#tavolino da caffè
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Up Balloon, un tavolino da caffè sospeso nell’aria https://www.design-miss.com/up-balloon-un-tavolino-da-caffe-sospeso-nellaria/ Un #tavolino da caffè dal design immaginifico…
#metallo#oro#palloncini#resina composita#rosso#tavoli design#tavolino da caffè#tavolo#tavolo salotto#up balloon#vetro
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Oggi al bar c'era il tizio francese di cui ho scelto di non imparare il nome perché è un nome francese e io sono contrario all'imparare i nomi francesi, quindi lo chiamo "amico mio" che trasuda falsità ma poco importa. Non capisco cosa dice quando parla perché si barcamena un po' in tedesco e un po' in inglese ma si mangia le parole e le imburra con la lingua romanza più formaggiosa di tutte. Io annuivo ma ero concentrato a disegnare. La nebbia negli occhi c'è ancora. È un po' meno forte così mi sono messo fuori al sole all'aperto e il francese fumava e guardava il telefono e mi raccontava dell'appuntamento che avrebbe avuto la sera stessa con la propria fidanzata. Io continuavo a disegnare ma lui insisteva allora ho immaginato il loro appuntamento, in un bar come quello dove eravamo seduti. Ogni tanto emergevo dalle profondità di dove mi rintano quando disegno. Quando disegno esco dal pianeta, un processo molto simile a quello che attuo durante la scrittura. Abbandono il piano terreno e tutto cessa di esistere. I miei occhi funziano. Sto bene lì, sono sano, sereno. Capisco il francese e un po' vomito. Vedo dei topini intenti a ordinare una nuova bottiglia di vino. Il cameriere topino sale da una scaletta e gliela porge e loro siedono sul tavolino proprio di fronte al mio. Per disegnare i dettagli più minuscoli ho dovuto accendere la luce portatile della bici. In pieno giorno. Quando ho finito e sono tornato in superficie il francese se ne stava per andare. Ha pagato lui il conto ringraziandomi per la piacevole conversazione (non ho detto praticamente nulla ma rido sempre alle battute degli altri specialmente quando non le capisco). Ho guardato gli altri tavoli e ho visto una ragazza piena di pennarelli che disegnava diavoli rosa. Un signore di una certa età che scriveva a penna nel suo taccuino. Un ragazzo che provava a decifrare un file excel o forse era un programma di sintetizzatori formato dj techno. Poi io con i miei topini. Io non me lo posso permettere un atelier anche se mi do arie da artista. Mi posso permettere a malapena di stare in un bar sperando che qualcuno mi offra da bere. Ma qua è tutto così. Gli atelier sono per artisti con qualche mecenate, tipo un babbo ricco. Noi morti di fame paghiamo un caffè al giorno per sentirci meno soli, finire circondati da morti di fame come noi, costretti ad ascoltare il francese che diventa un salvagente mentre si sprofonda nella solitudine. Io ho i miei topini al momento a tenermi compagnia. Un giorno spero torneranno gli occhi.
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Varcò la soglia di quel bar coi capelli legati e la mano sventolante vicino al viso: faceva caldo, troppo caldo, nonostante fossero appena le 8 di mattina. Le goccioline che le partivano dalla fronte scendevano giù lungo tutto il viso arrivando alla bocca rimpolpata da quel suo lipgloss appiccicoso che usava sempre. Il locale era pieno, le voci erano alte, tutti di fretta ma non troppo: va bene andare a lavoro, sì, ma con calma, ce n'è di tempo per lavorare, ma per esser felici e spensierati ce n'è troppo poco. Si avvicinò al bancone, a servirla c'era un bel giovane sorridente. «Non ti ho mai vista qui, sei nuova?» il sorriso si fece ancora più ampio, ma come risposta ricevette il sopracciglio inarcato e indispettito di lei. «Buongiorno, innanzitutto» rimbobò. Erano già due mesi che era lì, ma ancora non si era abituata a quella confidenza che chiunque si prendeva. Sapeva non fosse cattiveria, ma un po' l'infastidiva. Tutti conoscevano tutti e lei, a sentirsi dire sempre la stessa frase, si sentiva un po' un pesce fuor d'acqua. «Sì, sono nuova. Ma ricordate tutti coloro che passano o è proprio un vostro modo di approcciare?» continuò quindi lei. Il giovane si passò la mano tra i capelli lisci che gli cadevano sulla fronte «signorina, non mi permetterei mai di approcciarvi... O almeno, mi correggo, non così» rise, era bello. «Scusatemi se mi sono permesso o se vi ho dato fastidio... Diciamo che qui ci conosciamo tutti» botta secca «o comunque, più o meno mi ricordo chi passa, un viso così bello lo ricorderei». Le lusinghe erano tante, ma la pazienza la stava proprio perdendo. «Sì, capito, capito. Mi può portare un caffè, per favore?» «sì, certo, permettetemi di presentarmi almeno, io son-...» dei passi lenti dietro di lei la interruppero «Antò, e falla finita! Ti vuoi sbrigare? Non è cosa, non lo vedi? Portagli 'sto caffè e muoviti, glielo offro io alla signorina». La situazione stava degenerando, la ragazza in viso era ormai paonazza e non di certo per il caldo. «Scusatemi tutti, il caffè me lo pago da sola! Posso solo e solamente averlo?! Si sta facendo tardi, non pensavo che qui fosse un delirio anche prendere un caffè!» per un attimo calò il silenzio che non c'era mai stato, nella mente di lei passò un vento di leggerezza e sollievo, senza rendersi conto che, con quell'affermazione, si era di nuovo sentita come tutto ciò che non voleva sentirsi: un pesce fuor d'acqua. «Scusatemi» bofonchiò, poi di nuovo «potrei avere gentilmente un caffè? Grazie. Mi andrò a sedere al tavolo» il barista la guardò, un po' dispiaciuto «signorì, se permettete, cappuccino e cornetto, offre la casa. Sentitevi un po' a casa, vi farebbe bene» e si dileguò. Non disse nulla e si trascinò verso il tavolino, non poteva combatterli: erano tutti pieni di vita lì in quel posto. Che alla fine, un po' di gioia dopo anni di sofferenze, non sarebbe poi mica guastata.
