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Le mie stupide osservazioni su I miei stupidi intenti
Immagina degli animali antropomorfi, un po’ come quelli delle illustrazioni di Beatrix Potter, ma con la violenza realistica di animali veri. Intrigante, no? Peccato che il punto di svolta della trama sia l’introduzione della scrittura e di Dio, l’autocoscienza e la paura di morire che distinguono la faina protagonista dagli altri animali. Non puoi però tenere un piede in due scarpe: se le tane…
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Vita stregata: l'euforia di una magia quotidiana
A cosa pensi se ti parlo di genitori morti in un tragico incidente, una profezia, una scuola di magia in un castello inglese e un mago potente che è meglio chiamare Tu-Sai-Chi?Sicuramente a Charmed Life, il primo libro della serie di Chrestomanci dalla penna di Diana Wynne Jones. Questa edizione comprende sia Charmed Life (pubblicato originariamente nel 1977) che The Lives of Christopher…
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— Prima, — disse, — mi veniva di dirti tutto quello che mi passava per la testa. Ora non più. Ora m’è sparita la voglia di raccontarti le cose. Quello che vado pensando, lo racconto un poco a me stesso, e poi lo sotterro. Poi, a poco a poco, non racconterò nemmeno più niente a me stesso. Sotterrerò tutto subito, ogni vago pensiero, prima ancora che prenda forma. — Ma questo, — dissi, — vuol dire essere infelice.— Non c’è dubbio, — disse, — vuol dire essere molto infelice. Ma succede a tanta di quella gente. Una persona, a un certo momento, non vuole più vedere in faccia la propria anima. Perché ha paura, se la guarda in faccia, di non trovare più il coraggio di vivere.
Natalia Ginzburg, Le voci della sera
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— E allora che effetto ti faccio, nella mia cornice? — dissi. Eravamo là nella stanza di via Gorizia, e io stavo sdraiata sul letto, e il Tommasino era seduto al tavolo, coi due gomiti appoggiati al tavolo, e fumava. — Un effetto sinistro, no? — dissi. — E io? — disse. — Che effetto ti faccio, nella tua cornice, io? — Tu, — dissi, — ci sei sempre, nella mia cornice. Non te ne vai mai. — Ti tengo sempre là con me, — dissi, — fra le cose mie, e ti parlo, e tutto continua, come quando siamo insieme qui. Tu invece, mi stacchi da te. Torni là, nella tua Casa Tonda, e non ci sono io. Ogni tanto, ma solo ogni tanto, guardi giù verso la mia casa. Ma solo ogni tanto, e come per sbaglio. — Io, — dissi, — non ti stacco mai da me. Ti tengo là, fra le mie cose. Se no certe volte, la mia cornice, non potrei sopportarla.
Natalia Ginzburg, Le voci della sera
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I malnati: com'era essere gay negli anni '60
Di romanzi sull’accettazione dell’omosessualità in un’epoca meno tollerante della nostra ne ho letti fin troppi. Ben due solo quest’anno: Swimming in the Dark (ambientato in Polonia negli anni Ottanta) e Young Mungo (ambientato in Scozia negli anni Novanta). Chi l’avrebbe mai detto che per una variazione sul tema avrei dovuto leggere un romanzo italiano fuori commercio del 1960? I malnati segue…
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Allora lei pensò che tutti gli uomini, a guardarli un po’ attentamente, avevano quell’aria indifesa, solitaria, raccolta, e a una donna facevano pena; e pensò che questo era molto pericoloso.
Natalia Ginzburg, Le voci della sera
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Camminava adagio, tirando fuori di tasca ogni tanto un giornale o un libro, che si metteva a leggere camminando, un po’ curvo, con la fronte aggrottata. Quando apriva un libro, sembrava che ci cascasse dentro col naso.
Natalia Ginzburg, Le voci della sera
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Sapevo che Frédérique non avrebbe scritto. Mi perseveravo nel piacere dell’andare in fondo alla tristezza, come a un dispetto. Il piacere del disappunto. Non mi era nuovo. Lo apprezzavo da quando avevo otto anni, interna nel primo collegio, religioso. E forse furono gli anni più belli, pensavo. Gli anni del castigo. Vi è come un’esaltazione, leggera ma costante, negli anni del castigo, nei beati anni del castigo.
Fleur Jaeggy, I beati anni del castigo
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Era così un nessuno per me, eppure la sua fisionomia e il suo corpo mi sono presenti. Forse coloro che non abbiamo considerato, per uno strano gioco maligno, risorgono. Le loro fattezze rimangono ancora più impresse di quelle di coloro che abbiamo considerato. La nostra mente è una serie di loculi. I nostri nessuno sono presenti all’appello, creature ingorde, talvolta si ergono come avvoltoi sulle fisionomie di chi abbiamo amato. Una moltitudine di visi abita nei loculi, ricca pastura. La ragazza tedesca, mentre scrivo, sta disegnando, come in un commissariato di polizia, i suoi connotati. Qual è il suo nome? Il suo nome è scomparso. Ma non basta dimenticare un nome per dimenticare l’essere. Tutto è lì, nel loculo.
Fleur Jaeggy, I beati anni del castigo
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Il cognome di Frédérique significa «racconto». E, poiché il suo nome è racconto, mi lascio andare a pensare che sia lei a dettarlo, o a scriverlo, con il suo modo di ridere punitivo. Ho anche un inspiegabile presentimento che il racconto sia già stato scritto. Compiuto. Come le nostre vite.
