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OVVERO SFOGHI E FRUSTRAZIONI DI UN GIOVANE CRITICO D'ARTE RINCHIUSO IN CASA!
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Shoot. Quella pallottola che cambiò la storia dell’arte
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Ricordate il film “Ricomincio da capo” del 1993, di Harold Ramis, con Billy Murray e Andie McDowell? No?! quello in cui il protagonista ripete in loop lo stesso giorno perché intrappolato in un circolo temporale... Un po come le nostre vite da un mese a questa parte praticamente. Camera da letto - balcone - salotto - cortile - salotto - balcone - camera da letto e così via. Giorno dopo giorno sempre la stessa routine al punto che ogni tanto penso: “mo mi sparo; giuro che la trovo una pistola e mi sparo!”. Vabbè, diciamo la verità: è strano quando non la dico questa frase... eppure ogni volta che dalle mie labbra escono fuori queste parole, non posso fare a meno di pensare ad una data ed un’ora precisa.
F - SPACE, Santa Ana, California - 19 novembre 1971. Ore 19:45. Un giovane Bruce Dunlamp imbraccia un fucile calibro 22; a cinque metri da lui Chris Burden in attesa che venga sparato il colpo contro di lui. Intorno a loro il silenzio di una platea che vorrebbe bloccare l’azione, ma temendo per la vita del giovane artista, resta immobile; nessuno può intervenire, l’unico modo possibile è assistere in maniera impassibile a quello che sta accadendo. Il momento giunge, Bruce spara, ma all’ultimo secondo gli trema la mano e il colpo vira leggermente verso sinistra, rischiando per poco di forare il petto di Chris all’altezza del cuore. Un cameraman filma l’intera azione, ma la sua inesperienza e i mezzi non adeguati non rendono bene la potenza di quello che era appena accaduto. Quella pallottola che per un istante trapassa il braccio di Chris rappresenta una vera e propria rivoluzione nella storia dell’arte.  
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Ma chi è questo Chris Burden e perchè si è spinto così oltre quella sera?
Christopher Lee Burden, meglio conosciuto con il diminuitivo di Chris, nasce a Boston l’11 aprile 1946. Figlio dell’ingegnere Robert Burden e della biologa Rohda Burden, trascorre un’infanzia serena a Cambridge, nel Massachussets; successivamente si trasferirà in Francia, prima, e in Italia, poi.  All'età di 12 anni ha subito un intervento chirurgico di emergenza, eseguito senza anestesia, al piede sinistro, dopo essere stato gravemente ferito in uno scontro motociclistico all'isola d'Elba; durante la lunga convalescenza che seguì, si interessò all'arte visiva e in modo particolare alla fotografia. Si è successivamente diplomato in arti visive, fisica e architettura al Pomona College e all'Università della California, Irvine, dove ebbe fra gli insegnanti l'artista Robert Irwin, che lo introdusse nel mondo delle installazioni. Oltre alle azioni performative, in un secondo momento, Burden ha prodotto una serie di creazioni ingegneristiche e successivamente una serie di installazioni che riflettono gli aspetti della vita nel nuovo millennio, mediante opere architettoniche di medio e grande formato.  L'artista è deceduto a Topanga, il 10 maggio 2015, a causa di un melanoma. Prima di morire stava progettando un mulino ad acqua che avrebbe dovuto affiancare la torre di alluminio di Frank Gehry, presso la LUMA Foundation. Era sposato con l'artista multimediale Nancy Rubins. Ha vissuto e lavorato a Los Angeles, in California. Il suo studio si trovava presso il Topanga Canyon. Dal 1967 al 1976 è stato sposato con Barbara Burden, la quale ha documentato e partecipato a molte delle sue prime opere. Nel 1978 divenne professore all'Università della California, a Los Angeles, una posizione dalla quale si dimise nel 2005. Sebbene non sia chiaro il motivo della sua scelta, alcuni affermano che sia stato accusato di aver violato le norme di sicurezza dell'istituto tentando di usare una pistola durante una performance artistica dimostrativa.  
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Iniziò a interessarsi alla performance art nei primi anni settanta. In questo periodo trovò nella violenza fisica il suo modo di esprimersi: le prime performance lo misero fisicamente in pericolo. La consapevolezza del corpo e la sua fragilità sono usate dall'artista per riportare violentemente in vita tutte le emozioni. Stiamo parlando di uno degli artisti che ha trasformato tutta la sua vita in una performance, basti pensare a Five Day Locker Piece, azione che venne presentata come tesi di laurea di Burden stesso, in cui l’artista rimase chiuso per cinque giorni e cinque notti nel suo armadietto universitario. L’azione venne successivamente trasformata e venduta come oggetto d’arte. O ancora il 23 aprile 1974 a Speedway Avenue presso Venice (Los Angeles) tenne la famosa Trans-Fixed. Durante la performance si fece letteralmente crocifiggere sulla parte posteriore di una Volkswagen Maggiolino. L'auto venne esposta al pubblico per circa due minuti col motore acceso. Le vibrazioni gli causarono forti dolori alle mani. 
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Tornando a quella fatidica sera del 1971, Burden era probabilmente inconsapevole che con quella pallottola che gli avrebbe trapassato il braccio da parte a parte, in realtà avrebbe dato un grandissimo scossone all’intero sistema dell’arte, guadagnando un posto d’onore sul podio dei più grandi artisti del XX secolo. E nell’immaginario di tutti, incancellabile come una metafora, una profezia, una coltellata nel cuore del secolo, resta quel proiettile sparato a pochi metri di distanza. Che non raggiunse il cuore, per un soffio. Lo accusarono di voler fare spettacolo, parlarono di violenza, di perversione, di un’arte nichilista, sensazionalista, mortifera e brutale. E invece no. “Penso che molta gente abbia mal compreso […] Era per me un’esperienza mentale (vedere come reagivo mentalmente): era sapere che alle sette e mezza sarei andato a fare un’azione in cui qualcuno mi avrebbe sparato addosso. Era come poter organizzare il destino o qualche cosa del genere, in una maniera controllata”.
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Con Shoot, Chris Burden realizza quello che effettivamente è un concetto portato avanti da molti artisti, ovvero quello di morire per l’arte. Ma non morire in senso letterale, in un certo modo sfida la morte guardandola negli occhi, spinge il suo corpo al limite, e nello stesso tempo fornisce allo spettatore un’esperienza unica nel suo genere; dopo di questo tutto è nuovo, è diverso.
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Valerio Vitale
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L’arte dei tableaux vivants. Luigi Ontani e il kitsch che diventa sublime.
Tenere un blog aperto in questi giorni è diventata cosa difficile. Dopo l’euforia dei primi quindici giorni, non so cosa sia successo... Probabilmente, quella che doveva essere una settimana di relax è diventato un mese di inferno. Lontani da tutto e da tutti, l’unico contatto con il mondo esterno è dato dai social network. I cari vecchi social, luogo di ingegno e di tuttologia. Tra una lite e l’altra, teorie complottiste e generi diversi di argomenti, ho notato, però una cosa molto particolare. Sono in molti quelli che si adoperano nella pratica dei tableaux vivants. Sono certo che molti si staranno chiedendo, “che diavolo fanno questi sui social? Quale pratica oscura e malsana sarà mai questa?” In realtà con il termine francese tableaux vivants si indicano i “quadri viventi”, o, in arte, descrive uno o più attori o modelli d'artista opportunamente mascherati a rappresentare una scena come in un quadro vivente.Per tutta la durata della "visione", le persone non parlano e non si muovono. L'approccio si sposa così con le forme d'arte del palcoscenico con quelli di pittura o della fotografia. Il più recente periodo di massimo splendore del tableau vivant è stato il XIX secolo. Insomma è l’arte visiva che si fa spettacolo. 
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Quella che oggi è diventata una sorta di moda che è esplosa sui social e che coinvolge tutti, anche solo per un momento di svago, in realtà è stata una delle massime forme espressive di uno dei più grandi artisti del ‘900, vale a dire quel mostro sacro di Luigi Ontani. 
Classe 1943, Ontani è un artista assolutamente poliedrico, (viene infatti classificato come pittore, scultore e fotografo), nonché uno dei massimi esponenti della body art italiana. 
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Dopo aver studiato all'Accademia di belle arti di Bologna inizia la carriera artistica negli anni settanta, cominciando a farsi notare per i suoi "tableaux vivants". In pratica delle performance filmate e fotografate, in cui Ontani si presenta mascherato in vari modi: da Pinocchio a Dante, da San Sebastiano a Bacco. È una pratica di azionismo che sfiora il kitsch, e mette il narcisismo personale ad un livello superiore. Nel corso della sua lunga attività Ontani ha espresso la sua creatività e poetica attraverso l'uso di molte tecniche assai eterogenee tra loro: dagli oggetti pleonastici (1965-69) elementi in scagliola alla "stanza delle similitudini" costituita da elementi ritagliati in cartone ondulato. Ha spesso anticipato l'uso di tecniche in seguito adottate da altri artisti, i primi video super 8 in bianco e nero sono stati girati dal 1969 al 1972. Con l'opera "Ange Infidele" del 1968 Ontani inizia il suo approccio con la fotografia. Fin dall'inizio le opere fotografiche si contraddistinguono per alcuni elementi caratteristici: il soggetto è sempre l'artista che ricorre al proprio corpo e al proprio volto per impersonificare temi storici, mitologici, letterari e popolari; il formato scelto solitamente è quello della miniatura o della gigantografia, e ogni opera è considerata unica. dalla fine degli anni sessanta si susseguono "Teofania" 1969, "Fantome", "San Sebastiano nel bosco di calvenzano, d'apres Guido Reni", "Tentazione", "Meditazione, d'apres de la Tour", "Bacchino" (1970) tell il giovane, "Raffaello" "Dante" "Pinocchio" (1972), Lapsus Lupus e il dittico "EvAdamo" (1973) "Leda e il Cigno" (1974), i grilli e i tappeti volanti cui seguiranno altri apres, il primo ciclo indiano "En route vers l'Inde, d'apres Pierre Loti". Le prime opere fotografiche anticipano un fenomeno che vedrà diffusione a partire dagli anni ottanta. Contemporaneamente alle prime opere fotografiche Ontani comincia ad eseguire i primi "Tableaux vivant"; al 1969 al 1989 l'artista ha realizzato circa 30 tableaux vivant anche in questo caso anticipando le cosiddette installazioni multimediali, molto diffuse a partire dagli anni novanta, che si basano sulla commistione di varie tecnologie. 
