#vita al margine
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Odio la disonestà.
#disonestà#titoli comprati#zero sforzi#ingiustizia#accettazione#vita al margine#fuggire via da qui#posti insani#malattia
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Si chiama NERC, North American Electric Reliability Corporation, è un Ente indipendente che sovraintende alla gestione delle reti elettriche negli Stati Uniti.
Di solito è molto indulgente con i Governatori e le loro politiche a base di nefandezze scientifico-tecnologiche, ma stavolta ha lanciato un allarme chiaro, chiarissimo, incontestabile: continuando di questo passo, con la chiusura di centrali turbogas e la loro sostituzione con pannelli fotovoltaici e batterie per lo stoccaggio dell'energia, data l'elevata elettrificazione dei servizi pubblici, la California, ovvero la Germania degli Stati Uniti, resterà priva di un valido approvvigionamento di energia elettrica entro il 2029, con conseguenze disastrose.
I Governatori che si sono succeduti sulla poltrona dello Stato hanno preferito puntare ad improbabili politiche Net Zero, che il tempo sta rivelando come un boomerang disastroso; emigrazioni di massa, povertà diffusa, deindustrializzazione dello Stato, criminalità crescente spinta da una povertà senza precedenti storici.
Dal 2014 al 2024 il costo dell'energia elettrica è cresciuto del 127% fino a toccare i 40 cent$/kWh, ma la previsione parla di oltre 50 cent$/kWh ben prima del 2029, anno del temuto blackout generale.ù
Un blackout che dovrebbe materializzarsi soprattutto nel periodo di settembre, dopo le 17:00, quando l'energia generabile sfruttando il sole sarà poca, ma la domanda ancora elevatissima e lo stoccaggio insufficiente. E non saranno sufficienti i 35 miliardi di dollari previsti per l'aggiornamento delle reti elettriche, nemmeno l'incremento delle importazioni di energia elettrica (a carbone!) dallo Utha, secondo il principio noto dell'esternalizzazione delle emissioni, ipocrisia tipica dell'ambientalismo osceno. L'orologio segna l'ora, il tempo si avvicina, forse gli americani e, soprattutto, i californiani si risveglieranno dal torpore, quando ricaricare una Tesla costerà più che comprarla nuova.
Nota tutt'altro che a margine: quelle che notate nella foto sono le turbine eoliche installate nel deserto californiano. Come si può ben notare sono installate in modo tale da porre in ombra l'una rispetto all'altra, quindi la generazione di energia è tutt'altro che valida e scontata. Si può dire che, fisicamente parlando (fluidodinamica) questo schema è altamente ed incontestabilmente discutibile. A loro, però, poco importa, perché ciò che conta è installarne tante, perché il credito di imposta, l'esenzione dal pagamento delle tasse, e le diverse forme di sovvenzionamento rendono assai redditizia l'installazione, non la reale generazione ed energia immessa in rete. Infatti, nessun "contatore" è installato, ovunque nel mondo, per contabilizzare la generazione elettrica delle fonti rinnovabili; fa fede il mero fattore di capacità imposto dal legislatore locale, nulla di più, una vera manna per i produttori. Ed alla fine della vita utile, le turbine resteranno a fare bella mostra di sé, inutili rottami che distruggono paesaggio e natura, ma questo è ben altro aspetto...
Fernando Arnò.
#truffa energetica#truffa climatica#truffa rinnovabili#Verdacci cancheri#Verdacci merdosi#terrorismo green#greenpeacecriminali#truffa green
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Qualche giorno fa.. la domanda che ho fatto alla mia psicologa é stata: "Perché sto così?" Sono ormai settimane se non mesi che sto cercando di dare una svolta a tutto, che sto cercando di agire su ciò su cui ho potere o margine di manovra (perché purtroppo con le malattie e le situazioni esterne, c'é poco da fare..); Ma sembra sempre tutto uguale, tremendamente monotono e privo di colore.. come se dentro di me ci fosse una tempesta eterna che spazza via ogni tentativo di timida schiarita. La verità é che mi sfinisco, rendo le mie giornate un inferno per evitare di far entrare pensieri intrusivi in quel brutto cervello che mi ritrovo, ma poi.. appena stacco un attimo ecco che ritorna tutto, quel buio.. quel dolore profondo che mi sta distruggendo da una vita intera. Spesso (tornando alla domanda) non so neanche io perché sto così, non me ne capacito. Certo, l'autostima sotto i piedi e l'odio verso il mio aspetto esteriore.. sono un po' il tronco da cui poi si ramificano tutti gli altri problemi.. é sempre stato così.. ma dall'altra parte, tutto l'impegno che ci sto mettendo da mesi, meriterebbe una sorte diversa; La Doc mi ha detto che non devo mollare, che capisce che la situazione esterna renda tutto soffocante.. ma che infondo posso ricevere solo benefici nel dare il tutto per tutto (Una banale verità). Oggi però mi sento più stanco del solito, forse avevo solo bisogno di sfogarmi scrivendolo a me stesso, forse ho davvero bisogno di una pausa dalla mia testa e dai miei pensieri. É una battaglia durissima ed il mio avversario (me stesso) non ha alcuna pietà.
~Ale
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Lettera aperta - Olimpiadi
La cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Parigi è la rappresentazione plastica di come certi eventi di caratura internazionale siano un’operazione di indottrinamento delle masse, volta ad attuare una riformattazione dei costumi, se non antropologica, delle cosiddette società occidentali.
