#stanza vetro
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katnisshawkeye · 4 months ago
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Trilogia di New York
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Scheda informativa
Titolo completo: Trilogia di New York: Città di Vetro, Fantasmi, La Stanza Chiusa
Titolo originale: The New York Trilogy: City of Glass, Ghosts, The Locked Room
Autore: Paul Auster
Editore: Einaudi
Prima edizione: Supercoralli 1996
Pagine: 314
Prezzo: € 12,50
Trama
In una città stravolta e allucinata, in cui ogni cosa si confonde e chiunque è sostituibile, i protagonisti di queste storie conducono ciascuno a un'inchiesta misteriosa e dall'esito imprevedibile. Tutto può cominciare con una telefonata nel cuore della notte, come nel caso di Daniel Quinn (Città di Vetro), autore di romanzi polizieschi che accetta la sfida che gli si presenta e si cala nei panni di uno sconosciuto detective. Ma può anche capitare che chi debba pedinare si senta a sua volta pedinato (Fantasmi); o, ancora, che ci sia qualcuno che s'immedesima a tal punto nella vita di un amico da sposarne la vedova e adottarne il figlio (La Stanza Chiusa).
Recensione
“Trilogia” implica che un libro sia diviso in tre “capitoli” di un'unica storia. Ma quando ti approcci a Trilogia di New York sembra che Paul Auster ti guidi in tre storie diverse, che sembrano non avere nulla a che fare l'una con l'altra, a parte il fatto che sono ambientate tutte e tre nella medesima città, New York, il medesimo nessun luogo in cui chiunque può ritrovarsi e perdersi all'infinito.
Lo sappiamo, ma non ci vogliamo credere, anche se i pezzi vanno piano piano a incastrarsi, vogliamo continuare a pensare che non ci sia un filo rosso tra le tre storie. Questo finché Paul Auster non ce lo sbatte in faccia, che sono anche tre storie che, in un modo o nell'altro, parlano anche di lui.
Sono tre detective-stories, ma la storia è una sola. Ed tutto così eccentrico e avvincente che, nonostante la seconda storia non abbia la classica divisione in capitoli, ti tiene incollato al libro. Vuoi saperne di più, sempre di più, anche se più vai avanti più ti senti confuso.
Valutazione
★★★★★ 5/5
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falcemartello · 9 months ago
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SHHH!!
Silenzio mi voglio rilassare..
Esiste un luogo che potrebbe farvi ricredere sugli effetti terapeutici del silenzio assoluto: si tratta della stanza anecoica degli Orfield Laboratories, in Minnesota, che nel 2008 è entrata del Guinness dei Primati con il titolo di luogo più silenzioso al mondo.
L’idea di passarci un po’ di tempo potrebbe sembrare rilassante, ma non lasciatevi ingannare: nessuno è mai riuscito a rimanerci per più di 45 minuti. Il motivo?
La stanza anecoica è talmente silenziosa che può portare alla follia in meno di un’ora.
La stanza del silenzio è composta da due camere costruite l’una nell’altra, realizzate con materiali fonoassorbenti e fonoisolanti che hanno la capacità di assorbire i suoni al 99%.
La camera più interna è isolata da uno strato in fibra di vetro spesso 1 metro e le sue pareti sono rivestite da una tappezzeria in schiuma sintetica.
Anche il pavimento è a prova di rumore tanto che camminandoci sopra tende a cedere leggermente in modo da attutire eventuali vibrazioni o fruscii.
Perché è impossibile resistere al suo interno?
Chi si trova nella stanza anecoica (che, come suggerisce il nome, non produce eco) diventa l’unica fonte di rumore; inizia a percepire il suono dei propri organi, il sangue che scorre nelle vene, il battito cardiaco, il gorgogliare dello stomaco. In pratica, vive un’esperienza extrasensoriale capace di far perdere sia l’equilibrio fisico che psichico.
Steve Orfield, il responsabile della struttura, spiega che a luci spente si sperimenta uno stato di deprivazione sensoriale totale che poco a poco fa perdere al cervello ogni riferimento. Per orientarci infatti noi usiamo anche i suoni, che ci forniscono equilibrio e facilitano i movimenti: la loro assenza produce un disorientamento tale da indurre claustrofobia, vomito, attacchi di panico e allucinazioni. 
È quasi d’obbligo inoltre rimanere seduti, perché nella stanza stare in piedi e camminare diventa pressoché impossibile.
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lunamarish · 2 months ago
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Il paradiso sui tetti
Sarà un giorno tranquillo, di luce fredda come il sole che nasce o che muore, e il vetro chiuderà l’aria sudicia fuori del cielo. Ci si sveglia un mattino, una volta per sempre, nel tepore dell’ultimo sonno: l’ombra sarà come il tepore. Empirà la stanza per la grande finestra un cielo più grande. Dalla scala salita un giorno per sempre non verranno più voci, né visi morti. Non sarà necessario lasciare il letto. Solo l’alba entrerà nella stanza vuota. Basterà la finestra a vestire ogni cosa di un chiarore tranquillo, quasi una luce. Poserà un’ombra scarna sul volto supino. I ricordi saranno dei grumi d’ombra appiattati così come vecchia brace nel camino. Il ricordo sarà la vampa che ancor ieri mordeva negli occhi spenti.
Cesare Pavese
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persa-tra-i-miei-pensieri · 4 months ago
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Grazie @hope-now-and-live per il tag
La mia casa dei sogni uhmm ho delle idee e sono quelle idee che per un motivo o per un altro non posso effettivamente realizzare nella mia casetta
Iniziamo dall'esterno vorrei che sul davanti ci fossero due pozzetti di terra dove piantare solo girasoli, mentre sul retro della casa un pozzetto lungo di terra usato come orto per coltivare le fragole, un po' come lo aveva mio nonno dietro casa...
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Per quanto riguarda la tinta della casa va bene quella che ho ovvero una sfumatura di rosa accesa per l'esterno e per l'interno il bianco, anche se in alcune stanze avrei osato con qualche sfumatura tipo nella mia cameretta sull'arancio o fucsia non so, ma la rendo colorata con gli oggetti quindi va bene anche il bianco sulle pareti, solo in una stanza però e solo su una parete mi piacerebbe avere una serie di listelli in legno colorati come macchie di vernice, li avevo visti anni fa in un negozio ma non li ha più, quindi non ho nemmeno quella foto di preciso ma qualcosa che potrebbe comunque andare bene per la mia stanza degli hobby
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La stanza degli hobby me la immagino un po' così
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E con un lucernario che mi permette una vista cielo mozzafiato soprattutto di notte dove magari infilerei un telescopio per osservare le stelle ✨
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E infine una stanza libreria così ma con gli sportelli in vetro per dare quel senso di vedo non vedo sui libri contenuti e la zona relax con i cuscini e la vista sull'esterno proprio come quella nella foto e con in sottofondo una melodia che proviene da un giradischi posizionato lì vicino 🎶
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Sogna ragazza sogna XD
Taggo:
@laragazza-dalcuore-infranto-blog
@millilps
Fateci sognare con le vostre case da sogno 😊🏡
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honey-tongued-devil · 2 months ago
Note
Seeing you write in italian made me feel so proud of my studies for being able to understand it all lol. But now I'm really curious how a whole fanfic written in that language would be like coming from you! I know a lot of people hate writing this sort of content in their mother tongue (me included) but would you ever think about making a short piece anyway? It's obviously fine if not, I'm just curious is all, the foreign languages major in me wants to study the difference in your prose so bad
Not to play Sherlock Holmes, but I’m guessing you’re from the same general area of Europe—probably not Spain, so I’d bet on France, Belgium, Germany, or somewhere close by.
And that ties into my answer: I actually write poetry in Italian, mostly because English has some serious limitations. So, for fanfiction, I often have entire sections in my drafts written not just in Italian but in whatever language feels most natural at the moment. Then I have to hunt for the best translation to match the meaning.
I studied languages too, and I can tell you that Italian flows like water. The funny thing is, in my Ghost fanfiction, I had entire parts written not in Italian but in Latin.
But, hey, indulging you costs me nothing—what do you say?
(silco's office)
Lo studio era modesto, ma ricco al contempo: un vecchio grammofono d'ottone riproduceva distrattamente una melodia sommessa che aleggiava per la stanza, aggrappandosi alle tende e ai pennacchi del tappeto che, con i suoi decori dorati, faceva fieramente capolino da sotto la scrivania di massiccio legno intagliato a mano. La luce verdastra filtrava da una finestra di vetro e piombo scuro come il carbone, dall'intricato decoro raffinato, creando complicati giochi di luci che davano a quel luogo un aria a tratti surreale.
Eri nella stanza del demonio, e mai cosa fu stata più palese.
Eppure qualcosa, forse l'odore caldo del tabacco, o i giocosi scarabocchi azzurri e rosa che ricoprivano le superfici, sembravano rivelare la vera natura di quel posto: poco formale, a tratti amichevole, addirittura domestico. Se non avessi avuto la certezza che l'uomo seduto davanti a te non ti avrebbe ucciso sul colpo, ti saresti tolta la giacca e l'avresti abbandonata sul divanetto. Ma con la consapevolezza dell'esito che avrebbe portato quella tua stupida decisone, optasti invece di sederti composta sulla sedia davanti a lui.
"Signore."
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neropece · 1 year ago
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“skater at sunset” photo by Fabrizio Pece (tumblr | 500px | instagram)
Il sole stava già iniziando la sua lenta discesa dietro gli edifici di mattoni rossi e intonaco che costellavano il centro della città. Una luce dorata tingeva il cielo, facendo brillare le finestre dei grattacieli come pezzi di vetro spezzato. Jack, un uomo di mezza età dalle spalle curve e dallo sguardo stanco, si trascinava lungo le strade trafficate, cercando di raggiungere casa dopo una giornata di lavoro che sembrava non avere mai fine.