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Con lo stesso atteggiamento ha realizzato opere di cartapesta, vetro, il legno (numerosissime le maschere realizzate soprattutto a Bali in legno di Pule), più raramente è ricorso al bronzo, al marmo e alla stoffa mentre molto cospicua è la sua opera in ceramica frutto del sodalizio soprattutto con la Bottega Gatti di Faenza e con Venera Finocchiaro a Roma e il laboratorio terraviva di Vietri, particolarmente rinomate le maschere pineali, le "Ermestetiche" e le ultime grandi opere quali "GaneshaMusa", "NapoleonCentaurOntano". Molto interessante la sperimentazione con la tecnica del mosaico elaborata con il mosaicista Costantino Buccolieri nell'esecuzione del grande pannello musivo presso la Stazione Materdei della Metropolitana di Napoli. In tutte queste circostanze Ontani ricorre alla tecnica non come un fine in sé, ma in quanto occasione per sperimentare nuove possibilità e formulare nuove variazioni sui temi e i soggetti che più gli interessano: il proprio viaggio "transtorico" attraverso il mito, la maschera, il simbolo e la rappresentazione iconografica. Ha esposto nei principali musei e gallerie del mondo dal Guggenheim al Centre Pompidou, dal Frankfurt Kustverein al Reina Sofia,ha partecipato ad un numero impressionante di biennali da Venezia a Sidney a Lione. Recentemente ha avuto due retrospettive al Ps1/MoMA di New York (2001) e allo SMAK di Ghent (2003-2004). Numerosissimi i libri d'artista e le monografie tra cui "Luigi Ontani. OntanElegia" Allemandi 2004 a cura di Alessandra Galasso e Giulio di Gropello. Nel 2018, la Galleria Giovanni Bonelli di Pietrasanta, in Toscana, presenta una retrospettiva di 30 opere dell’artista di Vergato. 
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Ontani ha prestato un volto e un corpo (i suoi) a personaggi che spesso appartengono al mito, alle favole, al folklore. Sono figure senza tempo, senza luogo e senza fisionomia e a volte anche senza sesso. Ontani ne ha indossato la maschera, ne ha ripercorso la storia, ha conferito loro sostanza e, quando è stato necessario, ha dato unità agli opposti sovrapponendoli o compenetrandoli. 
Gladioli tentazioni (1972) è uno dei primi tableau vivant realizzato dall’artista, una stampa fotografica a colori a grandezza naturale. Sono gli anni in cui Ontani inizia il suo viaggio metaforico all’interno di tutte le identità possibili, confrontandosi principalmente con una serie di referenti cari alla mitologia e alla storia dell’arte, come i famosi d’après da Guido Reni (San Sebastiano, Ippomeneo, San Giovannino). Il titolo dell’opera, gioca con la simbologia legata al gladiolo, fiore il cui nome deriva dal latino gladiolum, “piccola spada”, per la morfologia delle sue foglie, sottili e allungate, somigliante all’arma utilizzata dai legionari romani: il “gladio”. È probabilmente per assonanza con l’etimologia, che regalare fiori di gladiolo equivale a dichiarare di essere stati colpiti, sebbene in maniera ambivalente: feriti oppure trafitti al cuore da un’insopprimibile infatuazione. Ed è a quest’ultima accezione che l’artista sembra voler ironicamente alludere, emergendo dall’oscurità, bloccato in una posizione di contrappunto, le pudenda occultate da un fascio di gladioli, pronto ad essere brandito, per mostrare l’artista, finalmente, in tutta la sua eroica nudità. L’opera è la prima di Ontani con cui sono entrato in contatto ed è presente nella collezione del museo MADRE di Napoli. 
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Altra opera che ho avuto modo di vedere più volte al MUSMA di Matera, che però non fa parte dei tableaux vivants ma di fortissimo impatto, ovvero IndiSiam OrientAle, del 2007. L’opera rientra nel ciclo degli oggetti pleonastici. Un paio di scarpette in ceramica policroma con oro zecchino tipico della produzione artistica di Luigi Ontani. Come si evince dal titolo si tratta di un paio di scarpette di foggia orientale abbondantemente dorate e con riportato il volto di Ontani sul gambetto. 
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Il genio di Luigi Ontani, in conclusione, si è rivelato utilissimo come passatempo per questa quarantena. Credo sia doveroso affermare, anche in questo caso, che siamo tutti un po ontani, e nello stesso tempo tutti in debito con lui. 
Valerio Vitale
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Gli ambienti ottico-cinetici di Pino Pascali
Riuscire a scrivere un post al giorno per questo blog si è rivelata un’impresa più ardua del previsto. Questa quarantena diventa ogni giorno più pesante... Sono esattamente 15 giorni che sono recluso in casa, di cui 12 da quando sono rientrato a Lauria, e non vedo l’ora di tornare alla normalità. Normalità, che parola strana... Tra una giornata di reclusione e l’altra, l’ennesimo bollettino delle 18:00 e la voglia di riprendere le normali attività, oggi ho deciso di parlarvi di un’artista molto particolare e nello stesso tempo molto affascinante, che più volte nella mia carriera ha catturato la mia attenzione, ovvero uno dei massimi esponenti dell’arte povera, vale a dire Pino Pascali e la sua opera 32 metri quadrati di mare circa. 
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Pino Pascali nasce a Bari il 19 ottobre 1935, da genitori di Polignano a Mare. Trascorre l’adolescenza a Bari, dove frequenta il liceo scientifico, ma, già ripetente, si trasferisce a Napoli dove si diploma al liceo artistico. Nel 1956 si trasferisce a Roma, dove si iscrive all'Accademia di Belle Arti e frequenta le lezioni di Toti Scialoja. Dopo il diploma comincia a lavorare come aiuto scenografo alla RAI. Nel contempo inizia una collaborazione, che diventerà poi continuativa, con Sandro Lodolo, realizzando Caroselli, spot pubblicitari e sigle televisive.Negli anni sessanta partecipa a varie mostre collettive, e nel 1965 realizza la sua prima personale presso la galleria romana La Tartaruga. L'anno successivo espone alla Galleria L'Attico. In soli tre anni ottiene un notevole riscontro da parte della critica e viene notato da influenti galleristi italiani e internazionali. Proprio all'apice della sua carriera, mentre alcune sue opere erano in mostra alla Biennale di Venezia, muore prematuramente a Roma nel 1968 per le conseguenze di un grave incidente in motocicletta, sua grande passione. La sua tomba si trova nel cimitero di Polignano a Mare.Artista eclettico, Pascali fu scultore, scenografo e performer. Nelle sue opere riunisce le radici della cultura mediterranea (i campi, il mare, la terra e gli animali) con la dimensione ludica dell'arte: un ciclo di opere è dedicato alle armi, veri e propri giocattoli realizzati con materiali di recupero (metalli, paglia, corde) e molti suoi lavori ripropongono le icone e i feticci della cultura di massa. Nella serie Ricostruzione della natura, iniziata nel 1967 Pascali analizza il rapporto tra la produzione industriale in serie e natura. È ritenuto uno dei più importanti esponenti dell'arte povera, insieme a Michelangelo Pistoletto, Jannis Kounellis, Mario Merz, Eliseo Mattiacci, Renato Mambor, Sergio Lombardo e Cesare Tacchi. Fu il primo a formalizzare le pozzanghere con l'acqua vera, da cui nacque la mostra Fuoco immagine acqua terra avvenuta all'Attico nel maggio 1967.
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La mostra a Palazzo Trinci di Foligno, si caratterizza principalmente di opere d’arte programmata, in cui lo spazio architettonico è utilizzato come campo di azione allargata per interventi di natura ottico-cinetica (con elementi modulari, dispositivi luminosi e giochi di colore) finalizzati a coinvolgere dinamicamente lo spettatore all’interno di nuove strutture percettive con effetti retinici e psicologici spiazzanti, tali da mettere in crisi la normale percezione della realtà spazio temporale. L'opera “32 metri quadri di mare circa”, esposta per la prima volta alla mostra "Lo spazio dell'Immagine", fa parte della serie degli "Elementi naturali", a cui Pascali aveva iniziato a lavorare dall'inizio del 1967. In questo nuovo ciclo la ricerca dell'artista si estende verso l'enviroment, riducendo a misura sostanze organiche come la terra o, in questo caso, l'acqua. Disposti in forme geometriche di estremo rigore, gli "Elementi naturali" di Pascali sfuggono al puro strutturalismo (distanziandosi così dall'arte minimal) per porre in evidenza un primario carico di tensione antropologica, radicato in quella cultura agraria e mediterranea propria dell'artista. Lo stesso artista dichiarava, nel catalogo della mostra di Foligno: "ho deciso di usare gli elementi più semplici che esistono, l'acqua e la terra, forse perché spero di avere un pezzo di terra che si specchi nel mare un domani". Nella razionalizzazione e nella standardizzazione del mondo naturale e nell'uso di materiali industriali come l'eternit o le lamiere di alluminio Pascali introduce inoltre la problematica del rapporto con l'attualità tecnologica.  
