politica, ma alla sua stessa esistenza”, scrisse: “Si dice, spesso a ragione, che i terroristi si fanno scudo dei civili. Dunque i civili sono ostaggi. Si massacrano gli ostaggi? La pratica degli scudi umani è ignobile perché espone cinicamente degli esseri umani al sacrificio, ma perché dovrebbe essere meno ignobile l’azione di chi quel sacrificio lo compie sparando comunque? O forse la convivenza della popolazione con Hamas è intesa di per sé come connivenza, nell’idea aberrante di una colpa collettiva a giustificazione del massacro. Ma non è questa un’idea esattamente simmetrica a quella dei terroristi contro cui si combatte, non solo per necessità ma anche in nome dei ‘nostri principi superiori’?”
Non ti scrivo per esporre un dissenso. Un eventuale dissenso è la situazione ordinaria della mia ospitalità qui. Provo a far emergere un tema che ci riguarda intimamente. In alcune prese di posizione di questi giorni sembra che l’antico occhio della pietà si voglia chiudere: in realtà, si è così spalancato sul pogrom del sabato 7 da imporsi di chiudersi sui contraccolpi, come temendo che una pietà distribuita si diminuisse e facesse torto alle vittime proprie. Lo provo anch’io. In questi giorni si è riletta – lo si faccia di più, e senza limitarsi alle citazioni, andando da capo a fondo – la commemorazione che Moshe Dayan fece, il 29 aprile 1956, del suo amico Roy Rotenberg, agente ventunenne ucciso nel suo kibbutz al confine di Gaza. “Ieri all’alba Roy è stato assassinato. La quiete della mattina di primavera lo aveva accecato, e non ha visto coloro che, nascosti dietro il fosso, lo volevano morto. Non dedichiamoci oggi a deplorare i suoi assassini. Che cosa possiamo dire del loro odio terribile verso di noi? Da otto anni si trovano nei campi profughi di Gaza e hanno visto come, davanti ai loro occhi, abbiamo trasformato la terra e i villaggi che erano loro, dove loro e i loro antenati abitavano in precedenza, facendoli diventare casa nostra”. Si può dire, e quando lo disse Dayan voleva dire “Siamo condannati a combattere”, non invocava la pace – lo avrebbe fatto, più tardi. In Israele, non solo su Haaretz, voci rigorose e impavide si levano a denunciare le colpe del governo e di un’intera storia. Ci se ne serve a vanvera. Noi, alcuni di noi, non riusciamo a essere altrettanto rigorosi. Io non posso essere così reciso, perché non sono ebreo (credo: nessuno può dirlo, di sé) e ancor meno ebreo israeliano. Sono (forse) meno legato all’ebraismo, ma più responsabile. Corresponsabile. Mi ero interrogato sulla frase del cancelliere Scholz: “La nostra storia, la nostra responsabilità derivante dall'Olocausto, ci impone il dovere perenne di difendere l'esistenza e la sicurezza dello Stato di Israele". Ieri Maurizio Maggiani ha protestato vivamente – “un lavacro di coscienza sulle spalle degli altri” - ed Ezio Mauro ha vivamente approvato – “la democrazia del dovere”. Io dubito, ma in quella frase è implicita, con il peso schiacciante che le viene dal vincolo con uno Stato e il suo passato, la responsabilità personale cui alludo, e che riguarda la sopravvivenza di Israele. Oggi qualche vecchia canaglia e molti giovani senza memoria mostrano di non aver più bisogno di mascherare sotto il nome di antisionismo il loro antisemitismo, e forse anche dire questo è troppo, rispetto all’insofferenza che esibiscono al nome di ebreo. Della Shoah, quando credono di sapere che cos’è, la considerano usurpata e la dichiarano prescritta. A Odessa, a Sderot, a Gaza, forse siamo davvero sull’orlo di un precipizio che appena due o tre anni fa non sapevamo nemmeno immaginare. Quando si arriva al punto, bisogna mirare alla salvezza. Chi ha memoria, è un po’ meno libero. Aveva un passato mirabile Willy Brandt, e non era libero, e perciò si inginocchiò davanti al monumento alla rivolta del ghetto a Varsavia nel 1970. Ciò cui può appigliarsi chi è fuori e non veda una luce è l’immedesimazione: che cosa farei se fossi ad Ashkelon, che cosa se fossi a Gaza. Non saprei che fare, probabilmente, e allora che cosa pregherei che succedesse, o che non succedesse. Per che cosa sto pregando.
