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#photodeath
L'estetica senza etica è cosmetica
Fin da bambino ho sempre avuto una particolare predisposizione per la fotografia; pensate che, benché i miei mi riempissero di attenzioni e di giocattoli, i due due “giochi” che preferivo erano la vecchia reflex e la videocamera di mio padre. Ho passato ore ed ore a giocare con questi due strumenti tanto complessi per me e allo stesso tempo tanto affascinanti, al punto che, oltre ad averli distrutti, ancora oggi quando vedo una fotocamera o una videocamera impazzisco. La fotografia... che mondo affascinante e complesso; ancora più affascinante quando diventa oggetto di una performance. L’artista di cui voglio parlare oggi è venuto a mancare da poco, e nello stesso tempo ha vissuto l’intera esistenza nell’ombra dell’ex compagna, ma, dal mio punto di vista, è stato ideatore di qualcosa di innovativo e geniale. 
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Frank Uwe Laysiepen, in arte Ulay, nasce durante il secondo conflitto mondiale, sotto le bombe degli alleati, figlio di un gerarca nazista. Resta orfano precocemente rimanendo totalmente privo di legami familiari. Come molti suoi coetanei, cresce con il senso di colpa per i padri nazisti e nella tensione provocata dallo smembramento del paese, diviso in due fra territori filo-occidentali (la Germania Ovest) e filo-sovietici (la Germania Est). Vive quindi in maniera conflittuale le proprie origini, tanto da arrivare alla rinuncia del nome e della nazionalità tedesca.Alla fine degli anni sessanta l'insofferenza verso il proprio paese lo spinge ad allontanarsi, lascia la moglie e un figlio piccolo e si trasferisce ad Amsterdam, attratto dal movimento olandese Provo di ispirazione anarchica. Si iscrive alla Kölner Werkschulen di Colonia dove conosce Jürgen Klauke, artista fotografo con cui avvia una collaborazione ispirandosi ai lavori di Pierre Molinier, Hans Bellmer e Hannah Wilke. Presto Ulay inizia a provare interesse per discipline non previste nell'offerta formativa dell'università scelta, pertanto abbandona gli studi per avvicinarsi alla fotografia analogica e all'uso artistico della Polaroid. Intraprende una ricerca sulle nozioni di identità e corpo, documenta la cultura di travestiti e transessuali attraverso foto, aforismi e performance. Progressivamente l'approccio alla fotografia diventa sempre più complesso: l'espressione fotografica viene messa in stretto rapporto con la live performance come nella serie Fototot e in There is a Criminal Touch To Art, entrambe del 1976. 
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Lo stesso anno alla Galleria de Appel di Amsterdam conosce Marina Abramović, invitata a esibirsi per un programma televisivo dedicato alla performance; è il 30 novembre, data di nascita di entrambi. Tra i due nasce subito un'intesa artistica che sfocia in una profonda e travagliata relazione sentimentale. Realizzano insieme una serie di performances dal titolo Relation Works, una forma estrema di body art, che li porta ad esplorare i limiti della resistenza fisica e psichica. Dopo 12 anni di amore e di sodalizio artistico, decidono di lasciarsi e di sancire la fine del loro rapporto con un'ultima performance, The Wall Walk in China: entrambi percorrono a piedi tutta la grande muraglia cinese partendo dai capi opposti per incontrarsi al centro e dirsi addio. Seguono anni di ostilità e battaglie legali circa i diritti d'autore della produzione artistica: Ulay denuncia Marina per aver venduto autonomamente opere appartenenti ad entrambi. Nel settembre 2016 il giudice gli dà ragione e costringe Marina a versare 250 mila euro all'ex partner per violazione di un contratto firmato nel 1999, che regolamentava l'uso dei lavori realizzati insieme fra il 1976 e il 1988. Dopo la fine della relazione, Ulay concentra la propria attività sul mezzo fotografico affrontando il tema dell'emarginazione e ritornando su quello del nazionalismo. Nel 2009 si trasferisce da Amsterdam a Lubiana; qualche mese più tardi gli viene diagnosticato un cancro. Dopo una serie di trattamenti chemioterapici che migliorano il suo stato di salute, decide di partire con una troupe per visitare i luoghi più importanti della sua vita e incontrare compagni e amici per un ultimo saluto. Da fine 2011 la telecamera lo segue per un anno intero, dall'Istituto di Oncologia di Lubiana fino a Berlino, a New York e alla Amsterdam della sua giovinezza. Ulay tratta la malattia come il più grande e più importante progetto della sua vita, un'occasione per interrogarsi sulla natura della vita, dell'amore, della storia e dell'arte, e per raccontare la propria carriera attraverso interviste, video di archivio, fotografie e riproduzioni dei suoi principali lavori. Ne scaturisce un documentario uscito nel 2013, intitolato Project Cancer, diretto da Damjan Kozole. Durante tutta la carriera rimane fedele al proprio motto: "L'estetica senza etica è cosmetica". Preferisce lavorare senza compromessi, rigoroso e coerente, anche a costo di rimanere ai margini del mercato. Insegnava New Media Art presso l'Università di Arte e Design di Karlsruhe in Germania. Lavorava tra Amsterdam e Lubiana, città dove viveva da 10 anni. Muore il 2 marzo 2020 all'età di 76 anni a causa di un linfoma, conseguente al tumore diagnosticatogli undici anni prima. 
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“Senza distruzione non c’è creazione e la sua performance ne è letteralmente un esempio: creare fotografie con lo scopo di distruggerle come parte di un’opera d’arte”, scrive Noah Charney in Il museo dell’arte perduta (tr. it. Irene Inserra e Marcella Mancini, Johan & Levi 2019). Da una parte Charney accosta Fototot alla scena iniziale de Il libro del riso e dell’oblio di Milan Kundera, dall’altra evoca Fototot II, remake del 2012 in cui la galleria viene immersa in un buio pesto. Opera concettuale e post-situazionista, Ulay realizza una sorta di polaroid all’inverso, un medium di cui è stato uno dei primi artisti a servirsi. Il titolo lo riprende da un film-performance di Claes Oldenburg, Fotodeath (1961, 16mm). Estate 1976. Gli spettatori sono invitati a entrare nella galleria de Appel di Amsterdam, uno spazio cieco fondato appena un anno prima. Su tre pareti, sopra la testa della ventina di spettatori, campeggiano nove fotografie in bianco e nero di 1 m x 1 m. Banale il soggetto: una persona intabarrata nel suo cappotto evolve su un viale alberato; è quanto perlomeno s’intravede nella tenue luce giallo-verde, simile a quella utilizzata in camera oscura. Quando la porta della galleria viene chiusa, si accende una lampada ad alogeno. Quello che accade lascia basiti gli spettatori: hanno appena il tempo di cogliere il soggetto che, nell’arco di 15-20 secondi, le stampe fotografiche si anneriscono e svaniscono. In questo modo fanno esperienza di quello che il titolo funereo della performance – Fototot I – promette a chiare lettere: la morte della fotografia o meglio la morte dell’oggettività fotografica, il disvelamento dell’immagine fotografica come mera illusione. Gli spettatori restano soli con queste stampe di grandi dimensioni, monocromi neri che incombono su di loro.
Valerio Hank Vitale
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