Malgrado il dietro front di chi lancia il sasso per poi nascondere la mano con l’incalzare delle polemiche, alludendo a margine delle scuse ufficiali che la disposizione attorno a un tavolo di transessuali agghindati ad arte per l’occasione, manco le Olimpiadi siano il Carnevale di Rio de Janeiro, non sia una caricatura blasfema dell’Ultima Cena rappresentata dal Da Vinci, ma secondo la direttrice della comunicazione delle Olimpiadi Anne Descamps e Thomas Jolly, il direttore artistico (se così possiamo definirlo) della cerimonia, si voleva invece educare alla tolleranza e alla comunione.
Le Olimpiadi quali giochi che si svolgevano in Grecia iniziavano con celebrazioni religiose in favore di Zeus e si concludevano con la premiazione degli atleti vincitori, vennero riprese in epoca moderna a fine ‘800, ma sempre hanno conservato un universo estetico e simbolico arcaico proprio di quella civiltà ellenica che ha permeato l’Europa: dalla fiamma olimpica alla traslazione in altre nazioni a testimoniarne l’universalità.
E con la competizione insita nella natura dell’essere umano di confrontarsi con avversari al proprio pari, si veicolava un’immagine di sé salubre, forte ed atletica. E quindi indiscutibilmente bella. Perché nonostante le infezioni culturali contemporanee che propinano un relativismo tout court, esiste un canone oggettivo della bellezza, che la classicità ci suggerisce da tempi immemori che è rappresentato dall’armonia delle forme e da un ordine che è sintesi dell’unità che domina la diversità.
Bellezza, ordine, sostanza e FORMA. Ciò che abbiamo interpretato e riprodotto in tutti gli ambiti e in ogni epoca. Fino ad oggi. Perché noi siamo europei e proveniamo da una Civiltà.
Di contro, ciò che più di ogni altra cosa mina l’esistenza di una civiltà è l’informe. Perché l’assenza di Forma genera una sostanza malata. E là dove la sostanza è malata, la bellezza non può trovare posto e si finisce inesorabilmente per imbruttirsi. Prima nel singolo, poi nella moltitudine e infine nella società. E quindi si avvia il declino di una civiltà in decadenza.
E quando una società è decadente si può arrivare ad assistere all’esibizione della cerimonia inaugurale delle Olimpiadi con un personaggio come Barbara Butch investita dal ruolo di frontman.
Conferitole recentemente il premio di personalità LGBT dell’anno per via della moltitudine di battaglie coraggiosissime a difesa delle minoranze arcobaleno condotte temerariamente al fianco di pressoché tutte le multinazionali, dei magnati della finanza e del mainstream globale. Allora comprendiamo perfettamente che il concetto di Forma quale riflesso di bellezza e di un ordine superiore suggeritoci dalla classicità dei greci, quegli europei che hanno dato vita alle Olimpiadi nel 776 a.C., difficilmente possa attecchire su chi come Barbara Butch conduce audacemente crociate in difesa de “l’accettazione dei grassi”.
Perché l’immagine della cerimonia inaugurale in salsa woke è la più fulgida rappresentazione di come sia ripugnante l’esaltazione delle devianze promosse da chi essendo informe per natura, ha in spregio tutto ciò che essendo bello e giusto secondo natura, costituisce saldezza e ancoraggio: la famiglia e la Nazione, la Cultura e l’identità.
L’agenda cosmopolita della società aperta in fase di consolidamento mira alla distruzione di questi cardini e opera attraverso il condizionamento sociale di una propaganda che si fa sempre più spinta e pervasiva.
Nell’industria dell’intrattenimento, quella cinematografica, musicale o sportiva come in questo caso, ormai è prassi ordinaria rendere espliciti aspetti occulti di un certo misticismo sinistro: dall’ostentazione di modelli devianti per giungere all’esposizione di immagini sempre più spesso esplicitamente sataniste.
Ci chiediamo se eventi come Eurovision, Berlin Fashion Show e Super Bowl ad esempio attraverso performance altamente simboliche, non siano rivelatrici di un retroterra “esclusivo” che rappresenta egregiamente Sodoma e Gomorra: costumi BDSM, ballerini vestiti da donna in perizoma, cantanti che si esibiscono nudi, sesso omosessuale di gruppo praticato in un bagno sporco, croci rovesciate, streghe e demoni che si accoppiano al centro di un pentagramma, adulti che posano davanti alle cineprese con genitali esposti in presenza di bambini.
Vorremmo esimerci anche solo dal pronunciare certe oscenità per via della natura scabrosa di certi contenuti, se non fosse che vengono trasmesse in mondovisione sintonizzando centinaia di milioni di ascoltatori, sdoganando e normalizzando un passo alla volta le più infime degenerazioni dell’uomo mascherate da creatività, arte e inclusività.
Una poderosa macchina di propaganda mondiale che aspira a cancellare le identità nazionali e sovvertendo le religioni, i costumi e le tradizioni dei popoli, mira a scalzare ciò a cui siamo profondamente legati con lo squallore di una “cultura” globale indifferenziata che si esibisce in tutta la sua ripugnanza.