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L’opera di Pascali consiste in  30 vasche di alluminio zincato, ognuna contenente 78.5 l. di acqua colorata con blu di metilene, per un totale di 2400 l. Nell'allestimento concepito da Pascali, le vasche formano un quadrilatero con cinque vasche sul lato lungo e quattro sul lato breve. Su un lato del quadrilatero, le 7 vasche più esterne (3 su ogni lato e una centrale) hanno una collocazione leggermente staccata dall'insieme. La colorazione dell'acqua nelle sue diverse gradazioni di azzurro è stata ricreata dal laboratorio di restauro G.N.A.M. sulla base di un disegno di Pascali intitolato "Il colore dell'acqua di mare inteso come plastica del liquido"
Valerio Hank Vitale
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L’arte di rimanere attuali, 19 anni dopo. Go to home
Con oggi sono dieci giorni, tondi tondi, di reclusione a casa. E’ un controsenso lamentarsi, ora, che tutti possiamo stare a casa dopo esserci lamentati per una vita del lavoro, della frenesia del quotidiano e del non aver tempo per far nulla. Ma ora che abbiamo tutto questo tempo, che stiamo facendo effettivamente? Assolutamente nulla, se non lamentarci del fatto che dobbiamo stare in casa. La paura più grande resta comunque per il futuro. Che cosa succederà dopo questa dannata epidemia? Personalmente spero di riprender quanto prima il mio lavoro, spero di tornare presto alla quotidianità e al contatto di tutti i giorni con l’arte.  Penso un sacco a quello che effettivamente ho perso in questi dieci giorni, all’abbandono della mia città, Matera, per tornare al paesello e star vicino alla mia famiglia, ma penso anche al futuro, sperando di tornare alla solita routine quanto prima. Il modo migliore per continuare ad affrontare questa situazione è pensare a quello che in questi anni è diventato il mio lavoro, ma anche il mio motivo di felicità, ovvero l’arte. Riflettendoci, la tematica portante dei miei pensieri è la stessa che accomuna la ricerca di un artista a me molto caro, ovvero Adrian Paci.
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Nato a Scutari in Albania il 28 gennaio del 1969, è attivo a Milano dove vive dal 2000. Ha frequentato l'Accademia delle Arti di Tirana dal 1987, studiando con il Professor Edi Rama (ex sindaco di Tirana e attualmente primo ministro albanese) e formandosi su corsi di arte figurativa, gli unici insegnamenti d'arte possibili, poiché imposti dal regime vigente in quegli anni in Albania.Nel 1992 ha frequentato, grazie ad una borsa di studio, il corso ‘Arte e Liturgia' presso l'Istituto Beato Angelico di Milano. Quando nel 1995 è ritornato in Albania, ha insegnato Storia dell'Arte e Estetica all'Università di Scutari solo per un breve periodo, infatti nel 1997 a causa dei disordini nello Stato si trasferisce con la famiglia a Milano.Nel 2006 a Modena è stata inaugurata la sua prima personale italiana all'interno di uno spazio pubblico. La personale giunge dopo l'affermazione alla cinquantunesima edizione della Biennale di Venezia e i numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui i momenti espositivi al PS1 di New York e una presentazione dell'opera al Museum of Modern Art di New York.Nel 2010 ha partecipato al simposio Lost in Translation (da cui poi è nato il premio Arte, Patrimonio e Diritti Umani) organizzato alla Triennale di Milano da Connecting Cultures.Fra le mostre personali recenti si ricorda la mostra itinerante Vite in transito allo Jeu allo Paume di Parigi (2013), al PAC di Milano (2013), alla Röda Sten Konsthall di Göteborg (2014) e al MAC, Musée d'art contemporain de Montréal (2014).Adrian Paci è rappresentato dalla galleria kaufmann repetto, Milano, e la dalla galleria Peter Kilchmann, Zurigo.
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Paci realizza le sue opere servendosi di svariate tecniche e materiali, senza prediligerne uno in particolare, determinando una notevole libertà di espressione e stile, nascono dipinti fotografie, sculture e video. Nei suoi lavori prende spunto da vicende umane vere che conosce e sono a lui familiari, traendone il significato della vita stessa, toccando i sentimenti più profondi.  Dopo aver lasciato l’Albania nel 1997 per trasferirsi in Italia portando con sé un carico di speranza e futuro, reso incerto e difficile dalla fase storica che caratterizzava la sua terra. Nel 2001 realizza “Home to go”, opera iconica dell’artista, che consiste nel calco in marmo del suo corpo nudo che porta sulla schiena un frammento di tetto; da quest’opera nascono una serie di immagini che lo ritraggono.  L’opera rappresenta oggi la sintesi perfetta dell’attuale crisi che attraversa il mondo occidentale, incapace di dare risposta ad una libera e naturale esigenza di libera circolazione delle persone fuori dal confine del proprio stato e fuori da costrizioni e condizioni fisiche e mentali.
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Non so voi, ma in quest’opera rivedo tanto di quello che stiamo vivendo tutti noi in questo particolare periodo storico. Penso che con quest’opera Paci abbia portato a compimento in maniera perfetta quello che è il lavoro dell’artista. Dovremmo essergli tutti un po grati!
Valerio Hank Vitale
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L'estetica senza etica è cosmetica
Fin da bambino ho sempre avuto una particolare predisposizione per la fotografia; pensate che, benché i miei mi riempissero di attenzioni e di giocattoli, i due due “giochi” che preferivo erano la vecchia reflex e la videocamera di mio padre. Ho passato ore ed ore a giocare con questi due strumenti tanto complessi per me e allo stesso tempo tanto affascinanti, al punto che, oltre ad averli distrutti, ancora oggi quando vedo una fotocamera o una videocamera impazzisco. La fotografia... che mondo affascinante e complesso; ancora più affascinante quando diventa oggetto di una performance. L’artista di cui voglio parlare oggi è venuto a mancare da poco, e nello stesso tempo ha vissuto l’intera esistenza nell’ombra dell’ex compagna, ma, dal mio punto di vista, è stato ideatore di qualcosa di innovativo e geniale. 
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Frank Uwe Laysiepen, in arte Ulay, nasce durante il secondo conflitto mondiale, sotto le bombe degli alleati, figlio di un gerarca nazista. Resta orfano precocemente rimanendo totalmente privo di legami familiari. Come molti suoi coetanei, cresce con il senso di colpa per i padri nazisti e nella tensione provocata dallo smembramento del paese, diviso in due fra territori filo-occidentali (la Germania Ovest) e filo-sovietici (la Germania Est). Vive quindi in maniera conflittuale le proprie origini, tanto da arrivare alla rinuncia del nome e della nazionalità tedesca.Alla fine degli anni sessanta l'insofferenza verso il proprio paese lo spinge ad allontanarsi, lascia la moglie e un figlio piccolo e si trasferisce ad Amsterdam, attratto dal movimento olandese Provo di ispirazione anarchica. Si iscrive alla Kölner Werkschulen di Colonia dove conosce Jürgen Klauke, artista fotografo con cui avvia una collaborazione ispirandosi ai lavori di Pierre Molinier, Hans Bellmer e Hannah Wilke. Presto Ulay inizia a provare interesse per discipline non previste nell'offerta formativa dell'università scelta, pertanto abbandona gli studi per avvicinarsi alla fotografia analogica e all'uso artistico della Polaroid. Intraprende una ricerca sulle nozioni di identità e corpo, documenta la cultura di travestiti e transessuali attraverso foto, aforismi e performance. Progressivamente l'approccio alla fotografia diventa sempre più complesso: l'espressione fotografica viene messa in stretto rapporto con la live performance come nella serie Fototot e in There is a Criminal Touch To Art, entrambe del 1976. 
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Lo stesso anno alla Galleria de Appel di Amsterdam conosce Marina Abramović, invitata a esibirsi per un programma televisivo dedicato alla performance; è il 30 novembre, data di nascita di entrambi. Tra i due nasce subito un'intesa artistica che sfocia in una profonda e travagliata relazione sentimentale. Realizzano insieme una serie di performances dal titolo Relation Works, una forma estrema di body art, che li porta ad esplorare i limiti della resistenza fisica e psichica. Dopo 12 anni di amore e di sodalizio artistico, decidono di lasciarsi e di sancire la fine del loro rapporto con un'ultima performance, The Wall Walk in China: entrambi percorrono a piedi tutta la grande muraglia cinese partendo dai capi opposti per incontrarsi al centro e dirsi addio. Seguono anni di ostilità e battaglie legali circa i diritti d'autore della produzione artistica: Ulay denuncia Marina per aver venduto autonomamente opere appartenenti ad entrambi. Nel settembre 2016 il giudice gli dà ragione e costringe Marina a versare 250 mila euro all'ex partner per violazione di un contratto firmato nel 1999, che regolamentava l'uso dei lavori realizzati insieme fra il 1976 e il 1988. Dopo la fine della relazione, Ulay concentra la propria attività sul mezzo fotografico affrontando il tema dell'emarginazione e ritornando su quello del nazionalismo. Nel 2009 si trasferisce da Amsterdam a Lubiana; qualche mese più tardi gli viene diagnosticato un cancro. Dopo una serie di trattamenti chemioterapici che migliorano il suo stato di salute, decide di partire con una troupe per visitare i luoghi più importanti della sua vita e incontrare compagni e amici per un ultimo saluto. Da fine 2011 la telecamera lo segue per un anno intero, dall'Istituto di Oncologia di Lubiana fino a Berlino, a New York e alla Amsterdam della sua giovinezza. Ulay tratta la malattia come il più grande e più importante progetto della sua vita, un'occasione per interrogarsi sulla natura della vita, dell'amore, della storia e dell'arte, e per raccontare la propria carriera attraverso interviste, video di archivio, fotografie e riproduzioni dei suoi principali lavori. Ne scaturisce un documentario uscito nel 2013, intitolato Project Cancer, diretto da Damjan Kozole. Durante tutta la carriera rimane fedele al proprio motto: "L'estetica senza etica è cosmetica". Preferisce lavorare senza compromessi, rigoroso e coerente, anche a costo di rimanere ai margini del mercato. Insegnava New Media Art presso l'Università di Arte e Design di Karlsruhe in Germania. Lavorava tra Amsterdam e Lubiana, città dove viveva da 10 anni. Muore il 2 marzo 2020 all'età di 76 anni a causa di un linfoma, conseguente al tumore diagnosticatogli undici anni prima. 