Mentre si avvicinava al suo appartamento, passò davanti a un negozio di dischi di seconda mano che aveva sempre ignorato. Qualcosa, quella sera, attirò la sua attenzione. Una copertina sgargiante spiccava tra gli svariati album impolverati esposti nella vetrina. Era un disco di qualche band indie locale, ma ciò che catturò l'occhio di Jack fu l'immagine sulla copertina.
Al tramonto, su una pista da skate, in quella che sembra una città europea, uno skater si muoveva fluido con la sua tavola sotto i piedi. La silhouette nera del ragazzo si stagliava contro il cielo dai colori invecchiati dal passaggio del tempo. Il movimento della tavola da skate e del ragazzo disegnavano un'ombra allungata sulle piastrelle di cemento. Era un momento intrappolato nel tempo, un istante di pura grazia e abilità, catturato in una frazione di secondo.
Senza pensarci due volte, Jack varcò la soglia del negozio e chiese al commesso dietro al bancone di vendergli quel disco. Il giovane commesso, con una pettinatura alla moda e un paio di occhiali da sole sul naso, gli sorrise e accettò di buon grado la sua richiesta.
Tornato a casa, Jack mise il vinile sul giradischi polveroso che aveva ereditato da suo padre. Il suono scricchiolante della puntina che si posava delicatamente sulla traccia iniziò a riempire la stanza. Le note di chitarra si diffusero nell'aria, e Jack si ritrovò avvolto dalla melodia malinconica.
Chiuse gli occhi e si immaginò sul bordo di quella pista, al tramonto, mentre uno skater sconosciuto danzava con il pavimento in un perfetto equilibrio tra gravità e libertà. Sentì la brezza tiepida sulla pelle, assaporò la sensazione di libertà che solo uno skate e una strada deserta possono offrire.
La musica continuava a suonare, e Jack si lasciò trasportare in quel mondo di movimenti eleganti e sfide audaci. Quella copertina diventò per lui un portale, un ricordo che sfuggiva alle mani ma che, grazie alla musica, poteva rivivere ogni volta che lo desiderava. E così, nella sua solitudine quotidiana, trovò un rifugio in un tramonto urbano immortalato su una copertina di vinile.
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jadarnr · 12 days ago
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TRINITY BLOOD
RAGE AGAINST THE MOONS
(Storia: Sunao Yoshida // Illustrazioni: Thores Shibamoto)
Vol.1 - From the Empire
FROM THE EMPIRE - CAPITOLO CINQUE
Traduzione italiana di jadarnr dai volumi inglesi editi da Tokyopop.
Sentitevi liberi di condividere, ma fatelo per piacere mantenendo i credits e il link al post originale 🙏
Grazie a @trinitybloodbr per il suo prezioso contributo alla revisione sul testo originale giapponese ✨
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Di solito, dopo il Carnevale, ci voleva quasi un mese perché il freddo sparisse; ma quell'anno, eccezionalmente, la primavera era arrivata molto presto. Tanto che non c'era più bisogno di indossare cappotti.
Si diceva che in notti come quella ci fossero altissime maree, la cosiddetta “Acqua Alta”. Con l'alta marea, l'acqua del mare saliva silenziosamente, traboccando dai canali e inondando la città.
“Sono abbastanza sicura che dovrebbe essere qui.”
Con il pericolo dell'alta marea, nonostante non piovesse, Astha schivava abilmente le pozzanghere che cominciavano a formarsi qua e là per la strada, e finalmente raggiunse l'edificio che stava cercando.
“Credo che il paziente sia ricoverato qui, ma...”
“Come si chiama il paziente?”
“Abel - Padre Abel Nightroad."
Nell'ospedale di notte non c'era traccia di altre persone. A parte il rumore dell'aria condizionata in funzione, l'unica cosa che risuonava nel corridoio era il rumore dei suoi passi.
“Qui...?”
Astha stava per bussare alla porta della stanza d'ospedale indicata, ma improvvisamente fermò la mano. Si sentì una voce flebile.
“... è morto...”
“Lui... mi ha protetto...”
...Non può essere!
Dimenticando di bussare, Astha aprì la porta.
“A-Abe... eh?”
“... Chi è lei?”
Tra gli uomini e le donne vestiti a lutto che circondavano il letto, una donna anziana, con gli occhi rossi per il pianto, si voltò verso Astha.
“Signorina, conosce mio figlio?”
“Oh, no...”
No.
Il morto che giaceva lì era un giovane, ma non era il prete. Il suo volto, con i tratti marcati caratteristici della gente di quella città, sembrava addirittura addormentato. E Astha aveva l'impressione di averlo già visto in precedenza, proprio come la ragazza che era aggrappata a quel corpo.
La sera prima, quando Astha aveva attaccato Endre, il giovane era quello che aveva protetto la sua amata dalle macerie.
“Mi dispiace. Sembra che abbia fatto confusione con la stanza.”
“Capisco... Ma forse è un segno del destino. Vorrebbe offrire anche lei un fiore a questo ragazzo?”
“Ah? Beh... io...”
Astha guardò la rosa che le era stata donata e rimase senza parole. Cosa avrebbe dovuto dire? Cosa poteva dire ai morti e a coloro che li piangevano?
L'unica cosa che l'immortale Metuselah, che non aveva parole da dire né titoli per pronunciarle, poté fare fu posare con mani tremanti la rosa solitaria sulla testiera del letto accanto al cuscino.
“I... mi dispiace.” 
“Non fa niente, ha solo confuso le stanze.”
Sembrava che la signora avesse frainteso le parole di Astharoshe. Anche se aveva un'aria triste, manteneva un sorriso gentile sul viso.
“Chi state cercando? Oh, il prete? In questo caso, se ricordo bene... dovrebbe essere la porta accanto…”
“Ah è così? Le sono grata. Mi scusi ancora.”
Ringraziandola goffamente, Astha scappò via, incapace di sopportare di rimanere lì ancora a lungo. Come se fosse inseguita dai singhiozzi di coloro che si era lasciata alle spalle, corse nella stanza accanto.
“Beh, ma è proprio la signorina Astha!”
Questa volta sembrava che non si fosse sbagliata. Astha, che stava timidamente sbirciando dalla porta, fu accolta con un sorriso familiare dal letto.
“Mi fa piacere. Sei venuta a trovarmi?”
“Pa... sembra che tu stia bene.”
“Grazie a te... ma mi fa ancora male quando mi muovo.”
La voce che rideva era però sorprendentemente ferma.
“Secondo il medico, il vetro ha mancato di poco lo spazio tra il mio cuore e un grosso vaso sanguigno. Se avesse deviato di mezzo millimetro, sarei morto all'istante... Ahaha.”
“Capisco... bene.”
Per essere stato “appena scalfito”, quell'emorragia non sembrava affatto comune ad Astha, ma dato che la persona in questione era viva, non poteva fare a meno di accettare la cosa così com’era.
“...Hmm? È successo qualcosa, signorina Astha?”
Abel inclinò leggermente la testa e guardò il volto della donna, che aveva lo sguardo basso. Con un tono preoccupato nella voce chiese:
“Sembri un po' giù. Sei preoccupata per qualcosa?”
“No, è solo che anche i Terrestri...”
Cosa sto cercando di dire a un Terrestre?
Anche se stava pensando da qualche parte nella sua mente, era il cuore di Astha a muovere le sue corde vocali. 
“Anche i Terrestri sono tristi quando muore qualcuno di importante per loro.”
“...Sì. Quelle persone e voi non siete diversi. Quando sono felici, sorridono. Quando perdono qualcuno di importante, piangono. E a volte pensano anche alla vendetta... non c'è differenza.”
Il sacerdote annuì, portando con sé un sorriso gentile.
Per un attimo ho avuto la sensazione che questa persona possa vedere attraverso tutte le mie esitazioni e i miei errori.
Tuttavia, ciò che disse Astha fu qualcosa di completamente diverso.
“... Non riesco a trovare la posizione di Endre.”
“Capisco... Peccato.”
Da allora erano passate più di venti ore. Eppure Astha non era ancora riuscita a catturarlo. Beh, anche questa non era una sorpresa. Cosa poteva fare un Matuselah, senza un solo contatto sul lato “esterno”?
Era ridicolo. Pur disprezzando completamente i Terrestri e gli “Esterni”, Astha in realtà sapeva molto poco di loro. Le conoscenze acquisite dai dati, se messe in pratica, erano quasi inutili. Essere in grado di parlare la lingua in modo elementare non era nemmeno sufficiente per fare un acquisto decente. Inoltre, dopo essersi così messa in mostra...
“Sono proprio un'idiota.”
Astha mormorò dolcemente guardando il sacerdote, la cui figura fasciata dava l’impressione di essere molto dolorante.
Ora che ci penso, ha fatto davvero molto per me. Si è occupato di me, che sono inesperta del mondo esterno, ha preso i contatti con le autorità e ha organizzato tutto fino al punto in cui eravamo stati a un passo dalla cattura dell'obiettivo. Non potrò mai ringraziarlo abbastanza per questo. Ma solo perché era un Terrestre, l'ho sminuito, ho ignorato i suoi consigli e il risultato è stata quella tragedia, causata solo da me.
“Sono davvero un idiota...”
“Cosa? Hai detto qualcosa?”
“No, non è niente.”
Astha forzò un sorriso ─ che sembrava più un attacco di paresi facciale ─ e scosse la testa.
Non intendo più sollevare il vero motivo per cui sono venuta qui stasera. Ho già capito nella stanza accanto che non ho questo diritto. Non c'è bisogno di continuare a diffondere la mia stupidità. Dirò solo un'ultima parola alla fine e chiuderò tutto ──
“Tu... tu padre... Io ti disprezzavo.”
Non ho mai avuto intenzione di ascoltare la sua opinione fin dall'inizio, e a quel punto ho anche ignorato il suo avvertimento. Quindi non dirò qualcosa di egoistico come 'aiutami ancora una volta'. Solo, prima di andare, vorrei dire un'ultima cosa...