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Ok che erano anni che non si potevano fare le sagre ma le cover band di Vasco e Ligabue alla domenica sera sono contro le convenzione di Ginevra.
E non ce l'ho perché la sagra è a 400m da casa mia. Preferirei serata liscio e Casadei ngl.
Grazie Reagan, bombardaci, Giulio.
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Lo pseudo comico all’una meno cinque è contro tutte le leggi umane e la convenzione di Ginevra
#io voglio solo vedere la classifica finale e andare a fare la nanna#sanremo#sanremo 2023#italian posting
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(via Oscar 2025 Miglior film internazionale: la Cina seleziona The Sinking of the Lisbon Maru)
Nella corsa agli Oscar 2025, la Cina schiera il documentario The Sinking of the Lisbon Maru di Fang Li, incentrato su un tragico evento bellico. Il film non solo racconta un episodio oscuro della seconda guerra mondiale, ma funge anche da vivido promemoria della crudeltà della guerra e del coraggio della gente comune. The Sinking of Lisbon Maru, uscito nelle sale il 6 settembre, ha incassato più di 15 milioni di yuan (2,11 milioni di dollari) al botteghino. Il film ha anche ottenuto un punteggio di 9,3 su Douban, l'equivalente cinese di IMDb, con oltre 14.000 commenti sulla piattaforma. La Lisbon Maru era una nave cargo giapponese armata utilizzata durante la seconda guerra mondiale per trasportare più di 1.800 prigionieri britannici (POW) da Hong Kong al Giappone, senza alcun cartello che indicasse che trasportava POW, una violazione della Convenzione di Ginevra. Nell'ottobre del 1942, la nave fu colpita da un siluro di un sottomarino statunitense. Ciò che seguì fu una tragedia inimmaginabile: i soldati giapponesi sigillarono i prigionieri sottocoperta, lasciandoli annegare e persino sparandogli mentre tentavano di scappare, uccidendo ben 828 persone. Quando la nave si avvicinò alla costa delle isole Zhoushan nella provincia di Zhejiang, nella Cina orientale, 384 sopravvissuti furono fortunatamente tratti in salvo dai pescatori cinesi locali, che rischiarono la propria vita usando barche da pesca in legno per salvare i soldati britannici dall'acqua.
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Bologna, torna la rassegna per la Giornata mondiale del Rifugiato
Bologna, torna la rassegna per la Giornata mondiale del Rifugiato Anche quest'anno la Giornata Mondiale del Rifugiato diventa l'occasione per proporre un programma di eventi organizzati dal Comune di Bologna, nell'ambito del Progetto SAI coordinato da ASP Città di Bologna e da diversi enti impegnati sui temi dell'accoglienza e della migrazione. La Piazza dell'accoglienza è l'evento "ufficiale", organizzato dal Comune di Bologna insieme a BolognaCares!, in programma mercoledì 19 giugno in piazza Lucio Dalla, a partire dalle 17:30 con i laboratori di fumetto per bambini/e e ragazzi/e a cura di Salvatore Giommarresi "Ogni valigia un viaggio" (6-10 anni) e Mirka Ruggeri "Superpoteri che cambiano il mondo" (11-15 anni), seguiti dalla presentazione libro a fumetti 10 storie di accoglienza con firmacopie degli autori (Mirka Ruggeri, Salvatore Giommarresi e Alice Facchini). Dopo i saluti di Erika Capasso, delegata del Sindaco, Stefano Brugnara, amministratore unico di ASP Città di Bologna, e Cristina Francucci, direttrice dell'Accademia di Belle Arti di Bologna, è prevista la proiezione del documentario MistArt. Migranti della street art, sul laboratorio rivolto a beneficiari del Progetto SAI condotto dall'Accademia di Belle Arti di Bologna. La serata culminerà nel concerto Maqeda, di Gabriella Ghermandi e Atse Tewodros Project unica band italo-etiope esistente. Il calendario completo degli eventi in programma dall'11 al 24 giugno è visibile a questo link. Tra gli appuntamenti segnaliamo: mercoledì 12 giugno (piazza Lucio Dalla), Caro migrante, il Tavolo Migranti dell'Arcidiocesi