Ferocemente
-Kulturaeuropa
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"Mi aveva colpito, al culmine dell'isteria social sul fatto del giorno, la dedica di una donna tra i miei contatti al suo compagno ovvero quanto si ritenesse fortunata ad averlo incontrato, perché lui, fra tutti i degni (cioè indegni) rappresentanti del patriarcato, si distingueva per probità e virtù. Naturalmente mi aveva fatto sorridere l'ingenuità della dichiarazione e mi aveva un po' indispettito l'arroganza, la presunzione manichea di riconoscere e sapersi accaparrare il grano, mentre il loglio toccherebbe alle altre. Queste altre, chi sarebbero. Io, per esempio. Credo di potermi dire emancipata, sono indipendente economicamente, non soffro di deficit affettivi conclamati, e vengo considerata persona dal carattere forte, a torto o a ragione. Questo anche anzi soprattutto vent'anni fa, quando ero in formazione come studiosa, cominciavo a guadagnare da poterci vivere certo senza fasti e avevo una famiglia ancora integra, genitori vivi etc. Eppure. Eppure avevo un fidanzato ossessivo, geloso, qualche volta violento. Per lo più con le cose, che usava sbalestrare sul pavimento o scaraventare contro il muro, ma qualche volta anche contro di me. Mi strattonava, per lo più. Piatti rotti, ogni tanto. Mi controllava il telefono? Sì. Mi permetteva di avere accesso al suo? No. Una volta finse di essere a Roma (abitava in un'altra città) intimandomi di tornare a casa (ero a cena con due amiche). Io gli obbedii. Non c'era nessuno ad aspettarmi al portone. Invece c'era, eccome, la volta in cui mi prese a calci. Uno solo, per la verità, ma con vistoso ematoma, formularmente. Perché lo racconto? Perché questo fidanzato non era affatto un troglodita paracadutato nella civiltà direttamente dalle caverne. Era un intellettuale, colto, raffinato, con una educazione affettiva nutrita di classici e poesia contemporanea. Ora ha un lavoro, una famiglia, figli, vedo dai social. Ma io perché sopportavo le sue scenate, ne subivo il controllo, le scariche di rabbia? Perché ero fragile, debole, vittima del patriarcato insieme a lui? La risposta è molto banale, e anche, mi rendo conto, pericolosa. Perché ero innamorata di questa persona. Non della violenza, logicamente. Non del controllo, che mi esasperava. Ma di tutti gli altri aspetti della sua vita e della nostra relazione che violenti non erano, e tutt'altro. Bianco bianco no, e nero nero nemmeno. Mi avrebbe potuto uccidere, in un accesso di ira? Non lo so, chi può dirlo. Posso dire perché me ne sono andata. Non per istinto di sopravvivenza, ma perchè le cose alle volte si aggiustano da sole, alle volte serve una spinta (una persona a me vicina con diplomazia churcilliana parlò con entrambi e ci convinse ad allontanarci perche insieme eravamo "un sistema instabile"). Lui trovò subito un'altra (che vidi, spero per puro accidente, con una stampella, in un'occasione pubblica). Con questo non voglio sostenere e rappresentare nessuna posizione e nessuna idea definita meno che mai assiomatizzare. Solo riflettere sul fatto che nessuno può dire se non in falsa coscienza ''io no''. Perché io sì, invece, e quasi tutti, nella vita affettiva, abbiamo avuto a che fare con la violenza (controllata, certo, ma forse è anche peggio perché se si ha questo potere, di tenerla sotto la soglia di rischio, si avrebbe anche quello di non lasciarle alcun margine, penso) e non necessariamente in un contesto estremo, retrogrado o patriarcale. La passione è violenta, le relazioni hanno sempre qualcosa di terrificante e patologico (citofonare Groddeck). Io, mio, tuo: moratoria anche su aggettivi e pronomi possessivi? Tutto da rifare, nel discorso soprattutto. La scompostezza, l'egolalia, l'accoramento emotivo e compulsivo. E togliersi i sassetti dalla scarpa, con la trave nell'occhio."
Gilda Policastro
Sempre bravissima.
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In questa sequela di piogge e allerte meteo che ha interessato il mio preg.mo comune mi ha urtato particolarmente la frase: "Invitiamo la cittadinanza a effettuare solo gli spostamenti necessari"
Io capisco che il senso profondo sia di suggerirti di aspettare un paio di giorni se avevi messo in conto di andare a trovare tua zia Crispina a Sant'Annacquato in Argine però (e mi rendo conto che sembro Marzullo): cos'è "necessario"?
Con un’uscita così metti automaticamente le basi per quelle belle faide sociali tipo: ipotizziamo che una persona venga atterrata da un rigagnolo impazzito e poi sepolta da uno smottamento e ci cada sopra un platano divelto. A parità di disgrazia se salta fuori che stava andando a lavorare è tragedia pura. Se stava andando alla lezione di zumba è facile immaginare uno stracciamento di vesti tipo "ma cosa ci faceva in giroh?". Se invece era l'insegnante di zumba si apre il cortocircuito moralistico per cui tecnicamente stava andando a lavorare, ma a fare un lavoro forse non necessario. Probabilmente scatterebbe comunque la gogna pubblica visto che lo zumba come le puzzette piace solo a chi le fa (cit.)
Capisco sia un tema di difficile gestione perché magari c'è un margine di rischio che non giustifica la chiusura di tutte le attività produttive e in qualche modo devi comunicarlo però l'impressione è che, come non troppo tempo fa, trapeli sempre questa vocazione intrinseca al martirio (forse diretta conseguenza delle nostre Gloriose Radici Cristiane™) per cui se ti esponi ad un rischio perché lo decidi tu sei un incosciente ma se lo fai perché Devi allora rischi esattamente uguale ma esci pure, l'importante è che l'accento della vita sia su sofferenza e pentimento.