“Mi scuso davvero... e ti ringrazio per tutto quello che hai fatto finora.”
Astha si inchinò profondamente e si voltò.
Bene, con questo la mia questione è risolta. D'ora in poi, camminerò da sola nella notte. Non so quanti anni ci vorranno. Anche se riuscissi a catturare Endre, è più probabile che verremo contrattaccati. Tuttavia, in quanto Ispettore diretto, l'ordine di Sua Maestà Augusta è assoluto. Inoltre, per una sciocca come me, un destino così miserabile è proprio quello giusto...
“Per favore, aspetta un momento, signorina Astha.”
Proprio mentre stava per uscire dalla porta, Astha sentì una voce alle sue spalle. Con cautela, si girò... e si immobilizzò.
“Che cosa stai facendo?”
Quello che le sfuggì dalla gola fu quasi un urlo di rabbia. Sul letto, il prete, tutto coperto di bende e con la parte superiore del corpo scoperta, stava cercando di togliersi il pigiama.
“Che altro sarebbe? Mi sto solo cambiando. Oh, sono imbarazzato, quindi per favore puoi guardare dall’altra parte?”
“Idiota, Dobitōku! Cosa fai, sei ferito!”
“Allora, mi sto cambiando... Anche tu, signorina Astha, ti imbarazzeresti se il tuo compagno indossasse il pigiama, vero?”
“Certo! Tanto per cominciare, tu... Cosa?”
Poco fa, non aveva detto ‘compagno’?
“Cosa? Sei ancora disposto ad aiutarmi?”
“Eh? Di che cosa stai parlando? Certo che lo sono.”
Confusa su quale espressione fare, Astha guardò il sacerdote, che alzò rapidamente il pollice e glielo mostrò.
“Siamo compagni, no? Ah! Scusate, non avrei dovuto dire ‘compagni’, vero?”
Cosa si dirà da queste parti in momenti come questo? Quando si sente un’ondata di calore nel petto e il desiderio di abbracciare l'altra persona?
Purtroppo, nei materiali che aveva studiato, non c'era alcuna descrizione di come affrontare una situazione del genere. Così Astha si limitò a tendere la mano destra tremante.
“Conto su di te... tovarish.”
“Anch'io conto su di te!”
Con un grande sorriso, il sacerdote le strinse la mano: la sua era sorprendentemente forte.
“Allora, per quanto riguarda i piani da qui in avanti... hai idea di dove potrebbe andare Endre?”
“Sì, ce l'ho. Senza ombra di dubbio, deve essere diretto a Roma.”
“Oh, quindi l'aeroporto o la stazione saranno posti sospetti, no? Ma perché Roma? C'è un motivo?”
“Sì, lui è... chi c'è?!”
All'improvviso, la porta si aprì. Mentre estraeva la spada per proteggere il prete, un leggero odore di polvere da sparo irritò le narici di Astha.
“T-tu!”
Abel individuò un'ombra nel corridoio e gridò.
Un volto bello, raffinato, simile a una maschera, una silhouette dalle proporzioni impeccabili… ma da qualche parte proveniva l'odore del fumo della polvere da sparo.
“Tres, sei arrivato! Signorina Astha, la fortuna è finalmente dalla nostra parte. Se lui è con noi, avremo la forza di cento uomini... Ah, Tres, lascia che ti presenti. Lei viene dall'Impero──”
“Negativo. Viscontessa Astharoshe Asran, Ispettore diretto dell'Impero - so chi è.”
Il prete errante Tres Iqus non perse tempo in inutili saluti. Si limitò a rimanere sulla soglia e a comunicare la questione con voce intransigente.
“Vi informo che l'Ufficio Operazioni Speciali della Segreteria di Stato Vaticana - AX - da questo momento cessa di fornire assistenza alla Viscontessa di Odessa. La collaborazione è stata conclusa. La prego di tornare immediatamente nel suo Paese.”
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Dormi sotto la laguna, Venezia. Ciò che scorre nella notte è l'oscurità del mare profondo. Ciò che canta di morte eterna sono solo le onde che si infrangono - Maurice Barrès.
Sulla cupa superficie del mare, un uomo recitava un antico poema.
La brezza marina, densa dell'umidità della pioggia, giocava con i suoi capelli neri lunghi fino alla vita. Anche le nuvole che coprivano le due lune si muovevano velocemente.
“Sembra che all'alba ci sarà molto vento. Siamo fortunati.”
L'uomo si rivolse al suo compagno e fece un leggero sorriso.
“Sembra che anche l'obiettivo sia arrivato sano e salvo in città. Per quanto mi riguarda, posso iniziare a lavorare in qualsiasi momento.”
“Conto su di te. Non importa quanto sia ben fatto il mio lavoro, Kämpfer, non avrà senso se non compirai la tua missione.”
Una voce rispose dall'oscurità al sussurro dell'uomo chiamato Kämpfer, pura come quella di un angelo. Tuttavia, nell'aria notturna si sentiva un forte odore di sangue. Dall'altra parte dell'oscurità, zanne affilate scintillavano alla luce della luna.
“A proposito, cosa ne pensi? Questi vestiti mi stanno bene?”.
“Le stanno benissimo, è molto elegante, Gräf. In questo caso, nessuno sospetterà... Allora, andiamo? Sembra che presto pioverà.”
“Ma ora, quando arriva il momento, mi sento un po' riluttante. Allora, è arrivato il momento di dire addio a questa città?”
“Sì... Dovrà dirle addio in più modi.”
Senza mostrare molta emozione, Kämpfer gettò via il sottile sigaro che aveva in mano. La sigaretta, che emetteva un debole fumo violaceo, rimase dietro di lui mentre girava il suo corpo alto verso la notte. Poco dopo, una seconda presenza lo accompagnò, scomparendo nell'oscurità.
...Sulla banchina, dove gli umani e i non umani si allontanavano, il sottile sigaro continuò a brillare di una luce rossa per un breve momento, ma presto scomparve nell'oscurità, forse spazzato via dalle onde che si infrangevano sulla riva.
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ma-pi-ma · 1 year ago
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..Nella stanza del motel
quella notte, alle prime luci dell’alba,
scostò una tendina alla finestra. Vide nubi
ammucchiate contro la luna. S’appoggiò
al vetro. C’era uno spiffero freddo
che gli toccò il cuore.
Ti amavo, pensò.
Ti amavo tanto.
Prima di non amarti più.
Raymond Carver, da Blu Oltremare
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casvnatural · 7 months ago
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La condanna
Un tempo avevo solo cinque anni Seduta sul lettone la mia mamma mi intrecciava i capelli In quella che era una teca di vetro Fatta di finta felicità e spensieratezza. Poi venne il tuo sguardo maligno Dal più remoto degli angoli bui La tua oscurità si fece lentamente spazio Nel silenzio della stanza. Tutto si confonde nella mia mente, Urla di terrore si mescolano con le lacrime Le tue mani le toccano il viso, Ma non sono carezze, non è amore È la mera crudeltà di un uomo piccolo Che distrugge tutto ciò che osa guardare. Solo allora il mondo si ferma Inerme guardo la macabra scena, Qualcuno cerca di portarmi via invano e Mamma piange, mamma ha il volto sfigurato, Mamma ha l'anima che sta cadendo a pezzi davanti a me, Tu chiedi scusa in ginocchio ed io Prego ad occhi chiusi Eppure per quanto possa urlare, nessuno mi risponde.
Poi come in un sogno la scena cambia Tu vai via ed io respiro di sollievo, Ma ho solo cinque anni E tra le mani il peso di una vita che non vuole incominciare Sulle spalle la pesante consapevolezza Che per sempre dovrò fuggire da te. Quando torni mesi dopo, Coloro che mi dovevano proteggere annuiscono omertosi I loro occhi sono buchi neri, Sorridenti mi consegnano a te Firmando la mia condanna a morte. Ma io ho solo vent'anni, Sono in ginocchio che prego Davanti all'altare di un dio che non risponde Gli chiedo invano quanto gli sia stato facile assolvere Te ed i tuoi sporchi peccati Mentre davanti al mio sguardo Ha saputo solo voltarsi dall'altra parte.
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onewithnoname · 9 months ago
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04/06/2024
Pioggia sottile,
sul vetro appannato,
scivola lenta
come lacrime segrete.
Dolore muto,
nella stanza vuota,
il cuore si spezza
in un lamento sommesso.
Gocce incessanti,
ricordi spezzati,
il tempo si ferma
nel grigio del cielo.
E in questa pioggia,
riflesso del mio pianto,
trovo un frammento
di eternità ferita.
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fumandovetro · 3 days ago
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Mi sento così sola.
Non mi merito tutto questo, la tua indifferenza, il tuo menefreghismo.
Ci sto rimettendo la salute mentale e psicologica a causa tua, dei tuoi problemi, e la moneta con cui ripaghi le ore passati a parlare, il mio confortarti, il cercare di spronarti, con un silenzio punitivo di ore e ore.
Te ne sbatti se mi fai sentire così sola.
Te ne sbatti di tutto, al di fuori di te stesso. Te ne sbatti delle mie ore di sonno, del mio lavoro, delle mie insicurezze, delle mie paure, della mia pressione alta, dei miei problemi alla schiena, dei miei esami del sangue che presagiscono malattie autoimmuni.
Te ne sbatti di tutto, ti importa solo di te.
Del tuo dormire, delle tue cazzate, della tuo non volere mai fare le cose per bene.
Fai l'offeso, con me, con te stesso, non si sa.
Passi il tempo a compiangerti e te ne sbatti di chi sta dall'altra parte del vetro a beccarsi tutto in faccia.
Io non ce la faccio più a sentirmi così sola.
Ho un vuoto che mi urla dentro, silenzi assordanti e disperati.
Sono così stanca di sentirmi così sola.
Sola
Sola
Sola
Sola
Sola
Sola
Sola
Sola
Sola
Sola
Sola
Ancora.