di Bologna mette a confronto Pif (Pierfrancesco Diliberto) con migranti, operatori e volontari dell'accoglienza, e il Cardinale Matteo Maria Zuppi; lunedì 17 giugno, (Cinema Arlecchino, via delle Lame 59/A) la proiezione di Telling them about us, film realizzato da Rand Beiruty con un gruppo di ragazze arabe, curde e rom in Germania dell'Est (nell'ambito del Biografilm Festival, con Arca di Noè); sabato 22 giugno, la crisi in Medio Oriente sarà al centro della proiezione del film A world not ours, di Mahdi Fleifel (2012), nell'ambito della rassegna "In Barca verso Est" nella sede dell'Associazione Hayat (via Leonardo da Vinci, 2/B Bologna); domenica 23 giugno, al Cinema Bristol (via Toscana 146 Bologna), con il Il secolo è mobile, monologo multimediale scritto e realizzato dal giornalista Gabriele Del Grande (produzione di Zalab), a cura di CIDAS. La Giornata del Rifugiato, istituita il 4 dicembre 2000 dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite in occasione del cinquantennale della Convenzione di Ginevra che nel 1951 definì lo status di rifugiato, è celebrata in tutta Italia. Come l'anno scorso, l'immagine ufficiale della rassegna è stata realizzata nell'ambito del progetto POSTER FOR THE CITY, realizzato in collaborazione con l'Accademia di Belle Arti di Bologna. Tra le diverse immagini proposte dalla classe del corso di Design Grafico del prof. Danilo Danisi, è stata selezionata quella di Flavia Badiali, che rimanda al primo dei tanti drammi che vivono le persone rifugiate: lasciare la propria casa. "Anche quest'anno Bologna sceglie di celebrare la Giornata Mondiale del Rifugiato con un cartellone di eventi, frutto della collaborazione tra Comune, Asp Città di Bologna, Comuni dell'Area metropolitana ed enti del terzo settore che partecipano attivamente al nostro Sistema di Accoglienza e Integrazione – sottolinea Luca Rizzo Nervo, assessore welfare e salute – Bologna ha il progetto SAI più grande del nostro paese; un sistema che si fonda sulla scelta di costruire un'accoglienza diffusa, comunitaria, con l'obiettivo ambizioso di promuovere cittadinanza sin dal primo giorno attraverso l'integrazione delle persone migranti e rifugiate sul nostro territorio, grazie anche a un lavoro costante di raccordo e collaborazione interistituzionale e con la comunità territoriale. Le iniziative che ogni anno organizziamo per la Giornata Mondiale del Rifugiato rappresentano un'importante testimonianza di questo impegno, che da sempre portiamo avanti assieme a cittadine e cittadini e a tutti gli attori, che, in ragione delle loro competenze, giocano un ruolo essenziale nel facilitare i percorsi di inclusione dei rifugiati". "In questi giorni si chiude il primo anno del nuovo progetto 2023-2025 del SAI - Sistema Accoglienza Integrazione Area Metropolitana, coordinato da ASP Città di Bologna su delega del Comune - ricorda Stefano Brugnara, amministratore unico di ASP -. I servizi e la governance del SAI sono il frutto di un percorso di co-progettazione che ci vede protagonisti insieme a tutti gli enti partner e alle istituzioni del territorio per offrire oltre 2000 posti di accoglienza nel Sistema metropolitano bolognese. Il ricco programma di eventi per la Giornata Mondiale del Rifugiato 2024 testimonia come i servizi del SAI vanno ben oltre dare un vitto e un alloggio alle persone rifugiate ma siano un'occasione anche per attività culturali che sono fondamentali per favorire l'inclusione e gli scambi. Lo scopo infatti non è solo aprirsi alla cultura di chi viene accolto ma aprire ai rifugiati la cultura di chi accoglie, in un reciproco scambio che arricchisce tutti". ... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Odette Brailly
Odette Brailly è stata la più famosa agente dei servizi segreti britannici, passata alla storia per i suoi atti eroici durante la seconda guerra mondiale, è stata una delle donne più decorate di tutto il conflitto.