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“Senza distruzione non c’è creazione e la sua performance ne è letteralmente un esempio: creare fotografie con lo scopo di distruggerle come parte di un’opera d’arte”, scrive Noah Charney in Il museo dell’arte perduta (tr. it. Irene Inserra e Marcella Mancini, Johan & Levi 2019). Da una parte Charney accosta Fototot alla scena iniziale de Il libro del riso e dell’oblio di Milan Kundera, dall’altra evoca Fototot II, remake del 2012 in cui la galleria viene immersa in un buio pesto. Opera concettuale e post-situazionista, Ulay realizza una sorta di polaroid all’inverso, un medium di cui è stato uno dei primi artisti a servirsi. Il titolo lo riprende da un film-performance di Claes Oldenburg, Fotodeath (1961, 16mm). Estate 1976. Gli spettatori sono invitati a entrare nella galleria de Appel di Amsterdam, uno spazio cieco fondato appena un anno prima. Su tre pareti, sopra la testa della ventina di spettatori, campeggiano nove fotografie in bianco e nero di 1 m x 1 m. Banale il soggetto: una persona intabarrata nel suo cappotto evolve su un viale alberato; è quanto perlomeno s’intravede nella tenue luce giallo-verde, simile a quella utilizzata in camera oscura. Quando la porta della galleria viene chiusa, si accende una lampada ad alogeno. Quello che accade lascia basiti gli spettatori: hanno appena il tempo di cogliere il soggetto che, nell’arco di 15-20 secondi, le stampe fotografiche si anneriscono e svaniscono. In questo modo fanno esperienza di quello che il titolo funereo della performance – Fototot I – promette a chiare lettere: la morte della fotografia o meglio la morte dell’oggettività fotografica, il disvelamento dell’immagine fotografica come mera illusione. Gli spettatori restano soli con queste stampe di grandi dimensioni, monocromi neri che incombono su di loro.
Valerio Hank Vitale
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Arte di/per colmare il vuoto. Grazie Yves Klein
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Avevo deciso di prendere un giorno di pausa dal blog, causa scarsità di idee. Ma per una serie di circostanze, mi sono trovato a pensare che, queste pagine che apriamo per condividere le nostre passioni, in realtà, altro non sono che i diari segreti della nostra generazione. Beh, non vi nego che stasera tra una discussione e l’altra, ho avuto un immagine di me quattordicenne, pieno di brufoli, depresso da far schifo e pieno di rabbia dentro che un vulcano in piena eruzione al confronto è una barzelletta. Dodici anni fa il mio rifugio dalla realtà quotidiana fatta di insuccessi, del “signora è dotato ma non si applica” e dal “se continui così nella vita non concluderai mai niente”, altro non era che l’arte; e forse non è un caso che appena ho potuto scegliere per il mio futuro ho deciso di studiare beni culturali prima, storia dell’arte poi! ma soprattutto non è stato un caso il fatto che ho deciso di scrivere la tesi di laurea in museologia. Eh già! studiare i musei, analizzarli in tutti i loro aspetti;  studiare uno spazio al fine di creare qualcosa di unico e poter affermare con orgoglio “questo l’ho fatto io, e questa volta nessuno può dire che ho sbagliato!”. La comunicazione, che sia verbale, non verbale, pittorica, scultorea o nella tecnica di allestimento, questo è il caposaldo della mia vita e della mia ricerca, anche se, ripeto, non mi piace scrivere e sono bravo ad essere un oratore nelle mie visite guidate alle mostre, ma al mio dover esprimere giudizio, dare il mio punto di vista o parlare di qualunque cose con gli altri, preferisco la birra. Tutto questo per parlarvi di quello che è stato un esperimento formidabile che, se questo coronavirus non mi ammazza, prima o poi proverò, di modo da dare conferma a tutti quelli che lo pensano che in realtà nella mia vita non faccio un emerito cazzo!
Ma parliamo, finalmente, di questo artista, ovvero quel maledetto genio assoluto di Yves Klein, meglio conosciuto come l’inventore del colore blu. 
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Klein nacque a Nizza da Fred Klein e Marie Raymond, entrambi pittori. Dal 1942 al 1946, Klein frequentò l’Ecole Nationale de la Marine Marchande e la Ecole Nationale des Langues Orientales, dove cominciò a praticare il judo. Divenne amico di Arman e Claude Pascal, e cominciò a dipingere. Klein compose la sua prima Symphonie monoton nel 1947. Tra il 1948 e il 1952 viaggiò in Italia, Gran Bretagna, Spagna e Giappone, finché nel 1955 si stabilì permanentemente a Parigi dove tenne una "personale" al Club des Solitaires. I suoi dipinti monocromi vennero esposti alla Galerie Colette Allendy e alla Galerie Iris Clert di Parigi nel 1956. Klein morì a Parigi di infarto del miocardio nel 1962 a soli 34 anni di età, poco prima della nascita di suo figlio, anch'egli destinato ad essere "battezzato" Yves e a diventare artista, seppur scultore.
Considerato il precursore francese della Body Art, Yves Klein, realizzò più di mille tavole in soli sette anni, ed è noto soprattutto per i suoi dipinti monocromi. Ognuno di noi è a conoscenza delle tavole totalmente dipinte di Blu, la tonalità su cui l’artista decise di concentrarsi e di cui ne creò la “più perfetta espressione” nel 1956, un oltremare saturo e luminoso, che doveva unificare il cielo e la terra e dissolvere il piano dell’orizzonte. 
Nei suoi lavori immateriali, una sua celebre opera performativa, avvenuta il 28 aprile 1958 nella Galleria Iris Clert di Parigi, prevedeva che gli acquirenti sperimentassero Il vuoto. Klein eliminò tutto l’arredamento della piccola galleria di soli 20m², ed in 48 ore pitturò di bianco l’intera stanza, con lo stesso solvente che usava per le sue tele monocrome. Intervennero più di tremila persone, cui era loro servito un cocktail blu, preparato per l’occasione. I visitatori si sentirono ispirati dalla freschezza della peregrina ed eccentrica idea, che considerarono come l’opportunità di dividere un’esperienza del qui ed ora, una manifestazione della profonda visione dell’artista, liberato dalle restrizioni del tempo e dello spazio, ai limiti di ogni percezione.  “Non esistono limiti obiettivi all’espressione artistica, né nel contenuto, né nella forma. L’unica autorità che ho sempre riconosciuto è la voce dell’intimo.” Il Vuoto per Klein è senza influenze materiali, un’area dove entrare in contatto con la propria sensibilità, per vedere la realtà come appare nella sua essenza, oltre la rappresentazione. Klein esprimeva i suoi atti creativi strappando alla forma artistica l’intero contenuto: i dipinti non avevano immagini, i libri erano senza parole, la musica era una sola nota senza composizioni. La pienezza delle cose, i pieni poteri, come nel vuoto, nella loro assenza.
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Grazie a Klein ho avuto la mia radicale e totale conversione al mondo dell’arte contemporanea. Il fatto che io lo ami così tanto è legato proprio a questa performance, se così la si può definire. Klein è stato capace di colmare il suo vuoto interiore con quello che amava, esattamente come ho fatto io e come facciamo tutti, del resto. Rifletteteci un attimino... Chi di voi non si è sentito una nullità e non ha provato quel senso di vuoto che non si riusciva a colmare con nulla? E quando questo senso di vuoto è stato colmato? Bravi, nel momento in cui avete cominciato a fare il cazzo che volevate della vostra vita.
Ecco svelato il motivo per cui amo Klein, non aggiungo altro. 
Valerio Hank Vitale
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Napoli. Magia, corporazioni e ... lumache
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L’argomento di oggi è a me molto caro; era dalla nascita di questo blog che avevo voglia di parlare di quest’opera, ma ho temporeggiato. E perché proprio oggi ve ne parlo? Per creare una linea di congiunzione con quello che è il lavoro di Roberta, social media manager di Ideama, nonché figura fondamentale all'interno della Fondazione Sassi, proprio perchè è lei che si occupa di tutta la gestione dei social. Da una sua idea è nata l’iniziativa “Briciole d’arte”; un percorso di tour guidato in video e descrizione delle opere che componevano la mostra “Il pane e i Sassi”. Ogni pomeriggio sul profilo Facebook (https://www.facebook.com/FondazioneSassi/) e su quello Instagram (@fondazionesassi) viene lanciato un video della durata di pochi minuti. Un modo banale per continuare a rendere alla portata di tutti il mondo dell’arte visiva. L’opera descritta oggi è un’opera molto particolare, realizata in un periodo molto particolare della storia dell’arte italiana. Si tratta dell’uomo delle lumache di Filippo Napoletano
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Filippo Teodoro di Liagno, detto Filippo d’Angeli o Filippo Napoletano, nasce a Roma nel 1589.  Non sono molte le notizie relative alla sua vicenda biografica: trasferitosi a Napoli con la famiglia, crebbe nella congerie culturale che dava spazio ad una costruzione visionaria della scena, secondo modelli proposti da un gruppo di artisti fiamminghi, tedeschi e francesi operanti tra Roma e Napoli. Rientrato a Roma intorno al 1614, entrò a far parte del gruppo di artisti protetti dal cardinale Del Monte; nel 1617 si trasferì a Firenze, dove operò come artista di corte di Casa Medici, apprezzato per la sua pittura originale, ricca di scene notturne e drammatiche. Nel 1621 tornò a Roma, attivo sia nella produzione di dipinti da cavalletto ma anche di decorazioni ad affresco in cui interpretava il paesaggio laziale, contrassegnato dalle vestigia delle antiche costruzioni romane. Muore a Roma nel 1624. 