Mentre tu nell'altra stanza fai finta di dormire alle cinque di pomeriggio. Dopo dodici ore di sonno.
Sono così stanca di sentirmi così sola.
Sono così stanca di sentirmi così sola.
Sono così stanca di sentirmi così sola.
Sono così stanca di sentirmi così sola.
Credo che posso impazzire adesso.
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mostro-rotto · 3 months ago
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Parlando con una persona, mi sono ritrovato a percepire quel calore che non sentivo da quando ero ragazzino, come se qualcosa di familiare e quasi dimenticato fosse riemerso. C'era un calore in quella stanza che non mi apparteneva. Le risate si intrecciavano con il suono dei piatti, un'armonia così naturale che sembrava quasi irreale. Seduto al tavolo di quella cucina di un mio amico e osservavo quei volti animati, ogni gesto così semplice e familiare, come una danza che io non avevo mai imparato.
Parlavano tra loro con una leggerezza che mi sembrava incredibile, come se ogni parola fosse accolta senza timore di essere fraintesa o respinta. Ero lì, fisicamente presente, ma dentro di me mi sentivo distante, come se un vetro sottile mi separasse da quella scena.
"È questo ciò che si prova?" mi chiesi, mentre una risata esplodeva dall'altra parte del tavolo. Mi sentivo un'intruso, un'osservatore in un mondo che non mi apparteneva. Il calore di quella famiglia era tangibile, come un abbraccio che potevi sentire anche senza essere toccato. Non era invidia, no. Non c'era rabbia o desiderio bruciante, solo un vuoto dolceamaro che mi si era posato sul petto. Mi sentivo fuori posto, come un viaggiatore che si ritrova a contemplare un paesaggio bellissimo ma straniero, incapace di chiamarlo casa.
Era una sensazione difficile da afferrare, come un'ombra che sfugge appena ti giri. Una tristezza delicata, quasi impercettibile, mischiata a un senso di stupore. Mi rendevo conto che quel calore, quella connessione, erano reali per loro ma estranei a me.
E mentre fingevo sorrisi e rispondevo a battute, fingendo di far parte di quel mondo, dentro di me quella sensazione si faceva sempre più presente. Non mi lasciava, si aggrappava al petto come un peso silenzioso. Forse era il sapore del calore, un sapore che avevo solo sfiorato ma mai assaporato del tutto, ma rimase lì, immobile, fino a quando non me ne andai, portandola con me come un'ombra che non potevo scrollarmi di dosso.
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ypsilonzeta1 · 19 days ago
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in un piccolo giardino
ci sono due alberi esili;
l’acqua ne fa
una parodia della campagna –
entrando fra i rami
che non hanno misteri;
innaffiando radici
dalla linfa malata;
correndo tra il fogliame
che legato con fili
pende dalle finestre
prosaico e malinconico;
e lavando piante malaticce
che un’attenta massaia
aveva disposto nei vasi
l’una accanto all’altra.
Pioggia, che i bambini
guardano divertiti
dentro una stanza calda,
e quanto più l’acqua aumenta
e quanto più cade fitta,
tanto più battono le mani
saltando.
Pioggia, che i vecchi ascoltano
con cupa rassegnazione,
con tedio e insofferenza;
perché per istinto
hanno a sdegno le ombre
e la terra bagnata.
Pioggia, pioggia – la pioggia
continua a cadere a dirotto.
Ma ora non riesco più a vedere.
Tutta quest’acqua ha annebbiato il vetro della finestra.
Sulla sua superficie
scorrono, scivolano e si distendono
in un continuo saliscendi
gocce di pioggia sparse
sporcano
e appannano il vetro.
E ormai si vede appena
confusamente la strada
e nella brina acquosa s’intravedono
le carrozze e le case
Kavafis
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scrivosempreciao · 2 months ago
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Meno male che c'è Daria
Tumblr media
Daria arriva in ufficio prima che l’edificio si animi di vita umana. Le luci al neon, fredde e implacabili, illuminano moquette sporche di passi e scrivanie nude di personalità. Appoggia la borsa sulla sua sedia girevole, controlla la sua agenda, si liscia la giacca stazzonata. La macchina del caffè borbotta nell’open space vuoto, l’odore amarognolo riempie l’aria. Non ha dormito bene, questa notte. Non dorme mai bene quando la luna piena si avvicina. Dentro di lei scorrono scie di sogni feroci; artigli prima invisibili e poi molto concreti lacerano la sua pelle, dall'interno, e le strappano pezzi di sonno. Ha graffi sul corpo, nascosti sotto la camicetta, segni del suo essere altro, oltre la pelle umana. La porta di vetro scorrevole sibila e il primo ad entrare è il direttore delle vendite, Tommaso, con quel suo sorriso storto. Le si avvicina.
«Daria, caffè. Subito. Doppio zucchero. Ho una call tra cinque minuti, sbrigati.» Daria annuisce. Non discute. Devia verso di lui il caffè che stava preparando per se stessa. Riesce quasi a fiutare il disgusto del collega, la sua insofferenza: per lui Daria non è davvero una persona, è un distributore automatico. Una donnina da cui esigere aiuto e assistenza. Lei abbassa gli occhi, con un vago «sì, certo.» Le mani tremano appena. Dentro di lei, qualcosa ringhia, ma è un ringhio silenzioso, acquattato tra le costole. Perché di giorno la sua natura è in letargo, soffocata in un involucro di normalità. A mezzogiorno l’ufficio è un alveare di voci maschili che si accavallano. Pochissime donne, tutte recluse in ruoli marginali: segretarie, archiviste, centraliniste, rare impiegate amministrative. Un paio di stagiste dall’aria intimorita.
Gli uomini lì giocano a misurarselo figurativamente per stabilire gerarchie, spandono cologne aggressive, ridacchiano sporcamente all’angolo della macchinetta del caffè, occupano tutto lo spazio, informano gli altri delle proprie conquiste, riappacificano conflitti professionali con una battuta rivolta alle tette della nuova assunta. Daria è la segretaria del capo dei capi, il CEO supremo e intoccabile, Massimo: un uomo sui cinquant’anni, stempiato e con la pancetta, sempre in giacca di lino costosa, con la bocca unta di burrocacao fighetto e arroganza. Si crede il non plus ultra, valuta se stesso usando come riferimento la leccaculaggine dei sottoposti sottopagati. Lei trascrive i suoi appunti, organizza le sue agende, corregge i suoi refusi, aggiusta il tiro delle sue cazzate, fissa le riunioni, fa chiamate importanti al posto suo. Però, è lo stipendio mensile di Massimo a sfoggiare cinque cifre, non quello di Daria. Quando anche lui entra nella stanza, l'aria si fa pesante.
«Daria, oggi niente pausa pranzo, dobbiamo preparare le slide per la riunione di domani. Ricordati di indossare qualcosa di carino, eh?» commenta senza guardarla negli occhi. Lei stringe le labbra. Annuisce. Non risponde. Sa che se fiata, lui la colpirà con un: «Scusa, hai detto qualcosa?» e le farà passare la voglia di replicare di nuovo. In questa Babele di sguardi insistenti, prevaricazione e allusioni, Daria si sente minuscola.
Ma è solo una faccia della medaglia. La sera, quando le scrivanie tornano vuote, lei rassetta i documenti, controlla le ultime email, e poi esce nel parcheggio sotterraneo. Saluta appena il guardiano che le fa un cenno distratto, ignaro di tutto, e torna a casa a piedi. Le strade della città hanno un odore diverso dopo le otto di sera, l’asfalto butta fuori aria più sporca e stanca, ci sono voci agitate che arrivano dai vicoli e dai bar che costellano il quartiere. Daria ingoia la solita umiliazione della giornata e sa, con una certezza atavica, che la notte le darà giustizia. Non giustizia legale, non retribuzione, no: qualcosa di più antico, un equilibrio che si ristabilisce con sangue e denti. Non ricorda come sia iniziato tutto, quando la bestia che dormiva nella sua carne si è svegliata. Forse è sempre stata lì. Forse è il risultato di anni di soprusi, di violenze subdole, di mani sul culo e commenti inaccettabili sussurrati. Forse è l’eredità di una notte di luna piena, di un incontro con qualcosa di inumano. Non importa. Ora quella forza animale è parte di lei. E le serve.
Nella sua piccola stanza in affitto, Daria toglie la camicetta, la gonnella grigia lunga che fa storcere il naso a Massimo, i collant neri e le scarpe col tacco basso consumato. Lancia tutto in un angolo. Indossa una tuta larga, annusa l’aria: la notte è tiepida, la finestra aperta lascia entrare un refolo di vento carico di odori. Il suo olfatto diventa più acuto, la pelle formicola. Sa già dove andare. Nella sua testa si mescolano le voci delle sue colleghe e di tutte le donne che ha conosciuto, storie mormorate di inferni taciuti, di percosse rimaste impunite, di grasse risate sempre così dolorose. Lei non è una giustiziera con spada e mantello. È un animale che risponde agli impulsi ferini che animano i suoi muscoli.
Quando si trasforma, non prova compassione, non prova pietà. Non è più remissiva o titubante. Quella parte sottomessa della sua mente si offusca in una fame antica. Ciò che resta è l’istinto di cacciare i maschi peggiori della città: quelli che gridano “troia!” se guidi troppo lenta, che ti spogliano con gli occhi quando torni a casa sull'autobus la sera, che trascinano le ragazze dietro i cassonetti scambiando la cortesia con un via libera libidinoso. Resta l'istinto di odorare la loro paura, sentire le loro ossa spezzarsi tra le fauci; quello la fa sentire viva.
Daria non giustifica se stessa, sa che questa è una regressione senza ritorno, un atto estremo. Ma è anche un equilibrio: il mondo scivola nella follia e lei si adegua, usando le sue zanne dove la ragione fa male i conti. Quella notte, la luna è quasi piena. La schiena si curva, i muscoli si gonfiano, la pelle si copre di peli scuri e ispidi. Le dita si rompono in artigli, il volto si allunga, la bocca si affolla di denti affilati come pugnali. Una donna lupa alta quasi due metri, su due zampe posteriori, massiccia, la coda che sferza l’aria. Gli occhi gialli brillano nell’oscurità.