Si sedette lì, ad un tavolino accanto ad un immenso finestrone: da lì si vedeva il mare, mozzafiato. Si guardò intorno. Il viavai di gente era irrefrenabile e la mole di lavoro assurda, ma la cosa più bella di quel posto è che nonostante le richieste più assurde dei clienti, venivano accolti tutti con il sorriso più caloroso del mondo.
Sorseggiava il suo cappuccino, lasciando vagare il suo sguardo di tanto in tanto, fin quando non si fermarono inchiodati su quello di un altro. Nell'angolo, in fondo, c'era un ragazzo. Gli occhi scuri tempesta bloccati nei suoi ciel sereno. I capelli un po' arricciati gli scappavano qua e là dalla capigliatura indefinita che portava. Un ricordo è come un sogno lucido, che però puoi toccare, sentire, annusare, vivere ad occhi aperti, vivere senza dormire. In quell'angolo di stanza, c'era lui. I battiti partirono all'impazzata all'unisono, nel bar non c'era più nessuno, solo loro. So potevano quasi toccare co mano, nonostante la distanza a separarli, le loro mani accarezzavano i rispettivi visi come a gridare “sei vera? Sei vero?”. Un impeto di emozioni, un vulcano in eruzione, la pioggia sul viso, il vento che porta il treno che sfreccia, il pianto di un bambino, la risata di un ragazzo. «Signorì, tutto apposto?» il tempo di sbattere le palpebre: lui non c'era più «sì, sì... Pensavo di aver visto qualcuno di mia conoscenza».
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Day 11
Giorno 11 - ieri.
Totale caffè bevuti, due.
A pranzo, costine al miele e patate arrosto di contorno. Tollerato bene.
Cena molto veloce e leggera perché sarei dovuto uscire, dopo: un piatto di pasta in bianco ribattuta con olio e pangrattato. Buonissima. Tollerata bene.
Post cena: al tavolino di un pub locale fino a mezzanotte inoltrata con il mio collega turco che fa lo scrittore e che mi ha proposto di correggergli una bozza di traduzione di un suo racconto breve in italiano. Delle quasi quattro ore trascorse, tre le abbiamo passate a bere e discutere de la vita, l'universo e tutto quanto, come nei libri di Adams. Una conversazione bellissima e illuminante, mezza in inglese, mezza in italiano (sospetto che gli altri ospiti si siano interrogati più volte perplessi dal fatto che passavamo da una lingua all'altra senza soluzione di continuità). Poi nell'ultima oretta abbiamo corretto un po' della prima pagina del racconto; le pagine son cinque, quindi abbiamo fatto giuramento di continuare così per altre cinque volte. E' stato fin troppo gentile a dirmi che dovrei fare l'editor di professione. "In the next life, maybe" gli ho risposto.
Sono tornato a casa arricchito e molto più che brillo. In qualche modo sono riuscito a mettermi a dormire senza fare danni. In qualche modo il mio intestino non mi si è rivoltato contro per tutta quella birra (e la mia testa dice: perché?) e in qualche modo ora devo finire di vestirmi, andare al lavoro e poi dirigermi direttamente a Senigallia.
Tumblrs, ci aggiorniamo più o meno domani, I guess.
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Sono seduto al tavolino del bar, ci sono i soliti tre vecchietti col bianchetto delle 9, mi piace fare colazione qui la mattina perché è il barettino della frazioncina in cui vivo e si sta tranquilli e non succede mai un cazz....
Arriva sgommando. Ferma la macchina di fronte alla porta del bar, scende. Faccia incazzata come se gli avessero trombato la moglie.. Entra nel bar e inizia ad urlare insulti e parolacce al proprietario e alla barista. Tutti fermi, nessuno sa chi sia sto tizio. Ad un certo punto, come se si fosse svegliato da un brutto sogno, il tizio si blocca di colpo, si guarda intorno, cambia espressione e dice "ah no, non è mica questo il bar di ieri sera. Signorina mi fa un caffè perfavore?"
Il proprietario fa il giro del bancone, lo prende per la maglietta e lo sbatte fuori.
Mi alzo per pagare, la barista e il proprietario si guardano e lei con l'aria di chi deve mille scuse al mondo se ne esce dicendo "no stamattina la colazione è offerta per scusarci del casino di prima".
Il mio bar è differente...
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Il social più bello? 🤔
Un tavolino, due tazzine di caffè e tante cose da raccontarsi, guardandosi negli occhi 👀
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Un tavolino da caffè andrebbe bene come un letto, senza cuscini però, per dirti che potrei scrivere sulla tua schiena con il dito. O forse le dita le farei tamburellare sotto la sedia, sul tuo ginocchio, e tu mi fermeresti, con la tua mano sopra la mia. Magari potrei avvicinare la sedia e parlare con un tono di voce così basso che forse sarebbe meglio non dire nulla e mordersi la lingua, ché per mordersi le labbra ce ne vorrebbero due.
E il caffè, come il letto, sarebbe solo una scusa.... ♠️🔥
~Web
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Un tavolino da caffè andrebbe bene come un letto, senza cuscini però, per dirti che potrei scrivere sulla tua schiena con il dito. O forse le dita le farei tamburellare sotto la sedia, sul tuo ginocchio, e tu mi fermeresti, con la tua mano sopra la mia. Magari potrei avvicinare la sedia e parlare con un tono di voce così basso che forse sarebbe meglio non dire nulla e mordersi la lingua, ché per mordersi le labbra ce ne vorrebbero due. E il caffè, come il letto, sarebbe solo una scusa.
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Ho quelle due orette prima che arrivi papà con nonna a casa. Mi sono svegliata presto. Peppatron abbaiava e io non ho ripreso sonno. Ho un cerchio che mi passa dietro gli occhi e preme un po' per il vino rosso di ieri, che buono, ma non mi da fastidio. Ho fatto la mia maschera al fango del mar non so ché. Ho ravvivato i ricci. Fatto colazione, bevuto un altro caffè. Nesbo mi aspetta sul tavolino vicino al divano. Devo riordinare la libreria, fare una lavatrice e riuscire ad arrivare alle 18 senza sbroccare.