Insignita della Croce di George, ha ricevuto diverse medaglie al valore, era stata nominata Dama dell’Ordine dell’Impero Britannico e in Francia, aveva ricevuto la Legion d’Onore, la più alta onorificenza del paese.
Nata ad Amiens il 28 aprile 1912, quando suo padre perse la vita nella battaglia di Verdun, venne affidata a un convento dove a otto anni si ammalò di poliomielite che la rese quasi cieca per molti mesi.
Nel 1931 aveva sposato Roy Patrick Sansom, con cui si era trasferita in Gran Bretagna, dalla loro unione erano nate tre figlie.
Quando il marito venne richiamato in guerra, rispose a una richiesta dell’Ammiragliato che invitava chiunque fosse in possesso di cartoline o foto delle coste francesi a inviarle per scopi militari.
Aveva allora spedito le sue foto di Boulogne sur Mer, dove aveva abitato per lungo tempo, insieme a una lettera di accompagnamento in cui spiegava di essere francese e di conoscere bene la zona. Per un errore di indirizzo la lettera era finta in mano al SOE (Special Operations Executive), che l’aveva reclutata come agente segreta.
La sua prima identità era stata quella della vedova Odette Métayer, col nome in codice di Lisa, ebbe l’incarico di trovare a Auxerre una casa sicura per accogliere e aiutare gli agenti di passaggio. Ha condotto operazioni di spionaggio e sabotaggio nelle aree occupate dalle potenze dell’Asse.
Nel 1942 aveva lavorato come corriere agli ordini del capitano Peter Churchill, che era a capo dell’organizzazione Spindle. Si era occupata di procurare viveri e al mercato nero e di paracadutare armi ed equipaggiamenti destinati ai vari gruppi di resistenza.
Quando i tedeschi occuparono la zona sud della Francia, venne arrestata.
Rifiutatasi di parlare venne portata a Parigi, nella sede dell’SD, il Sicherheitsdients tedesco che si occupava del servizio di spionaggio, dove venne interrogata e torturata per due settimane di fila.
Nella sua biografia racconta che le vennero strappate le unghie dei piedi, che venne bruciata sulla schiena con un ferro rovente e che a torturarla fu sempre un giovane francese, probabilmente malato di mente.
Le spie non erano tutelate dalla Convenzione di Ginevra, non erano prigioniere di guerra, potevano essere giustiziate in qualunque momento.
Nel maggio 1944, dopo più di un anno di detenzione a Fresnes, indebolita e ammalata, venne trasferita in Germania insieme ad altre sette agenti. Era l’operazione ‘Nacht und Nebel’ (Notte e nebbia), faceva parte dei prigionieri politici condannati a morte che sparivano senza lasciare traccia.
Nel luglio dello stesso anno, venne trasferita a Ravensbrück da sola, le sue compagne erano state tutte uccise. La lasciavano in vita soltanto perché aveva millantato una parentela col primo ministro inglese e i tedeschi volevano giocarsi la carta di un possibile scambio.
Per molti mesi, da sola in una cella buia e fredda, viveva lo stress di sapere che ogni mattina poteva essere quella dell’esecuzione.
Liberata il 1° maggio 1945, aveva impiegato più di un anno per ristabilirsi.
Nel 1946 è stata la prima donna insignita della George Cross, la massima onorificenza britannica per i civili. Dopo aver ottenuto il divorzio dal primo marito, nel 1947 aveva sposato Peter Churchill da cui aveva divorziato nel 1955, anno in cui ha sposato Geoffrey Hallowes, un altro agente del SOE in Francia.
È morta nel 1995 a 82 anni il 13 marzo 1995, a Walton-on-Thames.
La sua storia ha ispirato il famoso film Odette, del 1950, che aveva personalmente supervisionato per impedire che venisse falsata la storia.
Alle vicende che l’hanno vista protagonista insieme alla collega Violette Szabo sono stati ispirati i romanzi Fortitude di Larry Collins e Le gazze ladre di Ken Follet.