Esce dalla finestra con un salto silenzioso. Corre sui tetti, annusa l’aria. Cerca l’odore dell’orrore umano: il sudore rancido di chi sta per fare del male. Lo trova, sempre. Quella città ne è piena. Nelle vie più buie, ci sono uomini che non temono nulla. Non immaginano che la predatrice è in agguato. Individua un maschio che piscia in un vicolo dietro un locale notturno: un omone con l’alito di birra e i pugni chiusi. Daria lo riconosce: è piuttosto noto in zona perché pesta le prostitute e strattona le maniche delle cameriere quando non lo servono subito. Mano, lo chiamano. Lavora in municipio. Mano stanotte ha adocchiato una bambola con cui giocare: magra, giovane, straniera, ingenua. Ce l'ha lì accanto. Lei se ne sta lì con la borsetta stretta al petto, si guarda attorno incerta, come un passerotto. «Ho parcheggiato qui vicino, ti faccio vedere una cosa. Se fai la brava ti do il numero di quel mio amico al commissariato. Se fai la brava.» Lei sbianca. Ma la lupa Daria non conosce diplomazia. Balza giù da un tetto, atterra dietro Mano. Un ringhio bassissimo, un suono che fa vibrare l’aria. La ragazzina scappa via strillando – a Daria dispiace, ma tant'è. L’uomo si volta, con ancora il cazzo in mano; urla peggio della sua preda.
In un attimo, artigli nella gola, zanne in quella carne molliccia, il sangue schizza e dipinge i mattoni sporchi, la trachea di Mano gorgoglia. Il corpo cade a terra come un sacco vuoto. Basta così poco, per morire. Bastano pochi secondi e tutta quell'arroganza scivola via in un rivolo di sangue, urina puzzolente e birra. Daria si lecca il muso, poi si dilegua, risalendo sul tetto con un balzo. Sente la vita pulsare in ogni cellula. Sente l’ingiustizia del giorno mitigata dalla sua ferocia notturna. Non ha rimorsi. Ha solo fame.
La mattina successiva Daria torna in ufficio come se nulla fosse accaduto. C’è un certo brusio nell’aria: qualcuno ha sentito che nella notte c’è stato un omicidio cruento, un altro uomo massacrato come un animale. Non è la prima volta, chiaro, solo che a volte la notizia si fa strada fino ai telegiornali, a volte no, a seconda di quanto è succosa o di quanto era un pezzo grosso il morto. Tommaso ne parla a voce alta, con una certa eccitazione: «Avete sentito? Un altro cristiano fatto fuori. Dove andremo a finire? Che città di merda.»
Daria non solleva lo sguardo dalla sua tastiera. Sorride leggermente. Se solo sapessero. Dopo la presentazione, Massimo la chiama nel suo ufficio e, come al solito, la rimprovera per una sciocchezza inesistente. Le ricorda che deve sorridere di più quando parla con i clienti. Borbotta che a nessuno piace parlare con una musona so-tutto-io. Le fa la predica su tutti i vantaggi che le donne come lei potrebbero avere lì dentro se solo si lasciassero andare. «Daria, puoi averli in pugno quei tizi, lo capisci o no? Sono uomini, un paio di sorrisi, qualche moina e ti firmano qualsiasi contratto. Ascolta me, lo so. Le basi!»
Daria annuisce, sentendo i canini umani premere sulle labbra. Pensa a come sarebbe facile sbranarlo se solo là fuori ci fosse l'eleganza della luna e non l'impertinenza del sole. Ma no, bisogna aspettare. E poi Massimo è troppo in vista, troppo protetto. È un manipolatore subdolo. Lei preferisce colpire prede più manifestamente violente. Almeno per ora. A pranzo Daria non ha appetito. Va a prendere un caffè nell’angolo cottura. Anche altre segretarie gravitano attorno a quel piccolo rifugio temporaneo. Una di loro, Caterina, ha il mento che trema e gli occhi così stanchi da sembrare vuoti. Lavora sotto Fulvio, uno che ha tenuto il broncio a tutti per settimane perché il suo staff non gli aveva fatto i complimenti per il suo nuovo completo Hugo Boss. «Vi incazzate perché i maritini non notano le vostre tinte, ma quando c'è qualcosa di davvero interessante da guardare fate le finte tonte.» Aveva detto.
Daria la osserva, Caterina abbassa gli occhi. La bestia dentro ringhia. Si chiede se quella notte uscirà ancora. Probabile. Ma deve stare attenta, la polizia comincia a cercare pattern, a capire se dietro quei delitti c’è una mano umana o altro. In effetti, nella zona, alcune telecamere di sicurezza hanno ripreso ombre vaghe, sagome impossibili. Gli inquirenti sono confusi. Un animale feroce? Un serial killer impazzito mascherato da animale? Una leggenda metropolitana? Daria si sta sfogando più del solito. Più di quanto non abbia mai fatto. Ne ha bisogno. Il tempo passa, le notti si susseguono, le lune cambiano forma, si gonfiano e si sgonfiano, come lattiginosi polmoni in cerca d’aria, ma la rabbia che scuote le ossa di Daria non muta mai. Aumenta la frequenza delle sue cacce. Non sempre uccide. A volte spaventa soltanto, fa scappare un gruppo di bulli. Altre volte interviene quando qualcuno tenta uno stupro o allunga le mani dove non dovrebbe. In quei casi non c’è pietà: lascia i corpi smembrati e aperti, segnati dai suoi artigli. Non c’è una regola chiara, solo la sua fame di punire.
Ma più la storia va avanti, più l’ufficio diventa un luogo di tensione. Massimo e gli altri manager testosteronici si innervosiscono: le notizie dei morti agitano i loro sogni. Un paio di clienti importanti hanno annullato un meeting proprio all'ultimo; non se la sentivano di fare trasferte. E i giornali parlano di un “mostro della notte” che uccide uomini. I giornalisti esitano a creare connessioni non confermate dalla polizia, anche se quelli più audaci iniziano a far andare a braccetto le parole “violenti” e “uomini”. Qualcuno propone un movente: un gruppo di nazifem esaltate? Una setta? Il dibattito si infiamma. Daria gode di questi dibattiti, anche se non lo mostra. Va avanti a testa bassa, nella sua miserabile vita diurna. Ma una sera, al rientro a casa, trova una pattuglia che gironzola proprio nel quartiere. Annusa la paura degli agenti, o meglio la tensione. Deve stare attenta. Forse deve cambiare zona di caccia.
Ma un giorno Massimo fa una battuta sui tacchi di Daria davanti a un nuovo cliente – «Sembrano due punteruoli! Speriamo non abbia le sue cose o siamo fritti!» – e lei decide che quella notte lo seguirà. Non torna neanche a casa dopo i soliti straordinari non pagati che la inchiodano alla sua scrivania fino a tardi: nel parcheggio dell'ufficio lascia che sia il suo naso a pensare per lei e fiuta l'odore del suo capo; è lì, come una scia rumorosa che aspetta solo di essere svelata. Lo trova in un ristorante costoso a mangiare in compagnia della moglie e della figlia. Daria abbandona la sua forma lupina e si avvicina alla vetrata di quel posto così chic. Li guarda; lui ride e divora il filet mignon che ha davanti, la moglie pilucca distrattamente un'insalata e la figlia è immersa nello schermo del cellulare.
Daria stringe la mascella. Massimo non è uno stupratore di strada, no, ma è uno che distrugge la dignità delle donne ogni giorno, pezzo per pezzo. Non sarebbe giusto punirlo? La bestia scalpita. Ma lui è lì con la famiglia. Non può lasciarsi alle spalle altri testimoni e in fondo detesta traumatizzare le povere donne che hanno la sfortuna di essere in compagnia degli uomini che caccia. Tentenna, anche se prima era così certa sul da farsi: ammazzare un CEO come lui significa chiudere i giochi. Diventerebbe impossibile per lei continuare a fare quello che fa ed essere una donna lupa.
Quella notte lascia stare Massimo e trova un’altra preda: un uomo che sulla strada di casa le chiede ripetutamente quanto vorrebbe per un pompino. «Oh, si fa per scherzare! Sei vestita come una di quelle, ecco» aveva riso. Daria indossa un abito lungo di lana. Beige. Basta un secondo e quell'abito viene fatto a brandelli dal corpo bestiale della lupa. La trasformata Daria piomba sull'uomo, gli fa morire la risata nel petto e poi la strappa dalla sua cassa toracica con una zampata brutale. Torna a casa con un malumore che le fa vibrare un basso ringhio in gola; quel vestito le piaceva.
La mattina successiva, appena mette piede in ufficio, Daria avverte subito un’atmosfera diversa. C’è un chiacchiericcio strisciante. Se tende le orecchie può cogliere stralci di conversazioni: nomi di vittime, ipotesi sussurrate, frasi mezze dette. Sui social, qualcuno ha cominciato a parlare di una “giustiziera”. Una che sbrana gli uomini violenti e abusanti, letteralmente. E lo fa come se fosse una bestia feroce, un lupo. Il cerchio si stringe e a Daria gira la testa; va in bagno. Lì, mentre si sciacqua la faccia, sente due segretarie parlottare. Una dice che sarebbe figo stampare degli adesivi con la silhouette di una lupa nera su sfondo rosso.
«Che top, ne vorrei troppo uno. Lo metterei sul computer, terrebbe lontani gli stronzi.» L'altra dice che nei quartieri periferici stanno spuntando dei murales a forma di colpo d'artiglio o di lupo con la bocca spalancata. Dice poi che un collettivo di universitarie femministe ha usato una semplice immagine stilizzata, due orecchie a punta e occhi gialli, per pubblicizzare un talk sulla misoginia. «Un po' pulp tutta questa storia, ma devo dire che mi fa meno paura uscire la sera.»