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“ Notte senza luna, quella del 27 luglio 1929. Notte finalmente arrivata, sognata, preparata. Il motoscafo si avvicina a luci spente al punto convenuto. In febbrile attesa sugli scogli, tre uomini con i fagotti di vestiti sotto braccio scrutano le tenebre mentre a un centinaio di metri, nella piazzetta sul mare, siedono a un tavolino del caffè il capo della colonia, un maresciallo, l’ex pretore. C’è uno spazio utile di pochi minuti prima che la ronda si accorga che in tre non hanno fatto rientro a casa. Nitti è il primo a scivolare in acqua al segnale convenuto, Lussu e Rosselli tornano indietro convinti che l’appuntamento sia saltato per l’ennesima volta. Paolo Fabbri, prezioso collaboratore, corre verso il paese per riacchiapparli. Riattraversano insieme l’abitato in maniera fortunosa (nel cortile di una delle loro case è in corso una lite per dei polli, in piazza si mangiano granite al bar), Lussu è travestito da vecchio pescatore ma Rosselli rischia di farsi riconoscere. Di nuovo sugli scogli, al buio, poi giù in mare, a tentoni. Rosselli: «Bum bum: nella calda notte di luglio si odono rumori sordi, come di martellate provenienti dal fondo marino. Un’ombra nera si profila, là a ottanta metri verso il porto». «Il mare era calmissimo. Ad un tratto, appena percettibile, il palpito di un motore», racconterà Lussu. Salgono a bordo con una scala di corda, aiutati da Nitti e Dolci, mentre il motoscafo scivola, pericolosamente alla deriva, verso il molo. L’equipaggio è al completo, zuppo ma trionfante. Oxilia dà gas. A terra li sentono tutti, compreso Ferruccio Parri che dall’inizio ha scelto di rimanere con la famiglia, compreso Fabbri che ha il compito di distrarre e trattenere le guardie. È un attimo, i motori rombano, un balzo e via. Nessun allarme a terra, gli sbirri pensano si tratti di un mezzo dei loro. E comunque sarebbero imprendibili: corrono come pazzi nella notte verso la Tunisia, verso la libertà. Al buio, sulle onde. Non è facile, oggi, immaginare quanto si dovesse conoscere, in quel periodo, delle cose che accadevano. Nell’Italia fascista no stampa libera, no comunicazioni non autorizzate. Redazioni dei giornali tutte sotto controllo a partire dai direttori, tutti fascisti; censura e autocensura; milioni di occhi e orecchie pronti a delazioni e un popolo intero disposto a volenteroso controllo sugli altri. La notizia della fuga, agli italiani, viene data solo il 10 agosto. Gli evasi che, passando dalla Tunisia, sbarcano a Marsiglia e poi partono per Parigi in treno trovano ad attenderli Salvemini, che ha organizzato per loro una specie di tournée tra direttori di giornali internazionali e salotti della cultura (Lussu lo chiama scherzosamente il loro «impresario»). Hanno capito che è importantissimo raccontare, spiegare all’estero di cosa si parla quando si parla di fascismo. Sentirlo dalla viva voce di chi è riuscito a beffare il regime è fondamentale, è un controcanto necessario, e i tre sono degli ottimi oratori, asciutti, ironici, appassionati. Rilasciano interviste che escono a Londra, Parigi, negli Stati Uniti, in Argentina, Svezia, Svizzera, e incrinano fortemente l’immagine internazionale del regime, contrastano la propaganda serrata e potente di Mussolini. “
Silvia Ballestra, La Sibilla. Vita di Joyce Lussu, Laterza (collana I Robinson / Letture), 2022¹; pp. 41-42.
#Joyce Lussu#La Sibilla#letture#leggere#biografie#Lipari#Joyce Salvadori Lussu#Silvia Ballestra#Storia del '900#Eolie#Storia delle donne#femminismo#antifascismo#confino#libri#intellettuali italiani del XX secolo#antifascisti#Gioacchino Dolci#Francesco Fausto Nitti#Carlo Rosselli#Ferruccio Parri#Tunisi#Gaetano Salvemini#Nello Rosselli#Italo Oxilia#Paolo Fabbri#Partito Sardo d'Azione#Giustizia e Libertà#Storia del XX secolo#Emilio Lussu
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Ieri notte ero a Bologna.
Ero a Milano ieri sera, dovevo essere a Roma stamattina, la prima ora a scuola. Dopo le otto e mezza, la sera, non esiste un treno per Roma. Frecciarossa e Italo tutte le ore a 130 euro, ma i treni la sera che magari servono ai pendolari no.
Avevo un treno notturno, con un cambio di un'ora e mezzo a Bologna.
La stazione di Bologna è l'esempio per me del disastro sociale degli ultimi trent'anni. Ci avrò passato le notti da ragazzino tra un treno e l'altro per un concerto o per andare a beccare un amico o una ragazza conosciuta al mare. Per me diciassettenne aveva un'allure mitica dei racconti di Tondelli o Palandri.
Quando ero un ragazzino c'era la sala d'attesa aperta tutta la notte. Oggi chiaramente no, di giorno ci sono i bar con i panini a otto euro e i cessi a pagamento. Oggi non ci sono nemmeno le panchine, e quelle poche che ci sono chiaramente hanno i divisori in modo che non ci si possa sdraiare. Nulla è aperto a parte i distributori automatici, la metà scassata.
Chi sta alla stazione Bologna di notte, a aspettare un treno, o pendolari, o poveri cristi, l'unico posto dove può andare è uno dei due bar davanti alla stazione, che svolgono di fatto un servizio pubblico minimo. Il diritto al sonno.
Al primo piano del bar puoi dormire, chiaramente solo se appoggi la testa sul tavolino e ti prendi almeno un caffè, ma i proprietari sono abbastanza gentili.
Non ci sono prese per ricaricare il telefonino, ma c'è un bagno.
Ieri eravamo una trentina, fissi. Tra una cosa e l'altra passeranno duecento, trecento persone a notte.
Chi deve andare a lavorare, magari da pendolare, dalla Campania a Milano, non prende quindi i treni, ma i pullman.
Non distante dalla stazione ferroviaria c'è l'autostazione, che è un posto dove puoi dormire per terra, e dove c'è una microsala d'attesa.