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Prima dell'analisi di quest'opera è doveroso fare un excursus su quella che è la situazione artistica italiana di quegli anni. Siamo negli anni in cui il Grand Tour ritorna in voga e molti sono gli artisti che dalle Fiandre e dall'Olanda si spostano in Italia con lo scopo di attraversarla e studiare l'arte classica; ma sono anche gli anni in cui l'Academie des beaux arts de Paris crea un gemellaggio con l'Accademia Nazionale di San Luca, istituendo così il Prix de Rome. Questo era un premio che veniva rilasciato ad un solo studente tra i più meritevoli dell'accademia parigina e permetteva a quest'ultimo di aver accesso ad una borsa di studi di quattro anni che gli permetteva di trasferirsi a Roma con l'intento di studiare l'arte classica. Questa miscellanea di artisti stranieri, insieme agli artisti italiani, erano soliti radunarsi nelle osterie, dibattere di pittura, e far baldoria fino a tardi. Da questi incontri cominciano a nascere delle vere e proprie società segrete, una su tutte, la più famosa risponde al nome di Schildersbent (di questi nello specifico, faceva parte anche Artemisia Gentileschi, di cui a Roma si conserva un suo ritratto a matita in cui lei è vestita da uomo). Nascono in quegli anni i cicli di pitture denominati bambocciate, ovvero soggetti rappresentati la vita quotidiana del popolo. Tra questi sono famosi soggetti quali uomini che giocano a carte, zingare che leggono le mani e fattucchieri che leggono i tarocchi. L'uomo delle lumache rientra in questo ciclo. Siamo nella Napoli del '600 dove il gesto delle corna era già considerato scaramantico o magico. Ed è proprio la magia la vera protagonista di questa piccola pittura su rame, magia che viene addirittura esasperata all'interno della composizione. Di fatto un uomo con un vestito lacero e rattoppato ha di fronte a lui un piatto pieno di lumache, tutte vive. Ha una lumaca sul dorso della sua mano sinistra e con entrambe la imita, ripetendo quindi più volte il gesto delle corna. Nella composizione, però i rimandi non finiscono qui, perché da una attenta analisi notiamo che la barba dell'uomo si dirama in due piccoli cornetti e sulla spilla posizionata sul cappello dell'uomo vi sono altre due paia di corna, oltre a quella che sembra una cintura sulla sua schiena, ma in realtà sono due file di lumache. A coronare tutto sulla tavola ancora imbandita, oltre al piatto con le lumache e a un piccolo tozzetto di pane che è stato già mangiucchiato, troviamo la radice di mandragola, elemento magico per eccellenza della cultura del '600, nonché rimano al testo scritto da Machiavelli circa cento anni prima. 
Valerio Hank Vitale
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Cinema e adolescenza. Harmony Korine e l’underground che diventa mainstreem
Insieme all’arte visiva e alla musica punk, altra mia grande passione è il cinema. Ovviamente parlare di cinema nella generazione Netflix è cosa assai difficile, ma ci sono molte sfaccettature e analisi semiotiche legate ai film indipendenti che solitamente sfuggono ai più. Bene, detto questo, oggi parliamo di cinema indipendente e di quel maledetto genio che è Harmony Korine. 
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Per cinema indipendente, o indie, si intende la produzione di un film senza l'intervento di una grande casa di produzione (ad esempio una delle grandi major di Hollywood). Le caratteristiche principali di questi film sono essenzialmente due: il basso costo e la completa libertà espressiva lasciata al regista, cosa questa che solitamente spaventa i grandi studi, che preferiscono evitare i film sperimentali per concentrarsi su progetti più sicuri e remunerativi. La cosa che generalmente contraddistingue, quindi, queste pellicole, riguarda il soggetto che è molto più impersonato e cerca di staccarsi dai consueti stereotipi dei vari generi cinematografici, il che li rende dei film del costo di svariati milioni di dollari ad un regista esordiente, specie se ha intenzione di utilizzare attori sconosciuti. Un grande impulso ai film indipendenti si ebbe a metà degli anni ’80 con le prime videocamere, e più recentemente con i modelli digitali, che hanno permesso a schiere di giovani registi di evitare i costi proibitivi delle pellicole 35 mm, dei noleggi delle attrezzature, della stampa dei negozi, ecc. Anche la fase di post-produzione è ora molto più economica, grazie al significativo aumento delle prestazioni dei personal computer, all'introduzione dei DVD e al contemporaneo sviluppo di software semi-professionali sempre più sofisticati (utilizzati per il montaggio, la correzione del colore, i titoli di testa ecc.). La crescente popolarità degli “indie” ha costretto recentemente gli studi di Hollywood a creare delle piccole filiali per poter entrare a loro volta in questo nuovo mercato. Di conseguenza, oggi, non è più così netta la differenza fra ciò che è realmente indipendente e ciò che non lo è: per fare un esempio, il film Eternal Sunshine of the Spotless Mind, noto in Italia come Se mi lasci ti cancello, del 2004, considerato un film indipendente, vanta un cast che non sfigurerebbe in un grane blockbuster, la sceneggiatura di un autore pluripremiato, e un budget iniziale di decine di milioni di dollari. D'altra parte, attori di fama internazionale sono molto attratti dal fenomeno indie, tanto da arrivare ad autoridursi il compenso pur di prendere parte ai progetti più interessanti. 
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Harmony Korine è una delle figure più emblematiche del cinema indipendente e della scena musicale indie statunitense degli anni Duemila. Nato a Bolinas, il 4 gennaio 1973 e cresciuto a Nashville, all’età di 19 anni scrive lo shock movie “Kids” diretto da Larry Clark. Il film segna la rappresentazione cinematografica dell’adolescenza; ai genitori di metà anni ’90 venne sbattuta in accia in maniera esplicita la vita dei propri figli tra sesso e droga, e per il sesso e per la droga si muore tutti i giorni. Korine veniva proprio da lì: dalla periferia di Nashville e dalla dipendenza dall’eroina, da un ambiente in cui morivano tutti i giorni giovani affetti da AIDS.  Due anni dopo questa “botta alla società” dirige il suo primo lungometraggio, GUMMO, elogiato da registi quali Gus Van Sant e Werner Herzog. L'anno seguente Korine dirige The Diary of Anne Frank Part II, un mediometraggio di 40 minuti diviso in tre parti composto da footage realizzati dallo stesso regista (che raffigurano adolescenti in vesti sataniste, un ragazzo che seppellisce il proprio cane, un menestrello che balla e canta) e frammenti di pellicole super 8 saturate di altri film e videoclip. Con la sua seconda opera, Julien Donkey-Boy, deciderà di aderire al Dogma 95, movimento cinematografico creato dai registi danesi Lars Von Trier e Thomas Vinterberg, fondato sul decalogo di precise regole espresse in un manifesto programmatico pubblicato nel 1995 (da cui il nome). La corrente, dunque, non è nata né si è evoluta in modo spontaneo, come invece è avvenuto nella maggior parte dei casi nella storia del cinema. Il decalogo, al quale aderirono subito anche Søren Kragh-Jacobsen e Kristian Levring, è spesso definito anche con il significativo nome di Voto di castità, che lascia intendere lo spirito del movimento, ed è stato stilato e firmato ufficialmente a Copenaghen, lunedì 13 marzo 1995. L'obiettivo, molto ambizioso, era quello di "purificare" il cinema dalla "cancrena" degli effetti speciali e dagli investimenti miliardari. Niente luci, nessuna scenografia, assenza di colonna sonora, rifiuto di ogni espediente al di fuori di quello della camera a mano. Le regole da seguire per raggiungere questo obiettivo sono state espresse in un manifesto scritto. Le regole furono violate già dal primo film e ogni regista, chi più chi meno, ha fatto ricorso nei propri film ad espedienti (musica, luci, scenografie) vietati dal manifesto. Come riportato nel sito ufficiale, in realtà ogni regista può interpretare il decalogo a suo modo. Il 20 marzo 2005, a Copenaghen, i registi hanno firmato il documento che ha sancito la fine del patto a dieci anni di distanza. I dieci anni di esperienza del Dogma 95 hanno portato alla produzione di 35 film.  Julien Donkey-Boy è la storia di un ragazzo schizofrenico, interpretato in maniera perfetta da Ewen Bremner che tutti ricordano per Spud in Trainspotting, e da un “adorabile” Werner Herzog che interpreta il padre del ragazzo. Dopo otto anni di assenza dalla scena e una sola sceneggiatura scritta per il Ken Park di Larry Clark, Korine torna alla regia con un film che si vuole avvicinare al cinema canonico: Mister Lonly; storia di un sosia di Michael Jackson che trova una comune di sosia in cui tutti sono perennemente immersi nei propri personaggi. Il film non riceve critiche entusiaste, ed è forse il film minore di Harmony Korine. Prima di dirigere una delle pellicole più importanti di questo nuovo secolo cinematografico, Korine regala al mondo uno dei film più immorali e disgustosi di sempre: Trash Humpers. Nel 2012 partecipa alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia con il suo quarto lungometraggio Spring Breakers, un affresco nichilista e senza pietà sulla gioventù odierna svuotata di ogni ideale e di ogni sensibilità, con protagoniste attrici prese da vari film per ragazzi (per creare un maggiore senso di sberleffo) "sporcate" con il ruolo di giovani criminali. 
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Gummo è il primo lungometraggio di Harmony Korine, girato nel 1997 e che ne rappresenta perfettamente il decennio. Siamo a Xenia, in Ohio, diversi anni dopo che un tornado ribattezzato Gummo ha devastato tutta la città, costringendo gli abitanti a vivere in una situazione di disagio e precarietà. Il film, costato 1,3 milioni di dollari, ne guadagnò soltanto 117000. Gli abitanti della città in cui è stato girato il film pensarono che stessero girando un film pedopornografico, e andarono a minacciare la crew armati di fucile. Il film racconta il susseguirsi delle giornate di diversi ragazzini, tra bambini e teenager con particolare attenzione per Tummler e Solomon. Tutti sono costretti a vivere male per sopravvivere, ad esempio i due ragazzini quasi protagonisti ammazzano i gatti e li rivendono al macellaio per tirare su qualche soldo. Lo shock del film sta nel disagio dei fatti, nell’oscuro vivere di questi ragazzini e nella volgarità del linguaggio. Violenza non ce n’è a parte qualcuna sugli animali, ma penso che sia finta.