Daria non commenta, non si mostra. Ma dentro di lei si insinua un sorriso feroce. All’ora di pranzo, Tommaso non fa commenti allusivi quando Daria e le altre entrano nell’angolo cottura. Si limita a un cenno del capo. Evita il contatto visivo troppo insistente. Anche Fulvio, il capo di Caterina, ora ringrazia con cortesia forzata quando le assistenti gli portano delle carte. Come se un interruttore fosse stato premuto. Non c’è rispetto sincero, no, solo timore. Ma funziona. Un'educazione mimata a pappagallo per non attirare l’attenzione di quella punitrice sconosciuta che, come tutti ora sanno, è là fuori. Il giorno trascorre in questo strano limbo. Lei esce col tramonto, respirando l’aria di un universo parallelo: uomini che camminano guardandosi i piedi, spalle curve come a voler prendere meno spazio possibile, parole calibrate, mani in tasca. Non è giustizia, non è pace, ma è qualcosa.
Le notti di caccia continuano, e ogni morte aggiunge benzina sul fuoco della leggenda della lupa. Alcune donne hanno iniziato a radunarsi in piccoli gruppi. S’incontrano in appartamenti disadorni, bar poco illuminati, parcheggi deserti. Indossano spille o magliette con la sagoma di una lupa tutta nera. Leggono le notizie sui femminicidi che nonostante tutto non si interrompono mai e ringhiano tra i denti. Raccontano senza filtri le proprie storie di abusi, violenze, molestie, fanno nomi scandendo per bene le lettere. Una survivor intervistata alla televisione fa addirittura un gesto, alla fine del suo discorso: graffia l’aria con le unghie e mostra i denti. «Un giorno, magari non oggi ma un giorno, sarà il nostro turno di essere le vere belve» dice.
Non è un sogno innocente, è una rabbia antica che trova spazio. Non c’è più solo paura. C’è anche il desiderio acuto di non chinare la testa. Massimo, intanto, ingaggia guardie del corpo. Tre uomini nerboruti che lo seguono come cani da guardia. Ha cambiato atteggiamento verso Daria, la tratta con una finta gentilezza da vomito. Le dice: «Stasera puoi uscire prima, non vorrei mai farti fare tardi…» Lei annuisce, sente l’odore del suo sudore acre. Lui guarda la finestra, come se temesse che un’ombra pelosa possa arrampicarsi sul cornicione da un momento all'altro.
Le altre ridono a fior di labbra: «Hai visto Massimo? Pare abbia coda tra le gambe.» La lupa non ha ancora sbriciolato la sua pelle, ma sta già masticando la sua vanità. Ma nei giorni successivi, però, Massimo mostra di nuovo la sua vera natura. Prima una stagista, poi un’impiegata amministrativa, poi due segretarie a contratto determinato: con la scusa di un calo di fatturato o di ristrutturazioni interne, inizia a licenziare le donne una dopo l’altra, senza pietà né giustificazioni plausibili. Al loro posto, restano solo uomini, maschi rassicurati dalla scomparsa di potenziali accusatrici. Un ufficio tutto al maschile, come un club esclusivo dove le battute zozze sarebbero state accolte con una pacca sulla spalla e nessun senso di colpa. Senza donne non c’è bisogno di fingere rispetto, ovvio. Un modo per poter finalmente respirare il fetore della propria arroganza a pieni polmoni, convinti di aver messo in salvo la loro malsana idea di normalità. Daria è una delle poche che rimangono.
«Meno male che ci sei tu, Daria» le dice Massimo, «sempre così brava e carina.» E la guarda come guarderebbe un topolino con una zampina spezzata. Quel misto di compassione e disgusto che si dà alle creature infime, innocue e inutili. Daria sa che per finire questo circo deve fare l’ultimo passo. Perché no, non lo salverà. Massimo non è meno colpevole degli altri. Meritano tutti la stessa fine? Forse no, ma Massimo non ne uscirà vivo. La leggenda della lupa è nata dal sangue, e dal sangue verrà consacrata.
Quella notte Massimo si rifugia nel suo attico blindato. Le guardie del corpo presidiano l’ingresso. La moglie e la figlia sono via, in vacanza forzata. Lui resta con il suo whisky costoso, la cravatta allentata, il cellulare a portata di mano sudaticcia per chiamare la polizia al primo rumore. Una pistola ottenuta solo Dio sa come appoggiata sul tavolino laccato. Daria sa bene come si muovono le prede impaurite: frenetiche, prive di lucidità. Entra dal lucernario come un’ombra. Le guardie presidiano la porta e l'ingresso, ma non il tetto. Un errore banale, ma comprensibile: chi si aspetterebbe che la “lupa” giustiziera sia davvero una lupa? Daria scivola dentro, camminando carponi sui travetti. Scende con un balzo nel corridoio. Un rumore, una guardia si volta. Troppo tardi: artigli nella gola. L’altra guardia non fa neanche in tempo a urlare: un morso letale gli stacca la testa dalle spalle. La terza si precipita verso la porta, non ci pensa due volte a lasciare il suo capo da solo.
Massimo sente i passi pesanti e quei ringhi mescolati ai grugniti soffocati dei suoi uomini. Ora ha la pistola nella mano sudata. Quando Daria entra nella stanza, lo fa in forma umana. Nuda, coperta di sangue, brandelli di carne e cartilagine dalla testa ai piedi. Una donna, non un mostro. Nell'aria si spande odore di piscio mescolato al profumo di aftershave di lusso; Massimo ha paura. «No… no… ti prego…» balbetta, indietreggiando. Daria non parla, non sorride. Non c’è bisogno di parole, boriosi monologhi o giustificazioni. Si getta su di lui, un proiettile sfiora con un tuono il suo orecchio destro. Lei si sposta in un lampo e afferra il braccio di Massimo, lo torce finché sente l’osso spezzarsi, un suono secco. L’uomo urla, getta la pistola a terra. «Ti faccio ricca! Ti prego, ho soldi, lo sai! Daria, ci conosciamo da anni!»
Daria ringhia e in un attimo la lupa torna a essere pelo, denti e artigli. Non è questione di soldi, ovviamente, e mai lo è stata. È questione di equilibrio. Di sangue. Chiude le fauci sulla mascella di Massimo e tira, forte. Snap. Il sangue sgorga generoso sul lusso di quella casa, lui rantola e poi si ammutolisce. Un altro cosiddetto maschio alfa ridotto a carcassa vuota e inutile. L’indomani la città è nel caos. Massimo era importante, conosciuto, intoccabile. E ora è morto, sbranato come un coglione qualsiasi, in casa sua. Le donne che organizzano incontri clandestini si scambiano sguardi allibiti, alcune quasi piangono di commozione. Gli uomini, tutti, sentono un peso sullo stomaco. Ora sanno che nemmeno la ricchezza, le guardie o i piani alti li salvano. La donna lupa può arrivare ovunque. Qualcuno si convince che è ora di cambiare. Altri semplicemente si nascondono. Le donne indossano la spilla della lupa con ancora più orgoglio. Ma Daria non resta a godersi lo spettacolo. È braccata, lo sa. La polizia ispezionerà l’azienda, farà domande, cercherà tracce. Lei non può restare. C’è stato un tempo in cui voleva solo riequilibrare i conti. Ora ha generato un mito. E i miti sono pesanti.
Quella sera, se ne va. Si volta indietro un’ultima volta, dalla stazione degli autobus. Vede un gruppo di ragazzine incappucciate agitare bombolette spray davanti alla serranda chiusa di un negozio. Iniziano a disegnare la silhouette di una lupa. Daria tende le orecchie e le sente mormorare slogan ancora confusi, ma già colmi di rabbia e determinazione. Non hanno bisogno di conoscerla davvero, di metterla su un piedistallo. A loro basta un'idea. E a Daria basta sapere che sono meno sole. Daria sale su un autobus diretto lontano, con uno zainetto e poche cose. Avrà tempo per decidere cosa fare del suo potere, del suo futuro. Per ora quello che doveva e voleva fare è stato portato a termine. Dietro il finestrino sporco, la luna sfuma tra i palazzi, di nuovo quasi piena, ancora affamata di grida e giustizia imperfetta ma vera. La lupa è in cammino.
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greenbor · 1 year ago
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Poesia di https://www.tumblr.com/maripersempre-21
Scrivo "ti amo"
sul vetro appannato
mentre la neve scende piano
aldilà di questa finestra...
come una bimba
disegno un cuore...
il fuoco nel camino
riscalda la stanza,
il corpo,
ma non il cuore...
non basta la legna
che brucia scoppiettante
per scaldarmi dentro...
solo la tua presenza
può infiammare il mio cuore...
M.C.©
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moonleafsblog · 1 year ago
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Fan fiction sul personaggio di Alastor di Hazbin Hotel .
La storia inizia all'Inferno: attraverso una serie di flashback che si susseguono come interferenze radio nella mente di Alastor.
L'ho scritta per fare luce sul suo passato e sul perchè abbia perso il senno e sia finito all'inferno.
Radio Frequencies
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Il pugno aveva mandato in frantumi lo specchio: mille schegge di vetro erano esplose sul pavimento. La pelle del guanto si era lacerata ed il sangue nerastro colava lungo la mano. Le tenebre della stanza permeavano ogni angolo, accalcate simili ad una folla soffocante. Sciolse la stretta della mano e ticchettò con la punta rossa delle dita guantate  i profili in frantumi dello specchio ancora appeso alla parete.
Il dolore era piacere, amava vederlo pervadere le sue vittime poteva sentirlo, ma questa volta scivolava in lui lungo le nocche fino al braccio, la cosa lo contrariava: si chiese come poteva aver perso il controllo .
Si appoggiò alla parete con l'avambraccio, mentre con l'altra mano continuava ad accarezzare morbosamente quello che restava dello specchio: tamburellava lento poi frenetico, in modo incontrollato. Tra le schegge osservò il flash rosso sangue del suo sguardo, in quella tenebra nera come pece vacillava come un neon.