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SPIAGGIA SENZA SOLE
Una spiaggia senza sole è come una chitarra senza corde un libro senza parole un sogno che non ricordiamo. Eppure, in questo giorno atono senza luce e voci lungo il freddo bagnasciuga qualcuno osserva le onde raccoglie sassi colorati segue le navi scivolare nel blu ascolta ed il vento scuotere nervoso ombrelloni chiusi, barche arenate. Qualcuno insiste testardo ad amare questo mare ora inutile perché la ogni spiaggia è come il bordo della vita vive indifferente e instancabile nutrendo vite ai margini con una forza vitale indomabile come la speranza degli uomini. Per questo c’è sempre qualcuno lungo il suo grigiore infinito, forse i sognatori, o i coraggiosi o forse i più incoscienti ma sicuramente i più innamorati sedotti da questa instancabile distesa da questa liquida energia immortale come la vita. Qualcuno che sa attendere il sole che aspetta che voci e colori tornino sulla sabbia scolorita. Qualche folle, instancabile amante qualcuno presente per vocazione a ribadire speranze e illusioni malgrado le nubi basse ed il vento gelido. Qualcuno che crede nel domani qualche invincibile profeta fermo e risoluto nel suo amore. Così bisogna credere nella vita fedeli ai suoi domani, drogati delle sue pure certezze malgrado le bombe malgrado le stragi la fame ed il dolore qualche poeta inutile qualche cantante da strada o un pittore cieco deve confermare che malgrado tutto la felicità appartiene alla vita che il dolore, come il grigiore è un vestito provvisorio, che la speranza ora assente è come il mare indomabile che la vita è inarrestabile e che le sue onde infinite vincono il nulla, donano nuovi giorni generano altra vita malgrado tutto il dolore malgrado tutte le guerre ed i silenzi, le lacrime che noi uomini ogni giorno doniamo al nostro futuro.
A beach without sun is like a guitar without strings, a book without words, a dream we don't remember. Yet, on this toneless day, without light and voices, along the cold shore, someone observes the waves, collects colored stones he follows the ships sliding into the blue, he listens and the wind shake nervously, umbrellas closed, boats stranded. Someone stubbornly insists on loving this now useless sea, because every beach is like the edge of life, living indifferent and tireless, nourishing lives on the margins, with an indomitable vital force like the hope of men. For this reason there is always someone, along its infinite greyness, perhaps the dreamers, or the brave or perhaps the most reckless, but certainly the most in love, seduced by this tireless expanse from this liquid energy, immortal like life. Someone who knows how to wait for the sun, who waits for voices and colors to adorn the faded sand. Some crazy, tireless lover, someone present by vocation, to reiterate hopes and illusions, despite the low clouds and the freezing wind. Someone who believes in tomorrow, some invincible prophet, firm and resolute in his love for him. This is how we must believe in life, faithful to his tomorrows, addicted to his pure certainties. despite the bombs, despite the massacres, the hunger and the pain, some useless poet, some street singer, or a blind painter, must confirm that despite everything, happiness belongs to life, that pain, like greyness, is a dress temporary, that hope is now absent, is like the indomitable sea that life is unstoppable and that its infinite waves overcome nothingness, they give new days, they generate new life despite all the pain, despite all the wars and silences, the tears, which we men give to our future every day.
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Sono arrivato già dai miei, stamattina sono andato via molto presto dall'appartamento, avevo già preparato tutto ieri sera.
Ma ho fatto in tempo ad affacciarmi in camera di Violetta per salutarla, era ancora a letto, andrà da sua madre stasera, e la casa rimarrà a quel punto vuota per qualche giorno.
Devo dire che, anche se i giorni scorsi non avevo un grande desiderio di venire dai miei, anzi non lo avevo per nulla, tuttavia ora sono contento di essere venuto. Era davvero da molto che non li vedevo, e anche se in questo periodo sto vivendo una certa conflittualità con loro, tutto sommato non ho mai smesso di volergli bene.
La conflittulità è legata al fatto che il margine di comprensione reciproca con i miei genitori è ai minimi, ed è come se i nostri mondi si fossero separati. Io ho scoperto realtà nuove, che mi hanno portato a vivere una nuova vita rispetto a quando abitavo fisso con loro ed ero abbastanza soggiogato dai loro tabù e dalle loro idee molto retrograde. Loro, non ho capito se fanno sul serio o no, mi parlano come se fossi ancora quello di prima, come se non immaginassero che nell'appartamento dove sto in affitto con le mie coinquiline respiro una libertà tutta nuova.
In questi giorni che sto con loro vorrei però cercare di mettere da parte queste incomprensioni, quindi proverò a non parlare mai della mia vita nell'appartamento in affitto, e a pensare poco, perché poi passerò di nuovo un lungo periodo senza venire da loro, e vorrei andar via da queste vacanze con un buon ricordo, senza sensi di colpa. Spero davvero di farcela.
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A proposito dell'Amica geniale.
Vorrei scrivere alcune righe di commento a margine di questa lunga e complessa tetralogia, di cui conosco, al momento, solo la versione televisiva - quindi mi limiterò a questa, con gli spoiler del caso per chi non avesse ancora nè letto il libro, nè guardato la serie.