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Facciamo un attimo mente locale, qual è lo scopo della maggior parte dei ragazzini? La gara perenne al primo rapporto sessuale, dire parolacce e comprare oggetti praticamente inutili, mentre quello delle ragazzine è quello di sembrare e apparire più grandi. E cosa succede a questi ragazzini così in fermento quando i genitori praticamente non esistono più? Che i ragazzini pagano una disabile per farci sesso, che le ragazzine si mettono il nastro adesivo sui capezzoli per farli sembrare più grossi e un'altra miriade di piccoli eventi che barcamenano tra personaggi improbabili, pervertiti, psicofarmaci ed altri generi di amenità che infastidiscono lo spettatore e lo fanno quasi sentire colpevole. Ci sentiamo davvero sporchi ed anche responsabili per quello che stiamo vedendo. Ed è proprio così, è tutta colpa degli adulti.  Questo film ci dimostra che i bambini che crescono con dei genitori poco presenti nella vita di questi, crescono esattamente nello stesso modo in cui crescono i bambini senza genitori. È vero che spesso la prima categoria di genitori sono costretti dalla povertà o a loro volta dai loro genitori a perpetrare un certo comportamento (questo ovviamente per problemi psicologici). E questo trasforma lo spettatore in un doppio spettatore: quello che sta guardano il film, e quello che sta guardando una realtà non molto lontana da lui, quello che spesso si dimentica o a cui non si pensa. Tutti alle elementari o alle medie avevamo compagni simili, e qui li ritroviamo tutti: quelli che pensano che la violenza sia uno scherzo e che la usano sempre e comunque, quelli che già bevono e già fumano, quelli che dicono parolacce, quelli che fanno già sesso senza sapere precisamente cosa sia, quelli che se incontrano il tuo sguardo vengono a spintonarti e ti danno dello sfigato. La descrizione di questi bambini è la stessa descrizione degli adulti ignoranti che popolano le nostre città, che ritroviamo nelle discoteche, nelle scuole, negli uffici, nelle fabbriche, ovunque. E oggi non è che ci sia molto bisogno di andare in giro per ritrovarli, basta guardare il popolo del web. Che dite non siamo tutti un po' responsabili di questa situazione?
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Il bambino vestito da coniglio rosa riassume tutte le condizioni psicofisiche della pubertà: l’innocenza ricoperta da una scorza di adulto che non appartiene a questa età. La tecnica registica di Korine in questo film comprende diverse tecniche: comincia con una specie di found footage molto confusionario, tecnica che viene ripresa anche durante il corso del film; poi si passa a dei veri e propri videoclip musicali disagianti, e incolla il tutto con una camera a mano che risulta essere quasi un terzo personaggio sulla scena. Perché questo miscuglio di tecniche così diverse tra loro? Perché deve essere coerente con il fatto che il film deve essere narrato da un ragazzino. Se ci pensate bene un ragazzino di questa età è molto confuso, basta leggere come scrivono sui social network o come raccontano le cose. La fotografia è molto curata e risulta essere abbastanza realistica. Le meravigliose scenografie degradate ed i personaggi vengono illuminati proprio come farebbe madre natura, questo per essere il più attinenti possibile al reale. Korine da bravo regista indipendente ed anche un po' hipster, critica anche molto la cultura pop, e intendo pop nel senso più stretto del termine, ovvero quella che ascolta Madonna, quella che guarda Happy Days e quella che ha Pamela Handerson come idolo, un concetto che porterà a compimento nel suo ultimo, discussissimo film, ovvero quel capolavoro di Spring Breakers. Il ragazzo ubriaco che ci prova con il ragazzo affetto da nanismo africano è lo stesso Korine realmente ubriaco sul set. La colonna sonora è meravigliosa. Oltre alla già citata Madonna e il vecchio pop alla Buddy Holly, troviamo un sacco di brani di vari generi metal, anche estremi; abbiamo ad esempio i Batory, i Mortician, i Brujeria, per poi passare all’ambient di Burzum. C’è un tema che ricorre spesso durante il film che è un brano davvero meraviglioso. L’uso di questa musica non so se vuole essere una critica perché ovviamente il metal estremo non è un genere pedagogico per gli undicenni o i dodicenni. La soundtrack è meravigliosa, una selezione musicale davvero ottima; potreste vedere il film anche solo per questo. Gli attori sono quasi tutti non professionisti, ed è anche un po' ovvio visto che sono tutti molto giovani, ma questo non è affatto un difetto, anzi. Spesso i ragazzini e i bambini sono molto più naturali degli adulti e questo film ne è un esempio perfetto. 
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Menzione all’astro nascente del cinema indipendente Chloe Sevigny che, oltre a recitare, ha curato anche i costumi. Gummo di Harmony Korine non è un capolavoro, ma è un film generazionale fondamentale per gli anni ’90, che dovrebbero vedere tutti per smuovere le proprie coscienze. I contenuti e le tematiche sono molto forti, è un film davvero pregno di significati. Il regista è davvero un portento, se pensiamo che questa è la sua opera prima e l’ha realizzata a soli 24 anni c’è da rimanere a bocca aperta. 
https://www.youtube.com/watch?v=gtY_545-ST8
Valerio Hank Vitale
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Siamo tutti un po’ Davì
“Un altro blog che non leggerà nessuno” è un progetto nato assolutamente per gioco, senza nessuna pretesa. Solo un modo per passare il tempo e per tenere la mente allenata in questi giorni di reclusione casalinga. Paradossalmente scrivere non mi è mai piaciuto, preferisco di gran lunga parlare e leggere... ma scrivere proprio no. Quattro giorni fa, quando ho lanciato il primo post, una persona a me molto cara mi ha scritto un messaggio in cui diceva che se non mi conoscesse, molto probabilmente, per il mio modo di scrivere e per quello che avevo raccontato, mi avrebbe immaginato come un punk con un metro e mezzo di cresta verde e pieno di piercing. Qualche piercing è ancora presente sul mio viso e i tempi della cresta verde sono finiti, ma questa immagine mi ha fatto pensare a un libro per ragazzi che ho conosciuto per caso e che ho imparato ad amare. 
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Nella città che da più di tre anni chiamo casa, Matera, e per l’esattezza nel cuore del Sasso Barisano, esiste un posto magico dove i sogni di ognuno di noi trovano modo di prender vita sotto forma di libri. Questo posto si chiama 365 Storie, ed è una libreria indipendente per bambini e ragazzi, nata nel dicembre del 2016, quindi pochi mesi prima che io mi trasferissi a Matera. Anna e Iolanda, le proprietarie, neanche a dirlo, rappresentano un punto di riferimento per me e per i bambini e ragazzi della città. Persone straordinarie, sono riuscite a trasformare quello che doveva essere un punto di transito della città, in un vero e proprio spazio di dialogo e confronto, un posto dove sostare per dare voce alle emozioni. 
Con Anna e Iolanda ho instaurato subito un rapporto di amicizia. Ormai è di routine, prima di cominciare a lavorare, un saluto al volo, una chiacchierata accompagnata da un buon caffè, ma anche uno sfogo nei momenti di rabbia. Chiamate, messaggi, chiacchierate e birre del dopo lavoro sono diventati una sorta di rituale, così come gli aggiornamenti costanti sulle nuove uscite in libreria. Ed è proprio tra una chiacchierata e l’altra che una mattina, assolutamente per caso, da uno scaffale faceva capolino un libro che ha da subito attirato la mia attenzione: copertina viola, primissimo piano di un giovane punk con un crestone verde, piercing, e un fiore giallo all'altezza del naso; insoma un mio ritratto del 2012 disegnato da Giovanni Nori. Il libro in questione è “Davì” di Barbara Garlaschelli, pubblicato dall’editore Camelozampa nell’ottobre del 2013, all’interno della colla per adolescenti Gli arcobaleni.
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Uno strano ragazzo si aggira per la città; il classico punk della generazione 2000: alto, molto magro, cresta verde, piercing, abiti neri e un fiore giallo in mano. il suo nome è Davide, ma preferisce fasi chiamare Davì, così come lo chiamava sua madre prima che andasse via. Ha diciannove anni, ma alterna i momenti in cui si sente più giovane a quelli in cui sente di avere molti più anni. Nella sua passeggiata per la città, incrocia persone, con i loro problemi, i loro pensieri, gli impegni da portare a termine e la famiglia da accudire. Ogni incontro casuale, ogni volta che il nostro protagonista incrocia lo sguardo di un passante, questo evoca dei ricordi, ed è grazie a questi che riusciamo a ricostruire la storia di Davì. il racconto è un alternarsi di questo, incontri casuali che portano alla mente ricordi, ma che dopo aver fatto tanto affinché riaffiorino, li teniamo con noi per pochi secondi, e subito dopo li dimentichiamo.  Nella lunga passeggiata di Davì attraverso la città, conosciamo i suoi pensieri, il suo passato, i suoi sogni ma, grazie a un abile passaggio tra i diversi punti di vista, anche i pensieri e le aspirazioni delle persone che incrociano questo insolito personaggio. Un'andatura lenta e serena, come uno che non ha una meta da raggiungere ma un piacere da coltivare. Attraversa vite e ritratti e non si ferma mai. Davide, Davì, un giorno apre la porta e va via anche lui, per vivere lontano dal padre, in un centro commerciale, e per trovarsi spesso in biblioteca, da Beatrice e Livia. 
Considerato uno dei capolavori della strepitosa Barbara Garlaschelli, la storia di Davì ha visto la bellezza di tre ristampe: 2000, 2010 e 2013. 
Riflettendoci, Davì non è solo un libro per ragazzi, ma un meraviglioso tuffo nel passato di tutti noi. Siamo stati tutti adolescenti, tutti abbiamo attraversato la fase di ribellione, tutti abbiamo avuto il desiderio di scappare di casa per conquistare la tanto agognata libertà di fare quello che più ci pareva e piaceva ma, non potendo farlo, allora ci rifugiavamo nei libri, sognando mondi fantastici fatti di tutto ciò che ci era proibito fare. Questo per me è Davì, io adolescente a cui ogni tanto penso anche con un po di tenerezza. 
Quindi non posso fare altro che ringraziare Barbara Guarlaschelli per averlo fatto rivivere nelle sue meravigliose 112 pagine che leggo e rileggo volentieri, ma ringraziare anche Anna e Iolanda che mi hanno permesso di conoscerlo.
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In questi giorni 365 Storie resterà chiusa al pubblico, ma nell’attesa che questo brutto periodo passi presto, oltre a mandare un abbraccio virtuale ad Anna e Iolanda, vi linko la pagina facebook della libreria, e soprattutto vi consiglio di fare un salto alla loro riapertura. 
https://www.facebook.com/365-Storie-Libreria-per-bambini-e-ragazzi-181143002356885/
Valerio Hank Vitale
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Chissà se un secolo fa pensavano la stessa cosa di Duchamp
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C’è un’affermazione che in questi giorni di quarantena sento ripetere spesso, al tg come nei discorsi in famiglia, una frase che, in realtà, sono anni che viene usata e ripetuta, alle volte a gran voce: VOI GIOVANI SIETE LA ROVINA!!