Sentì nuovamente quella fitta alla testa, come una sintonizzazione radio sovrapposta, un'interferenza direttamente sparata nel cervello, strinse i denti in un sorriso folle: non amava perdere il controllo del suo show.
La fitta alla testa divenne insopportabile, si piegò all'indietro fino a sfiorare il pavimento, strinse gli artigli alla testa, si sarebbe cavato il cervello dal cranio AH AH AH
Davanti agli occhi le interferenze sfarfallavano come onde radio multicolore, un carosello di immagini senza senso, stava perdendo la sua mente, dannazione,  era come se qualcosa si stesse frammentando dentro la sua testa. 
Spostò nuovamente lo sguardo verso il suo riflesso su una delle schegge dello specchio, la luce dei suoi occhi rossi dalla pupilla a valvola erano spariti.
Un'altro sfarfallio, un'altra interferenza e per un attimo un uomo dai capelli castani e gli occhiali gli rimandò lo sguardo dalla superficie riflettente.
"Tutto sotto controllo" si disse,  aveva controllo su tutte le sue piccole pedine, sulle sue vittime, le sue adorate prede, era all'Inferno, era il suo territorio di caccia, ma in quel momento si senti disorientato e non era......piacevole.
Riportò alla memoria tutti i volti di chi aveva ucciso: il mortale nel riflesso non era nessuna delle sue vittime, nessuno dei demoni della sua lunga lista di "signori supremi".
Un'altra fitta, più intensa di quelle precedenti stavolta non avrebbe retto,  le comunicazioni si interruppero definitivamente su brusio piatto
NO SIGNAL brrzt brzzt...
Quando il segnale radio si fu risintonizzato era in ginocchio sull'erba umida, sulle lenti degli occhiali crepate in più punti gocciolava del sangue rosso ( rosso?), il dolore era insopportabile, ma si cavò a forza in gola le urla e strinse i denti fino a sentirli stridere.
"Allora stronzetto con il pedigree, la mettiamo una bella firmetta?"
Due scagnozzi lo tenevano per le braccia mentre quello più grosso che lo aveva pestato fino a quel momento, gli sventolava davanti un foglio scritto a macchina ed una penna ad inchiostro.
Lo guardò da sotto gli occhiali con un misto di sufficienza e divertimento, il sangue gli annebbiava la vista con una velata nebbia solferina.
"Pretenzioso chiedere una firma da chi non sa neppure graffiare il foglio con una X" la ginocchiata allo stomaco arrivò senza preavviso, il fiato gli si spezzò in gola, ma non aspettò neppure di riprendersi del tutto dal colpo
" Il mio programma non è in vendita, non vi cederò i diritti! E' stato un vero piacere verbalizzare con voi Signori" la voce spezzata dalle percosse era roca ma sicura, non chiara e sensoriale come quando era alla radio.
Quello più grosso sbuffò con disappunto, ripose il foglio e la penna nella valigetta di pelle, si schiarì la voce  in modo che potesse sentirlo chiaramente e si avvicinò minaccioso alla faccia del conduttore radiofonico
"Ascoltami bene, tu pensi di essere una star, ma l'unica cosa che sai fare è creare rogne a chi non dovresti"
lo prese per il colletto della camicia ed inizio a stringere
"A breve ci saranno le elezioni e tu sei una spina nel fianco"
strinse ancora, l'aria iniziava a passare a fatica attraverso l'esofago.
" Il tuo programma deve terminare o qualcuno ci lascerà  le penne!"
Strinse ancora ed ancora: non riusciva neppure a deglutire, iniziò a tossire tentando di cacciare dentro un pò d'aria.
La trasmissione sfarfallò davanti ai suoi occhi, sentiva nelle orecchie il gracchiare delle frequenze, ci fu un altro black out.
Un brusio indistinto, un lungo fischio ed il suono esplose dolorosamente nelle sue orecchie,  un nuovo canale si era sintonizzato: in lontananza c'erano fumo ed urla, la torre della stazione radio era in fiamme, i vigili del fuoco cercavano di spegnere l'incendio, ma pezzo dopo pezzo la struttura stava crollando.
Corse verso tutto ciò che aveva: il suo programma radiofonico, la sua verità per la società... Venne fermato da una stretta inopponibile: Husk lo teneva stretto per il braccio, lo guardava muto con un misto di rassegnazione e comprensione.
"Lasciami andare ubriacone da strapazzo!"
Husk lo guardò torvo:"Non c'è più niente da fare, ti ammazzerai se ti butti lì dentro"
"Tu non capisci, c'è tutto il mio lavoro lì dentro! Tutte le prove! Tutto!"
Ci fu un crepitio poi un lungo suono metallico, la torre venne giù franando tra le fiamme.
Gli occhi dorati del conduttore erano sgranati, completamente inespressivi, si afflosciò a terra, strinse la polvere della strada con le dita esili fino a farsi sanguinare le unghie.
Tutto il suo mondo era sprofondato.
Husk gli posò la giacca sulle spalle per nasconderlo alla vista dei curiosi che sembravano averlo riconosciuto e lo rimise in piedi.
Si allontanarono tenendosi a debita distanza dalla folla.
Teneva con entrambe le mani i lembi della giacca sulle spalle,gli occhiali ancora chiazzati di sangue dopo il pestaggio.
"Non è finita qui, non mi arrenderò! La verità verrà a galla, contano di avermi tappato la bocca, ma non mi fermerò. Ci starà giustizia, New Orlean merita di conoscere la verità su quel pezzo di merda. "
Riorganizzò i pensieri: avrebbe dovuto ricostruire il suo studio da zero, raccogliere nuovamente tutto il materiale  delle indagini e realizzare tutto prima delle elezioni.
Stava per girarsi verso Husk, ma di colpo tutto divenne nero, il canale era saltato di nuovo, uno pezzo jazz gracchiava in sottofondo, poi silenzio, qualche brusio.......
Fu colpito da una luce bianca abbagliante ed era di nuovo in onda.
Gli occhi erano doloranti per la luce improvvisa, pian piano passarono dalla sfocatura a rendere nitidi i contorni dell'ambiente, cercò gli occhiali sul comodino, li infilò e si diede uno sguardo intorno: si trovava presumibilmente in un ricovero all'interno di un ospedale, altri lettini erano posti in sequenza per la stanza: lenzuola bianche e coperte verde tenue.
Aveva la testa che gli scoppiava, si guardò le mani: la pelle pallida e tirata delle dita gli suggerì che doveva essere ricoverato da un pò.
Chiuse gli occhi e si rimise a letto cercando di ricordare come si trovasse in quel luogo.
Sentì il personale dell'ospedale muoversi tra i ricoverati,  poco distante la sua attenzione fu catturata da due infermiere che parlottavano tra loro bisbigliando:
"Davvero una tragedia"
"Io seguivo sempre il suo programma, riusciva a rapirti con le sue storie di cronaca" disse una delle due.
"Dopo l'incidente della torre radio, aveva ripreso il programma in un nuovo studio, si dice che abbia pestato i piedi a chi non doveva" confessò l'altra
"Certo! A quel farabutto che ha perso le elezioni, grazie al suo programma radiofonico lo hanno arrestato!"
"Ma ne è valsa la pena? La sua carriera è rovinata! Non potrà più condurre il programma alla radio" la voce dell'infermiera era amareggiata
"Cosa hanno detto i medici?"
"E' fortunato se potrà tornare a parlare, gli hanno bruciato la gola con l'acido" sussurrò l'altra tenendo il palmo della mano alzato accanto alla bocca in segno di confidenza.
Fu percorso da un brivido, lo shock lo aveva paralizzato: non parlavano di lui, non potevano, non poteva essere..
Provò a parlare, ma la gola era bloccata, si sforzò di urlare per richiamare l'attenzione dell'infermiera, ma nulla era completamente afono, riuscì ad emettere solo un sibilo rantolante.
Si tirò a sedere e si tastò la gola, appena le dita strinsero leggermente  un dolore lancinante lo percorse.
Sentì montare la disperazione: la sua voce! Strinse i pugni,  la rabbia stava esplodendo dentro di lui come non l'aveva mai sentita in vita sua, avrebbe voluto spaccare tutto.
Ogni cosa che aveva costruito in quegli anni: la sua carriera, la sua passione, il suo programma, erano tutta la sua vita!
Per la prima volta  si sentì sprofondare in un baratro senza ritorno.
Lo sguardo sotto gli occhiali era febbricitante: neppure la crisi del 1929 lo aveva stroncato, ma adesso? Non gli restava più niente.
Il bicchiere sul comodino era così invitante, luccicava ai leggeri raggi del sole. non si accorse neppure di averlo preso, fu un istante ed il bicchiere era andò in frantumi, come la sua vita. Mentre stringeva le schegge nella mano rivide la sua stazione radio in fiamme, ripercorse tutte le difficoltà che aveva dovuto affrontare per mettere in piedi il suo programma, tutte le volte che avevano tentato di tappargli la bocca, il volto orgoglioso di sua madre quando aveva iniziato a lavorare in radio.
Le dita si mossero da sole lasciando scivolare via tutte le schegge di vetro, trattennero solo quella più lunga, il suo sguardo era piantato nel vuoto, le pupille strette in una fessura.
Il frammento di vetro si fece largo affondando nel sottile strato di pelle dell'avambraccio, poi  più in profondità fino alla carne, come se non percepisse dolore, tagliuzzava freneticamente, il sangue schizzò ovunque, sulle lenzuola immacolate, sul profilo metallico del letto.
Urla lontane lo raggiunsero, era tutto ovattato nella sua testa, qualcuno prese a scuoterlo per le spalle, una mano stava provando a togliergli il frammento di vetro dalla mano.