Nel 2012 è stato emesso un francobollo che la ritraeva.
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Molt* trovano la situazione paradossale. Ma il Sudafrica non può che accusare lo Stato (di Isr@ele) se vuole riferirsi alla "Convenzione sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio" del 1948.
La quale infatti, oltre a qualificare il crimine di genocidio come atto commesso con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, chiama in causa non solo le responsabilità individuali, ma anche la responsabilità dello Stato (per la commissione del reato o per omessa prevenzione e punizione del crimine). Non poteva fare altrimenti il Sudafrica, insomma, se voleva richiamarsi alla "Convenzione" (e se voleva farlo davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell'ONU). Né si possono usare, nel dibattito attuale, altre parole che quelle della "Convenzione", se il quadro di riferimento del diritto internazionale è questo.
Cosa diversa dal capo di imputazione sono le accuse, da provare come in un qualsiasi dibattimento (in questo caso non un processo ma una disputa tra Stati). Lo Stato di Isr@ele può essere giudicato responsabile di "genocidio"?
I termini sono importanti, sempre. E ancor più nel diritto, dove sono - dovrebbero essere - chiari, precisi, monosemici. "Genocidio" non equivale a "crimini di guerra" né a "crimini contro l'umanità". Sembrano distinzioni di lana caprina, di fronte alla brutale escalation degli ultimi mesi, e alla morte di decine di migliaia di persone, ma sono distinzioni importanti, che è bene ricordare anche a chi fa informazione in questi giorni, e discutendo qui come altrove.
Della definizione di "genocidio" si è già detto. Fu, come noto, l'avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin a coniare il termine durante il processo di Norimberga per descrivere lo sterminio nazista di sei milioni di ebrei. Il reato di genocidio venne poi formalmente creato proprio attraverso la “Convenzione sul genocidio del 1948” come crimine internazionale: molto specifico ed anche molto difficile da provare, poiché - secondo la giurisprudenza - richiederebbe la prova della cosiddetta "motivazione mentale".
I "crimini di guerra" sono invece gravi violazioni del diritto internazionale commesse contro civili e combattenti durante i conflitti armati (art. 8 dello Statuto di Roma del 1998, col quale si è istituita la Corte Penale Internazionale dell'Aia). Lo statuto li definisce come "gravi violazioni" delle Convenzioni di Ginevra del 1949, che coprono più di cinquanta scenari, tra cui uccisioni, torture, stupri e presa di ostaggi, nonché attacchi a missioni umanitarie. Il suddetto articolo 8 riguarda anche gli attacchi deliberati contro civili o "città, villaggi, abitazioni o edifici che sono indifesi e che non sono obiettivi militari" nonché "la deportazione o il trasferimento di tutta o parte della popolazione" di un territorio occupato.
“Crimine contro l'umanità” è infine un concetto formulato per la prima volta l'8 agosto 1945, e codificato nell'articolo 7 dello stesso Statuto di Roma. Implica "un attacco diffuso o sistematico diretto contro qualsiasi popolazione civile", inclusi "omicidio" e "sterminio", nonché "riduzione in schiavitù" e "deportazione o trasferimento forzato" della popolazione. I crimini contro l'umanità possono verificarsi in tempo di pace (qui sta la principale differenza con i crimini di guerra) e includono torture, stupri e discriminazioni, siano esse razziali, etniche, culturali, religiose o di genere.
Non so – anzi, mi chiedo – se il Sudafrica abbia fatto 'tecnicamente' bene a chiedere la condanna dello Stato di Isr@ele in base alla “Convenzione” del 1948 di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia (soggetta, suo malgrado, all'influenza del Consiglio di Sicurezza dell'ONU), o se invece non occorresse potenziare l'azione della Corte Penale Internazionale (il cui mandato è però fortemente ostacolato da molti, e di difficile attuazione), reiterando le accuse nei confronti dei rappresentanti di quello Stato per “crimini di guerra” o “crimini contro l’umanità”.