A quanto pare, noi giovani abbiamo rovinato il Mondo, e sembra quasi che noi siamo la generazione che ha favorito la diffusione del Coronavirus. Beh! in parte non possiamo dar torto a questo... basti pensare ai treni presi d’assalto per il rientro al sud. Però, la cosa fa sempre un po rabbia, soprattutto quando questo viene detto dalla stessa generazione che ha combattuto per rendere questo un mondo migliore affinché noi lo mandassimo a puttane. Nel nostro piccolo, però, sono certo che tutti ci stiamo impegnando con attività di diversa natura e genere al fine di occupare il nostro tempo e portare avanti il nostro lavoro, seppur con mezzi assolutamente differenti da quelli adottati in precedenza. Io per primo fino a due settimane fa non avrei neanche lontanamente immaginato di aprire un blog e raccogliervi quella che è la mia frustrazione di questi giorni di chiusura in casa forzata.
Personalmente non mi sento di aver rovinato niente, anzi. Però, proprio oggi mi sono trovato a riflettere su una cosa: se noi siamo la generazione che ha rovinato l’Italia, chissà se lo stesso hanno pensato circa un secolo fa di Marcel Duchamp, e dei suoi ready-made.
Quella di cui voglio parlarvi oggi è la storia che più mi ha stravolto da studente e che ha fatto si che dedicassi il mio intero percorso di studi alla storia dell’arte.
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Figura assolutamente affascinante e poliedrica, il nostro Marchel ha lasciato una produzione immensa, spaziando tra pittura (nelle correnti del cubismo e fauvismo), scultura, fu animatore del dadaismo e del surrealismo e ideò la tanto discussa arte concettuale con i suoi ready-made. 
Il termine ready-made, traducibile come già fatto, confezionato, prefabbricato, pronto all'uso, in Italiano si riferisce esclusivamente ad un oggetto disponibile sul mercato del quale un artista si appropria così com'è, ma privandolo della sua funzione utilitaristica. Aggiunge un titolo, una data, a volte un'iscrizione e opera su di lui una manipolazione (capovolgimento, sospensione, fissazione sul terreno o sul muro, ecc.). Quindi lo presenta in una mostra d'arte, in cui viene conferito all'oggetto lo status di opera d'arte. Il ready-made è un'opera d'arte che si identifica nell'enunciato 'Questo è arte'. Perché questo enunciato possa compiersi è necessaria la presenza di quattro elementi: un oggetto che ne costituisca il referente, un soggetto che la pronunci, un pubblico che la recepisca e la faccia propria, un'istituzione che accolga e registri l'oggetto a proposito del quale quell'enunciato è stato proferito". Da tale prospettiva, pertanto, il ready-made influisce sul concetto stesso di opera d'arte, sul concetto di autorialità, sulle modalità di fruizione dell'opera e sul rapporto con le istituzioni che la legittimano. L’opera, quindi, si caratterizza di un comune manufatto di uso quotidiano (un attaccapanni, uno scolabottiglie, un orinatoio, ecc.) che assurge ad opera d'arte una volta prelevato dall'artista e posto così com'è in una situazione diversa da quella di utilizzo, che gli sarebbe propria (in questo caso un museo o una galleria d'arte). Il valore aggiunto dell'artista è l'operazione di scelta, o anche di individuazione casuale dell'oggetto, di acquisizione e di isolamento dell'oggetto.Ciò che a quel punto rende l'oggetto comune e banale un'opera d'arte, è il riconoscimento da parte del pubblico del ruolo dell'artista. L'idea di conferire dignità ad oggetti comuni fu inizialmente un forte colpo nei confronti della distinzione tradizionale, comunemente accettata e radicata, tra ciò che poteva definirsi arte e ciò che non lo era.
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Nei tempi a cui risale la nostra storia, Duchamp si era sistemato con facilità nella vita di New York. Aveva trovato amici leali e ammiratrici femminili, e fatto un po’ di soldi vendendo le opere precedenti agli Arensberg. Giocava sulla curiosità e l’ammirazione del suo pubblico nel mondo dell’arte e della società, e sapeva come tenerli in attesa dello scandalo successivo. L’America stava giusto entrando in una fase molto difficile della sua storia, una fase che avrebbe avuto ripercussioni di vasta portata. Il 6 agosto 1917 il Congresso votò l’entrata in guerra contro la Germania. Qualche giorno prima, la commissione militare francese a New York dichiarava Duchamp inabile al servizio militare in via definitiva. Per gratitudine, lavorò sei mesi per la missione, come segretario di un capitano che in seguito descrisse come un “idiota”. Poco dopo viene nominato segretario della commissione allestimento mostre dalla “Society of Indipendend Artist” alla cui fondazione aveva contribuito, insieme ad Arensberg, Man Ray e Manuel de Layas, fra gli altri. Come opera personale, presentò alla Society un orinatoio di porcellana capovolto, con il titolo di Fontana e firmato a pennello: “R. Mutt 1917″.
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Lo scandalo era più o meno garantito, poiché lo statuto dell’associazione vietava di rifiutare un’opera che le veniva offerta, qualunque cosa fosse. Per aggirare quella regola, Fontana fu nascosta dietro una tenda per tutto il tempo della mostra. Lo stesso Duchamp dirà in seguito che non era a conoscenza della collocazione della sua opera e che nessuno osava parlare di essa. 
La Fontana-Orinatoio ebbe origine da un esperimento riguardante il gusto; Duchamp scelse l’oggetto che avesse meno probabilità di essere apprezzato. Il pericolo è il piacere artistico; ma si riesce a fare ingoiare qualunque cosa alla gente, se si prova, ed è quello che accadde.
Benché l’identità di chi si celava dietro R.Mutt venisse scoperta molto presto, Duchamp fu deliziato dal risultato dell’esperimento. Aveva dimostrato che qualunque cosa poteva essere “arte”, e ciò significava, a sua volta, che arte poteva essere qualunque oggetto usato. La Fontana di Duchamp fu celata agli stuardi del pubblico perché i pittori di New York, come i colleghi di Parigi avevano afferrato la minaccia implicita. La strategia di Duchamp era forse meno perversa di quanto appaia oggi; il gesto acquisì la sua intera carica sovversiva solo quando il ready-made fu messo in mostra in un museo con sotto il vero nome dell’artista. L’oggetto, privato della sua identità originale, diveniva così la creatura del tempo e del luogo dell’esposizione. 
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Duchamp l'avrebbe firmata con lo pseudonimo "R.Mutt", che traslitterato evoca fonicamente il sostantivo tedesco "Mutt(e)R" ossia Madre; altri ritengono più conducente una simile ipotesi riferita, però, al francese "muter" che significa "mutare", cambiare, defunzionalizzare e rifunzionalizzare appunto. In ogni caso l’opera andò perduta. Nella fase di spostamento di quest’ultima l’artista inciampò facendola cadere. Quello che resta, oltre alle due copie, è la splendida fotografia di Stieglitz, scattata in questa angolazione particolare con un particolare gioco di luci e ombre voluto di comune accordo dai due e che ha fatto si che l’opera venisse in seguito ribattezzata “Nostra dama del gabinetto”. Di fatto l’ombra al suo interno rimanda a quella che è la sagoma della Madonna.
Alla luce di questa storia che sei anni fa ha cambiato la mia esistenza e il mio percorso di studi, mi chiedo, quindi, se anche il caro Marchel Duchamp, già nel 1917 venisse etichettato come “quello che ha distrutto il mondo dell’arte”, esattamente come noi giovani siamo quelli che anno distrutto la società.
Valerio Hank Vitale
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Manteniamo le distanze, ma analizziamo la pittura di genere
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In questo secondo giorno di drastica chiusura a casa non posso fare a meno di pensare al’aspetto che più di ogni altro manca nel nostro quotidiano. Eh già, lo spirito di convivialità manca proprio a tutti!! io per primo vorrei tanto uscire, prendere un caffè, bere una birra insieme agli amici, fumare una sigaretta in compagnia e, soprattutto, litigare con qualcuno. Si, le tecnologie ci aiutano parecchio, ma una videocall su Whatsapp non è la stessa cosa... Come fai a prendere in giro un amico senza potergli dare una pacca sulla spalla e successivamente abbracciarlo?? Che strazio! Si, stiamo in casa, ci relazioniamo solo con la famiglia, ma ad un certo punto hai bisogno di svagare, di chiuderti nel tuo mondo o semplicemente di avere qualcuno al tuo fianco a cui puoi raccontare di tutto e di più senza bisogno di dover spiegare qualsiasi cosa, moderando anche le parole che utilizzi.
Bene! dopo questa premessa assolutamente polemica, come il mio solito, ho quindi riflettuto su quello che è l’aspetto della convivialità trasposta nella pittura del secolo d’oro italiano e, siccome mi piace vincere facile, ho deciso di analizzare qui con voi una delle opere d’arte che ho avuto sotto gli occhi da Ottobre 2019 a Marzo 2020, per l’esattezza fino a venerdì pomeriggio, quando con effetto del Decreto Legge la Fondazione Sassi è stata costretta a chiudere.
Molti di voi sapranno già che in occasione del festival La Terra del Pane, evento in coproduzione con la Fondazione Matera-Basilicata 2019, la Fondazione Sassi è riuscita a portare nella Capitale Europea della Cultura una mostra-evento. Si, un vero e proprio evento, perché per la prima volta nella storia di Italia, quattordici opere delle Gallerie degli Uffizi si sono spostate dal circuito fiorentino per approdare un una realtà diversa da quella del museo sopracitato. Tema portante della mostra è stato il pane, declinato in pittura sacra, pittura di genere, e nature morte. 