Davanti ai suoi occhi un'infermiera terrorizzata gli gridava qualcosa, non riusciva a capirla, accorsero i medici, i volti contratti dalla preoccupazione tenevano in mano delle cinghie di cuoio ed una siringa.
L'infermiera si era allontanata, aveva  il volto e le mani sporche di sangue e continuava ad urlare. I medici lo bloccarono, uno di loro si avvicinò al suo collo tenendo la siringa: non sentì nulla, non sentiva più niente già da un pò..
Lo legarono al letto con le cinghie, le guardò strette al suo corpo e lungo le braccia, lo sguardo si posò sugli avambracci:erano un miscuglio  indistinto di sangue e carne.
Si chiese di chi fossero quelle braccia...
Poi il ronzio disturbato di una comunicazione radio si frappose tra i suoi pensieri, le frequenze saltarono nuovamente in un brusio frastornante, le tenebre erano un sudario, in quel vuoto sinistro si fecero largo due occhi rossi come l'inferno, erano due fanali inquietanti che lo scrutavano e sorridevano
Li vide per un breve istante, poi sparirono, qualche distorsione radio e la trasmissione riprese, era nuovamente ON AIR.
Si lasciò cadere con slancio sulla sedia facendola girare su se stessa per  spostarsi alla console, fece scivolare le agili dita sulla valvola del volume e con l'indice slittò la levetta della diretta verso l'alto, strinse tra le mani il microfono a condensatore: un gentile omaggio della Bell Labs in anteprima, non molti studi potevano vantarne uno, ma nulla gli era precluso, non più...
Accarezzò il microfono con eleganza e lasciò scivolare la voce al suo interno
" Salve carissimi per il vostro intrattenimento è un piacere ritrovarvi qui all'Hazbin Show" il timbro era caldo ed inebriante, si perse nel suo suono, le belle parole fluivano. Aveva un indice di ascolti come non se n'era mai visto a New Orleans, il format era assoluto e non lasciava spazio ad altri concorrenti, ma non era solo questo, da quando dopo un brutto incidente aveva perso la voce per alcuni anni il famoso conduttore era sparito dalla piazza, ma tre anni dopo era misteriosamente riapparso dal nulla, con la sua voce inconfondibile che appassionava alla cronaca gentiluomini e faceva sospirare le signore. Ma c'era qualcosa di più chi lo ascoltava restava ipnotizzato dal suo timbro, quella tonalità resa leggermente bassa aveva assunto una sfumatura sinistra ed irriverente, consciamente nessuno ci aveva fatto caso e gli ascoltatori venivano irretiti come da un incantesimo, sedotti e legati al suo programma radiofonico. In città il tasso di omicidi era spaventosamente aumentato e la trasmissione era schizzata alle stelle.
Si alzò dalla sedia tenendo tra le mani il microfono da postazione, arrotolò il cavo di alimentazione attorno all'indice
"Oggi voglio solleticare la vostra attenzione con un nuovo caso"
danzò nello studio con rapidi passi di swing facendosi largo tra i cadaveri sul pavimento.
"C'è un nuovo assassino in città"
con un passetto di danza qua ed uno là fece attenzione a non macchiare le derby col sangue, saltellò oltre le braccia senza vita di una vittima.
"Sembra proprio che le autorità non sappiano che pesci prendere! Ahi Ahi molto male, abbiamo un cannibale e pluriomicida a piede libero, la polizia dovrebbe impegnarsi  seriamente" canzonò sorridendo da un orecchio all'altro inclinandosi sul microfono.
Normalmente un programma radiofonico del genere sarebbe stato chiuso: deliberatamente provocatorio verso il potere costituito e alle prese con tematiche scomode  di cronaca nera trattate con tanta disinvoltura, eppure il pubblico nel momento stesso in cui accendeva la radio era come rapito, l'oscuro umorismo del conduttore era diventato il suo marchio di fabbrica e per qualche oscura ragione il pubblico lo adorava.
La sintonizzazione iniziò a vacillare, il suo campo visivo fu interrotto nuovamente da onde radio orizzontali ad intermittenza, le frequenze sfrigolavano nel suo cervello in modo insopportabile: la trasmissione si stava rimodulando fino a stabilizzarsi sul suo ultimo canale.
Quando si riprese aveva le braccia immerse fino ai gomiti nel sangue: la vasca ne era piena , il tanfo alcalino dei liquidi organici era nauseante.
Alle sue spalle incombeva un'ombra tremolante: era in attesa, un'attesa famelica e malata, i suoi occhi scarlatti come fanali lo  fissavano con impazienza, come un predatore fissa la sua preda messa all'angolo:
"Oh Caro, è il momento di concludere il nostro patto" il tono era mellifluo ed inquietante.
Quella presenza era Male puro, il conduttore non sapeva come era arrivato a quel punto, ma iniziava a capire: aveva stretto un accordo con quell'Ombra, l'aveva vista sgusciare dalla sua mente quel giorno in ospedale, tra le crepe della disperazione e della rabbia, lo scrutava con quei suoi occhi sulfurei. Poi un giorno aveva parlato: "un patto lo chiamava", la sua anima in cambio di tutto ciò che aveva perso ed il potere di piegare l'attenzione del pubblico a suo piacimento.
Pensò che era diventato pazzo a parlare con un ombra partorita dalla sua mente, ma avrebbe barattato qualunque cosa pur di vendicarsi per ciò che gli avevano tolto e riavere la sua voce, strinse l'accordo senza pensarci due volte.
Non avrebbe mai immaginato cosa poteva comportare: un piccolo passo alla volta quella voce oscura si insinuò nei suoi pensieri, l'ombra aveva fame e non bastava mai: all'inizio erano piccole stranezze come ridere davanti ad una sciagura altrui o mangiare carne cruda, ma poi le cose cominciarono a sfuggire al suo controllo quando iniziò a desiderare di infliggere dolore agli altri e nutrirsene. Più di una volta il pensiero di uccidere chi casualmente lo intralciava lo aveva sedotto, si era sempre trattenuto, ma stava perdendo man mano il controllo scivolando in quel baratro nel quale si era cacciato da solo.
Ed ora si trovava lì, non ricordava come ci era arrivato e cosa stava facendo davanti a quella vasca.
L'Entità doveva aver percepito il suo disorientamento, alle sue spalle sentì la sua presenza sovrastarlo  gli enormi occhi cremisi si avvicinarono al suo orecchio:
"La parte della donzella disorientata non ti si addice " sussurrò divertito
"Hai fatto un ottimo lavoro, adesso mangia"
Senza che potesse rendersene conto le braccia si mossero da sole tremando, emersero  dal pantano di sangue rivelando il coltello che aveva nella mano.
Cosa aveva fatto?
La mano prese a tremargli, la presa vacillò e si allentò, il coltello cadde nuovamente nella polla rossa.
Il conduttore radiofonico alzò lo sguardo sulla sua vittima: capelli corvini, una donna ormai matura ma dai lineamenti raffinati.
Gli occhi gli si riempirono di lacrime
"Non posso" la voce era inudibile e gracchiante, l'acido l'aveva resa irriconoscibile.
"A questo punto credo tu non abbia scelta" canticchiò l'Ombra scoprendo un sorriso affilato.
Mosse una mano fatta di tenebra e nell'aria apparvero dei vèvè* incandescenti: dal nulla una catena della stessa energia si strinse al collo ed ai polsi dello speaker.
Ci fu un breve silenzio i simboli galleggiavano a mezz'aria nell'oscurità, il senso di oppressione era palpabile, i fanali scarlatti dell' Ombra si spalancarono pronti a divorare la loro preda:
"ED ORA MANGIA!"
Quelle catene impalpabili lo tenevano soggiogato, erano terribilmente pesanti, provò ad opporsi con tutte le forze che aveva in corpo, ma oramai non aveva più controllo sui suoi movimenti.
Da dietro gli occhiali mise a fuoco il viso della vittima che giaceva nella vasca, sgranò gli occhi in preda al terrore: davanti a lui sua madre era ormai priva di vita.
La sua sanità mentale andò in pezzi: l'unico affetto che aveva mai avuto, la sua famiglia, l'unica che nel 29 nonostante la crisi aveva creduto nel suo progetto alla radio.
Il viso della donna era coperto di capelli, il corpo esangue giaceva in una posa scomposta  all'interno della vasca di porcellana.
Il giogo a cui era incatenato gli sollevò la mano, il sangue colò lungo i bordi bianchi della vasca rigandola di rosso.
Avvicinò il palmo al petto di sua madre, leggermente a sinistra: lentamente le dita si fecero largo con le unghie nella carne attraverso lo squarcio che aveva aperto con il coltello, in profondità, fino a stringerle il cuore.
La sua mente collassò
Le lacrime bruciavano.
Urlò ma le corde vocali ormai bruciate non risposero.
La mano si strinse e tirò forte, si sentì un rumore viscido e sordo di ossa frantumate, avvicinò alle labbra il cuore di sua madre.
Vide quella scena come proiettata lentamente su una pellicola in bianco e nero, come se fosse lo spettatore di quell'orrore. Doveva vomitare, scappare, abbracciare sua madre e rimettere tutto a posto.
Sentì i denti affondare nella carne cruda, umida, il sapore ferroso del sangue si appiccicava  alla lingua.
Provò un conato di vomito.
Poi si ritrovò a leccarsi le dita con gusto.
L'ultima parte sana della sua anima urlò. Era andata
Le urla arrivarono alla gola, questa volta spinse fuori tutto il suo dolore, erano così strazianti e forti che gli squassarono il petto.
"Ora il patto è concluso, goditi la tua voce e.... tutto il resto"
l'Ombra fece un gesto plateale verso il macabro banchetto che stava consumando e poi svanì alle sue spalle schioccando le dita.
Adesso erano una cosa sola.
Alastor alzò la mano viscida di sangue e si accomodò gli occhiali sul naso, un bagliore rosso balenò nei suoi occhi, il suo viso era piegato in un sorriso innaturale.
" Non si è mai completamente vestiti senza un sorriso"
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