Fleur Jaeggy, I beati anni del castigo
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La vita per me si stava facendo un poco lunga. Avevo passato già quasi sette anni di collegio, e non era ancora finita. Quando si è là dentro, ci si immagina cose grandiose del mondo e, quando si esce, si vorrebbe qualche volta risentire il suono della campanella.
Fleur Jaeggy, I beati anni del castigo
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La presenza di Boros mi fece ricordare come si sta quando si vive con qualcuno. E com’è vincolante. Come distoglie dai propri pensieri e distrae. Come l’altra Persona comincia a infastidirci non tanto perché faccia qualcosa che dà ai nervi, quanto per il semplice fatto che c’è. E quando la mattina presto usciva diretto al bosco, benedicevo la mia splendida solitudine. Com’è possibile, pensavo, che le persone vivano insieme per decenni in uno spazio ristretto? Che dormano nello stesso letto alitandosi addosso e spingendosi senza volerlo durante il sonno? Non dico che non sia successo anche a me. Per un certo periodo ho dormito con un Cattolico nello stesso letto e non ne è venuto fuori niente di buono.
Olga Tokarczuk, Guida il tuo carro sulle ossa dei morti
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“Se per caso volessi scrivere le mie memorie, come dovrei fare?” dissi piuttosto imbarazzata. “Bisogna sedersi a tavolino e costringersi a scrivere. Viene da sé. Non ci si deve censurare. Bisogna scrivere tutto quello che ci viene in testa.” Strano consiglio. Io non vorrei scrivere “tutto”. Vorrei scrivere solo quello che mi sembra buono e utile. Pensavo che mi avrebbe detto ancora qualcosa, ma stava zitta. Mi sentii delusa. “Delusa?” mi domandò allora, come se mi avesse letto nel pensiero. “Sì.” “Quando non si può parlare, allora bisogna scrivere,” disse. “Aiuta molto,” aggiunse e tacque.
Olga Tokarczuk, Guida il tuo carro sulle ossa dei morti
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Qua dentro, gli uomini (ce n’erano delle centinaia) non si potevano nemmeno contare a anime, come usava ancora ai tempi della gleba. Al servizio delle macchine, le quali, coi propri corpi eccessivi, sequestravano e quasi ingoiavano i loro piccoli corpi, essi si riducevano a frammenti di una materia a buon mercato, che si distingueva dal ferrame del macchinario solo per la sua povera fragilità e capacità di soffrire. L’organismo frenetico e ferreo che li asserviva, non meno che lo stesso fine diretto della funzione loro propria, per essi restava un enigma senza senso. A loro, infatti, non si davano spiegazioni, e loro stessi, d’altra parte, non ne chiedevano, sapendole inutili. Anzi, per il massimo rendimento materiale (che era tutto quanto a loro si domandava, imponendosi come un patto di vita-morte) la loro unica difesa era l’ottusità, fino a inebetirsi. La loro legge quotidiana era la necessità estrema della sopravvivenza. E loro portavano nel mondo il loro corpo come un marchio di questa legge incondizionata, che nega spazio perfino agli istinti animali del piacere, e tanto più alle domande umane.
Elsa Morante, La Storia
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«Tu e tuo fratello», osservò, cambiando posizione, in un respiro, «siete così differenti, che non sembrate nemmeno fratelli. Ma vi rassomigliate per una cosa: la felicità. Sono due felicità differenti: la sua, è la felicità di esistere. E la tua è la felicità... di... di tutto. Tu sei la creatura più felice del mondo. Sempre, ogni volta che ti ho visto, l’ho pensato, fino dai primi giorni che ti ho conosciuto, là nel camerón... Io sempre evitavo di guardarti, per quanta pietà mi facevi! E da allora, ci credi? me ne sono sempre ricordato, di te...» «Anch’io!!» «... eh, tu allora eri un putín, e pure adesso sei un putín uguale. Non far caso a quello che dico: oggi è la mia giornata di gran gala, do un ballo! Ma tu, quando m’incontri, dovresti scappare via: specialmente quando ballo! Tu sei troppo carino per questo mondo, non sei di qua. Come si dice: la felicità non è di questo mondo».
Elsa Morante, La Storia
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As Mungo leaned over the water he focused on his reflection. He wondered what it was the men had recognized in him. Where was this signal he could not see, the semaphore he had never meant to send? Was it in how his eyes never quite met theirs, how they turned themselves down submissively? Was it in how he stood with his hands limp at his side, his weight on one leg? He wanted to find the signal, and he wanted to end its transmission. The men had looked at him as though they knew what lay inside his soul, things he still had not even admitted to himself. They knew the inescapable shame of it, how isolated it made him feel, and they had used that to separate him from his home and do as they pleased.
Douglas Stuart, Young Mungo
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They sat in silence for a moment before he said, “You’re my maw. You’re my only maw. I just want guid things for you.”Her tongue was clamped between her teeth as she poured the dregs from several glasses into her own. “And there’s not a single fuckin’ thing on the telly.” Mo-Maw moved in slow motion. Her concentration betrayed how drunk she was. “Anyway, yer a liar. Ye’re just like they other two. Ye only want me happy so I can make your life easier. Ye only care about what ah can do for you. And ah’m sick of it.”
Douglas Stuart, Young Mungo
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