Un pullman Bologna-Roma costa 50 euro, dormi seduto tra la gente. I proprietari della linea Itabus sono la famiglia Aponte, italiani con i soldi in Svizzera, i secondi più ricchi della Svizzera, tra i 500 più ricchi del mondo. Hanno monopolizzato di fatto un servizio pubblico.
Ieri nella saletta sopra del bar eravamo solo due bianchi e tutti gli altri neri. L'altro bianco era un uomo che aveva 5 giorni di ferie e aveva pensato che con pochi soldi si poteva fare il Sentiero degli dei, Bologna Firenze, dormendo in ostelli, etc...
Ma arrivato a Bologna, non aveva trovato nulla per dormire, l'ostello gli aveva sparato 130 euro a notte, gli alberghi a tre stelle 300 euro a notte. La ragione è che la città era colonizzata dalla coppa Davis e gli albergatori hanno deciso di alzare i prezzi fuori controllo. Non si trovava ieri una camera con un prezzo umano entro 50 chilometri fuori Bologna. Si era arreso, stava tornando al suo paese vicino Milano, con un treno all'alba, facendosi tre ore di sonno con la faccia sul tavolino.
Quando penso a come il neoliberismo rende il mondo di merda, penso esattamente a questo. L'espulsione, totale, delle persone dallo spazio che dovrebbe essere pubblico, o almeno abitabile, attraversabile. Le persone che lavorano, i ragazzini, come potrei oggi andare a beccare un amico a cazzo come facevo a 19 anni, dove cazzo dormirei, in quelle due ore tra un cambio e l'altro, in una stazione, dove persino i muretti che circondano le rampe di scale sono stati costruiti con una superficie non troppo larga in modo che tu non ti ci possa buttare per mezz'ora?
Io se c'avessi dei soldi del Pnrr li darei a sto bar, per il servizio pubblico che offre, per il diritto al sonno. C. Raimo, Facebook
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Pensieri a caso sulla settimana che sta finendo
Con la quantità di contrattempi, impedimenti, ostacoli, tradimenti e problemi che si trovano sul percorso di vita mi verrebbe voglia di aprire una depressioneria.
Mi sono reso conto che questa vita non è vita.
Questa mattina mi sono svegliato presto, mi sono affacciato da una delle finestre del soggiorno. Mani sui fianchi e testa alta. Ho dichiarato guerra alla villetta dei vicini. "Vaffanculo" mi hanno risposto, severi ma giusti.
Ho ricevuto un messaggio con scritto "I love you", ho risposto "non ho capito", mi ha risposto "ti amo". Ma, giuro, io continuo a non capire.
In una mail, ricevuta per una nuova collaborazione lavorativa, mi hanno chiesto di mostrare loro le mie competenze. Ho inviato un selfie con il mio migliore sorriso. Mi hanno accettato.
Scrivo queste cosa dal tavolino esterno di un bar, mi sono visto con una persona che mi chiedeva da tempo di condividere con lei un caffè. È andata in bagno da 1 ora e 23 minuti, mi sto annoiando.
Manca ancora un giorno, domani che è domenica. Ma non ci penso ancora, preferisco focalizzarmi sulla pizza allo Xanax di questa sera.
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From Rome to Paris (andata e ritorno).
Marcello, per le strade romane in un febbraio del 1958.
Una stretta linea di fluido confine con la quale Marcello ha tessuto una storia di vita e arte, che ha attraversato i confini geografici e culturali, era la sua vita divisa tra Roma e Parigi. Non si trattava di una spontanea collocazione geografica, ma piuttosto di un percorso emotivo, che ha plasmato in qualche modo la sua identità, come uomo e come artista.
ROMA, cap 1.
Roma lo ha cullato. Ha assecondato tutti i sogni che portavano verso Cinecittà, è sempre stata la "casa madre" dove far ritorno non appena fosse stato possibile, permeando così, tra consuete abitudini e legami profondissimi, la sua esistenza. Sebbene fosse di origini ciociare, Marcello era riconosciuto come "il romano tranquillo", con ogni vizio e virtù del vero romano. A Roma respirava aria impregnata di bellezza, glamour, storia, arte, passione e tra le strade che celano i suoi ricordi e i vicoli pittoreschi, la sua predilezione per il cinema e per il teatro crescevano, e con lui, diventavano grandi. Qui Marcello, consolida le più importanti collaborazioni con i più rilevanti maestri del cinema italiano, pianta radici profondissime, legami inossidabili, costruisce quel rifugio sicuro, condiviso, chiamato casa.
Ma il suo mestiere lo porta lontano e lo fa sentire appartenente, europeo, cittadino, turista, uomo libero.
PARIGI, cap 1.
Per un "romano tranquillo" la fervente Metropolis creativa, la "ville de l' elegance", era fortemente attrattiva. Se Roma lo ha cullato e reso celebre, Parigi lo ha accolto, lo ha fatto innamorare, in tutti i sensi, dandogli opportuno spazio artistico, stimolando la sua sete di curiosità spontanea. Era per lui, la giusta collocazione dove cominciare, rimettersi in gioco, dove la sua immagine divistica era in qualche modo più ridimensionata ma non sottovalutata, dove nuove abitudini e meraviglie si fanno concrete. Parigi era un orizzonte allargato, che dilatava nel suo cuore quel confine di appartenenza. A Parigi Marcello, era il "docile ragazzo" con tutti i vizi e virtù di un comune italiano, che amava mescolarsi tra le strade del suo quartiere in rue de la Seine, e da buon italiano, prendere un caffè al mattino, nel suo solito bar, al suo solito tavolino, riservato amorevolmente per lui, dove ci sarebbe stato sempre spazio. Come Roma, Parigi ha custodito i suoi riti, le sue consuetudini, segreti, affetti, partenze e ritorni, arte e bellezza dal primo ciao, all'ultimo arrivederci.
#marcello mastroianni#attore#cinema italiano#biografia#best actor#my love#mastroianni marcello#mastroianni#best man#Spotify#telefonamitra20anni
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Team Voltron Heroes; Capitolo 1
La caduta degli eroi
Gotham City, Anno 2134
Gotham SuperNews. Servizio di Nadia Rizavi.