Premetto che a)non scrivo mai recensioni e questa non è e non vuol essere una recensione b)l'opera di Ferrante, e anche la sua riduzione televisiva ovviamente, è estremamente complessa e stratificata nelle sue tematiche, sicchè si presta a innumerevoli approcci e chiavi di lettura.
Ciò che far�� quindi è suggerire alcuni spunti, dal mio punto di vista, che probabilmente ha qualcosa in comune, per varie ragioni biografiche, con il punto di vista di chi ha scritto la storia, chiunque essa sia.
Partirò dall'ultimo aspetto, quello che mi ha colpito guardando l'ultima puntata della serie, ieri sera - lasciandomi scosso fino al punto da non riuscire quasi a prendere sonno. Ciò che accade alla fine è la caduta dell'ultimo diaframma che ci separava dalla visione dell'opera stessa nel suo farsi, nel suo nascere: Elena (Greco/Ferrante), ormai anziana, apprende la notizia della scomparsa di Lila, e così, tradendo il suo desiderio di non lasciare alcuna traccia di sè, di svanire nel nulla, inizia a scrivere il racconto della vita dell'amica geniale, il racconto della loro storia. Sono passati circa vent'anni dal resto della vicenda, da ciò che era stato raccontato e mostrato fino a quel momento. Vent'anni, quelli dopo la menopausa, dopo l'età in cui i figli sono divenuti maggiorenni e se ne sono andati, quelli dopo il trasferimento a Torino - di cui la storia non racconta pressocchè niente. Dopo tanta vita fino ai 50 anni, dopo i 50 anni non c'è più niente da vivere, nient'altro che un'epoca in cui i sentimenti diventano sedimenti, stagionano, si placano, si chiariscono - diventano materiale da narrare, ingredienti per un racconto letterario. Questa cosa mi ha veramente terrorizzato.
Altro spunto, connesso con l'explicit con cui termina la storia. Il tema del tradimento, che attraversa dall'inizio alla fine, praticamente declinato in ogni maniera possibile, tutte le trame e sottotrame della vicenda, la vita di pressocchè ogni personaggio. Come se non si potesse vivere, senza tradire, e come se tradire fosse nient'altro che custodire il gusto del segreto, la possibilità di desiderare e di dare a desiderare, il sapore del mistero che anima le cose e le costringe a muoversi, anche quando esse sembrano riposare, tendere a un ordine e a un equilibrio possibile. Ecco: Lila dice una cosa ben precisa, a Lenù, ossia: Noli me legere, non voglio che tu mi legga, non mi leggerete affatto, manifestando l'intenzione di non scrivere nulla, della sua vita, e di non lasciare neppure a Elena nessuna traccia o materiale con cui scrivere di lei. Vuole svanire e svanirà, si lascerà dissolvere, tornare al nulla senza opporre resistenza; eppure Elena compirà un ultimo tradimento, iniziando a scrivere il racconto della sua vita - e in un certo senso affermando che scrivere è e non può non essere, innanzitutto e per lo più, un atto di tradimento, una rottura con la verità. Si scrive al margine della verità, non per dirla, ma per nasconderla irrevocabilmente.
Un altro argomento, poi, di carattere più sociologico, storiografico, generale; probabilmente più scontato. Tutto il racconto a me pare intessuto di un profondo pessimismo, o disincanto, soprattutto riguardo la condizione sociale, i rapporti di classe, la considerazione dei vari protagonisti da un punto di vista politico, economico, civile. Le origini della storia affondano nelle condizioni di vita misere e ai limiti della povertà di un mondo popolare in cui ancora i legami familiari sono forti, radicati, fin troppo solidi; ma l'evoluzione storica ed economica dell'Italia del boom e degli anni '70 e 80 irrompe, com'è ovvio, anche nelle vie più strette del rione, e alla fine quello che rimane (nonostante l'azione "conservatrice" dell'antistato camorristico) è l'individualismo, l'imborghesimo, la frammentazione del tessuto sociale, la sua esplosione in mille pezzi - l'uccisione dei fratelli Solara, la dispersione dei figli ormai grandi, l'arresto dei terroristi e di Nino etc.etc. Non si salva niente, di quel mondo popolare. Quello che resta è chiuso nel cassetto dei ricordi e dei sentimenti sedimentati. Alla fin fine, non è Lila, a svanire, ma è già svanito tutto ciò che rendeva possibile, ciò che rendeva aderente alla realtà, una figura come Lila. Sopravvive, ormai pienamente aderente (smartphone, pc Apple) alla realtà del contemporaneo, al ceto sociale che ha definitivamente vinto la lotta di classe, Elena: ricca, borghese, torinese, una vecchia signora isolata dal mondo, lontana da tutto, a cui basta un cane, una bella casa e ancora una storia da scrivere. C'è molto di pasoliniano, ovviamente, in questo cupio dissolvi pessimistico.