Nello specifico tra il 1545 e il 1563, per la durata di ben 18 anni, in Italia ebbe luogo il Concilio di Trento, sotto il pontificato di cinque papi (Paolo III, Giulio III, Marcello II, Paolo IV, Pio IV). A carattere prettamente ecclesiastico, questo doveva sancire una serie di norme-guida, al fine di risollevare l’immagine della chiesa dopo la controriforma e le dottrine luterane e calviniste. Ovviamente la chiesa, aveva bisogno di ogni mezzo possibile per risollevare la sua immagine e gli effetti del concilio ecumenico si fecero sentire anche sul versante artistico. Sebbene vennero emanati solo principi guida, l’arte del XVI e del XVII secolo ne risentì fortemente; di fatto gli artisti si trovarono a poter dipingere solo soggetti a carattere sacro, con una centralità assoluta della scena sacra, al fine di rendere il messaggio alla portata di tutti. 
Quindi, se in Italia abbiamo, in questo periodo, una sorta di imposizione dei soggetti sacri, nelle Fiandre e in Olanda la situazione è diversa; di fatto sono molto più numerose le scene di genere, ovvero i momenti di vita quotidiana (ad esempio fiere, faccende domestiche, feste, momenti di convivialità in interno o esterno). 
Facendo riferimento alla mostra “Il pane e i Sassi”, la sala B era per intero dedicata ad essi e, al sui interno, era presenta il dipinto dal titolo “La colazione (o il piccolo violinista)”, databile tra il 1646 e il 1679 circa, di Jan Steen. 
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Jan Steen nacque a Leida, in una famiglia cattolica benestante, figlio di un birraio che gestiva la locanda L'alabarda rossa da molte generazioni. Come il suo più noto contemporaneo Rembrandt, Steen frequentò la scuola latina di Leida. Ricevette la sua educazione artistica da Nicolaes Knüpfer, pittore tedesco noto per i suoi quadri a sfondo storico o narrativo ambientati a Utrecht. Le influenze di Nicolaes si ritrovano nell'uso della composizione e del colore. Un'altra fonte di ispirazione fu Adriaen van Ostade, pittore di scene rurali, vissuto ad Haarlem, anche se non è noto se vi sia stata qualche frequentazione tra i due.
Nel 1648 Jan Steen fu tra i fondatori della Sint-Lucasgilde ("Gilda di San Luca") di Leida, ma, poco dopo, divenne assistente del rinomato paesaggista Jan van Goyen e si trasferì in casa sua a L'Aia. Il 3 ottobre 1649 sposò Margriet, figlia di van Goyen, dalla quale ebbe otto figli. Steen lavorò con il suocero fino al 1654, quando si trasferì a Delft, dove avviò la fabbrica di birra De Roscam ("Al pettine") senza molto successo. Visse poi a Warmond del 1656 al 1660 e ad Haarlem dal 1660 al 1670, periodo in cui fu molto produttivo.
Nel 1670, a seguito della morte del padre e di quella della moglie, avvenuta un anno prima, Steen tornò a Leida, dove aveva ereditato la casa paterna, in cui visse fino alla morte. Qui ebbe nel 1672 la licenza per aprire una taverna e nell'aprile del 1673 si sposò di nuovo, con Maria van Egmont, che gli diede un altro figlio. Nel 1674 divenne presidente della Sint-Lucasgilde.
Morì a Leida nel 1679 e fu sepolto nella tomba di famiglia nella Pieterskerk.
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Jan Steen era pittore tra i più cari alla corte di Cosimo I de Medici, nonché pittore grazie al quale Cosimo stesso si sposterà più e più volte in Olanda per commissionare dipinti. Steen è considerato uno dei più grandi pittori di genere dell'Olanda del tempo, grazie soprattutto alla sua doppia professione; oltre ad essere pittore, una volta rientrato a Leida, decide di intraprendere l'attività di birraio; grazie a questa nuova attività, Steen diventerà uno dei maggiori conoscitori della vita quotidiana dei soggetti da lui ritratti; per di più abolirà la sua firma e inserirà in tutte le sue composizioni il bicchiere di birra che, simbolicamente, diventerà la sua stessa firma. L'opera infatti è un sunto di tutto questo. Una donna alto borghese in primissimo piano ci volta le spalle, mostrandoci un lussuoso vestito e i capelli raccolti in uno chignon. Non sappiamo se ha qualcosa tra le mani, se sta mangiando o cosa effettivamente stia facendo, notiamo solo che la sua attenzione è rivolta al musico che sta suonando il violino. Alla destra della donna un uomo, probabilmente suo marito, è seduto in una posizione di totale relax; poggia la gamba su una panca e regge tra le mani una pipa che è appena stata spenta (nel posacenere si nota ancora il tabacco che sta bruciando. Sul viso dell'uomo sembra vi sia una smorfia, in realtà, probabilmente, sta cantando la canzone che il musico è intento a suonare. Un terzo uomo si unisce alla scena con il viso felice ed il sorriso di chi si è finalmente unito ad una allegra compagnia compagnia di amici. L'uomo è seguito da una donna, probabilmente un'inserviente che lo aiuta a mettersi a proprio agio; gli sta sfilando il mantello. La scena si svolge in esterno, in un tipico vigneto dell'Olanda; dal vigneto si scorge una classica casa con il tetto in legno a punta, tipica abitazione della zona. 
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Il rimando per la composizione di quest'opera è al maestro di Steen, ovvero Pieter Bruegel il Vecchio. Di fatto se si analizza l'opera di Bruegel presente al Museo Nazionale di Capodimonte, “La parabola dei ciechi”, si nota che gli uomini sono abbigliati esattamente come gli uomini della scena di Steen, così come il violino che suona il ragazzo è un chiaro rimando alla ghironda presente in basso a destra nella tela di Bruegel. Altro dettaglio in comune tra le due tele è la presenza della casa in lontananza; da una attenta analisi capiamo che, come per la tela di Bruegel, anche la tela di Steen è ambientata nel piccolo villaggio di Sint Anna Pede.
Senza nulla togliere alle altre, ma questa è l’opera che maggiormente è piaciuta, si vede che non è opera proveniente dall’Italia ahah 
Valerio Hank Vitale
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Presentarsi è d’obbligo
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Mi presento, così non ci resta male nessuno... Anche se so già che buona parte dei lettori sono persone che mi conoscono... Ma per non essere sempre il solito polemico, faccio questo sforzo.
Dunque... la mia storia comincia una lontana domenica di 10588 giorni fa. Ariete, ascendente Gemelli, ma soprattutto nato sotto saturno come il titolo del meraviglioso volume di Margot e Rudolf Wittkover. Fin da bambino sono stato appassionato di arte, sotto tutte le sue sfaccettature: da mia madre ho ereditato l’amore per l’arte visiva, da mio padre quello per il cinema e da entrambi quello per la musica.
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Ma non perdiamoci in chiacchiere futili. Non ci dilunghiamo su quella che è la mia vita, che poi sostanzialmente non interessa a nessuno, così come non interessano a nessuno le mie esperienze lavorative; si, come ho scritto sono un giovane storico e critico d’arte e, come avrete sicuramente intuito, il periodo storico che stiamo vivendo non permette a tutti di andare in smart working e tenere occupate le giornate. Da questo nasce la mia esigenza di continuare a creare contenuti (purtroppo non in formato orale, come avrei preferito) e renderli disponibili per i tanti che da anni ormai seguono con interesse il mio lavoro.
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Fatta questa premessa, il mio nome è Valerio, anche se Vale o Valex vanno per la maggiore; per molti sono il Dottor Vitale (per fortuna solo in ambiente lavorativo, anche perché la cosa mi mette particolarmente a disagio), per molti altri sono Hank.
Ecco lancio questo primo post rispondendo ad una domanda che in molti mi fanno e alla quale non rispondo mai:
PERCHE’ UTILIZZI DA UNA VITA IL NICKNAME HANK?
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Conoscete questo signore? Lui è il grandissimo Henry Charles Bukowski, o se vogliamo l’altra faccia della Beat Generation. Era il lontano 2009, ero innamorato alla follia di Jack Kerouac e della sua vita sulla strada. In quella calda estate sognavo anche io il momento in cui sarei andato via dal paesello e avrei cominciato l’università, che in quegli anni la immaginavo come una esperienza on the road (magari fosse stata così). In ogni caso, tra le pagine di Kerouac, le note di De Andrè e i miei sogni di anarchia, trovai un anello di congiunzione nella figura di Fernanda Pivano.
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Fernanda Pivano, detta Nanda, genovese di nascita ma torinese di adozione, è stata figura chiave per la diffusione della letteratura americana nel nostro Paese. E’ grazie a lei se molti dei miei scrittori preferiti, sono diventati i miei scrittori preferiti. Senza di lei probabilmente non li avrei mai conosciuti. Tra le altre cose, Fernanda Pivano e la Beat Generation dovevano essere argomento della mia tesi di laurea triennale, se la prof non avesse dato questo tema alla ragazza che a ricevimento era arrivata prima di me. In ogni caso, tornado a Nanda, tra i suoi scritti, vi è un libro/intervista che più di ogni altro ho amato alla follia, ovvero “Quello che importa è grattarmi sotto le ascelle”, ovvero l’intervista che chiunque avrebbe voluto fare a Charles Bukoski. Ma chi era costui? Decisi di informarmi... Da quella ricerca ne sono uscito con l’acquisto di tutti i suoi libri. letti e riletti, a tratti consumati, quei testi sono diventati qualcosa di assolutamente prezioso per me, al punto da non riuscire a stare senza. Ma la cosa che mi ha sempre colpito più di ogni altra, era il fatto che dietro Henry “Hank” Chinaski, - un misantropo, alcolizzato, mostro spesso in condizioni di instabilità e sempre in viaggio da un capo all’altro dell’America -, si celava l’alter ego di Bukowski stesso.
Con il tempo mi sono legato sempre di più a quel nome, che è diventato un pò parte di me; doveva continuare ad essere parte della mia storia così come lo sono i libri di Buk. Tutto questo inconsapevole del fatto che il protagonista di Californication, Hank Moody, altro non è che un chiarissimo rimando a tutto quello che ho scritto fino ad ora; stessa cosa dicesi per Paolo Pavanello, chitarrista dei Linea 77, il cui nome d’arte è Chinaski.
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Quindi questo è, più o meno in sintesi, il motivo per cui il mio nickname sui social è Hank.
Sperando che questo esperimento prosegua, non mi resta che darvi appuntamento a domani.
Valerio Hank Vitale
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