Un nuovo nemico a Gotham?!
Durante il giorno può sembrare una città normale: grattaceli in vetro che tolgono il fiato, strade affollate piene di gente sorridente, negozi di costosi souvenir di supereroi muscolosi, ristoranti di ogni tipo in ogni quartiere. Ma è durante la notte che il sogno inizia a diventare un incubo. Dopo il tramonto, la città viene coperta da un manto nero e oscuro. Uscire di casa è come un suicidio, tornare a casa vivi e salvi quasi una missione impossibili.
Quando il sole cala, Gotham si riempie di trafficanti di droga e essere umani, spacciatori, assassini, psicopatici con un coltello, boss del crimine con i loro scagnozzi, terroristi con la mitraglia. Ma da ogni incubo prima o poi bisogna svegliarsi; e come la sveglia la mattina presto ci riporta alla realtà svegliandoci da un sogno orribile, anche a Gotham esiste uno spiraglio di speranza: coloro che durante la notte, nascosti dietro una maschera, aiutano i più deboli seguendo le leggi della giustizia.
Le persone hanno iniziato a chiamarli eroi, e poi si accorsero che non erano solo eroi, ma grandi eroi, supereroi. Hanno protetto Gotham durante la notte per molto tempo senza lasciarla sprofondare nel caos e nella notte. Sono simbolo di speranza e ispirazione per grandi e piccoli mentre ricoprono la città da uno scudo indistruttibile.
Ora, per la prima volta dopo anni, supereroi di tutto il mondo si incontreranno nuovamente qui a Gotham. La città è in panico: una nuova minaccia è in arrivo? Un nuovo nemico a Gotham così potente da dover richiedere tutti i supereroi del mondo? La polizia non riesce a dare spiegazioni o non vuole? Dobbiamo preoccuparci per la città e le nostre vite?
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“Sono solo un sacco di cazzate”: Keith brontolò, buttando il giornale sul tavolino in vetro del salotto di Bruce Wayne. L’impatto violento rimbombò attraverso la lastra in vetro del tavolino da caffè, facendo tremare il whisky nei piccoli bicchierini ricchi di decorazioni e particolari. Si massaggiò la fronte, accasciandosi con foga nel comodo divanetto verdastro, infastidito dai giornali che accarezzavano la stessa tematica da giorni in prima pagina. I supereroi di tutto il mondo si stavano riunendo a Gotham, e allora? L’unica cosa che sicuramente non volevano era scatenare il panico tra la gente, e Rizavi riusciva sempre a essere un passo avanti a loro. L’ossessiva giornalista era sempre col fiato sul collo a Bruce e alla polizia, indagando su nuovi scoop eccelsi tra Batman e Wonder Woman, i gossip sui Titans o eventuali teorie su nuovi supercattivi che la gente prendeva alla lettera. Il problema era che lei lavorava per la polizia, fungendo da comunicatore tra polizia, supereroi e popolo, ma ignorava completamente le regole che le avevano imposto e non migliorava il fatto che si fosse segretamente alleata con il giornalista televisivo Ryan Kinkade, in questo modo avevano il telegiornale e i giornali modificati a loro piacimento.
“Iverson o Sanda non posso semplicemente licenziarli entrambi?”: brontolò l’uomo, scuotendo in pressione la testa e guardando nuovamente la prima pagina del giornale piegato.
“Nadia e Ryan sono giornalisti troppo di successo tra le gente, questo non li fermerà…”: rispose Takashi, sedendosi accanto a lui sul divanetto e bevendo il whisky dal bicchierino tutto d’un sorso:” Sono solo dei ragazzi che amano i supereroi e si divertono, sai, come te lo eri con la formula 1…”
“Hai detto giusto, lo ero. Adesso sono cresciuto, Takashi, non sono più un adolescente”: grugnì lui, incrociando le braccia al petto, scuotendo nuovamente la testa e ripensando ai tempi in cui suo padre era ancora in vita, in cui esultava ogni volta che lui sfrecciava vittorioso sul traguardo sollevando un enorme trofeo o stappando una bottiglia di costoso champagne mentre lo prendeva in braccio o lo faceva salire sul podio con lui. Ma allora era solo un bambino, un marmocchio. Keith era cresciuto, era diventato un adulto e così dovevano anche fare gli altri.
“Io non capisco, davvero”: continuò lui, brontolando e alzandosi dal divanetto, camminando intorno al salotto in stile classico e vecchio, pieno di mobili, oggetti e arredi antiquati e costosi:” E’ così difficile per loro dire in giro che Bruce ha offerto a tutti i supereroi del mondo un bicchiere di vino e che quindi saranno a Gotham solo per una stupida cena?!”
“Vuoi davvero la mia risposta?”: Takashi alzò un sopracciglio, versandosi dell’altro whisky nel bicchiere e sedendosi comodamente, appoggiando la schiena al morbido schienale. Nel suo tono c’era un po’ di ironia, quella stessa ironia che lo seguiva sempre.
“No, voglio solo capire il motivo per cui mettono sempre nel panico la gente…”: lui scosse la testa, passeggiando fino a una finestrella che dava sulla grande città. Grattaceli alti che coprivano il tramonto occupavano il paesaggio e nascondevano gli edifici più piccoli. Keith fece un sorrisetto, ridacchiando un po’ tra sé e sé.
“E’ quasi il tramonto, sai cosa vuol dire questo, Shiro?”: lui sogghignò, girandosi verso l’uomo più anziano, che quasi si strozzò con il whisky.
“Ne abbiamo già parlato, Keith”: lui scosse la testa, guardandosi la protesi robotica in acciaio e titanio:” Ho smesso di essere Shiro tanto tempo fa…”
“Ma non ti senti… arrabbiato?”: lui strinse i pugni:” Non ti senti arrabbiato di aver perso qualcuno, sapendo che la causa di tutto è ancora là fuori?”
“Se vuoi sapere la mia opinione, no.”: ha risposto, alzandosi dal divanetto mettendo le mani dietro la schiena e guardando l’enorme quadro di Bruce sopra il camino:” La pazienza produce concentrazione, Keith, non devi seguire Sendak in capo al mondo. Lui uccide, Keith. Lui può toglierti tutto e farti molto male.”