Infine, un piccolo spunto più marginale, riguardante soprattutto la prima parte della storia: è un mondo, quello degli anni '50 e '60, in cui la scuola pubblica, l'istruzione, con le sue rozzezze e brutture pedagogiche, con la scarsità di mezzi e di preparazione dell'epoca, inizia ad acquisire davvero la capacità propulsiva tipica di un fattore di ascesa sociale e di cambiamento profondo della società. E' una opportunità, che però non viene colta nello stesso modo da tutti i protagonisti della storia, e anzi, per lo più, come si vede a poco a poco, finisce per essere contro-agita e contraddetta da altre forze più conservatrici, che finiscono quasi ovunque per prevalere, riaffermando come siano le radici familiari, e di ceto, di condizione economica, ad essere determinanti, in un piccolo mondo come quello napoletano e un po' ovunque, in realtà; solo Elena riesce a liberarsi, almeno in buona parte, dell'opprimente radicamento nel suo habitat natio - grazie, sembra di potersi dire, non tanto alla determinazione nel costruirsi carriera e indipendenza, ma a un talento naturale per le lettere, e a scelte sentimentali e sessuali più felici, più opportune, più vincenti - perchè in fondo in questa Italia del tempo, e forse ancora di oggi, una donna può emanciparsi del tutto solo amando gli uomini giusti, tradendoli o venendone tradita. Fallisce, in fondo, anche l'istruzione pubblica: sono ben altre le cose che contano, la roba, la famiglia, i soldi, le amicizie, la possibilità di chiedere un favore a un onorevole, anzichè contare solo sulle proprie forze. Chi non ha avuto il talento e l'opportunità per realizzarsi come persona e di emanciparsi fino in fondo, e anche di scriversi, svanirà senza lasciare traccia, nella povertà, nell'oblio. O meglio: svanirà, nella cripta dell'immaginario e della scrittura di un'altra, diventando segreto, invenzione, letteratura.
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Piaceri della vita che mi rimagono
Tabagismo
Caffè macchiato
La consapevolezza di saper prevedere in modo preciso o semi-preciso il futuro con un margine d'errore autoriportato al 17%
Vino rosso fermo da 14 gradi
Canne (no hashish)
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“ La ragazzina con i capelli chiari sale sulla collina quasi tutti i giorni e il bisnonno racconta fiero che la figlia maggiore gioca con gli elfi. Dio aiuti quella povera bambina, dicono alcuni, allora lui si arrabbia oppure scoppia a ridere. Una volta la ragazzina torna a casa con un sasso dalla forma strana, sembra proprio un esserino, tutti intorno al tavolo lo studiano, se lo rigirano tra le dita, lei regala il sasso alla sorella più piccola, arriva la primavera e il cielo dissemina uccelli acquatici sulla penisola di Snæfellsnes. Vanno ad Arnarstapi, il bisnonno lo definisce «un giro di compere in città» anche se città è un termine esagerato per questo gruppetto di case sparse. Eppure qualche volta il significato delle parole può cambiare a seconda di come le guardi, il che è un bene, vuol dire che esiste ancora qualche differenza tra le persone, tra i luoghi, vuol dire che c’è ancora un po’ di vita e di movimento nel linguaggio.
Per mio nonno e per la sua sorellina Arnarstapi è una città, una quantità impressionante di edifici. Lui ha quasi sette anni, lei quasi cinque e quell’anno trascorso sulla Snæfellsnes ha avvolto Reykjavík nella nebbia dell’oblio. Quando sei così piccolo i ricordi dell’anno precedente possono confondersi con i sogni. La figlia più grande fa una smorfia quando vede le sparute case di Arnarstapi. Il bisnonno parla con la gente, si informa, si presenta, la bisnonna fa compere poi va a passeggio con i bambini. C’è una casa un po’ distante dalle altre, come se cercasse di sottrarsi da qualcosa; una piccola casa di legno dove abita il capitano dai capelli rossi. Volevo dirti che non c’è bisogno che veniate da noi nelle prossime sei settimane, ci siamo riforniti di tutto il necessario con questo giro. Il capitano dice: ah sì, siete venuti a fare acquisti. È piccola e carina la tua casa, dice la bisnonna, è un po’ in disparte dalle altre. Mi piace stare al margine. Ah, ecco, bene, dice lei; in effetti non c’è altro da aggiungere, e lo saluta. Ma lui guarda i bambini e dice: in casa da me c’è un uccello con un’ala rotta, voglio farlo andare un po’ fuori, dopo. Rimangono da lui per un’ora. A un certo punto la bisnonna e il capitano si ritrovano l’uno accanto all’altra, tanto vicini che le leggi perdono valore, tanto vicini che lei sente l’odore del pesce e del suo corpo caldo. “
Jón Kalman Stefánsson, Crepitio di stelle, traduzione dall'islandese di Silvia Cosimini, Iperborea (collana Gli Iperborei n° 330), Milano, 2021³, pp. 190-191.
[1ª Edizione originale: Snarkið í stjörnunum, Bjartur, Reykjavík, 2003]
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C’è qualcosa che tutti possiamo fare un po' di più: è guardare, guardare con più attenzione il mondo intorno a noi. Guardare non è tanto un modo di informarsi, ma l’unico varco per arrivare a un possibile stupore, può essere un paesaggio lontano, può essere vicinissimo a casa nostra. Guardare è un modo per dire alle cose e agli animali di non andarsene, di rimanere ancora con noi. Guardare una lampadina, un imbuto, un albero, un cane, guardare e sentire un momento di vicinanza, mettere in crisi per qualche secondo la solitudine in cui siamo caduti.
In me la ricerca di quello che chiamo Sacro minore è andata crescendo man mano che aumentava l’invadenza della vita digitale. Si può stare in Rete anche molto tempo, ma non bisogna accodarsi all’esodo verso l’irrealtà, bisogna rimanere fedeli al reale, è l’unico bene, è il bene comune, il bene più comune di tutti e non dobbiamo perderlo.