Mi chiedo se una causa contro Net@nyahu e i membri del suo governo non sarebbe forse più diretta e penalmente dimostrabile e chissà – last but not least - capace anche di ridare fiato a quell'opposizione interna israeliana che le stragi del 7 ottobre hanno ridotto alla rassegnazione e alla paura (di finire in galera, ad esempio, se manifestano contro il primo ministro). E mi chiedo se così, forse, non si potrebbero anche separare le responsabilità e le scelte di un governo dalla storia di un popolo (che si identifica in quello Stato), togliendo dal quadro i paragoni impropri (vedi: processo di Norimberga), l'antisemitismo, l'Olocausto, e tutte le loro drammatiche implicazioni.
Lo dico altrimenti: bisognerebbe finalmente sgomberare il campo sia dalla minimizzazione dell’antisemitismo e della Shoah – che non dovrebbero essere paragonati a niente, per la loro specificità storica e per la loro tragica unicità – sia dalle accuse di antisemitismo verso chi esprime dolore e rabbia per le sorti del popolo palestinese e muove critiche verso le politiche del governo di Isr@ele e le azioni del suo esercito.
Temo (ma spero di sbagliarmi) che il dibattito intorno al processo in corso alla Corte di Giustizia Internazionale rischi invece sia di rendere ancora più compatta la (auto)difesa di Net@nyahu, sia di alimentare l'antisemitismo (come dimostra, appunto, il largo uso di paragoni impropri).
Personalmente, ho sempre cercato di contrastare - coi miei interventi pubblici e i miei lavori, a partire da "Parole contro" (2004) - l'antisemitismo, svelandone gli aspetti più insidiosi nella 'cultura popolare' e nel senso comune, e di usare con la massima cautela e sensibilità le parole “Shoah” e “Olocausto”, e trovo offensivo e diffamante essere accusato di antisemitismo se mi esprimo per il "cessate il fuoco" o per il rispetto dei diritti umani in P@lestina e Isr@ele, avendo tra l'altro detto parole chiare e univoche - vedi un post di qualche tempo fa - di condanna alle atrocità di Ham@s del 7 ottobre.
E spero oggi che il dibattimento in corso all’Aia – indipendentemente dai suoi esiti niente affatto scontati in termini penali, e da certe approssimazioni mediatiche - possa finalmente smuovere la comunità internazionale e mettere al centro gli orrori, le ingiustizie, i diritti umani negati, e le vite spezzate nella Striscia di Gaz@, in Palestin@, e in Isr@ele. A questa mattanza - e a chi la alimenta: il terrorismo nichilista di Ham@s e dei suoi sostenitori e l'ultra ortodossia colonialista israeli@na - occorre rispondere con il diritto internazionale (anzi, con il diritto alla vita, una vita dignitosa, per tutte le persone coinvolte) e con un piano di pace, di lungo periodo, che deve trovare consenso e forza, oltre i timidi equilibrismi e i vergognosi silenzi-assensi (della UE, ad esempio).
Soprattutto, non credo si possa più assistere a ciò che sta avvenendo pensando che l’unica opzione sia quella di un conflitto che duri indefinitamente, e che continuerà a fare migliaia di morti, per la stragrande maggioranza civili. Né posso credere che chi vive prigioniero nella Striscia di Gaz@ - da generazioni, e non ha mai avuto alcuna possibilità di essere liber* cittadin* del mondo - non possa avere un destino diverso. O che chi vive in Isr@ele debba sentirsi continuamente minacciato da atti terroristici e in guerra permanente, così come chi vive in P@lestina debba avere il terrore che da un giorno all'altro arrivi qualcuno a espropriarti della tua terra, della tua casa, del tuo futuro.
Ecco: spero che, paradossalmente, il dibattimento in corso all’Aia - spingendo innanzitutto per un cessate il fuoco - possa far(ci) ricominciare a parlare di futuro. Un futuro per due popoli, e per il diritto ad esistere di entrambi.