“Sono diventato Zarkon solo per vendicare mio padre; sei stato tu a farmi diventare un supereroe”: lui strinse i pugni, sistemandosi i guanti in pelle e prendendo la sua giacca dalle spalline del divano, dirigendosi con foga verso la porta.
“Keith”: la voce ferma e autoritaria di Takashi lo fece fermare sull’uscio, una mano sulla parete fredda e ruvida:” Lo dico solo per il tuo bene”
“Lo so, Takashi…”: lui sospirò, appoggiando la fronte sul dorso della mano:” Ma la città ha bisogno di me, e anche di te”
“I cittadini di Gotham hanno troppa fiducia su noi supereroi”: lui continuò, continuando a guardare il quadro e avvicinandosi a Keith:” E noi abbiamo troppa fiducia su noi stessi. Succederà solo quando finalmente inizierai a trovare una squadra.”
“Lo ripeti sempre”: lui ridacchiò leggermente, girandosi verso di lui:” Ma Zarkon lavora da solo”
“Devi solo aspettare, a volte ti ritroverai qualcuno quando meno te lo aspetti”: lui sorrise:” E’ così che ho incontrato Adam…”
“Ci risiamo…”: lui alzò gli occhi al cielo, scuotendo la testa abbastanza divertito, guardando nuovamente la finestra e lasciando un’occhiata a Takashi.
“Devi andare, lo so…”: lui annuì, mettendosi le mani in tasta:” Stai attento là fuori, e sopravvivi anche stanotte…”
“Come tutte le notti del resto…”: Keith canticchiò, girandosi nuovamente.
“Keith”: l’uomo lo fermò di nuovo:” Stai attento stanotte, in particolare. La riunione degli eroi può essere un bersaglio.”
“Capito, signore”: lui annuì.
“E non cercare Sendak, c’è qualcosa di diverso stanotte… ho una cattiva sensazione…”: lui spiegò, guardandosi nuovamente la protesi:” Promettimelo, Keith.”
“Scusa, Takashi, ma Zarkon non fa promesse”: lui si morse il labbro, uscendo dalla stanza.
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L’aria di Gotham di notte è sempre fresca, abbastanza da dover indossare una giacchetta per passeggiare negli stretti e bui vicoli. Il profumo di gas e inquinamento era sempre presente, così come il normale suono delle sirene della polizia e le luci traballanti dei lampioni rotti.
Si potevano udire dei leggeri e veloci passi in un vicolo tra vecchi edifici abbandonati al centro della città, pieni di graffiti, immondizia e fumo. Un uomo incappucciato stava passeggiando, le mani nelle tasche mentre si guardava intorno per non essere seguito. La luna alta nel cielo illuminava lievemente il vicolo e, quando l’uomo svoltò a destra, un lampione illuminava una macchina parcheggiata vicino a un cassonetto dell’immondizia, un uomo altrettanto incappucciato appoggiato comodamente a esso.
Alla vista dell’arrivato, la figura si ricompose, spegnendo la sigaretta e buttandola senza troppi problemi nel cassonetto.
“Ce ne hai messo di tempo, Pronok”: disse, fermandosi poco prima del confine con la luce:” Ti hanno seguito?”
“Sono stato cauto…”: rispose l’altro:” Il pipistrello non è tanto veloce quando invecchia…”
Ridacchiò tra sé e sé, tirando fuori dalla tasca del cappotto un gruzzoletto di banconote.
“Bada a come parli. Tutti i supereroi del mondo si sono riuniti, aiuteranno sicuramente il pipistrello”: lo rimproverò, avvicinandosi alla macchina, aprendo la portiera e prendendo un sacchetto di carta con dentro della polverina bianca.
“Non volevo della farina, Haxus!”:Pronok esclamò, ringhiando all’uomo non appena gli porse il sacchetto che sembrava venisse da una panetteria:” Cos’è successo? Sendak si è messo a fare il pasticcere?”
Haxus tirò fuori un coltellino, avvicinandolo alla gola dell’altro, con aria minacciosa:” Gotham brulica di supereroi stanotte, non vorrai mettere il nostro capo nei guai! Questa è cocaina!”
“Mi scuso”: annuì, prendendo il sacchetto grugnendo:” Non voglio di certo mettere Sendak nei guai attirando l’attenzione…”
“Lo farai se continuerai a nominarlo!”: Haxus ripetè, rimettendosi le mani in tasca e dirigendosi verso la macchina. Il rumore di qualcosa di metallico li fece sobbalzare entrambi, guardando il cielo e prendendo delle pistole dalla cintura dei pantaloni.
“E’ il pipistrello?”: Pronok chiese, girando su se stesso e puntando la pistola in aria, sentendo dei passi veloci in tutte le parti, ma non riuscendo a indentificare niente nonostante il lampione.
“Guarda il cielo, idiota, vedi il batsegnale? Niente batsegnale niente Batman”: ridacchiò Haxus, mettendo via la pistola. Quando udì nuovamente un rumore metallico, come se si fosse appena sfoderata una spada, ritirò fuori la pistola e poi il lampione si spense improvvisamente. Qualche pezzo di vetro cadde a terra, mentre entrambi gli uomini puntavano le loro pistole dappertutto.
“Merda”: Pronok imprecò, girandosi improvvisamente quando sentì passi più lenti dietro di lui, il dito tremante stretto al grilletto, ma non vide nessuno. Da qualche parte dal tetto degli edifici che perimetravano il vicolo, cadde un piccolo oggetto con leggere fluo viola, l’impatto con il suolo, fece spigionare dal piccolo cilindro un fumo bianco che ricoprì tutto in pochi secondi.
“Chi va là?”: Pronok esclamò, facendo cadere il sacchetto a terra per mirare meglio. Haxus ne approfittò, scattando in avanti e prendendolo, correndo subito dopo alla macchina, ansimando. Si fermò a pochi passi, quando una figura si lanciò dall’alto, atterrando in piedi proprio sopra l’auto parcheggiata. Nonostante il buio, si potevano riconoscere i spettinati capelli neri, il mantello viola scuro e l’armatura viola contornata da particolari oro, bianchi, rossi scuro e strisce neon viola e rosse sul petto.