Questo guardare di cui parlo non è un partito, non è un’ideologia, non è andare a rintanarsi in un rifugio, come se altrove fosse tutto deserto e miseria spirituale. Direi che è semplicemente il coltivare una saltuaria abitudine percettiva. Io non so fare di più. Dopo questi brevi slanci verso l’esterno la mia vita rifluisce verso l’interno, si riduce alla continua manutenzione dell’inquietudine. E qui mi pare che si incroci con quella di tanti in questo tempo di vite spaiate, lontane da ogni fuoco collettivo. Ecco il bivio: da una parte l’attenzione al mondo che ci circonda, dall’altra la deriva opinionistica in cui tutti cinguettano su tutto in una babele di parole che girano a vuoto.
La poesia è come un vigile che sta davanti a questo bivio e indirizza chi la legge verso l’attitudine percettiva piuttosto che verso le astrazioni dell’opinionismo. La poesia è la scienza del dettaglio, è il sogno tagliato dalla ragione o la ragione tagliata dal sogno, comunque non è mai nel dominio di una sola logica, è sempre intreccio, sconfinamento, purissima impurezza.
Io credo di essermi educato allo sguardo proprio grazie alla poesia, al suo rendere l’anima più agile, capace di oscillare dall’infimo all’immenso, dal dentro al fuori. E sull’attenzione al mondo esterno posso citare i miei due grandi maestri, Peter Handke e Gianni Celati. Il primo conosciuto e frequentato nei suoi libri, l’altro frequentato anche di persona. Celati mi ha insegnato le meraviglie dei luoghi ordinari, delle giornate qualsiasi. In fondo il mio lavoro di paesologo ha una sola regola che si può riassumere con questo mio aforisma: “Io guardo ogni cosa come se fosse bella e se non lo è vuol dire che devo guardare meglio.” All’inizio la mia attenzione ai luoghi marginali era più in chiave politica, ero infiammato dalle disattenzioni della politica. Il margine era indagato come luogo dell’abbandono, ero protesto a cogliere il passaggio dalla miseria contadina alla desolazione della modernità incivile. Sono rimasto a indagare il margine, ma con uno sguardo diverso, direi più ricco. Non ho abbandonato la lotta contro lo spopolamento delle aree interne, ci ho aggiunto l’attenzione al sacro che ancora resiste in quelle aree, come se Dio amasse i luoghi dove non c’è partita Iva. Da qui è arrivato un libro come Sacro minore o un film come Nuovo cinema paralitico, realizzato con Davide Ferrario. Guardare il mondo quasi come un’attività nostalgica, considerando che stiamo tutti diventando senza mondo, considerando che non bisogna dare per scontata l’esistenza del mondo, come se la fuga nel digitale potesse trafugarlo e lasciarci come ombre vaganti in una terra di nessuno. Una volta si indagava il mistero della vita dopo la morte, adesso è da indagare il mistero della morte che dilaga dentro la vita, dilaga quanto più la morte viene rimossa, occultata dal fervore masochistico del consumare e produrre. Ecco che dal guardare, dalla semplice postura contemplativa, la questione diventa più complessa, diventa politica: non è in gioco solo il nostro modo di abitare la giornata, ma il modo in cui l’umanità abita il pianeta. Si tratta di prendere atto che il modello imperante produce solitudine e depressione negli individui, produce ingiustizie sociali e danni enormi al pianeta. Qualcuno ha detto che la bellezza salverà il mondo. Forse ora si potrebbe dire che il mondo lo salveranno i percettivi. FRANCO ARMINIO
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Day 2
Giorno 2 - ieri.
Totale caffè bevuti: 2. Nel pomeriggio ho cercato di sostituire quello normalmente preso in pausa, al lavoro, con un succo di frutta, ma il distributore non era d'accordo. Ho preso un ginseng. Due ore dopo me ne sono pentito: mi ha fatto venire il mal di pancia. Sospetto contenuto di qualcosa che mi irriti durante la digestione, note to self: evitare il ginseng.
A livello alimentare: pranzo con piadina personalizzata, non troppo pesante. A cena non sono stato così virtuoso: dopo aver cucinato, di rientro dal lavoro, delle polpette al sugo per i bimbi, ho recuperato un mezzo barattolo di sugo all'arrabbiata che altrimenti sarebbe andato a male e mi ci sono fatto degli spaghetti. Il piccante sarebbe stato da evitare, ma comunque non ho avuto gravi conseguenze.
Qualità del sonno più o meno decente. Nessun torcicollo per i due cuscini, nessun reflusso. Al risveglio, la sensazione di cattiva circolazione era un po' più leggera del solito. Acufene, invece, intenso: ma con il lavoro che ho fatto per vent'anni sospetto che me lo dovrò tenere a vita (a margine: durante il corso per la sicurezza sul lavoro ho appreso che nel mio settore non è considerato una malattia professionale. Il che non mi stupisce visti i tempi e i luoghi in cui viviamo, ma mi rattrista).
Affronto il giorno 3 con una antipatica irritazione sull'interno delle cosce (maledetto caldo) e la prospettiva di una doccia prima di andare al lavoro.