Federico Faloppa, Facebook
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Guantánamo: un luogo di controversie
Guantánamo è una baia situata sulla costa sud-est dell'isola di Cuba. È un territorio affittato dagli Stati Uniti dal 1903 e ospita una base navale statunitense. Tuttavia, Guantánamo è anche sede di un campo di prigionia noto per le sue controverse condizioni. Cos'è Guantánamo? Il campo di prigionia di Guantánamo è stato aperto nel 2002, dopo gli attacchi terroristici dell'11 settembre. Inizialmente, il campo era destinato a ospitare i prigionieri catturati in Afghanistan e sospettati di essere affiliati ad al-Qaeda o ai talebani. Tuttavia, nel corso degli anni, il campo ha ospitato prigionieri provenienti da tutto il mondo, alcuni dei quali sono stati accusati di aver commesso atti di terrorismo, mentre altri sono stati catturati per errore o senza alcuna accusa. Le condizioni di detenzione nel campo di Guantánamo sono state oggetto di numerose critiche da parte di organizzazioni per i diritti umani e di alcuni governi. I prigionieri sono tenuti in isolamento per lunghi periodi di tempo, sono sottoposti a interrogatori coercitivi e non hanno accesso a un processo equo. Nel corso degli anni, sono stati rilasciati o trasferiti in altri paesi molti prigionieri di Guantánamo. Tuttavia, ancora oggi nel campo rimangono circa 30 prigionieri. Le controversie sul campo di prigionia Le controversie sul campo di prigionia di Guantánamo riguardano diversi aspetti, tra cui: - La legalità della detenzione dei prigionieri: alcuni esperti legali sostengono che la detenzione dei prigionieri senza processo sia illegale, in quanto viola la Convenzione di Ginevra. - Le condizioni di detenzione: le organizzazioni per i diritti umani hanno documentato numerosi casi di abusi e maltrattamenti nei confronti dei prigionieri, tra cui isolamento, torture e trattamenti inumani. - Il costo: il mantenimento del campo di prigionia costa agli Stati Uniti circa 500 milioni di dollari all'anno. Il futuro del campo di prigionia Il futuro del campo di prigionia di Guantánamo è incerto. Il presidente Barack Obama ha promesso di chiudere il campo entro la fine del suo mandato, ma non è riuscito a mantenere la promessa. Il presidente Donald Trump ha invece dichiarato che il campo rimarrà aperto. Il campo di prigionia di Guantánamo è un simbolo delle controversie che circondano la guerra al terrorismo. La sua chiusura sarebbe un segnale positivo per la comunità internazionale, ma è una decisione che richiederà il consenso del Congresso degli Stati Uniti. Foto di Tayeb MEZAHDIA da Pixabay Read the full article
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Hamas, Biden responsabile operazione Israele ad al Shifa
Hamas ha accusato il presidente americano Joe Biden di essere “interamente responsabile” dell’operazione militare israeliana nell’ospedale al Shifa di Gaza. In un comunicato, Hamas ha definito l’operazione militare israeliana all’interno dell’ospedale al Shifa un “crimine barbaro contro una struttura medica protetta dalla Quarta Convenzione di Ginevra”. Lo riporta Al Jjazeera.…
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Due cose sulla guerra in Ucraina
Torno su un tema bollente del priodo: la guerra in Ucraina e il suo andamento. La prima: i combattenti ucraini stanno usando bombe a grappolo, fornite dagli Americani. Come sappiamo la convenzione di Ginevra le proibisce ma, quello che fa piu’ effetto e’ che quando le usano i russi la mozione di sdegno e’ unanime, quando le usano gli ucraini tutto va bene, anzi, e’ normale. La seconda: sono…
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La Convenzione sull'abolizione del lavoro forzato, 1957 è la convenzione n. 105 dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), adottata il 25 giugno 1957 a seguito della riunione del 5 giugno 1957 a Ginevra e ratificata dall’ Italia. Qualcuno gentilmente potrebbe spiegarmi perché c@zzo sono obbligato a lavorare fino a 70 anni per mantenere con le imposte che assorbono il 50% del mio reddito politicanti semianalfabeti & inadeguati, alti prelati, burocrati & gran commis d’ O’stato, falsi invalidi, truffatori del reddito di cittadinanza in perenne attesa del rilancio del mezzogiorno e compagnia cantando ? Grazie !
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Credo che proprio ultimo sia qualche tipo di violazione della Convenzione di Ginevra
Il ritornello di questa canzone deve essere un qualche tipo di violazione della Convenzione di Ginevra
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