“Zarkon!”: urlò, correndo fuori dal vicolo mentre l’altro uomo lo seguiva. Il supereroe sogghignò, saltando dall’auto al lampione, prendendo con la mano sinistra la spada che aveva usato per romperlo mentre con la destra ne sfoderava un’altra dalla schiena. I due uomini corsero fuori dalla stradina, correndo e ansimando per le strette vie del quartiere povero, sporco dove si trovavano. Quando voltarono angolo, prendendo una vietta che portava verso un quartiere più popolato di notte, si accorsero che la strada era bloccata da un grande contenitore di immondizia, piazzato orizzontalmente in modo da evitare il passaggio.
“No! No! No!”: esclamò Pronok, indietreggiando, andando poi a sbattere contro qualcosa. O qualcuno. Si accorse subito dell’errore, urlando e tornando indietro, vedendo l’uomo mascherato, ma prima che potesse fare qualche altro passo, Zarkon usò la spada, infliggendogli un taglio netto e profondo proprio sul petto. Pronok cadde a terra, tenendosi una mano sul petto mentre il sangue sgorgava dalla ferita profonda ma non letale. Haxus, nel mentre, nonostante lo spavento, aveva approfittato della distrazione del supereroe, scappando.
“Dov’è Sendak?”: Esclamò Zarkon, prendendolo per il colletto della giacca e agitandolo violentemente. L’uomo non rispose, lasciandosi scappare una leggera imprecazione di dolore mentre l’emorragia prendeva il sopravvento.
“Dov’è Sendak?”: Ripetè, dandogli uno schiaffo in faccia:” Dimmi dove si trova o ti faccio morire come un bastardo!”
“Fanculo…”: gnugnì, tossendo del sangue dalla bocca:” Non lo so…”
Lui ringhiò, tirandolo su per il colletto e facendolo sbattere contro il muro in pietra dandogli il colpo letale, esclamano dalla rabbia e disperazione, ansimando vedendo il corpo senza vita davanti a lui. Diede un pugno al muro dove c’era del sangue e poi un altro.
Zarkon non era un supereroe conosciuto da tutto il mondo, ma tutta Gotham sapeva che era tra tutti il più vendicativo e, in un certo senso, peggiore. Tutti i cattivi sapevano quanto fosse emotivo, ma allo stesso tempo letale, soprattutto nei confronti del più grande nemico di Gotham, Sendak, dopo la morte del Joker. Lui incuteva terrore, spaventava le proprie vittime, attaccava velocemente, ma allo stesso tempo le faceva soffrire infliggendo loro ferite grandi e profonde, ma capaci di lasciarli vivere per sentire il dolore.
“Keith, cerca di riprendere il controllo. Non andare a cercare Sendak.”: Takashi gli ordinò dal piccolo e invisibile auricolare. Lui si tirò indietro la frangetta, asciugandosi del sudore dalla fronte.
“L’altro è scappato.”: fece notare, infilando le spade nelle fodere sulla schiena, prendendo dalla cintura deli pantaloni un rampino che le condusse fino al tetto:” Devo solo trovarlo”
“Keith, fermati. Devi fidarti, Keith, torna a villa Wayne, ho una brutta sensazione”: ripetè, il tono leggermente preoccupato e allarmato. Lui alzò gli occhi al cielo
“Bruce ha lanciato il Batsegnale, tutti i supereroi si stanno radunando nella piazza della città e c’è qualcosa di grosso e imponente che si sta avvicinando dallo spazio”: lo avvertì nuovamente, ma alla prima frase i suoi occhi si aprirono.
“Scordatelo Takashi, potrebbero aver trovato dove si nasconde Sendak”: Keith sogghignò, camminando più velocemente, la sua mano pronta sull’auricolare.
“Keith, no-!”: Interruppe le comunicazioni con un semplice tocco, togliendosi l’auricolare e lasciandolo cadere a terra, pestandolo con un piede.
“Scusa Takashi”: disse, guardando l’auricolare distrutto, e iniziando a camminare sui tetti per raggiungere il più velocemente possibile la piazza della città. Per sua sfortuna, il tragitto era parecchio lungo, ma ce l’avrebbe fatta con un’andatura veloce e costante.
Tuttavia, doveva ammettere che Takashi aveva ragione. Guardando l’orizzonte, si poteva già scorgere il sole e il cielo aveva assunto un colore rossastro, e Sendak usciva solo quando c’era buio. Inoltre tutto ciò sembrava una trappola, ma se tutti i supereroi erano in pericolo, allora sarebbe stato lui a liberarli. Forse allora i cittadini di Gotham lo avrebbero riconosciuto come un supereroe degno di essere conosciuto per il suo altruismo, e non la mania vendicativa verso Sendak.
Si fermò all’improvviso, impallidendo quando vide, a pochi grattacieli di distanza, la piazza e, davanti, non molto in lontananza, un’enorme astronave che non sembrava di pianeta conosciuti. Sentì la gente urlare, mentre i cittadini scappavano urlando dalle loro case quando l’astronave nemica iniziò a sparare sulle strade e poi sulle abitazioni.
Zarkon, sudando e ansimando, si sbrigò ad arrivare, notando volare sopra gli edifici un elicottero della polizia e uno della televisione. Dio, Keith avrebbe tanto voluto uccidere Nadia per aver gufato l’attacco, ma non era il momento per pensare di due giornalisti da strapazzo.
Corse il più velocemente possibile, ricordando poi che c’erano anche gli altri supereroi e che la città era al sicuro. Quando si accorse che una piccola navicella nemica, probabilmente un caccia, stava girando attorno a lui, era troppo tardi. Iniziò a sparare, facendo cadere Keith dal tetto in un vicolo, ferendolo alla gamba, rimbalzando tra i muri in mattone fino a terra, battendo contro il cemento. Si rimise in piedi nonostante la gamba dolorante, sibilando per il dolore e zoppicando fino al muro, dove si appoggiò.