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Sono nato in un'epoca in cui la maggior parte dei giovani aveva perduto la fede in Dio, per la stessa ragione per cui i loro padri l'avevano avuta - senza sapere perché. E quindi, poiché lo spirito umano tende per sua natura a criticare perché sente, e non perché pensa, la maggior parte di quei giovani ha scelto l'Umanità come succedaneo di Dio. Appartengo, tuttavia, a quella specie di uomini che si trovano sempre al margine di ciò a cui appartengono, e che non vedono solo la moltitudine che li contraddistingue, ma anche i grandi spazi che li circondano. E per questa ragione che non ho abbandonato Dio così incondizionatamente come loro, né ho mai accettato l'Umanità. Ho considerato che Dio, essendo improbabile, potrebbe esistere e quindi essere adorato; ma che l’Umanità, essendo un mero concetto biologico, e non significando null'altro che la specie animale umana, non era più degna di adorazione di qualsiasi altra specie animale. Questo culto dell'Umanità, con i propri rituali di Libertà e Uguaglianza, mi è sempre sembrato una reviviscenza dei culti antichi, in cui gli animali erano come dei, oppure gli dei avevano teste di animali. Così, non sapendo credere in Dio, e non potendo credere in un coacervo di animali, sono rimasto, come altri sull' argine delle genti, in quella distanza da tutto comunemente nota come Decadenza. La Decadenza è la perdita assoluta dell' incoscienza; perché l'incoscienza è il fondamento della vita. Il cuore, se potesse pensare, si fermerebbe. A chi, come me, vive non sapendo di avere vita, che cosa resta, come ai miei pochi simili, se non la rinuncia in quanto modo e la contemplazione in quanto destino? Non sapendo che cosa sia la vita religiosa, e non potendo saperlo, perché non può esistere fede con la ragione; non potendo avere fede nell'astrazione dell'uomo, né sapendo come comportarci dinanzi a essa, ci restava, come motivo di esistenza dell'anima, la contemplazione estetica della vita. E quindi, estranei alla solennità di tutti i mondi, indifferenti al divino e sprezzanti dell'umano, ci abbandoniamo futilmente alla sensazione senza proposito, coltivata in un epicureismo esasperato, come conviene ai nostri nervi cerebrali.
Fernando Pessoa, Il libro dell’inquietudine
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Che poi io sto pure pensando vabbè che senso ha laurearsi a novembre a sto punto,me la vivo easy.
Il problema è che non so se a marzo c'è effettivamente come dicono la sessione straordinaria,quindi ci resterei inculato senza molti giri di parole per l'iscrizione con riserva alla magistrale.
Sono tanto tanto arrabbiato,con lui perché ha accettato una chiamata che non avrebbe dovuto accettare,con il suo lavoro del cazzo che manco lo paga extra per aver sacrificato anni di vita suoi e miei lontani,con una famiglia bella che andata anche a causa sua(però gli danno le medaglie,che cosa carina).
Sono tanto arrabbiato con me,perché per i mezzi e le capacità che ho mi sarei già dovuto laureare,ma purtroppo non sono costante nelle cose,sono una mina vagante dispersa,ho avuto i casini che ho avuto(e abbiamo avuto, perché sono fermamente convinto che un anno/anno e mezzo di vita mancano al conteggio e alla consapevolezza di tutti per motivi noti)e che sapete a menadito ormai,e non sono in grado di gestire il vuoto per cui mi chiudo in abitudini malsane di stagnazione.
Perché la gente normale quando si lascia,quando perde qualcosa di sé e dell'altro si butta in palestra,sul lavoro pur di non pensare.
Io ho fatto la muffa guardando il vuoto,e so che è colpa mia questa,ho buttato 7 mesi.
Non ho alibi,ho 7 mesi di colpa per una mia debolezza,7 mesi che ora pesano e sembra quasi che io debba scontarlo così questo mio essere stato troppo e ingiustificatamente fragile per il mondo:con una corsa matta,scadenze tutte attaccate,nessun margine di errore e senza la persona che doveva supportarmi di più.
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Bejeweled gaze. Embracing the byzance feeling, the baroque spirit that inspired Chanel in creating unique jewelry… Riempire lo sguardo con la meraviglia dell’arte bizantina, con lo splendore dorato dell’audace abbondanza barocca. Lo Studio Maquillage Chanel riporta al centro dell’attenzione la grande passione di Gabrielle per l’arte con l’ultima collezione makeup in edizione limitata Les 4 Ombres Byzance. Il nuovo quad occhi è declinato in quattro Parure: Baroque, Imperiale, Venitienne e Cristal. Nell’esclusivo astuccio realizzato con finitura oro martellato la palette cromatica riprende le tonalità sature delle pietre preziose presenti nei sontuosi bijoux creati da Mademoiselle. Sfarzosa la combinazione della Parure Imperiale dominata da un profondo porpora granato e resa lucente dal giallo zaffiro e dai riflessi perlescenti dell’oro rosa. Un affascinante opulento gioco di contrasti, tra colori e luce!
Nota a margine: nel 1920 Gabrielle scopre Venezia. È un momento particolare della sua vita. La perdita improvvisa di Boy Capel vela di tristezza infinita le sue giornate. L’amica Misia Sert la conduce a Venezia e come d’incanto Coco subisce il fascino di una città in equilibrio tra le culture d’Oriente e Occidente, si appassiona ai grandi pittori veneziani, ai mosaici policromi, ai tesori d’arte bizantina e barocca, ai riflessi dell’oro e delle pietre preziose che ornano la Basilica di San Marco, fonte di ispirazione per la sua prima collezione di gioielli. Un luogo unico e speciale che segna una mutazione in Gabrielle, le infonde un nuovo vigore espressivo, una creatività matura e consapevole. ©thebeautycove @igbeautycove
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