“Merda…”: grugnì, gemendo dal dolore, accasciandosi alla parete e sedendosi, ansimando toccandosi la gamba ferita. I suoi occhi si aprirono di scatto sentendo la pelle leggermente bruciacchiata e non la solita sensazione di avere del sangue su tutto il polpaccio. Guardò nuovamente il cielo che diventava man mano di una sfumatura d’azzurro, le urla e gli attacchi che non si placavano, ma andava tutto bene. Tutti i supereroi del mondo erano lì, alla piazza, pronti a combattere, e avrebbero vinto. Zarkon si può riposare un po’…
La gamba aveva smesso di fare male, cosa molto sorprendente, mentre sentiva sirene della polizia o ambulanza ovunque, la vista leggermente annebbiata. Keith scosse la testa, alzandosi in piedi, usando il rampino per arrampicarsi debolmente sul tetto degli edifici, capendo che effettivamente qualcosa non andava. Gli attacchi sembravano diminuire, eppure non c’era alcuna traccia di un altro supereroe professionista.
Capì il perché solo qualche minuto, il sole leggermente alto nel cielo, le astronavi nemiche che si allontanavano dalla città, ma atterravano abbastanza lontano dai confini, la piazza completamente distrutta, i corpi inceneriti di tutti i supereroi.
“No. No. No!”: esclamò Zarkon, correndo nonostante il fastidio al polpaccio verso i cadaveri, riconoscendo tutti i supereroi, uno per uno. Tutti morti. Persino Bruce. Persino Batman.
“Maledetti bastardi!”: urlò al cielo con tutta la voce che gli rimaneva verso l’astronave che atterrava lontano da Gotham. Sfoderò le spade affilate e già sporche di sangue, asciugandosi la frangetta bagnata, pronto a scattare.
Il suo sviluppato udito percepì un suono, debole e spezzato, provenire dal confine della piazza, vicino alle macerie degli edifici e dei negozi distrutti. I sopravvissuti e i feriti che riuscivano a camminare erano riusciti a scappare, e per un attimo pensò di aver sentito male. Ma quando quel richiamo, quello stesso identico richiamo, si ripeté, girò la testa, vedendo un uomo sulla trentina, capelli castani e occhi marroni, sdraiato a terra, ferito gravemente, allungare la mano in segno di aiuto.
E in quel momento, per la prima volta, si ritrovò davanti a due scelte: uccidere il colpevole di tutto, o aiutare un singolo individuo? La sua mente diceva di andare avanti, seguire l’astronave e uccidere tutti, insisteva continuamente, ma allora perché era ancora fermo?
Urlò dalla tensione, correndo verso la persona ferita con un ringhio, inginocchiandosi di fianco a lui, vedendolo lentamente perdere conoscenza.
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Cos'è che vuole sapere esattamente? Cosa vuol dire essere pazzo di qualcuno. Non lo sa. No. Alla donna venne soltanto in mente che capisci tutti i film d'amore, li capisci veramente. Ma anche quella non era facile da spiegare. E suonava un po' idiota. Senza volerlo le tornarono in mente tante scene che aveva vissuto al fianco dell'uomo che amava, o lontano da lui, che poi era la stessa cosa, lo era da un sacco di tempo. Di solito cercava di non pensarci. Ma lì le tornarono in mente e in particolare si ricordò di una delle ultime volte in cui si erano lasciati e di quello che aveva capito in quell'istante - era seduta al tavolino di un caffè, e lui se n'era appena andato. Quel che aveva capito, con certezza assoluta, era che vivere senza di lui sarebbe stato, per sempre, la sua occupazione fondamentale, e che da quel momento le cose avrebbero avuto ogni volta un'ombra, per lei, un'ombra in più, perfino nel buio, e forse soprattutto nel buio.
Alessandro Baricco, Tre volte all’alba
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Anna sentiva che qualcosa s’era perduto fra loro due, qualcosa che c’era stato quando mangiavano le castagne al giardino pubblico, c’era ancora forse nei primi giorni del caffè di Parigi, ma poi a poco a poco s’era perduto, chi sa perché e come. Se ne andavano e lui la traeva fra i cespugli sul fiume, e stavano a lungo sdraiati a baciarsi nell’erba, e lui la baciava sempre più forte, la teneva sempre più stretta e la baciava più forte. A casa lei si diceva che niente era andato perduto, perché Giuma la baciava sempre più forte. Così un giorno presero a far l’amore, stavano stretti l’uno all’altra nell’erba e il mondo intorno era verde e ronzante, fra i tiepidi soffi dell’erba e l’alto cielo di nuvole, e il viso di Giuma era assorto, rabbioso e segreto, con le palpebre strette sugli occhi e con un breve respiro. A casa lei sedette stordita al tavolino nella sua stanza, e rivide con uno strappo di dolore al cuore quel viso di Giuma, quel viso come immerso in un sonno rabbioso e segreto, quel viso che non aveva piú né parole né pensieri per lei. E dopo Giuma era rimasto a lungo sdraiato accanto a lei nell’erba, e ogni tanto le dava uno sguardo e le strizzava l’occhio, ma senza allegria né malizia, quella fiacca strizzatina d’occhio appariva e spariva come un’ombra sul suo viso così lontano da lei. Erano tornati a casa in silenzio. Anna si era seduta al tavolino nella sua stanza e aveva preso la penna per fare i compiti, ma non riusciva a scrivere, le sue mani tremavano forte. Avrebbe voluto che qualcuno venisse a sgridarla perché non faceva i compiti, che qualcuno venisse a dirle di non stare mai più con Giuma fra i cespugli sul fiume. Ma nessuno veniva a dirle niente, nessuno veniva neppure a vedere se era tornata, Ippolito pensava soltanto ai tedeschi che avanzavano in Francia, la signora Maria passava le giornate da Concettina a cucire il corredo per il bambino che doveva nascere, Giustino studiava per gli esami con la ragazza alta e secca. Era sola, era sola e nessuno le diceva niente, era sola nella sua stanza col vestito macchiato d’erba e sgualcito e le mani che tremavano forte. Era sola col viso di Giuma che le dava uno strappo di dolore al cuore, e ogni giorno sarebbe tornata con Giuma fra i cespugli sul fiume, ogni giorno avrebbe rivisto quel viso con i ciuffi arruffati e le palpebre strette sugli occhi, quel viso che non aveva piú né parole né pensieri per lei.
Natalia Ginzburg, Tutti i nostri ieri
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